31 maggio 2022

IL FISCO CHIAMA, IL CONTRIBUENTE RISPONDE di Antonio Laurenzano

                     


IL FISCO CHIAMA, IL CONTRIBUENTE RISPONDE

di Antonio Laurenzano*

Per oltre trenta milioni di contribuenti si è aperta la stagione dei redditi 2022. Sul sito web dell’Agenzia delle Entrate, con alcuni giorni di ritardo rispetto agli anni precedenti, è disponibile la dichiarazione precompilata che, nelle parole del Direttore Ruffini, “rappresenta un cambio di paradigma nel rapporto tra i cittadini e il Fisco”. In questa prima fase, entrando nella propria area riservata sul sito dell’Agenzia tramite Spid, Carta d’identità elettronica o Carta nazionale dei servizi, sarà possibile controllare nel dettaglio i dati precaricati dal Fisco sulla propria dichiarazione, dalle spese mediche alle voci della certificazione unica, dai premi assicurativi alle spese per l’istruzione, dai contributi previdenziali e assistenziali agli interessi su mutui, e molti altri. Sono in costante aumento i dati che troveremo: nei modelli 2022 l’Agenzia ha già inserito oltre 1,2 miliardi di informazioni. E cresce anche il numero di cittadini che, negli anni, ha gestito in autonomia la propria dichiarazione: lo scorso anno il dato ha raggiunto quota 4,2 milioni, il triplo rispetto al 2015 (1,4 milioni), il primo anno del “progetto precompilata” avviato in via sperimentale.

Bilancio certamente positivo se rapportato al numero delle dichiarazioni mod. 730 inviate dai contribuenti senza modifiche che sono passate dal 5,8% del primo anno al 22,3% del 2021. In pratica, come rileva Fisco Oggi, la rivista online dell’Agenzia delle Entrate, quasi 1 contribuente su 4 ha inviato la dichiarazione così come predisposta dal Fisco. Le dichiarazioni 2022 (mod.730, Redditi PF) fanno il pieno di dati, la maggior parte dei quali è riferita alle spese sanitarie (alcune con il vincolo della “tracciabilità”) che balzano a oltre 1 miliardo (+40% rispetto alla stagione 2021). Incremento significativo (+ 36% sullo scorso anno) per i dati relativi a “bonifici per ristrutturazioni edilizie”, con oltre 10 milioni di dati (che finiranno sotto la lente d’ingrandimento del Fisco).

Se la “precompilata” viene accettata senza modifiche non ci saranno controlli sui documenti relativi alle spese inserite. Se, invece, il contribuente apporta modifiche l’Agenzia potrà eseguire il controllo unicamente sui dati variati e non anche (come accadeva in passato) su tutti gli altri dati non modificati. Qualora dalla dichiarazione emerga un credito o un debito, il relativo rimborso o trattenuta sarà operato dal datore di lavoro o dall’ente pensionistico nella busta paga o nella rata di pensione a partire, rispettivamente, da luglio e agosto/settembre. Per chi accelera le operazioni di invio della dichiarazione, in presenza di imposta a rimborso, la busta paga di luglio sarà maggiorata con il bonus da 200 euro, l’una tantum introdotta dal Decreto Legge “Aiuti” 50/2022 per i soggetti con reddito annuo non superiore a 35mila euro lordi. La stagione dichiarativa 2022 si chiuderà il 30 settembre per chi presenta il mod.730 e il 30 novembre per chi invece utilizza il Mod. Redditi PF (contribuenti soggetti a ISA, titolari di redditi di partecipazione, soggetti IVA).

Tutto ok? Non proprio. Sul tappeto il problema di sempre: la complessità del nostro ordinamento tributario con un labirinto di regole non sempre di facile interpretazione. Un quadro fortemente critico che, alla vigilia delle nuove scadenze fiscali, impone una riflessione per una seria riforma fiscale, non più differibile. Ancora inascoltato l’appello di Ezio Vanoni, storico Ministro delle Finanze degli Anni Cinquanta, per “un ordinamento tributario conoscibile nelle forme e comprensibile nei contenuti”. Da anni si opera con una frantumazione della legislazione tributaria e un proliferare della normativa che è causa non solo di uno scadimento qualitativo della legislazione ma anche della potenziale ignoranza della legge, con grave pregiudizio della certezza del diritto e del conseguente contenzioso tributario. Il contrasto all’evasione fiscale, che in Italia ha raggiunto livelli patologici con ricadute sull’economia del Paese, va condotto con una normativa semplice e con misure efficaci per la emersione di base imponibile e gettito tributario, senza tartassare il contribuente con inutili balzelli e adempimenti.

Ciò di cui il Paese ha bisogno, soprattutto in un periodo di lenta ripresa economica, è un Fisco che oltre a ridurre la pressione tributaria sostenga la crescita per aggredire l’ingombrante debito pubblico, attivando una intelligente “compliance fiscale”. Ma i segnali che arrivano proprio in questi giorni con il controverso accordo raggiunto dalle forze di maggioranza sulla delega fiscale, fra minacce di crisi e di imboscate parlamentari, lasciano pochi margini alla speranza per un Fisco migliore. Netto il giudizio di Ferruccio de Bortoli sulle pagine del Corriere: “Una lunare discussione, un dibattito surreale, il trionfo dell’ipocrisia.” I soliti compromessi elettorali. “Così è, se vi pare”, Pirandello docet!

*Tributarista 

30 maggio 2022

Raymond Queneau – Esercizi di stile – a cura di Marcello Sgarbi

 


Raymond Queneau
Esercizi di stile – (Einaudi)

Collana: Super ET

Pagine: 320

ISBN 9788806220747


Esterno giorno: alle dodici, il passeggero di un autobus se la prende con un altro che lo spinge in continuazione. Irritato, appena trova un posto libero lo occupa.

Dopo qualche ora, il protagonista incontra di nuovo l’importuno di mezzogiorno in compagnia di un amico, che lo invita ad attaccare un bottone sul paltò.

Un’assoluta banalità quotidiana, si dirà. Addirittura piatta. Una ragione in più per leggere “Esercizi di stile” e scoprire con quale maestria l’autore complice anche la straordinaria traduzione di Umberto Eco – riesce a creare novantanove variazioni della stessa scena, toccando per l’appunto una varietà infinita di registri stilistici: teatrale, scolastico, medico, botanico, epico, ironico, dialettale e via così, in un caleidoscopio linguistico che dietro l’apparenza del divertissement cela una lezione di scrittura e di rara abilità. Ne riporto uno come esempio.

Anche nel caso di Queneau, il termine “competente di parole” - utilizzato da Gadda per definire lo scrittore – mi sembra quanto mai opportuno.

Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto libero, vi si butta. Due ore più tardi lo incontro alla Cour de Rome, davanti alla Gare Saint-Lazare. È con un amico e gli dice: ‘Dovresti far mettere un bottone in più al soprabito’. Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e perché’”.

© Marcello Sgarbi

29 maggio 2022

“MANDARINO MECCANICO” a cura di Miriam Ballerini


 
“MANDARINO MECCANICO”

Scusate per la scelta del titolo che non vuole essere irriverente verso “Arancia meccanica”, grande capolavoro sia dal punto di vista letterario che cinematografico. Cercavo uno spunto che parlasse di violenza, ma non a quei livelli, così ho pensato di ridimensionarne la grandezza!

Se questo può fare sorridere, in realtà quello che andrò a scrivere, a me personalmente ha trasmesso inquietudine.

In due giorni, addirittura con due episodi in un giorno solo, m'è toccato assistere a delle scene che mi danno davvero da pensare.

Il mio è un piccolo paese, circa 7800 abitanti.

Ci si conosce abbastanza tutti, chi personalmente, chi di vista come si dice.

Il primo scenario si svolge in banca: sono allo sportello dove sto per pagare un bollettino, dal momento che hanno tolto il modello MAV con cui potevo pagarlo da casa.

Una tizia che conosco e che saluto, incontrandola spesso, parte in quarta con un discorso dove mi sono sentita in vergogna io per lei: “In Italia succedono queste cose per colpa degli extracomunitari che si fanno mantenere e vanno a giocare ai gratta e vinci”.

Ora, sono certa che le persone di buona volontà che leggeranno ciò avranno già compreso che, in così poche parole, ci sono ben tre strafalcioni fantascientifici. Perché un essere umano normale comprende subito che: A la burocrazia non dipende dagli extracomunitari – B la menata del li manteniamo, ecc. è una cosa ben diversa, ampiamente spiegata che solo chi non vuole capire seguita a tirare in ballo – C se per caso ha visto un signore di colore giocare ai gratta e vinci non è detto che sia una persona che chiede la carità.

Mi sarebbe bastata questa come esperienza dei soliti muri d'odio alzati per ignoranza; ma al peggio non c'è mai fine.

Davanti casa mia sento delle urla: un netturbino sta aggredendo verbalmente un ragazzo che conosco, urlandogli di tutto, inoltre gli piazza dietro l'auto il camioncino, gridandogli di andarsene, ma di fatto bloccandogli la via.

Il ragazzo, che è educato e maturo (molto più del netturbino), continua a dirgli di piantarla, che non è accaduto nulla.

Il tale comincia a prendere i sacchi della spazzatura e a sbatterli per tutta la via.

Alla fine dirà che il ragazzo ha tentato di investirlo, che tutti i giorni la gente lo aggredisce, ecc.

Andando a fondo della questione appuro che il ragazzo non ha fatto nulla, ma al tale è bastato un nonnulla per dare di matto. Per esagerare, per oltrepassare il limite.

Non vi basta? E infatti, non è finita qui!

Lo stesso giorno, alla sera, riecco altre urla.

Ma cosa sta diventando la gente? Mi domando.

Un tizio che conosco stava camminando coi suoi cani, uno di questi è un pittbull o similare, non legato al guinzaglio. Un altro passa con la moto e, da quel che ho capito, il cane lo stava quasi facendo cadere.

Giustamente, anche se con toni assolutamente sbagliati, il motociclista fa notare che i cani non si portano così.

Io sono sempre dalla parte degli animali e penso che, anche per il bene del cane stesso, sia giusto condurlo al guinzaglio in strada.

Il padrone del cane si mette faccia a faccia con quello dello moto, il linguaggio del corpo è quello di un bulletto disagiato. Oltretutto non dimentichiamoci che ancora c'è il covid fra noi.

L'altro, esagerando, lo minaccia di aprirlo in due.

Per fortuna intervengono due donne che convincono quello del cane a chiedere scusa. L'altro non ne vuole sapere, forse perché uno ha il terrore di comportarsi da persona normale, sia mai che poi sembri meno uomo... spero si colga la mia vena ironica.

Io ero già pronta a chiamare i carabinieri.

Poi tutto si è risolto e, per fortuna, non si è fatto male nessuno.

L'uomo col cane, sul suo profilo facebook vedo che è a favore dell'uccisione dei ladri e altre simili amenità. Chissà perché ma me l'aspettavo, non avevo alcun dubbio che potesse tirare giù per quella china.

Siamo sempre stati così?

Se penso agli anni indietro, mi ricordo, ad esempio per quanto riguarda gli screzi automobilistici, tante corna fuori dal finestrino, qualche parola detta al vento e la cosa finiva lì, con quelle note di colore.

Oggi basta poco, se solo uno dei due fosse stato armato, bastava anche solo un coltellino, si sarebbe potuti arrivare alla tragedia.

Perché c'è la chiara volontà della distruzione dell'altro. Perché l'altro è quello che sbaglia, perché l'altro va punito perché ha sbagliato.

Lo so, vivo d'utopia, ma personalmente, sempre più spesso, mi trovo a disagio a vivere in questo mondo.

Non sono una santa, scappa anche a me la parolaccia e qualche volta rispondo pure io in malo modo. Stupidamente mi capita di rispondere alla violenza con agitazione.

Ma se penso al mondo dove vorrei vivere, beh... non è di certo questo.

Non è un posto dove si possa andarsene in giro imbellettati e con la borsetta all'ultima moda al braccio a sputare odio su persone di cui non si sa niente; sclerare per il proprio lavoro, rischiando di commettere qualche sbaglio che potrebbe essere fatale. O stare muso contro muso in una pantomima del grande macho.


© Miriam Ballerini

26 maggio 2022

Alessia Mocci intervista Emanuele Martinuzzi

 


Alessia Mocci intervista Emanuele Martinuzzi:

ecco la raccolta L’idioma del sale


Ogni piccola poesia che si scrive, anche poche parole distrattamente lasciate su un foglio, sono un’alleanza e una ricerca col senso nascosto delle cose. La storia di ognuno di noi diventa tangibile ogni volta che viene scritta, niente è veramente vissuto senza che il segno della scrittura porti l’esistenza ad una doppia esistenza.” – Emanuele Martinuzzi

La poesia è alleanza e ricerca, il poeta vive il mistero delle cose, della creazione, non solo della vita e del suo continuo tramutarsi ma anche della realizzazione dei pensieri. Le parole vengono pensate con coscienza oppure vengono udite? Che cos’è che spinge – talvolta con costrizione – a scrivere? Ad imbrattare la carta con segni a cui è stato dato significato?

Emanuele Martinuzzi si interroga sul bisogno di poesia percependolo come un’urgenza. “L’idioma del sale”, edito dalla casa editrice Nulla Die, è un amalgama di parole, coesione di piccole poesie tracciate su qualsiasi supporto, cartaceo o digitale, in momenti diversi della giornata. Frasi dell’immediato, sentite riecheggiare nella mente e trascritte senza alcuno scopo letterario che, invece, a distanza di anni, sono diventate pagine di una silloge poetica.

L’autore, classe 1981, ha conseguito una laurea in Filosofia a Firenze ma già in tenera età si è occupato, tramite la poesia, di indagine sull’essere umano percorrendo una strada solitaria di dialogo continuo.

Nella pienezza del Non” (Ilmiolibro, 2010), “L’oltre quotidiano – liriche d’amore” (Carmignani editrice, 2015) “Di grazia cronica – elegie sul tempo” (Carmignani editrice, 2016) “Spiragli” (Ensemble, 2018) “Storie incompiute” (Porto Seguro editore, 2019) “Notturna gloria” (Robin edizioni, 2021) sono alcune delle sue precedenti pubblicazioni.

Mi sono intromesso nell’ombra/ di una quercia trapassata/ in gergo popolare/ con il soffio missionario/ delle mie ipotesi di dolore,/ aspettando scrollasse/ dai suoi rami di realtà/ tutta la mia invisibile/ resina o paura della vita.”


A.M.: Salve Emanuele, l’anno scorso abbiamo presentato ai lettori “Notturna gloria” (Robin Edizioni), una raccolta di ventuno poesie associate ad altrettante illustrazioni del Maestro Gianni Calamassi. È stata una pubblicazione che ha avuto maggior “fortuna” nel pubblico dei lettori oppure in quello dei critici letterari?

Emanuele Martinuzzi: Ciao a tutti. Sembra passato molto più tempo. Sarà il periodo della pandemia che dilata e deforma il trascorrere dei mesi in modo innaturale. Comunque proprio in questi giorni ho ricevuto comunicazione che “Notturna gloria” ha ottenuto un ulteriore riconoscimento, la Menzione d’Onore al Premio Letterario Internazionale “Molteplici visioni d’amore – Cortona Città del Mondo”. Questo dopo aver già ottenuto il Premio Speciale della Giuria al Concorso San Domenichino dell’anno scorso. Sinceramente non mi aspettavo questi piacevoli e prestigiosi riscontri di apprezzamento. Mi è capitato poi di parlare con alcune persone che avevano letto la raccolta e che mi esprimevano le loro impressioni ed emozioni intense rispetto a quello che avevano fruito in questo lavoro illustrato. Quindi alla luce di questi esempi non saprei cosa rispondere esattamente. Direi che in modo imprevisto ha avuto buoni effetti sia sul pubblico dei lettori che su quello dei critici o degli addetti ai lavori. Sinceramente non me l’aspettavo, perché questa raccolta dal mio punto di vista rimane di non facile accesso e fruizione, sia per la natura criptica dei suoi contenuti, sia per le atmosfere che evoca nel loro lontano simbolismo. Infatti mi viene da pensare ancora, nonostante questi apprezzamenti, che non sia stata assimilata completamente nei suoi messaggi e nelle sue inattuali prospettive. Il fatto che sia un viaggio di discesa verso gli inferi di ciò che è in stato di abbandono, o distrutto dalla storia e dal tempo, nel suo essere violentemente innocente e inesorabile, oppure in ciò che è immaginario e abitante della sola fantasia, mi fa pensare che non possa e debba essere una lettura priva di ostacoli o barriere comunicative. La sofferta riflessione sul tempo cronico, distruttivo delle cose, delle civiltà e dei suoi valori, considerati come dati, scontati, spesso privi di una prospettiva storicistica che li renda relativi e non assoluti, credo sia in contraddizione rispetto a una moderna cultura, che invece tende a considerare e cristallizzare opinioni, giudizi e valori, privi di uno spessore storico, protesa più a cancellare l’evoluzione dei fenomeni nella storia, piuttosto che a farsi carico del loro essere mutevole, cioè legati a un determinato contesto socio culturale di riferimento. Questa raccolta è un viaggio che mostra come le rovine de tempo cancellano ogni cosa e emozione, rendono tutto ombra, però allo stesso tempo non cancellano la storia e la sua tormentata epopea, piuttosto ricercano attraverso la poesia, di riesumare ciò che c’è di eterno in questo continuo passaggio di costruzione e distruzione. Poesia e storicismo, simboli e rovine, fortuna e destino, vita e morte, spiritualità e silenzio.


A.M.: “L’idioma del sale” è il titolo della tua recente pubblicazione, “sale” compare nella silloge: nella citazione di apertura nella quale riporti i versi della lirica “Noi non sappiamo quale sortiremo” del poeta Eugenio Montale ed in due tue liriche, la prima cita “Naufrago in questa/ spiaggia senza vanità,/ nomade pausa, crampo/ nell’idioma del sale.” e la seconda più lunga di cui cito tre versi: “[…] In questa paralisi di ardore/ nessun racconto di sale/ più ci accompagna tra le zolle,/ […]”. Dal “sale greco” di Montale si passa all’“idioma del sale” ed al “nessun racconto di sale”. Quale concetto hai voluto indicare con il sale?

Emanuele Martinuzzi: “L’idioma del sale” è una raccolta che mette insieme le poesie, le frasi e le parole scritte, prima della pandemia, su fogli sparsi, quaderni, smartphone, pc, etc., ovunque insomma avessi modo di gettare nero su bianco la mia ispirazione del momento, i miei dubbi, la mia voglia di esprimermi in libertà. Una specie di diario poetico delle mie emozioni e pensieri, gioie e tormenti, alti e bassi, a dimostrazione che la poesia sa accompagnare tutti i momenti della vita, in qualsiasi frangente, e sa tradurre i suoi sentimenti, profondamente. Un grande poeta del passato Archibald MacLeish scriveva che “la poesia non deve significare ma essere”, infatti ogni volta che la poesia è, le cose si arricchiscono di nuovi significati, la realtà viene manifestata e liberata da convenzionali interpretazioni. La poesia è il sale della terra e dell’umanità, parafrasando il Vangelo, perché sa dare sapore e spessore ai vissuti, sa trasformare aridi momenti in nuove rinascite, sa trasfigurare le cose per mostrarne i volti e significati nascosti. Le poesie sono piccoli grandi granelli di sale, messaggi dall’abisso di amore, pace e speranza, che si librano sopra le contraddizioni, le oscurità e le assurdità del mondo. Questo lavoro altro non è che un omaggio allo scrivere poesie, a farle entrare nella propria vita di tutti i giorni, comunque e ovunque, a fare questa cosa così apparentemente inattuale, ingenua, sublime, di affidare alle parole scritte il nostro sentire più inascoltato, fragile o misterioso. In questo caso, differentemente dal precedente lavoro di cui si parlava, questa raccolta diventa una testimonianza della mia storia personale, queste poesie o queste parole sono la testimonianza della mia relazione con l’atto dello scrivere e della mia scrittura con l’esistenza. Come il sale nell’Antico Testamento, nel Levitico, è citato come un mezzo simbolico che garantisce l’alleanza tra il popolo e il divino, così la poesia sancisce quel misterioso legame tra un essere chiamato all’esistenza e l’incognita della vita. Ogni piccola poesia che si scrive, anche poche parole distrattamente lasciate su un foglio, sono un’alleanza e una ricerca col senso nascosto delle cose. La storia di ognuno di noi diventa tangibile ogni volta che viene scritta, niente è veramente vissuto senza che il segno della scrittura porti l’esistenza ad una doppia esistenza. Così le cose, le emozioni e i vissuti acquistano quel sapore che sa di significato, senso, miracolo, sale. Inoltre il sale nell’impero romano era usato anche come elemento distruttivo, dopo aver annientato Cartagine, i romani sparsero il sale sul suolo della città al fine di renderlo sterile per sempre, così come nella Bibbia si racconta che abbia fatto Abimelech dopo aver espugnato la città di Sichem. La poesia in questo senso gettata sull’esistenza trasforma ciò che nel vissuto trattiene il nuovo, ciò che arresta l’evolversi inevitabile della storia e trasfigura queste rovine lasciando il posto affinché giunga la rinascita, il rinnovamento, l’illuminazione inscritta nel linguaggio. Quindi mi piaceva l’idea del sale perché queste comunque sono poesie scritte già per essere scarti, lasciate a casaccio nei fogli, il puro piacere della scrittura, l’abbandonarsi al mistero della vita attraverso i segni della poesia. Ciò che apparentemente è solo una parola che rimanda a un tuo sentire di un momento, che può essere considerato come insignificante, assurdo o inascoltato, in realtà è il sale della terra e della vita, l’essenza che la poesia custodisce e pronuncia per essere compresa, per dare il giusto peso e sapore alle piccole immense cose.


A.M.: Ogni parola, partendo dall’etimo e risalendo nella storia del suo utilizzo, ha una variegata ramificazione. Dal sale possiamo passare all’illusione: “Quello che resta dei miei occhi,/ disciolti al patibolo dell’illusione,/ […]”. La radice della parola illusione proviene dal latino ludere con il significato di “giocare”. Ombre/a è un altro vocabolo che si nota ne “L’idioma del sale”. Per non estendere troppo questa domanda citerò solo il verso in cui compare: “ombre intrise di ali”. Gli esseri umani hanno un rapporto particolare con l’ombra, ma il poeta in particolare ne esalta la sua esistenza, quasi che la sagoma nera sia la prova più evidente della luce. Il poeta è fortemente connesso all’oscurità come momento di massima ispirazione ed è proprio in questa condizione che si possono ammirare le stelle. Troviamo la parola “stelle/a” in alcuni passi della raccolta tra cui: “nella traversata di una stella verso l’umano”. Dall’ombra proiettata verso il basso, verso l’interno, la stella è ciò a cui tendiamo, ciò che sta in alto e ciò che luccica.

Emanuele Martinuzzi: Non solo l’etimologia di ogni parola che entra nella fitta trama di una poesia si mostra come un viaggio speleologico nei meandri delle sue forme e nella storia della sua evoluzione, ma anche il significato stesso di ogni parola non è più dato come stabile o univoco, come viene considerato quotidianamente nello scambio e nel dialogo tra persone. Ogni senso entra in quell’avventura affascinante che permette di vedere le varie sfumature possibili, le varie strade che ogni parola può prendere nel labirinto dei contenuti che la compongono, apertamente o anche in modo sibillino. E poi non è solo questo, non è un mero gioco linguistico, semmai più un gioco di ombre e di luce come nella caverna di Platone. La scrittura ti permette di creare un tuo universo di spirito e materia, instabile e cangiante come le tue emozioni, plasmando le ombre e la luce che le attraversano e che provengono da un non ben imprecisato altrove, che a volte assomiglia al mondo esterno, a volte agli abissi del tuo cuore e altre volte a un qualcosa di assoluto che abita l’esistenza. Chi scrive poesie in qualche modo crea nel vero senso della parola, perché come il Fanciullino pascoliano dona per la prima volta un nome alle cose e in questo modo crea le cose stesse, le sue cose, uniche e irripetibili, in quell’armonia miracolosa che è un animo umano, in questo suo specchio, ingiudicabile e bellissimo, composto di versi e silenzi. Leggere una poesia è abbracciare una sensibilità del tutto sconosciuta, scoprire una civiltà sepolta sotto alla forma delle parole e al suo senso più comune, per lasciarsi trasportare in prospettive e orizzonti desueti, fuori dalle proprie caverne, fuori nella luce della bellezza, della libertà, dell’umanità e del mistero. Il fatto che tutto questo non sia solo un’illusione, o un mero artificio, lo si sa osservando come la poesia sappia costruire emozioni di pace, sappia faci avvicinare al mistero con gentilezza, sappia svuotare le nostre pulsioni più distruttive in una catarsi creativa. La poesia è una stella da seguire per realizzare i propri desideri più fondamentali, che riguardano l’interiorità.


A.M.: Il poeta è fortemente connesso agli elementi del cosmo e della natura come momento di massima ispirazione, ma non è solo dalla contemplazione dell’universo che riesce a trarre fervore, egli infatti è connesso a tutta la produzione precedente di poesia. Quali sono i poeti che, nel corso degli anni, ti hanno emozionato maggiormente?

Emanuele Martinuzzi: Mi viene da pensare alle mie prime letture di adolescente. La mia scoperta dei simbolisti francesi fu davvero una rivoluzione copernicana per me e per il mio modo di intendere, non solo la scrittura della poesia, ma anche il rapporto di chi la ama e la scrive nei confronti del resto della cultura e della società, non solo in termini di opposizione o differenziazione, ma una via unica e contraria di ricerca e sperimentazione, anche personale, dei propri vissuti, che diventano parte integrante del fare poesia. Come non pensare alla poesia “L’albatro” di Charles Baudelaire dai suoi “I fiori del male” dove appunto canta il suo essere “esule sulla terra, al centro degli scherni,/ per le ali di gigante non riesce a camminare”. Un altro amore è stato Arthur Rimbaud, tutta la sua opera e la sua vita sono state illuminazioni poetiche, battelli ebbri di bellezza e alterità. Ovviamente sempre nel simbolismo francese “I canti di Maldoror” del Conte di Lautreamont, pseudonimo o nome reale di Isidore Ducasse, mi hanno traghettato nella crudeltà sublime di una poesia, lasciata libera di essere se stessa e diversa da sé. Potrei continuare con Mallarmé, Verlaine, Corbiere. Ovviamente non posso tralasciare l’ispirazione senza fine avuta dalle letture dei grandi della letteratura italiana come il simbolismo di Pascoli, il suo fanciullino eterno e creativo, i “Canti orfici” di Dino Campana, il suo folle errare senza meta con la sola destinazione della chimera poetica, gli immensi Montale, Ungaretti, Quasimodo, Luzi, che mi hanno davvero fatto scoprire continenti di poesia, in cui confluiscono oriente e occidente, passato e futuro, ermetismo e canzone, secolari tradizioni di poesia e biblioteche di emozione. Poi essendo un lettore molto discontinuo e curioso, ho davvero letto di tutto e di più in questi anni, tra i grandissimi e i minori, contemporanei o antiche voci, dagli haiku giapponesi alla poesia africana, dal classicismo alle avanguardie, dall’imagismo americano alle poesie dei migranti, dai Novissimi del gruppo ’63 alla Beat generation e potrei continuare ancora. Non c’è mai fine alla possibilità di scoprire qualcosa di nuovo nel passato, il passato in un certo senso è il nostro futuro, sono state scritte tante di quelle pagine di arte, poesia e letteratura, che possiamo veramente trovarci di fronte a qualche novità che non conoscevamo, tesoro pronto per essere scoperto e rivitalizzato. Detto questo spesso non ho una grande memoria e quindi molte cose lette sono state non proprio dimenticate, bensì direi metabolizzate dentro di me, la loro atmosfera evocativa è entrata a far parte del mio animo e della mia sensibilità. Poi dopo tante letture quello che penso è che anche quello che si vive sia in qualche modo letteratura, il discrimine tra la forma letteraria e la vita vera è molto labile. Nel bagaglio di esperienze che si fanno e che arricchiscono, con la gioia o la sofferenza, c’è un legame invisibile e misterioso con i versi che possiamo leggere degli autori sopracitati o anche altri. Alla fine i nomi della letteratura, le definizioni, i movimenti, le classificazioni e le etichette svaniscono per lasciare il posto alla bellezza e alla passione della quintessenza della poesia, che travalica i linguaggi e i vari universi di significato. Ungaretti non è più Ungaretti, ma un’emozione del nulla, che si traduce nella vita tra un fiore colto e l’altro donato, nello sbocciare di un attimo che illumina d’immenso la tua vita. Così vale per qualunque autore, grande o piccolo che sia, siamo tutti interconnessi, letteratura e vita, filosofia e poesia, conoscenza e ignoranza, tutto è un miracolo che contribuisce all’enigma dell’esistenza. Più procedo in questa passione della poesia e della scrittura, più abbandono un atteggiamento critico o intellettuale, che già non mi appartiene spontaneamente, per abbandonarmi, forse in modo ingenuo e naïf, all’avventura primordiale e bellissima di lasciare segni misteriosi sul foglio bianco, di viverli attraverso le esperienze della vita, tutti i giorni, nelle piccole grandi cose ed emozioni. Si potrebbe anche dire che più si ama la scrittura e più anche i momenti della vita in cui non si scrive, per una qualche ragione, sono anch’essi una forma del poetare. Anche se non scrivessi neanche più un verso, la poesia continuerebbe ad accompagnarmi con la sua ombra, sempre in ascolto e in attesa delle sue epifanie, continuerei a sfogliare gli attimi della vita osservandone con occhi nuovi i segni impressi.


A.M.: Qual è il target di pubblico de “L’idioma del sale”?

Emanuele Martinuzzi: Ogni poesia inserita in questa raccolta è stata pensata, ideata e scritta a casaccio come ho detto, non c’è una struttura comune o una tematica prevalente, sono emozioni e pensieri che seguono il flusso discontinuo delle mie emozioni e dei miei pensieri, ovunque capitasse di provarne e di osare poi a trasfigurarli in forma di poesia, senza nessuna volontà di pensarle e ordinarle in una raccolta, prima almeno che avessi l’idea qualche mese fa, un po’ per omaggiare la scrittura della poesia, la sua importanza in generale, per il piacere di pubblicare un libro, ma anche più semplicemente per ricordo. Una testimonianza per me di questo ultimo periodo di scrittura, uno spaccato del mio passato tradotto in poesia, che credo e spero possa parlare a chiunque, a chi ama la poesia, a chi non la conosce o apprezza molto o anche a chi la evita. Certamente alcune poesie possono sembrare oscure per il simbolismo e le immagini che sembrano nascondere più che svelare, lo sono anche per me visto che quando si scrive non sempre si è del tutto coscienti di ciò che la cosiddetta ispirazione ci sta regalando. Mi auguro però che chi abbia modo di leggerle provi ad abbandonare le naturali resistenze razionali e si affidi con ingenuità al senso non-senso della parola, le guardi come un bambino che osserva per la prima volta le cose e si chiede cosa vogliono dire, il loro perché, emozionandosi per le risposte che vengono alla mente. Scrivendo principalmente per passione in piena libertà, sinceramente non mi sono mai soffermato sul tipo di persone che possono apprezzare quello che scrivo. E poi la parola target è usata in ambito commerciale, ammesso che questo libro abbia una diffusione tale da poter fare questo tipo di valutazioni, non sono interessato comunque a considerare la poesia come una merce, almeno non come tutte le altre merci. Spero invece che possa spronare qualcuno a scrivere, poesia o prosa non importa, ma a scoprire il valore immateriale non consumabile e profondamente umano, di esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti, le proprie idee, anche soltanto a sé stessi, in un diario. Spero che i miei amici, poeti o non, abbiano modo di leggere questa raccolta e di confrontarmi con loro su cosa ne pensano. Alcuni l’hanno già fatto e non nascondo il piacere di condividere le impressioni, confrontarsi, leggersi a vicenda, con simpatia e leggerezza.


A.M.: In una tua intervista hai espresso il senso che dai alla “meraviglia” con: “Credo che la meraviglia faccia parte dell’umanità, della sua parte più fragile, misteriosa e creativa, in cui la ragione si abbandona al sogno, in cui l’infanzia viene custodita in tutta la sua mitologia e la sua creatività. In ogni epoca e in ogni persona c’è sempre un dialogo, uno scontro se non proprio una lotta tra le intenzioni della meraviglia e quelle del cinismo, del disincanto e della perdita dell’incanto con cui guardare alle cose.” La troviamo, come parola all’interno della raccolta “l’idioma del sale” in questi versi: “sull’abisso filtra la meraviglia”, o “l’ossario delle ultime meraviglie”. Possiamo dedurre che, anche in questa silloge, la meraviglia è per te contrapposta al funereo, all’abisso?

Emanuele Martinuzzi: Scrivere poesie è sempre una scommessa sulla meraviglia, l’incanto, il miracoloso rispetto al cinismo, i nichilismi e la fredda materia. Una scommessa conveniente come direbbe Pascal a proposito dell’esistenza divina, cioè conviene sempre rischiare qualcosa di finito, come la mera vita materiale, quando la posta in gioco è l’infinito, la bellezza e la poesia. Si tratta di un lavoro intenso quello di custodire un afflato infantile, innocente e aperto a meravigliarsi anche delle piccole cose, in modo da distillare dall’esperienza quella che può essere considerata come la quintessenza della poesia. Un verso nasce casualmente, o per destino, ma ci sono credo tutta una serie di condizioni interiori che permettono all’animo di elaborare i sentimenti e vissuti per poter costruire una frase che in modo misterioso li rispecchi. Per la filosofia greca antica la meraviglia è all’origine della conoscenza filosofica e sappiamo quale tipo di relazione ci sia tra il Mythos poetico e la sua evoluzione in Logos filosofico. Nella narrazione mitologica e poetica della realtà c’è sempre una componente discorsiva e razionale come nella conoscenza filosofica, e viceversa. La meraviglia ha bisogno della ragione e la ragione ha bisogno della meraviglia, perché la ragione non è un calcolo elementare e la meraviglia non è un’insensatezza. Entrambe si confrontano con semplicità con l’immensità che appartiene alla vita, ai suoi ideali, alle emozioni autentiche, alla spiritualità in senso più ampio possibile. Ogni uomo è un abisso, in cui finito e infinito si incontrano e scontrano, in cui vivono le contraddizioni e da cui si creano tutte le potenzialità. Mi ricordo che la poesia di cui parlavi nella domanda e che recita “sull’abisso filtra la meraviglia” mi è venuta in mente mentre ero seduto sul divano a riposare in montagna come molte altre volte, verso sera. La finestra era aperta e si intravedevano i monti fitti di boscaglia. Un’atmosfera vissuta altre volte. In quel silenzio, tutto a un tratto, si alza il vento che proviene dai boschi e un’anta della finestra aperta incomincia a oscillare, mentre cala l’imbrunire. Ecco in quel momento, questa situazione, ai miei occhi è stata vissuta come unica, c’era uno strano equilibrio tra silenzio e movimento, e con meraviglia quei luoghi così familiari, mi sembravano apparire nuovi, osservati e vissuti come per la prima volta. Da lì le parole sono venute da sole, traducendo in poesia questo sentire profondo, che riguardava la scrittura, il paesaggio, le cose e il mio animo, e lo scrivere ha potuto magicamente dare voce a questa estasi, composta da piccole grandi cose.


A.M.: Per il mese di maggio e per i seguenti mesi estivi hai già in mente delle presentazioni in presentia del libro?

Emanuele Martinuzzi: Non ho ancora programmato niente di preciso. Credo che mi lascerò trasportare dalle possibilità che verranno fuori. Sicuramente mi farebbe piacere partecipare a letture collettive o presentazioni in presenza, più che altro per leggere le poesie de L’idioma del sale e anche di Notturna gloria, ritrovare quella dimensione libera di condivisione, ascolto e riflessione. Leggere in pubblico mi emoziona sempre tanto e da un lato mi manca, è un modo di sentire prendere vita quello che si è scritto, avvertire le reazioni viscerali o ragionate degli ascoltatori, superando le barriere della propria riservatezza. È anche una specie di introspezione, scendere dentro se stessi, leggendo le parole che sono state trovate nel proprio animo in precedenza. Al di là degli eventi spero comunque di aver modo di leggere le mie poesie ad altre persone, anche in contesti esterni alla logica della presentazione o del reading. Leggere casualmente a qualcuno una propria poesia e donargli anche solo una piccola emozione o un pensiero nuovo è sempre un grande evento.


A.M.: Salutiamoci con una citazione…

Emanuele Martinuzzi: Vi saluto con la citazione che apre questa raccolta: “E un giorno queste parole senza rumore/ che teco educammo nutrite/ di stanchezze e di silenzi,/ parranno a un fraterno cuore/ sapide di sale greco.” (Eugenio Montale)


A.M.: Emanuele ti ringrazio per la spontaneità delle tue risposte, è stato un vero piacere colloquiare sul tuo nuovo libro a cui auguro di essere letto ed assorbito. Ti saluto con le parole di Blaise de Vigenère che nel suo “Trattato del fuoco e del sale” scrisse: “Cos’è il sale? Si chiese uno dei filosofi chimici. Una terra arsa e bruciata, e un’acqua congelata dal calore del fuoco potenziale racchiusovi. Il fuoco d’altro canto è l’operatore di quaggiù nelle opere d’arte, come il sole o fuoco celeste è in quelle della natura.”


Info

Acquista “L’idioma del sale”

http://nulladie.com/it/catalogo/549-emanuele-martinuzzi-l-idioma-del-sale--591.html


FONTE

https://oubliettemagazine.com/2022/05/18/intervista-di-alessia-mocci-ad-emanuele-martinuzzi-vi-presentiamo-lidioma-del-sale/


25 maggio 2022

“Life in Nature – Corsi e Ricorsi” a cura di Marco Salvario

 Life in Nature – Corsi e Ricorsi” a cura di Marco Salvario

Villa Boriglione – Parco Culturale Le Serre

Via Tiziano Lanza, 31 – Grugliasco (Torino)

7 – 15 maggio 2022



A Grugliasco, operoso comune della città metropolitana di Torino, in un parco dove si possono ammirare esotici alberi centenari, sorge Villa Boriglione, costruita nel XVIII secolo e dal passato interessante; fu sede dal 1913 della casa cinematografica “Photodrama” e successivamente di una scuola per giardinieri. Attualmente ospita l'Istituto per i Beni Marionettistici e il Teatro Popolare e, nei sotterranei, un rifugio antiaereo e il Museo della Grugliaschesità che, dopo le chiusure legate all'emergenza Covid, i volontari della Cojtà Grugliascheisa sperano di potere riaprire al pubblico nel prossimo autunno.

Il 7 maggio 2022, l'Associazione Orizzonti Contemporanei insieme con Alhena Editore ha inaugurato la rassegna “Life in Nature – Corsi e Ricorsi” con ventuno pittori in competizione e, fuori concorso, alcune opere di Renata De Santo, scrittrice e artista, che tramite l'utilizzo libero di materiali e tecniche, riesce a realizzare poetiche e raffinate creazioni.



Tutte le opere in concorso erano di buona qualità e meriterebbero un loro commento; il tempo, la pigrizia e la mancanza di ispirazione che mi accompagna nel caldo di questi giorni, mi costringe a limitarmi a una segnalazione veloce e parziale.



Dolce sguardo”, Ivana Casalino.

Davvero è un dolce sguardo quello che ci viene offerto da occhi infantili, grandi e intensi, occhi che nella loro amabilità sanno indagare e quasi sfidare la vita e il futuro. Le labbra sono serrate, senza sorriso, mentre i capelli sono coperti, negati, da un drappo viola. Uno sguardo dal basso verso l'alto che può palesare un'espressione di rimprovero per un'infanzia limitata e senza gioia, per una femminilità sottomessa e umiliata.

Ombre e luci”, Eleonora Tranfo.

Il confine tra interno e esterno, tra chiuso e aperto, tra dentro e fuori, enfatizzato dai giochi di luce, reso tangibile dalla barriera di una ringhiera coperta di vasi e piante, è simbolo del nostro essere da un lato ripiegati e nascosti in noi stessi, dall'altro chiamati a vivere tra gli altri, uomini tra gli uomini.

Nonostante il tema sia molto sfruttato, la pittrice sa darne un'interpretazione intensa, dove il confronto di luci e ombre porta a ricordare i giorni tristi del lockdown.

Dignità”, Luigi D'Amato.

La figura femminile è avvolta in una veste bianca e azzurra, un vaso rotondo in equilibrio sulla testa e un figlio sulle spalle, trasportati con nobile eleganza. La scena vive in un gioco di linee larghe e dai colori tenui, colte in un movimento essenziale, che si perde e quasi fugge annullandosi, nella perdita di riferimenti e dettagli. Poche volte ho potuto apprezzare altrettanto efficacemente come il semplificare e scomporre le figure, ne abbia mantenuto e impreziosito la bellezza. Quasi in un gioco di abilità, l'artista si è fermato nel momento in cui nulla più si poteva cancellare, senza fare crollare il miracoloso equilibrio raggiunto.



Geisha – Espressività e anima di un volto”, Tiziana Nocito.

La sensazione che ho provato davanti a quest'opera è quella di un oriente classico, rivisitato però con la sensibilità culturale dell'occidente. Probabilmente nessun pittore giapponese avrebbe mai rappresentato così una geisha, né come tecnica pittorica né come profondità di dettaglio, ma questo non costituisce assolutamente un limite a una figura che sa palesare freschezza e naturalezza, e riesce a fare convivere tradizione e modernità.

Vortice”, Silvia Perrone.

L'abbandono inebriato del corpo allo spazio, all'infinito, al trascendente. Una donna giovane che ritrova la propria identità e completezza, espande i propri sensi innalzandosi nuda, gli occhi chiusi serenamente, oltre il limiti e le costrizioni che le vengono quotidianamente imposti, superiore a ogni ipocrita giudizio, a ogni cultura maschilista, ai tentativi di ingabbiarla e sottometterla a regole ingiuste e mortificanti.

Nel suo sollevarsi verso l'alto non c'è trionfo o rivalsa, solo il respiro potente della libertà ritrovata.

Unicità”, Simonetta Secci

Si legge una tensione profonda, carnale, nel volto di donna che coglie e respira il profumo di un fiore. Un piacere assolto ed esclusivo, davvero la scoperta di una “unicità” preziosa, che va assorbita e vissuta nella sua totalità. Il viso si china verso la corolla, le narici sembrano dilatarsi, le labbra potrebbero posare sui petali un delicato bacio. Quel semplice bianco fiore è il premio cercato e trovato, quel tesoro per il quale vale il sacrificio di vendere ogni proprio bene. Forse quel piacere durerà solo un attimo, dopo sarà perduto per sempre, ma per un'emozione irripetibile si può sacrificare tutto.


Emanuele Pirella - Il copywriter mestiere d’arte – a cura di Marcello Sgarbi

 


Emanuele Pirella - Il copywriter mestiere d’arte (Mondadori)

Pagine: 133

ISBN 9788842810308


La pubblicità vista da uno dei suoi più grandi capiscuola, deceduto purtroppo una decina di anni fa. Parmense di grande cultura, Emanuele Pirella appena ventenne – venne consigliato a intraprendere la carriera di pubblicitario nientemeno che da Elio Vittorini e Italo Calvino. Dopo essere stato uno dei migliori copywriter italiani nonché direttore creativo di un’agenzia storica come “Italia/BBDO” - fondata insieme a Michele Göttsche e Gianni Muccini – da cui a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta sono usciti autentici talenti dell’advertising, in questo volume un po' saggio un po' autobiografia Pirella ribadisce l’approccio artigianale alla professione, nel senso più nobile del termine. Tanto da utilizzare il termine “mestiere” nel titolo, nell’accezione di “lavoro fatto bene”, con la stessa cura e la stessa passione delle botteghe rinascimentali. E per capire l’importanza che l’autore attribuiva al connubio fra testo e immagine basta ricordare l’esempio da lui stesso riportato nel suo libro, legato a uno dei più importanti pubblicitari di sempre: Bill Bernbach.                                                                                 In uno dei suoi annunci, il geniale americano scriveva: “Ecco le cose da fare alla Volkswagen ora che comincia l’inverno”. La pagina, sotto, era completamente vuota.

Le campagne più riuscite, quelle che sono riuscite a creare una forte personalità di marca e perciò un grande successo commerciale, costituiscono un esempio perfetto di miscela tra strategia ed esecuzione, fatti e spettacolo, prodotto e consumatore, regole ed arte. La necessità di porre regole e l’obbligo di uscirne è il tratto che unisce le grandi campagne pubblicitarie di ogni tempo, in ogni cultura”.

Vendere il prodotto è applicare le regole vecchie e richiede investimenti massicci, tante e tante pagine per farsi ricordare. È proprio ciò che tutti odiano della pubblicità. Farsi comprare è frasi scegliere per affinità, per amore, per desiderio, per amicizia. Proprio questo è creatività: il modo inaspettato per farsi comprare da un consumatore che ci desidera”.

© Marcello Sgarbi

20 maggio 2022

Cesare Pavese – La luna e i falò – a cura di Marcello Sgarbi


Cesare Pavese
La luna e i falò (Einaudi)

Pagine:174

Formato: Cartonato

ISBN 9788858409596

Cesare Pavese è uno dei più grandi scrittori italiani e uno fra i più rappresentativi di tutto il Novecento. “La luna e i falò”, considerato dal suo autore una “modesta Divina Commedia” e pubblicato nel 1950 - poco prima che si suicidasse in un albergo di Torino - è un capolavoro romanzesco ambientato in Piemonte nel dopoguerra, nei luoghi così cari a Pavese.

Anguilla, l’io narrante, protagonista e personaggio sicuramente autobiografico, torna nelle Langhe alla ricerca delle proprie radici dopo molti anni trascorsi in America. Il suo Virgilio è Nuto: amico d’infanzia, falegname, clarinettista, ma prima di tutto un’anima pura.

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo”.

I veri acciacchi dell’età sono i rimorsi”.

Gli ignoranti saranno sempre ignoranti, perché la forza è nelle mani di chi ha interesse che la gente non capisca”.

© Marcello Sgarbi


 

18 maggio 2022

Mario di Gianfranco Galante a cura di Vincenzo Capodiferro

 


MARIO

Un romanzo esistenziale profondo ed innovativo di Gianfranco Galante


«Mario è un entusiasta; un genuino trasportato sulle ali della semplicità. Un autentico, un verace che si concede sempre e spontaneamente. Vive la sua vita ancor, da che era bambino, giorno dopo giorno rimanendo fanciullo; sempre onesto, corretto e simpatico. Con la fantasia applicata ad ogni giorno della sua vita. È ingegnoso, servizievole, educato ed attento a non offendere “l’altro”. Impara in fretta e non ha paura di sperimentare. È la prova, vivente ed evidente, del pensiero filosofico per cui “la curiosità è ciò che manda avanti il mondo». Così esordisce Gianfranco Galante, descrivendo questo emblematico personaggio nel suo ultimo romanzo: “Mario”, uscito per Scriptores nel 2022. È un romanzo esistenziale, incentrato sulla figura di questo personaggio. È un romanzo meditativo, in cui si eleva la riflessione. Quello che si descrive sono i pensieri che si affastellano nella mente del protagonista in una sequenza che ci ricorda le associazioni libere freudiane, in una sorta di sperimentale auto-analisi, quasi sveviana. Ciò che si racconta è il proprio erlebnis, in un flusso vitale continuo, nel riflesso di un fiume eracliteo, ove è difficile ritrovare la posizione dello spettatore e del fiume: entrambi sono risucchiati nel flusso, in un flusso maggiore, come nei paradossi sulla temporalità, derivati dalle riflessioni di Mc-Taggart. Ogni flusso temporale è concentrico rispetto ad un altro: e così all’infinito. Si riflette a specchio sulle onde del mare il contrasto dell’infinito che si contrappone alla terra/finito: naufragar m’è dolce in questo mare: «Mario amava sedersi, ogni tanto, sulla terza panchina in quella bella terrazza a strapiombo sul mare. Era una grande piazza arredata da palme e contornata dalle stesse. I blocchi di marmo, che ne creavano giochi geometrici per terra, la illuminavano con il suo bianco candore. Ed i ciottoli, a corredo, davano quel senso di antico e rustico al tempo stesso. La vista, oltre la poderosa ringhiera, poteva vagare a perdita d’occhio sul mare, sulla curva dell’orizzonte, su per il cielo od in cerca di vele che facessero sognare. Mario sedeva sempre solo». Mario è un dialogo tra l’uomo finito ed infinito che accade in ognuno di noi. In questo dialogo si succedono inquietanti, romantici mutamenti: sturm und drang, sehnsutch, ironia, titanismo. Mario è come il Leopardi che da solo si siede a contemplare la siepe, ed immagina l’infinito. Mario è il “Viandante sul mare di nebbia”. Le emozioni si susseguono come in un turbine. Mario è ognuno di noi. Un nome, solo: Mario. Il nome di “Nessuno”. E come non indagare in questi concisi termini del titolo il tema pirandelliano dell’”Uno, nessuno e centomila”? Tema caro di quella “sicilianità” da cui anche Gianfranco proviene? Tema caro che riflette quell’ambiente contrastante e conflittuale tipico della patria del Verismo? L’uomo-maschera, l’uomo fenomenologico, si sviluppa soprattutto in quei contesti ove la libera espressione della personalità spesso è negata, calpestata. Il tema dei “vinti” lo ritroviamo spesso nella narrativa di Galante, come ad esempio in “La vita pretende dignità”, ed. Macchione, Varese 2021.

Vincenzo Capodiferro

16 maggio 2022

RIFORMA DEL CATASTO, UNA CORSA AD OSTACOLI Di Antonio Laurenzano


RIFORMA DEL CATASTO, UNA CORSA AD OSTACOLI

Di Antonio Laurenzano *

Restyling dai contorni incerti quello sul Catasto, nodo centrale della Legge delega per la Riforma fiscale. Dopo settimane di tensione e minacce di crisi, il faticoso accordo (o compromesso?) raggiunto nella maggioranza di governo rilancia la nuova mappa del fisco che, salvo imprevisti e imboscate parlamentari, dovrebbe essere approvata entro fine giugno, tale da consentire a Palazzo Chigi di lavorare ai decreti delegati, nel rispetto dei tempi fissati dal calendario del Pnrr.

Il nuovo Catasto, superando la strettoia di fine legislatura, scatterà nel 2026. Al di là di slogan e propaganda di alcuni partiti, non presenta grandi novità ai fini di un riequilibrio della tassazione sugli immobili, in particolare per una pressione fiscale sulle abitazioni più equa. Cancellata l’attribuzione esplicita di un “valore patrimoniale” agli immobili, ma sopravvive all’ultima limatura politica l’indicazione di una “rendita catastale ulteriore suscettibile di periodico aggiornamento”, da affiancare a quella già presente nella visura catastale. Questa rendita bis sarà determinata in base ai criteri di mercato previsti dal DPR 138/1998, quello che già consente ai Comuni di aggiornare i parametri catastali, e quindi le tariffe d’estimo, alle mutate condizioni degli immobili, rapportate anche alla revisione delle zone censuarie. In questa ottica, e ai soli fini informativi, per il Fisco sarà sempre possibile accedere ai valori Omi (Osservatorio del mercato immobiliare) che indicano i prezzi di mercato divisi per zone. Tramontata l’ipotesi di un archivio catastale basato sui metri quadrati delle singole unità immobiliari, più aderente alla realtà rispetto al vecchio e controverso criterio dei vani catastali.

Non si passa dunque da un regime catastale a uno patrimoniale basato su valori reali di mercato. Resta cioè l’incongruenza tra le rendite e i valori commerciali. Il Catasto italiano verrà progressivamente aggiornato, ma senza cambiamenti rispetto ai criteri attuali. Le risultanze catastali saranno le uniche utilizzabili per la determinazione della base imponibile dei tributi. Di fatto la riforma del Catasto è “svuotata” e perde ogni efficacia in termini di maggiore gettito previsto. “Si cambia tutto, per non cambiare nulla”: nelle grandi città immobili in zone centrali accatastati come case popolari che pagano meno rispetto ad abitazioni moderne di periferia che hanno rendite aggiornate. L’iniquità resta. Di certo arriverà una rinnovata caccia alle “case fantasma”, con una semplificazione delle comunicazioni e delle azioni di accertamento ai fini dei controlli sul territorio da parte degli enti locali. Il maggiore gettito scovato dall’evasione potrà essere utilizzato per ridurre le imposte sugli immobili regolari dello stesso Comune, in primis l’Imu. L’Agenzia delle Entrate ritiene che attualmente ci siano oltre 1,2 milioni di unità immobiliari urbane non censite in Catasto, senza contare i terreni edificabili classificati come agricoli. Una situazione fortemente critica che genera un’evasione fiscale delle imposte immobiliari di circa 6 miliardi di euro.

La mappatura degli immobili, e dunque la rilevazione dei beni non censiti, rappresenta il primo passaggio per il Catasto del futuro: l’obiettivo resta quello di dotare l’Agenzia delle Entrate di strumenti in grado di facilitare e accelerare l’individuazione e il corretto classamento degli immobili attualmente non censiti o che non rispettano la reale consistenza di fatto, la relativa destinazione d’uso, ovvero la categoria catastale attribuita. Le abitazioni sono suddivise in categorie e classi che riflettono ancora la situazione di quando la rendita è stata attribuita senza tenere conto di eventuali migliorie intervenute nel tempo. Basti pensare che 3,5 milioni di edifici residenziali tuttora esistenti sono stati costruiti prima del 1940 e la maggior parte ha subito importanti opere di riqualificazione. Ruderi diventati case di lusso, ville con piscina.

Considerando che l’ultima revisione importante del sistema di rilevazione catastale risale al biennio 1988-89, in previsione dell’arrivo dell’Ici, e i valori utilizzati sono gli stessi da 32 anni, nonostante i numerosi tentativi di revisione, risulta evidente che si tratta di un sistema di tassazione ormai distante dalla realtà, in cui è presente una grande disparità tra valore imponibile e valore di mercato, con grave ripercussione sulle entrate tributarie. Interessante a riguardo l’indagine conoscitiva svolta dal Corriere della Sera nel 2021: è stato messo a confronto il prezzo medio a metro quadrato di vendita rilevato dai rogiti dell’anno precedente e il valore medio delle rendite catastali. La differenza tra prezzo di mercato e valore fiscale è risultata a Milano del 174%, a Roma del 56%, a Napoli del 108% e a Torino del 46%.

Grande attesa dunque per l’ “operazione verità”. Ma sarà davvero il primo passo per migliorare l’equità del nostro sistema fiscale e rendere più trasparente la tassazione immobiliare? La tanto agognata riforma fiscale vedrà mai la luce? La sfida del futuro dovrà passare attraverso la riduzione del debito: la spesa pubblica non è una coperta che si può sempre allungare. Fare politica significa scegliere: quali obiettivi perseguire, quale sviluppo socio-economico promuovere, quali strumenti finanziari attivare per coprire le spese. Al Governo Draghi la “mission impossible” di conciliare progetti di crescita e realtà di bilancio per un Fisco in sintonia con i principi di solidarietà, equità e capacità contributiva sanciti dalla Costituzione.

*Tributarista


 

“Dislesia… ah no scusa, Dislessia” - Anna Rosa Confuorti Di Marco Salvario

 Dislesia… ah no scusa, Dislessia” - Anna Rosa Confuorti

Di Marco Salvario


Il libro “Dislesia… ah no scusa, Dislessia” è stato scritto da Anna Rosa Confuorti nel 2015. L'autrice, allora diciottenne, ha incontrato per un progetto sociale di divulgazione sedici ragazzi tra i dodici e i ventitré anni, affetti come lei da dislessia, un disturbo della lettura che rende difficile la concentrazione e l'apprendimento.

Le interviste non hanno reticenze o forzature, diventano subito confronto, ricerca di soluzioni, sfogo e confessione. Sorprende quanto questi ragazzi siano consapevoli di se stessi, nelle debolezze e nei punti di forza, e dei limiti della società in cui vivono; soprattutto, è il sistema educativo a venire messo in discussione, per le sue lentezze e rigidità.

Le domande all'inizio sono simili: Quando hai scoperto di essere dislessico? Quali sono i tuoi problemi? Come reagisce la tua famiglia? I compagni di scuola ti aiutano?

Le risposte cambiano, perché è diverso il carattere, l'ambiente, il livello del disagio.

Molti ragazzi mi hanno sorpreso per orgoglio, dignità, fiducia nel futuro; altri soffrono, si considerano emarginati, disprezzati e inferiori. Lo scopo del libro è di restituire a tutti coraggio e motivazione, e di pretendere per le loro fatiche, rispetto e aiuto.

Le ultime pagine, quasi un'appendice, riportano brevi interviste a insegnanti, genitori, assistenti e medici.

Sono due milioni gli studenti nella scuola italiana che soffrono di disturbi specifici dell'apprendimento e la dislessia è solo una delle forme. La dislessia non è una malattia, i suoi problemi possono essere superati o almeno ridotti utilizzando metodologie di studio appropriate, non sempre accettate dagli insegnanti o dagli stessi compagni di classe.


La scrittura agile e lo stile vivace rendono facile la lettura di queste 173 pagine formato pdf, che possono essere scaricate gratuitamente, accedendo al sito internet:

https://dislesia.wordpress.com

13 maggio 2022

Urlatori a cura di Miriam Ballerini


URLATORI

Tra gli anni 60 e 70 venivano definiti “Urlatori” quei cantanti che interpretavano le canzoni secondo lo stile urlato, ad esempio Adriano Celentano e Tony Dallara.                                             Ai giorni nostri, riutilizzerei questo termine per definire quanto, quotidianamente, va in onda in tv. Ho pensato di scrivere questo pezzo dopo aver letto del litigio fra Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini. Se io fossi un alieno e, per caso, dovessi trovarmi di fronte allo schermo acceso della tv, che cosa penserei di tutto ciò? Di due persone dai capelli bianchi, che non sanno usare la loro cultura, ma che si abbassano a beceri insulti da stadio, addirittura arrivando alle mani? Poi, sento uno dei due, Sgarbi, che da anni passa da salotto televisivo in salotto televisivo, offendendo, urlando, usando il turpiloquio, asserire che l'altro è un violento perché usa le mani! Siamo al delirio!                                                                                                         Di pomeriggio possiamo trovare una trasmissione dove, uomini e donne, si riunirebbero per trovare l'amore. E anche qui: urla, insulti. Una tipa obesa che fa l'opinionista, che pare quella del banco del pesce vestita a festa. Gli esempi che ne escono, poi: anziani insultati, donne offese da omuncoli che, vista l'età raggiunta, al posto loro, mi porrei qualche domanda sul perché non siano riusciti a trovare l'anima gemella.  Donne che hanno la finezza di un elefante. Ragazze giovani che si permettono di insultare persone più grandi senza nessun rispetto per l'età. Tutti esempi che meritano una standing ovation.                                                Alla sera ci si trova assillati da trasmissioni portate sullo schermo da giornalisti. Giornalisti? Uno di questi che urla come il peggiore straccivendolo, facendo leva sull'odio, sulla reazione di pancia, che tanto piace ai populisti. Gli altri che, pure, hanno ospiti che navigano sempre e solo in una direzione.                                                                                                                             Maree di fake news spalmate sul tavolo come golose chicche che, invece, sono solo bocconi indigesti per gli intelligenti, i prudenti, i pensanti, gli studiosi.                                                 Questo povero alieno che è in me, dopo aver passato una giornata a fare zapping, ne sono certa, tornerebbe di corsa nella sua amata terra lontana!                                                    Trasmissioni inutili, fatti per voyeur del pettegolezzo, basate sul nulla, che non hanno nessuno scopo, nemmeno quello dell'intrattenimento.                                                                                     Per non parlare dei social. Se è vero che ognuno di noi ha il legittimo diritto al proprio pensiero, non sarei così sicura che tale diritto si estenda anche ai social, dove ammorbare gli altri. Dove l'offesa, l'insulto, l'odio, il rancore per una vita che non si ha, l'invidia... debbano per forza allargarsi sulle pagine virtuali come tentacoli di strani polpi mutanti.                         Ma se per un minuto, non pretendo altro, ma solo per pochi secondi, una persona riuscisse a mettersi nei panni di chi sta offendendo, o al peggio tentando di distruggere; non verrebbe spontanea una semplice domanda? Ma perché lo sto facendo? Ma cosa ricavo da tutto ciò? La mia vita migliora? Ma davvero voglio vivere in un mondo così spigoloso?                                     Io voglio fare parte di tutt'altra schiera, spesso sentendomi davvero fuori posto in questo mondo del diamoci addosso, del distruggiamo l'altro con ogni mezzo. E anche voi, ma vi trovate bene a vivere così? Fra urla, che pure gli uomini preistorici ci invidierebbero? In questa sorta di evoluzione al contrario, dove tutto viene riportato alla legge del più forte, del più furbo?                                                                                                                                                 Ecco, io da bravo alieno, me ne andrei proprio, ma senza nemmeno doverci pensare troppo.


© Miriam Ballerini

Buona Pasqua

  Auguri di Buona Pasqua ai collaboratori, ai lettori, a chi passa per curiosità! A rileggerci dopo le festività!