Alessia
Mocci intervista Emanuele Martinuzzi:
ecco
la raccolta L’idioma del sale
“Ogni
piccola poesia che si scrive, anche poche parole distrattamente
lasciate su un foglio, sono un’alleanza e una ricerca col senso
nascosto delle cose. La storia di ognuno di noi diventa tangibile
ogni volta che viene scritta, niente è veramente vissuto senza che
il segno della scrittura porti l’esistenza ad una doppia
esistenza.”
–
Emanuele Martinuzzi
La
poesia è alleanza e ricerca, il
poeta vive il mistero delle cose,
della creazione, non solo della vita e del suo continuo tramutarsi ma
anche della realizzazione dei pensieri. Le parole vengono pensate con
coscienza oppure vengono udite? Che cos’è che spinge – talvolta
con costrizione – a scrivere? Ad imbrattare la carta con segni a
cui è stato dato significato?
Emanuele
Martinuzzi
si interroga sul bisogno di poesia percependolo come un’urgenza.
“L’idioma
del sale”,
edito dalla casa editrice Nulla
Die,
è un amalgama di parole, coesione di piccole poesie tracciate su
qualsiasi supporto, cartaceo o digitale, in momenti diversi della
giornata. Frasi dell’immediato, sentite riecheggiare nella mente e
trascritte senza alcuno scopo letterario che, invece, a distanza di
anni, sono diventate pagine di una silloge poetica.
L’autore,
classe 1981, ha conseguito una laurea in Filosofia a Firenze ma già
in tenera età si è occupato, tramite la poesia, di indagine
sull’essere umano
percorrendo una strada solitaria di dialogo continuo.
“Nella
pienezza del Non”
(Ilmiolibro, 2010), “L’oltre
quotidiano – liriche d’amore”
(Carmignani editrice, 2015) “Di
grazia cronica – elegie sul tempo”
(Carmignani editrice, 2016) “Spiragli”
(Ensemble, 2018) “Storie
incompiute”
(Porto Seguro editore, 2019) “Notturna
gloria”
(Robin edizioni, 2021) sono alcune delle sue precedenti
pubblicazioni.
“Mi
sono intromesso nell’ombra/ di una quercia trapassata/ in gergo
popolare/ con il soffio missionario/ delle mie ipotesi di dolore,/
aspettando scrollasse/ dai suoi rami di realtà/ tutta la mia
invisibile/ resina o paura della vita.”
A.M.:
Salve
Emanuele, l’anno scorso abbiamo presentato ai lettori “Notturna
gloria” (Robin Edizioni), una raccolta di ventuno poesie associate
ad altrettante illustrazioni del Maestro Gianni Calamassi. È stata
una pubblicazione che ha avuto maggior “fortuna” nel pubblico dei
lettori oppure in quello dei critici letterari?
Emanuele
Martinuzzi: Ciao
a tutti. Sembra passato molto più tempo. Sarà il periodo della
pandemia che dilata e deforma il trascorrere dei mesi in modo
innaturale. Comunque proprio in questi giorni ho ricevuto
comunicazione che “Notturna gloria” ha ottenuto un ulteriore
riconoscimento, la Menzione d’Onore al Premio Letterario
Internazionale “Molteplici visioni d’amore – Cortona Città del
Mondo”. Questo dopo aver già ottenuto il Premio Speciale della
Giuria al Concorso San Domenichino dell’anno scorso. Sinceramente
non mi aspettavo questi piacevoli e prestigiosi riscontri di
apprezzamento. Mi è capitato poi di parlare con alcune persone che
avevano letto la raccolta e che mi esprimevano le loro impressioni ed
emozioni intense rispetto a quello che avevano fruito in questo
lavoro illustrato. Quindi alla luce di questi esempi non saprei cosa
rispondere esattamente. Direi che in modo imprevisto ha avuto buoni
effetti sia sul pubblico dei lettori che su quello dei critici o
degli addetti ai lavori. Sinceramente non me l’aspettavo, perché
questa raccolta dal mio punto di vista rimane di non facile accesso e
fruizione, sia per la natura criptica dei suoi contenuti, sia per le
atmosfere che evoca nel loro lontano simbolismo. Infatti mi viene da
pensare ancora, nonostante questi apprezzamenti, che non sia stata
assimilata completamente nei suoi messaggi e nelle sue inattuali
prospettive. Il fatto che sia un viaggio di discesa verso gli inferi
di ciò che è in stato di abbandono, o distrutto dalla storia e dal
tempo, nel suo essere violentemente innocente e inesorabile, oppure
in ciò che è immaginario e abitante della sola fantasia, mi fa
pensare che non possa e debba essere una lettura priva di ostacoli o
barriere comunicative. La sofferta riflessione sul tempo cronico,
distruttivo delle cose, delle civiltà e dei suoi valori, considerati
come dati, scontati, spesso privi di una prospettiva storicistica che
li renda relativi e non assoluti, credo sia in contraddizione
rispetto a una moderna cultura, che invece tende a considerare e
cristallizzare opinioni, giudizi e valori, privi di uno spessore
storico, protesa più a cancellare l’evoluzione dei fenomeni nella
storia, piuttosto che a farsi carico del loro essere mutevole, cioè
legati a un determinato contesto socio culturale di riferimento.
Questa raccolta è un viaggio che mostra come le rovine de tempo
cancellano ogni cosa e emozione, rendono tutto ombra, però allo
stesso tempo non cancellano la storia e la sua tormentata epopea,
piuttosto ricercano attraverso la poesia, di riesumare ciò che c’è
di eterno in questo continuo passaggio di costruzione e distruzione.
Poesia e storicismo, simboli e rovine, fortuna e destino, vita e
morte, spiritualità e silenzio.
A.M.:
“L’idioma
del sale” è il titolo della tua recente pubblicazione, “sale”
compare nella silloge: nella citazione di apertura nella quale
riporti i versi della lirica “Noi non sappiamo quale sortiremo”
del poeta Eugenio Montale ed in due tue liriche, la prima cita
“Naufrago
in questa/ spiaggia senza vanità,/ nomade pausa, crampo/ nell’idioma
del sale.”
e la seconda più lunga di cui cito tre versi: “[…]
In questa paralisi di ardore/ nessun racconto di sale/ più ci
accompagna tra le zolle,/ […]”.
Dal “sale greco” di Montale si passa all’“idioma del sale”
ed al “nessun racconto di sale”. Quale concetto hai voluto
indicare con il sale?
Emanuele
Martinuzzi: “L’idioma
del sale” è una raccolta che mette insieme le poesie, le frasi e
le parole scritte, prima della pandemia, su fogli sparsi, quaderni,
smartphone, pc, etc., ovunque insomma avessi modo di gettare nero su
bianco la mia ispirazione del momento, i miei dubbi, la mia voglia di
esprimermi in libertà. Una specie di diario poetico delle mie
emozioni e pensieri, gioie e tormenti, alti e bassi, a dimostrazione
che la poesia sa accompagnare tutti i momenti della vita, in
qualsiasi frangente, e sa tradurre i suoi sentimenti, profondamente.
Un grande poeta del passato Archibald MacLeish scriveva che “la
poesia non deve significare ma essere”,
infatti ogni volta che la poesia è, le cose si arricchiscono di
nuovi significati, la realtà viene manifestata e liberata da
convenzionali interpretazioni. La poesia è il sale della terra e
dell’umanità, parafrasando il Vangelo, perché sa dare sapore e
spessore ai vissuti, sa trasformare aridi momenti in nuove rinascite,
sa trasfigurare le cose per mostrarne i volti e significati nascosti.
Le poesie sono piccoli grandi granelli di sale, messaggi dall’abisso
di amore, pace e speranza, che si librano sopra le contraddizioni, le
oscurità e le assurdità del mondo. Questo lavoro altro non è che
un omaggio allo scrivere poesie, a farle entrare nella propria vita
di tutti i giorni, comunque e ovunque, a fare questa cosa così
apparentemente inattuale, ingenua, sublime, di affidare alle parole
scritte il nostro sentire più inascoltato, fragile o misterioso. In
questo caso, differentemente dal precedente lavoro di cui si parlava,
questa raccolta diventa una testimonianza della mia storia personale,
queste poesie o queste parole sono la testimonianza della mia
relazione con l’atto dello scrivere e della mia scrittura con
l’esistenza. Come il sale nell’Antico Testamento, nel Levitico, è
citato come un mezzo simbolico che garantisce l’alleanza tra il
popolo e il divino, così la poesia sancisce quel misterioso legame
tra un essere chiamato all’esistenza e l’incognita della vita.
Ogni piccola poesia che si scrive, anche poche parole distrattamente
lasciate su un foglio, sono un’alleanza e una ricerca col senso
nascosto delle cose. La storia di ognuno di noi diventa tangibile
ogni volta che viene scritta, niente è veramente vissuto senza che
il segno della scrittura porti l’esistenza ad una doppia esistenza.
Così le cose, le emozioni e i vissuti acquistano quel sapore che sa
di significato, senso, miracolo, sale. Inoltre il sale nell’impero
romano era usato anche come elemento distruttivo, dopo aver
annientato Cartagine, i romani sparsero il sale sul suolo della città
al fine di renderlo sterile per sempre, così come nella Bibbia si
racconta che abbia fatto Abimelech dopo aver espugnato la città di
Sichem. La poesia in questo senso gettata sull’esistenza trasforma
ciò che nel vissuto trattiene il nuovo, ciò che arresta l’evolversi
inevitabile della storia e trasfigura queste rovine lasciando il
posto affinché giunga la rinascita, il rinnovamento, l’illuminazione
inscritta nel linguaggio. Quindi mi piaceva l’idea del sale perché
queste comunque sono poesie scritte già per essere scarti, lasciate
a casaccio nei fogli, il puro piacere della scrittura, l’abbandonarsi
al mistero della vita attraverso i segni della poesia. Ciò che
apparentemente è solo una parola che rimanda a un tuo sentire di un
momento, che può essere considerato come insignificante, assurdo o
inascoltato, in realtà è il sale della terra e della vita,
l’essenza che la poesia custodisce e pronuncia per essere compresa,
per dare il giusto peso e sapore alle piccole immense cose.
A.M.:
Ogni
parola, partendo dall’etimo e risalendo nella storia del suo
utilizzo, ha una variegata ramificazione. Dal sale possiamo passare
all’illusione: “Quello
che resta dei miei occhi,/ disciolti al patibolo dell’illusione,/
[…]”.
La radice della parola illusione proviene dal latino ludere
con il significato di “giocare”. Ombre/a
è un altro vocabolo che si nota ne “L’idioma del sale”. Per
non estendere troppo questa domanda citerò solo il verso in cui
compare: “ombre
intrise di ali”. Gli
esseri umani hanno un rapporto particolare con l’ombra, ma il poeta
in particolare ne esalta la sua esistenza, quasi che la sagoma nera
sia la prova più evidente della luce. Il poeta è fortemente
connesso all’oscurità come momento di massima ispirazione ed è
proprio in questa condizione che si possono ammirare le stelle.
Troviamo la parola “stelle/a” in alcuni passi della raccolta tra
cui: “nella
traversata di una stella verso l’umano”.
Dall’ombra proiettata verso il basso, verso l’interno, la stella
è ciò a cui tendiamo, ciò che sta in alto e ciò che luccica.
Emanuele
Martinuzzi: Non
solo l’etimologia di ogni parola che entra nella fitta trama di una
poesia si mostra come un viaggio speleologico nei meandri delle sue
forme e nella storia della sua evoluzione, ma anche il significato
stesso di ogni parola non è più dato come stabile o univoco, come
viene considerato quotidianamente nello scambio e nel dialogo tra
persone. Ogni senso entra in quell’avventura affascinante che
permette di vedere le varie sfumature possibili, le varie strade che
ogni parola può prendere nel labirinto dei contenuti che la
compongono, apertamente o anche in modo sibillino. E poi non è solo
questo, non è un mero gioco linguistico, semmai più un gioco di
ombre e di luce come nella caverna di Platone. La scrittura ti
permette di creare un tuo universo di spirito e materia, instabile e
cangiante come le tue emozioni, plasmando le ombre e la luce che le
attraversano e che provengono da un non ben imprecisato altrove, che
a volte assomiglia al mondo esterno, a volte agli abissi del tuo
cuore e altre volte a un qualcosa di assoluto che abita l’esistenza.
Chi scrive poesie in qualche modo crea nel vero senso della parola,
perché come il Fanciullino pascoliano dona per la prima volta un
nome alle cose e in questo modo crea le cose stesse, le sue cose,
uniche e irripetibili, in quell’armonia miracolosa che è un animo
umano, in questo suo specchio, ingiudicabile e bellissimo, composto
di versi e silenzi. Leggere una poesia è abbracciare una sensibilità
del tutto sconosciuta, scoprire una civiltà sepolta sotto alla forma
delle parole e al suo senso più comune, per lasciarsi trasportare in
prospettive e orizzonti desueti, fuori dalle proprie caverne, fuori
nella luce della bellezza, della libertà, dell’umanità e del
mistero. Il fatto che tutto questo non sia solo un’illusione, o un
mero artificio, lo si sa osservando come la poesia sappia costruire
emozioni di pace, sappia faci avvicinare al mistero con gentilezza,
sappia svuotare le nostre pulsioni più distruttive in una catarsi
creativa. La poesia è una stella da seguire per realizzare i propri
desideri più fondamentali, che riguardano l’interiorità.
A.M.:
Il
poeta è fortemente connesso agli elementi del cosmo e della natura
come momento di massima ispirazione, ma non è solo dalla
contemplazione dell’universo che riesce a trarre fervore, egli
infatti è connesso a tutta la produzione precedente di poesia. Quali
sono i poeti che, nel corso degli anni, ti hanno emozionato
maggiormente?
Emanuele
Martinuzzi: Mi
viene da pensare alle mie prime letture di adolescente. La mia
scoperta dei simbolisti francesi fu davvero una rivoluzione
copernicana per me e per il mio modo di intendere, non solo la
scrittura della poesia, ma anche il rapporto di chi la ama e la
scrive nei confronti del resto della cultura e della società, non
solo in termini di opposizione o differenziazione, ma una via unica e
contraria di ricerca e sperimentazione, anche personale, dei propri
vissuti, che diventano parte integrante del fare poesia. Come non
pensare alla poesia “L’albatro”
di Charles Baudelaire dai suoi “I
fiori
del male”
dove appunto canta il suo essere “esule
sulla terra, al centro degli scherni,/ per le ali di gigante non
riesce a camminare”. Un
altro amore è stato Arthur Rimbaud, tutta la sua opera e la sua vita
sono state illuminazioni poetiche, battelli ebbri di bellezza e
alterità. Ovviamente sempre nel simbolismo francese “I
canti di Maldoror”
del Conte di Lautreamont, pseudonimo o nome reale di Isidore Ducasse,
mi hanno traghettato nella crudeltà sublime di una poesia, lasciata
libera di essere se stessa e diversa da sé. Potrei continuare con
Mallarmé, Verlaine, Corbiere. Ovviamente non posso tralasciare
l’ispirazione senza fine avuta dalle letture dei grandi della
letteratura italiana come il simbolismo di Pascoli, il suo
fanciullino eterno e creativo, i “Canti
orfici”
di Dino Campana, il suo folle errare senza meta con la sola
destinazione della chimera poetica, gli immensi Montale, Ungaretti,
Quasimodo, Luzi, che mi hanno davvero fatto scoprire continenti di
poesia, in cui confluiscono oriente e occidente, passato e futuro,
ermetismo e canzone, secolari tradizioni di poesia e biblioteche di
emozione. Poi essendo un lettore molto discontinuo e curioso, ho
davvero letto di tutto e di più in questi anni, tra i grandissimi e
i minori, contemporanei o antiche voci, dagli haiku giapponesi alla
poesia africana, dal classicismo alle avanguardie, dall’imagismo
americano alle poesie dei migranti, dai Novissimi del gruppo ’63
alla Beat generation e potrei continuare ancora. Non c’è mai fine
alla possibilità di scoprire qualcosa di nuovo nel passato, il
passato in un certo senso è il nostro futuro, sono state scritte
tante di quelle pagine di arte, poesia e letteratura, che possiamo
veramente trovarci di fronte a qualche novità che non conoscevamo,
tesoro pronto per essere scoperto e rivitalizzato. Detto questo
spesso non ho una grande memoria e quindi molte cose lette sono state
non proprio dimenticate, bensì direi metabolizzate dentro di me, la
loro atmosfera evocativa è entrata a far parte del mio animo e della
mia sensibilità. Poi dopo tante letture quello che penso è che
anche quello che si vive sia in qualche modo letteratura, il
discrimine tra la forma letteraria e la vita vera è molto labile.
Nel bagaglio di esperienze che si fanno e che arricchiscono, con la
gioia o la sofferenza, c’è un legame invisibile e misterioso con i
versi che possiamo leggere degli autori sopracitati o anche altri.
Alla fine i nomi della letteratura, le definizioni, i movimenti, le
classificazioni e le etichette svaniscono per lasciare il posto alla
bellezza e alla passione della quintessenza della poesia, che
travalica i linguaggi e i vari universi di significato. Ungaretti non
è più Ungaretti, ma un’emozione del nulla, che si traduce nella
vita tra un fiore colto e l’altro donato, nello sbocciare di un
attimo che illumina d’immenso la tua vita. Così vale per qualunque
autore, grande o piccolo che sia, siamo tutti interconnessi,
letteratura e vita, filosofia e poesia, conoscenza e ignoranza, tutto
è un miracolo che contribuisce all’enigma dell’esistenza. Più
procedo in questa passione della poesia e della scrittura, più
abbandono un atteggiamento critico o intellettuale, che già non mi
appartiene spontaneamente, per abbandonarmi, forse in modo ingenuo e
naïf, all’avventura primordiale e bellissima di lasciare segni
misteriosi sul foglio bianco, di viverli attraverso le esperienze
della vita, tutti i giorni, nelle piccole grandi cose ed emozioni. Si
potrebbe anche dire che più si ama la scrittura e più anche i
momenti della vita in cui non si scrive, per una qualche ragione,
sono anch’essi una forma del poetare. Anche se non scrivessi
neanche più un verso, la poesia continuerebbe ad accompagnarmi con
la sua ombra, sempre in ascolto e in attesa delle sue epifanie,
continuerei a sfogliare gli attimi della vita osservandone con occhi
nuovi i segni impressi.
A.M.:
Qual
è il target di pubblico de “L’idioma del sale”?
Emanuele
Martinuzzi: Ogni
poesia inserita in questa raccolta è stata pensata, ideata e scritta
a casaccio come ho detto, non c’è una struttura comune o una
tematica prevalente, sono emozioni e pensieri che seguono il flusso
discontinuo delle mie emozioni e dei miei pensieri, ovunque capitasse
di provarne e di osare poi a trasfigurarli in forma di poesia, senza
nessuna volontà di pensarle e ordinarle in una raccolta, prima
almeno che avessi l’idea qualche mese fa, un po’ per omaggiare la
scrittura della poesia, la sua importanza in generale, per il piacere
di pubblicare un libro, ma anche più semplicemente per ricordo. Una
testimonianza per me di questo ultimo periodo di scrittura, uno
spaccato del mio passato tradotto in poesia, che credo e spero possa
parlare a chiunque, a chi ama la poesia, a chi non la conosce o
apprezza molto o anche a chi la evita. Certamente alcune poesie
possono sembrare oscure per il simbolismo e le immagini che sembrano
nascondere più che svelare, lo sono anche per me visto che quando si
scrive non sempre si è del tutto coscienti di ciò che la cosiddetta
ispirazione ci sta regalando. Mi auguro però che chi abbia modo di
leggerle provi ad abbandonare le naturali resistenze razionali e si
affidi con ingenuità al senso non-senso della parola, le guardi come
un bambino che osserva per la prima volta le cose e si chiede cosa
vogliono dire, il loro perché, emozionandosi per le risposte che
vengono alla mente. Scrivendo principalmente per passione in piena
libertà, sinceramente non mi sono mai soffermato sul tipo di persone
che possono apprezzare quello che scrivo. E poi la parola target è
usata in ambito commerciale, ammesso che questo libro abbia una
diffusione tale da poter fare questo tipo di valutazioni, non sono
interessato comunque a considerare la poesia come una merce, almeno
non come tutte le altre merci. Spero invece che possa spronare
qualcuno a scrivere, poesia o prosa non importa, ma a scoprire il
valore immateriale non consumabile e profondamente umano, di
esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti, le proprie idee,
anche soltanto a sé stessi, in un diario. Spero che i miei amici,
poeti o non, abbiano modo di leggere questa raccolta e di
confrontarmi con loro su cosa ne pensano. Alcuni l’hanno già fatto
e non nascondo il piacere di condividere le impressioni,
confrontarsi, leggersi a vicenda, con simpatia e leggerezza.
A.M.:
In
una tua intervista hai espresso il senso che dai alla “meraviglia”
con: “Credo
che la meraviglia faccia parte dell’umanità, della sua parte più
fragile, misteriosa e creativa, in cui la ragione si abbandona al
sogno, in cui l’infanzia viene custodita in tutta la sua mitologia
e la sua creatività. In ogni epoca e in ogni persona c’è sempre
un dialogo, uno scontro se non proprio una lotta tra le intenzioni
della meraviglia e quelle del cinismo, del disincanto e della perdita
dell’incanto con cui guardare alle cose.”
La troviamo, come parola all’interno della raccolta “l’idioma
del sale” in questi versi: “sull’abisso filtra la meraviglia”,
o “l’ossario delle ultime meraviglie”. Possiamo dedurre che,
anche in questa silloge, la meraviglia è per te contrapposta al
funereo, all’abisso?
Emanuele
Martinuzzi: Scrivere
poesie è sempre una scommessa sulla meraviglia, l’incanto, il
miracoloso rispetto al cinismo, i nichilismi e la fredda materia. Una
scommessa conveniente come direbbe Pascal a proposito dell’esistenza
divina, cioè conviene sempre rischiare qualcosa di finito, come la
mera vita materiale, quando la posta in gioco è l’infinito, la
bellezza e la poesia. Si tratta di un lavoro intenso quello di
custodire un afflato infantile, innocente e aperto a meravigliarsi
anche delle piccole cose, in modo da distillare dall’esperienza
quella che può essere considerata come la quintessenza della poesia.
Un verso nasce casualmente, o per destino, ma ci sono credo tutta una
serie di condizioni interiori che permettono all’animo di elaborare
i sentimenti e vissuti per poter costruire una frase che in modo
misterioso li rispecchi. Per la filosofia greca antica la meraviglia
è all’origine della conoscenza filosofica e sappiamo quale tipo di
relazione ci sia tra il Mythos
poetico e la sua evoluzione in Logos
filosofico. Nella narrazione mitologica e poetica della realtà c’è
sempre una componente discorsiva e razionale come nella conoscenza
filosofica, e viceversa. La meraviglia ha bisogno della ragione e la
ragione ha bisogno della meraviglia, perché la ragione non è un
calcolo elementare e la meraviglia non è un’insensatezza. Entrambe
si confrontano con semplicità con l’immensità che appartiene alla
vita, ai suoi ideali, alle emozioni autentiche, alla spiritualità in
senso più ampio possibile. Ogni uomo è un abisso, in cui finito e
infinito si incontrano e scontrano, in cui vivono le contraddizioni e
da cui si creano tutte le potenzialità. Mi ricordo che la poesia di
cui parlavi nella domanda e che recita “sull’abisso
filtra la meraviglia”
mi è venuta in mente mentre ero seduto sul divano a riposare in
montagna come molte altre volte, verso sera. La finestra era aperta e
si intravedevano i monti fitti di boscaglia. Un’atmosfera vissuta
altre volte. In quel silenzio, tutto a un tratto, si alza il vento
che proviene dai boschi e un’anta della finestra aperta incomincia
a oscillare, mentre cala l’imbrunire. Ecco in quel momento, questa
situazione, ai miei occhi è stata vissuta come unica, c’era uno
strano equilibrio tra silenzio e movimento, e con meraviglia quei
luoghi così familiari, mi sembravano apparire nuovi, osservati e
vissuti come per la prima volta. Da lì le parole sono venute da
sole, traducendo in poesia questo sentire profondo, che riguardava la
scrittura, il paesaggio, le cose e il mio animo, e lo scrivere ha
potuto magicamente dare voce a questa estasi, composta da piccole
grandi cose.
A.M.:
Per
il mese di maggio e per i seguenti mesi estivi hai già in mente
delle presentazioni in
presentia
del libro?
Emanuele
Martinuzzi: Non
ho ancora programmato niente di preciso. Credo che mi lascerò
trasportare dalle possibilità che verranno fuori. Sicuramente mi
farebbe piacere partecipare a letture collettive o presentazioni in
presenza, più che altro per leggere le poesie de L’idioma del sale
e anche di Notturna gloria, ritrovare quella dimensione libera di
condivisione, ascolto e riflessione. Leggere in pubblico mi emoziona
sempre tanto e da un lato mi manca, è un modo di sentire prendere
vita quello che si è scritto, avvertire le reazioni viscerali o
ragionate degli ascoltatori, superando le barriere della propria
riservatezza. È anche una specie di introspezione, scendere dentro
se stessi, leggendo le parole che sono state trovate nel proprio
animo in precedenza. Al di là degli eventi spero comunque di aver
modo di leggere le mie poesie ad altre persone, anche in contesti
esterni alla logica della presentazione o del reading. Leggere
casualmente a qualcuno una propria poesia e donargli anche solo una
piccola emozione o un pensiero nuovo è sempre un grande evento.
A.M.:
Salutiamoci
con una citazione…
Emanuele
Martinuzzi: Vi
saluto con la citazione che apre questa raccolta: “E
un giorno queste parole senza rumore/ che teco educammo nutrite/ di
stanchezze e di silenzi,/ parranno a un fraterno cuore/ sapide di
sale greco.” (Eugenio
Montale)
A.M.:
Emanuele
ti ringrazio per la spontaneità delle tue risposte, è stato un vero
piacere colloquiare sul tuo nuovo libro a cui auguro di essere letto
ed assorbito. Ti saluto con le parole di Blaise de Vigenère che nel
suo “Trattato del fuoco e del sale” scrisse: “Cos’è
il sale? Si chiese uno dei filosofi chimici. Una terra arsa e
bruciata, e un’acqua congelata dal calore del fuoco potenziale
racchiusovi. Il fuoco d’altro canto è l’operatore di quaggiù
nelle opere d’arte, come il sole o fuoco celeste è in quelle della
natura.”
Info
Acquista
“L’idioma del sale”
http://nulladie.com/it/catalogo/549-emanuele-martinuzzi-l-idioma-del-sale--591.html
FONTE
https://oubliettemagazine.com/2022/05/18/intervista-di-alessia-mocci-ad-emanuele-martinuzzi-vi-presentiamo-lidioma-del-sale/