31 maggio 2021

"Fiori di serra” esce con una nuova copertina e in veste rinnovata

 


"Fiori di serra” esce con una nuova copertina e in veste rinnovata


La prima versione di questo romanzo è uscita nel 2008 con la casa editrice Serel International di Genova. L'editore Stefano Termanini è stato il primo a credere nel mio romanzo e ad aiutarmi a fargli vedere la luce. In seguito, nel 2015, Eleonora lo Nigro della casa editrice Rapsodia Edizioni di Roma, ha voluto ridargli nuova vita e nuovo respiro. Purtroppo, il tempo passa e anche i libri “invecchiano”; i contratti scadono e bisogna fare delle scelte. Ecco il perché della mia decisione di ripubblicarlo. In questo romanzo ho sempre creduto molto, perché l'ho vissuto sulla mia pelle, entrando in un carcere e conoscendo di persona cosa accade all'interno di quelle mura e nell'animo delle persone che ci vivono o ci lavorano. Tutt'oggi sono in contatto con donne che allora erano detenute e, adesso, sono persone libere. Ancora oggi scrivo a detenuti che hanno bisogno di uno sfogo.

“Fiori di serra” ha ottenuto dei premi prestigiosi che elencherò qui sotto.

Nel 2009 e nel 2012 è stato adottato come libro di testo al liceo Maffeo Vegio di Lodi dalle terze per il corso di filosofia nel progetto “giustizia o vendetta”.

Nel 2008 – quarto classificato al concorso Internazionale Europa – Lugano, col patrocinio del Vaticano e del Parlamento Europeo.

Nel 2009 – terzo classificato al concorso nazionale Città di Fucecchio intitolato a Indro Montanelli. Nel 2016 – secondo classificato al Premio di poesia e narrativa Città di Arcore.

Da oggi lo potete trovare in formato cartaceo e in ebook su:


https://www.amazon.it/dp/B095PM254J/ref=tmm_pap_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=1622461723&sr=8-3


26 maggio 2021

"IL PONTE" - "VINCENZO NASUTO di Maria Marchese e Valeriano Venneri

 

"IL PONTE" - "VINCENZO NASUTO

 di Maria Marchese e Valeriano Venneri


"La metafora è il ponte che unisce il visibile con l'invisibile: il poeta è un costruttore di ponti"  (Raul Aceves) 


Nell'opera "Il ponte" , Vincenzo Nasuto esprime se stesso come il poeta, che tesse una metafora artistca: essa cela, tra trame e orditi materico/esistenziali, la significanza di una laiason temporale. 

Tra i pregevoli e setosi intrecci è serbato lo scorrere di istanti storici, culturali e emozionali, personali e corali. 

L'autore concreta sulla tela dapprima uno spazio esperienziale valendosi del gesso e attraverso quest'ultimo dirime solchi e rade, asprezze e soavità universali: crea così la dimensione sensoriale di una percorrenza umana.

Allora carezza questa terra con pregevoli e serici intrecci, addentro i quali serba lo scorrere di istanti storici, culturali e emozionali, personali e corali. 


Attinge poi ad uno dei disegni tra i più spettacolari dell’intera produzione Leonardiana, effigiandolo come genesi della narrazione artistica: il carro da guerra diviene portavoce del genio di quest'ultimo. 

«Posso costruire, poi, carri coperti, sicuri e inattaccabili, i quali col fuoco dei propri cannoni potranno penetrare tra i nemici senza che questi, per quanto numerosi, possano attaccarli. Dietro il carro potranno seguire le fanterie, in gran numero, illese e senza incontrare ostacoli...»


Questo scrive Leonardo da Vinci, in una lettera rivolta a Ludovico il Moro, nel 1492, presentandosi a corte e il progetto è volto maggiormente ad impressionare rispetto a disvelarne l'efficacia. 

Il Maestro Fiorentino mira, infatti, ad occupare un ruolo a corte; più tardi definì egli stesso la guerra una “pazzia bestialissima” e, commentando i 2 carri in questione, scrisse che “spesso fecero non meno danni alli amici che alli nemici”.

In questa "ouverture" artistica, Vincenzo Nasuto indova la significanza dell'acume, dell'ironia, della saggezza e della contezza di sé. 


Esse pregnano l'evoluzione tessutale del procedere temporale, conducendo l'osservatore ad un altro manufatto architettonico/ingegneristico: il ponte di Genova. 

L'autore tra i serici versi poeta battaglie, momenti gloriosi, l'impeto passionale e i flutti dell'anima: bianco, blu e rosso illuminano, preservano e inostrano celate vicende storico/esistenziali. 


Dal carro di Leonardo, simbolo di potenza, velocità e vittoria, Vincenzo Nasuto conduce l'osservatore, attraverso la sua preziosa veste metaforico/pittorica, ad un manufatto ingegneristico che effigia fallacità e disfatta. 


Tra i due apici progettuali egli indova l'avanzare dei secoli e altresì l'essenza dell'istante: è quest'ultimo che sposa gloria e castigo. 

Allora il nesso qual è?... Ci si chiede? 

La mirabile pienezza dell'attimo. 

"Nell'istante è contenuto il seme di tutta l'eternità" .  (François de Sales, XVII sec)

Nella fugacità dell'attimo coesistono la possibilità della fine e dell'inizio: l'intensità con cui si affronta quest'ultimo vivifica la gemmazione del futuro. 

Il carpe diem... il cogliere l'attimo diventa un obbligo esistenziale ed etico. 

Il passato insegna al presente leggi fisiche e morali che la società attuale, in molti frangenti, ignora.

Nasuto lavora le anime, le essenze e i suoi contorni vestendoli di preziosi tessuti che diventano sciarpe o Foulard d'autore.






L'opera è attualmente esposta presso Palazzo dei Rolli Gio Saluzzo n' 7,nel contesto della collettiva "ΓΕΦΥΡΑ:TRA PASSATO E PRESENTE" , il cui art director è lo storico dell'arte Valeriano Venneri e la cui curatela è stata seguita da Loredana Trestin e da Maria Marchese. 

24 maggio 2021

"Geometrie e colore" Simone Pannini a cura di Maria Marchese

"

GEOMETRIE E COLORE " SIMONE PANNINI di Maria

 Marchese

Colori

S'io riposo, nel lento divenire

degli occhi, mi soffermo

all'eccesso beato dei colori;

qui non temo più fughe o fantasie

ma la penetrazione mi abolisce.

Amo i colori, tempi di un anelito

inquieto, irrisolvibile, vitale,

spiegazione umilissima e sovrana

dei cosmici perché del mio respiro.

La luce mi sospinge ma il colore

m'attenua, predicando l'impotenza

del corpo, bello, ma ancor troppo terrestre.

Ed è per il colore cui mi dono

s'io mi ricordo a tratti del mio aspetto

e quindi del mio limite.

                           Alda Merini 


Simone Pannini dirime gli aneliti di quel respiro tra l'equilibrato vorticare cromatico promanato dai quesiti del proprio io... 


L'artista di Firenze, da sempre legato all'amore per l'arte, a 33 anni incontra l'approccio steinariano nei confronti di quest'ultima. 


Comprende, allora, che essa può diventare altresì un lenimento, e sposandola a proprie percorrenze meditativo/esistenziali addiviene ad un connubio intimo globale: il suo microcosmo assoluto entra in simbiosi con quello del fluire universale. 

L'opera "GEOMETRIE E COLORE" nasce durante un periodo di restrizioni e coercizioni sociali ma, per l'autore, coincide con il trasferimento in una zona rurale. Simone Pannini radica la propria essenza in quella terra, che annichila regole e malessere per favorire la liberazione del sé più limpido. 

Lontano dalla tossicità del caos, l'autore riesce infatti a traslare se stesso in un atto artistico, che appare all'occhio dell'osservatore come una danza cosmica dove il big bang torna all'Uno e, come tale, s'apre poi al cosmo. 

Pannini si imprime addentro ogni singolo colore e, vivificatosi in esso, muta in una fenice artistico/esistenziale...

Geometria, dal greco antico "γεωμετρία", composto dal prefisso geo, che rimanda alla parola γή "terra" e μετρία, metria - "misura" , tradotto letteralmente significa misurazione della terra. Secondo Steiner i due segni archetipo primievi sono la retta e la curva; la prima interessa il riconoscimento del bambino nella propria verticalità, intesa come percezione di sé nello spazio, attraverso l'equilibrio e il movimento. 



Lo spazio, in questo contesto, è quello emotivo e esperienziale dell'autore; l'unità di misura che dona forma a quest'ultimo è la curva, in quanto gesto archetipo che trasla lo "scivolare" dell'essere umano addentro le realtà che lo circondano. L'unità spaziale è invece l'immediatezza, determinata dal tempo di asciugatura del pigmento acrilico. 

Dall'ombra, contraddistinta dal colore nero, nella parte inferiore della tela, parte, si eleva e risolve il viaggio pindarico dell'autore: ivi egli si perde, gioca, cerca, si ritrova e torna al proprio penetrale cosmico come pregevole "uccello d'Arabia" , che alia dall'oscurità all' "al di là" . 

L'artista fiorentino in essa indova morbidi accenti cromatici, che pongono l'attenzione sulla significanza di uno spontaneo e ludico gemmare di stati cognitivi e emozionali. 

Essi convergono in mirifiche epifanie, si seducono e "fanno all'amore" , coinvolgendo l'osservatore nell'eloquio tonale. 












Passionalità, meditazione, piacere terreno, innocenza, veridicità, energia... nascono da naturali sodalizi amorosi tra intensità tonali, che partono dalla pura geometria del colore e addivengono a terre cromatiche di mezzo, che acquisiscono una sensatezza propria. 


L'energia promata dal colore arancio avrà quindi origine dall'incontro tra giallo e rosso e evolverà poi in una possanza propria, nata dal digradare nella sfera vibrazionale di un altro tono. 


Così, in quest'opera, accade per altri incontri. 

Come poeta Alda Merini, il colore attenua, predicando l'impotenza

del corpo e la sua finitezza... 

In "GEOMETRIE E COLORE" , Simone Pannini effigia il donarsi della poetessa al colore per frangere la limitatezza della sfera terragna. 

"Lasciami, oh lasciami immergere l’anima nei colori; lasciami ingoiare il tramonto e bere l’arcobaleno"  (Khalil Gibran) 

Questa declamazione di Gibran trova contezza nell'opera di Simone Pannini: quando presenza e assenza, materia e nulla divengono un tutt'uno e permeano  colore e forma accade che s'annichilino nella presenza di una nuova realtà sinestetica. 

L'opera è attualmente esposta presso Palazzo dei Rolli Gio Saluzzo, nel contesto della collettiva ΓΕΦΥΡΑ: TRA PASSATO E PRESENTE,


il cui art director è Valeriano Venneri, storico dell’arte, e la cui parte curatoriale è stata seguita da Loredana Trestin e Maria Marchese.  

“LA MAESTRINA DEL COPACABANA” di Enea Biumi a cura di Vincenzo Capodiferro

 


LA MAESTRINA DEL COPACABANA”

Raccolta di racconti, misticamente realistici, di Enea Biumi

La maestrina del Copacabana” è una raccolta di racconti di Enea Biumi, edita da Genesi, Torino 2021: risultata vincitrice a “I Murazzi per l’inedito 2020” (Dignità di stampa Narrativa). Riportiamo uno stralcio della motivazione della giuria: «I cinque racconti del noto scrittore varesotto Enea Biumi, riuniti nel libro… risultano ambientati nell’arco di anni che va dal fascismo fino all’affermazione in Italia della civiltà dei consumi e del welfare, ma mantenendo uno sguardo di particolare attenzione al ceto contadino e per lo più piccolo-borghese, con qualche eccezione riservata ai ceti più agiati e ristretti della società…». Ah ceto contadino! Nostalgia degli intellettuali di tutti i tempi! Chissà perché? Mi fa ricordare con affetto quella civiltà contadina che anche io ho vissuto nella mia fanciullezza, quella civiltà tanto celebrata da Carlo Levi nel suo “Cristo” e perché no? Da Pier Paolo Pasolini nel suo “Vangelo”, girato a Matera. Quel bucolico Tityre tu patulae…! Sandro Gros-Pietro ci dà una sintesi dell’opera di Biumi: «Il racconto iniziale fornisce il titolo all’intero libro e mette a fuoco … la bigotteria maccherona … della vita provinciale»: la protagonista è una “maestrina” di scuola elementare, Nuccia, che si fa chiamare Schilly, quando fa l’«intrattenitrice di locali notturni». «Nel secondo racconto si assiste ai divertenti e tortuosi percorsi di avanzamento sociale dell’intraprendente e galante Serafino che da trovatello riesce ad emergere…». «Il terzo racconto si dipana intorno al fil rouge dei luoghi sacri al poeta Ungaretti…». Il quarto racconto si presenta come romanzo breve, come sottolinea il Gros-Pietro, ed ha come protagonista «(…) un vecchio che rivede la sua esistenza, fino all’ultimo respiro». L’ultimo racconto è l’unico ad essere ambientato in un contesto di personaggi decisamente agiati, nel quale il maestro di windsurf compie la sua scalata fra piaggerie, incantamenti e meschinerie». A dire il vero anche la borghesia è scomparsa come ceto, non c’è più, c’è solo la sua ombra che viene inseguita come un mito. Ed anche gli operai, dove sono? Oggi abbiamo una massa amorfa e “baumaniamente” liquida, sulla quale galleggiano solo i super-capitalisti, nascosta nei loro club fantasmagorici. Biumi ci sorprende sempre, tanto che non ci peritiamo se lo sentiamo definire il novello Chiara. Ci offre in questa raccolta la sintesi di modelli ideal-tipici - nel senso weberiano - sociali: la maestrina, il povero risalito, il vecchio, il nobile caduto. Il proverbio antico diceva: Dio ci liberi dal povero arricchito e dal ricco caduto in povertà. Questo forte disagio sociale lo ritroviamo riportato in questi personaggi senza tempo, i quali come maschere pirandelliane (e ben conosciamo la passione teatrale del Nostro) sono sempre attuali. Noi lasciamo al lettore di gustare questi fantastici cinque piatti letterari, ci vogliamo soffermare solo su alcune riflessioni. La prima è la figura della maestrina, egregiamente tratteggiata dal Nostro: «Schilly… era insegnante al Pio Istituto del Sacro Cuore di Gesù. Aveva scelto quel lavoro non per vocazione ma per imposizione. Non che le piacessero i bambini. Tutt’altro. Ma avrebbe preferito un altro impiego. Magari segretaria. O consulente. O hostess. O animatrice dei villaggi vacanze. E invece… fu subito assunta… Sua madre, un tempo maestra… le fece da garante. Nonostante ciò il suo comportamento era irreprensibile. Nessuno avrebbe mai potuto avere alcunché da ridire. Mai la si era vista civettare con uomini, mai un alterco con chicchessia, mai un atteggiamento ambiguo… Anche il suo abbigliamento …». Che dire? Magistrale introspezione psicologia di una figura cardine che ha deformato intere generazioni. Inutile ribadire che maestrina era la madre di Benito Mussolini, Rosa Maltoni, e che lo stesso Benito era un maestro di scuola. Il fascismo deriva da questa malattia. L’altra riflessione che volevamo fare su quest’opera di Biumi concerne naturalmente il grande Ungaretti: è il terzo racconto, “Una corolla di tenebre”. È un omaggio al grande, vero, autentico maestro, che si contrappone alla figura della maestrina. Tra l’altro in una nota sottolinea: «Queste pagine, a firma di Giuliano Mangano, si salvarono dalle rovine della Casa editrice milanese «La Mentira», una volta domato l’incendio che nell’ottobre del 2017 la devastò quasi totalmente». È una parafrasi narrativo-esistenziale de “I Fiumi”: «Se Ungaretti nel torbido della Senna si è rimescolato e conosciuto, anch’io con il mio itinerario, al Nilo alla Senna, come il Poeta, ho compreso ci fossi, in quei fiumi ho ritrovato me stesso». Un commento che Faceva Francesco Puccio a “I Fiumi” di Ungaretti: «L’immersione nelle acque, secondo il simbolismo che è ad esse proprio, comporta una morte iniziatica, cui segue una rinascita, una riconquista dell’identità perduta ed un’espansione dell’Io a tutte le modalità dell’esistenza» (Testi e intertesti del Novecento, Lecce 2000, p. 441). Così per il nostro Enea questa immersione nel fiume eracliteo (Panta Rei) dove l’acqua non è mai più la stessa, è un battesimo vero e proprio, una purificazione, una catarsi, che si sviluppa – aristotelicamente – attraverso l’arte, soprattutto l’arte tragica. Enea Biumi, pseudonimo di Giuliano Mangano, è nato a Varese nel 1949, si è laureato in Lettere all’Università Statale di Milano. Ha insegnato per tanti anni nelle scuole superiori, dove ha diretto anche un laboratorio teatrale. Ha pubblicato diverse opere: le raccolte di poesie “Viva e abbasso” (1985); “Le rovine del Seprio” (2010); “Il seme della notte” (2014); il romanzo “Bosinata” (2014). È presente nell’antologia degli scrittori varesini “I stràa d’ra Puesìa” con la raccolta “Quàtar vèers tiràa de sbièss” (2012). Ha collaborato a diversi volumi, come: “Consorzio Casa di Milano: 1962-1972” (1973); “Il movimento cooperativo italiano”, Baldini e Castoldi 1975. Ha scritto opere teatrali. Ha tradotto poeti in lingua castigliana di area sudamericana in collaborazione con Maria Luz Loloy Marquina. È stato direttore con Martin Poni Micharvegas della rivista “I poeti nomadi”. Fa parte del “Cenacolo dei poeti e prosatori varesini e varesotti”. 


Vincenzo Capodiferro

Enrico Brizzi – Jack Frusciante è uscito dal gruppo – a cura di Marcello Sgarbi


Enrico Brizzi
– Jack Frusciante è uscito dal gruppo – (Edizioni Mondadori)


Collana: Oscar 451

Pagine: 160

Formato: Tascabile

EAN: 9788804685098

Jack Frusciante è uscito dal gruppo” - da cui l’omonimo film diretto nel 1996 da Enza Negroni e interpretato da Stefano Accorsi e Violante Placido - rappresenta l’esordio letterario di Enrico Brizzi. Il titolo, modificato solo per ragioni di copyright, fa riferimento al reale abbandono del chitarrista (John, nella realtà, e non Jack) della band americana di cross-over dei Red Hot Chili Peppers, nel bel mezzo del tour di successo “Blood Sugar Sex Magik”. E come nel caso del Pier Vittorio Tondelli di “Altri libertini”, anche qui lo scenario dell’insolita storia d’amore adolescenziale fra due ragazzi degli anni Novanta - Alex e Adelaide, detta Aidi - è Bologna.

Da una banale telefonata di lei scaturisce l’innamoramento di lui, che già dal loro primo incontro capisce quanto la sua vita sia stata monotona fino a quel momento. E da lì in poi veniamo trascinati in un racconto dove al romanticismo fa da contrappunto una scrittura vibrante e frenetica, accompagnata da una colonna sonora densa di aneddoti, canzoni e nomi di band.

Se sei un barbone, un drogato, un immigrato, un albano, sei fottuto. Ti isolano, sei fuori dal gruppo. Poi, il gruppo ti lascia più o meno in pace e in disparte all’inizio, fino a quando non ne fai una troppo grossa, e allora finisci in galera”.

Il vecchio Alex era uno a cui non andavano bene le prepotenze e l’arbitrio dei forti, uno che aveva camminato controcorrente con l’acqua alla cintola, fino a quando non era arrivata un’onda troppo grande che l’aveva trascinato via”.

Questa non è una ragazza, è un intero disco di Battisti”.


© Marcello Sgarbi

20 maggio 2021

IL PIANO DI DRAGHI PER SALVARE L’ITALIA di Antonio Laurenzano

 


IL PIANO DI DRAGHI PER SALVARE L’ITALIA

di Antonio Laurenzano

Sotto esame a Bruxelles il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) presentato dal Governo Draghi alla Commissione europea. In 300 pagine il “destino del Paese e il ruolo internazionale dell’Italia”: un lungo ventaglio di riforme, investimenti, finanziamenti che, “se prevarrà il gusto del futuro su corruzione, stupidità e interessi costituiti”, spingeranno il Pil nel 2026 al 3,6% rispetto allo scenario base tendenziale. Un progetto ambizioso affidato a “uomini pronti a sacrificarsi per il bene comune”, nel ricordo di De Gasperi e del suo “spirito repubblicano”, espressione dell’unità del Paese nei giorni difficili della ricostruzione postbellica.

In gioco un tesoretto. Nel complesso, il Piano d’interventi vale 221,5 miliardi di euro, di cui 191,5 (68,9 in sovvenzioni e 122,6 in prestiti) sono quelli previsti da Next Generation EU, da impegnare tutti entro il 2026. I rimanenti 30 miliardi si riferiscono al Fondo complementare alimentato con lo scostamento di bilancio per i progetti esclusi dai fondi Ue. Un Recovery Plan articolato in sei missioni: digitalizzazioni, rivoluzione verde e transizione ecologica, infrastrutture per una mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione sociale, salute e sanità pubblica. Parte integrante del Piano sono le riforme, innanzitutto Pubblica amministrazione e Giustizia, senza tralasciare fisco, infrastrutture, concorrenza e appalti.

Il progetto Next Generation EU rappresenta per i Paesi dell’Unione un’iniziativa fortemente innovativa rispetto al complesso dei mezzi finanziari a disposizione che si concentrano, in particolare, sul comparto trasversale legato alla transizione digitale ed ecologica. Un volano per stimolare in modo significativo gli investimenti pubblici a sostegno della domanda aggregata, premessa della ripresa economica. Per i Paesi ad alto debito come l’Italia, debito che la pandemia ha innalzato in modo significativo, un efficace programma di investimenti accompagnato da ambiziose riforme strutturali è la sola opzione praticabile per riportare il rapporto debito/pil su un piano di sostenibilità, puntando ad accrescere l’impatto del denominatore sull’evoluzione di lungo periodo del rapporto in questione.

L’uso ottimale dei fondi europei si misurerà sulla qualità dei progetti di riforma e di investimento pubblico, ma anche, se non soprattutto, sulla capacità di trainare l’intrapresa privata e riportare tra le famiglie la fiducia nel futuro, fiducia che condiziona sia la loro propensione al consumo sia la loro voglia di investire in capitale umano. Pertinenza, efficacia, efficienza e coerenza saranno le specifiche aree di valutazione del Recovery Plan da parte della Commissione Ue e l’attenzione sul Piano italiano sarà altissima. L’Italia è il Paese destinatario della quota maggiore di risorse, tra sovvenzioni e prestiti, e la capacità di restituire i prestiti di cui tutti gli altri Stati membri si sono fatti garanti dipende dal modo in cui queste risorse verranno spese.

Il Recovery Plan di Mario Draghi dovrà creare le condizioni per la ripresa dalla pandemia liberando debolezze e carenze croniche per ridisegnare l’economia del Sistema Paese. Un esame particolarmente rigoroso attende dunque l’Italia. Un esame semestrale dei risultati del Piano ai quali saranno condizionati i fondi europei. Sotto controllo il raggiungimento degli obiettivi, la tempistica e soprattutto la reale capacità del Belpaese di vincere il nemico di sempre fatto di burocrazia, accidia, fatalismo, improvvisazione, corruzione. Un micidiale mix che, se associato alla inerzia istituzionale, potrebbe pregiudicare in maniera definitiva la vita delle future generazioni.

Tocca ora al senso di responsabilità di tutte le espressioni politico-parlamentari superare gli interessi elettorali di bottega e ricercare una soluzione strategica unitaria che rimetta l’Italia sulla strada di uno sviluppo socio-economico durevole nel solco della sua storica vocazione di Nazione co-federatrice dell’Europa Unita. Una road map credibile, proiettata verso un futuro comunitario condiviso, perché, ha ammonito il premier Draghi, “il Piano è questione non solo di reddito e benessere, ma di valori civili e sentimenti che nessun numero e nessuna tabella potrà mai rappresentare”. Un salto di qualità per mostrarsi all’altezza della sfida.

18 maggio 2021

Stop piombo sulle Alpi


 Per firmare clicca qui: https://www.change.org/p/provincia-di-sondrio-stop-al-piombo-nella-caccia-basta-rapaci-intossicati

Ambrogio Borsani – Addio Eden – a cura di Marcello Sgarbi

 


Ambrogio Borsani
– Addio Eden – (Edizioni Neri Pozza)


Collana: Tascabili

Pagine: 171

Formato: Tascabile

ISBN: 9788873059776


Che cos’hanno in comune Herman Melville, Robert Louis Stevenson, Paul Gauguin, Thor Heyerdahl e Jacques Brel? Il fatto che hanno trascorso parte della loro vita o addirittura l’hanno conclusa nei mari del sud, alle isole Marchesi. Curioso, no? Questo e altro possiamo scoprirlo in “Addio Eden”, un tributo al viaggio tema molto caro all’autore, ripreso anche in altre sue opere – ma soprattutto un elogio della fuga e delle anime inquiete dei nomadi, come si può evincere da questo stralcio: "Forse gli unici veri viaggiatori sono proprio quelli innamorati della deriva. Quelli che non sognano di tornare. Quelli che soffocano in una nuova meta i pruriti delle radici". Ambrogio Borsani, ex direttore creativo di importanti agenzie nonché docente di "Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa" all'Università Orientale di Napoli, in queste pagine avvincenti merito anche dell’Io narrante - rende vive le figure di grandi uomini del passato che hanno cercato il loro paradiso perduto.

Fuggire per cercare il luogo della felicità. E poi scoprire che la mappa di quel luogo è nascosta dentro di noi e ci indica una zona della vita che si trova sempre in un ipotetico sud-est. A sud-est di qualsiasi punto dove noi andiamo a collocarci. È un luogo dove pensiamo possa esserci il segreto della nostra origine. Dove speriamo di trovare una crepa nella volta celeste aperta sull’infinito. Uno squarcio che lasci intravedere l’eternità.

L’uomo che si muove per il mondo, che si chiami Agostino di Ippona o Arthur Rimbaud, cerca almeno la visione di quel punto magico dove pensa esistano gli unguenti per curare le piaghe della sofferenza.

Scomparire, cancellare le tracce in una società consumata e prevedibile per ricrearsi una vita nuova, in un’altra società. Questo dev’essere il pensiero dominante che molti si portano dentro per anni senza mai attuarlo. Qualcuno però esplode e prende strade senza sbocco. Magari attratto da terre dove la leggenda vuole che abiti la felicità.

Chi cerca il paradiso in un luogo geografico diverso da quello in cui vive, probabilmente è stato scottato dall’inferno. Allora tenta di distanziare l’abisso. E pensa, si illude, che anche la terra, il clima, lo scenario abbiano una componente fondamentale nella ricerca di una pace interiore. Qualcosa di vero ci deve essere se il sud invoglia maggiormente alla deriva. Al nord si tentano più le carriere professionali che le ricerche esistenziali.

Più si sale verso i ghiacci e più la cupezza scende sulle anime. È difficile trovare al nord uomini che abbiano espresso serenità nelle loro opere. Al Polo non c’è sorriso.

Quasi impossibile trovare un umorista nordico.


© Marcello Sgarbi

12 maggio 2021

LIBERAZIONE 2.0 MARCO NAVA di Maria Marchese

 

LIBERAZIONE 2.0 MARCO NAVA    

di Maria Marchese 





















Marco Nava si ispira all’opera “La liberazione di S. Pietro” (affresco 1513-1514) , del Maestro Raffaello Sanzio, per risolvere le 3 scene, che compongono la rappresentazione, in un unico atto artistico: esso involve la significanza di una liberazione assoluta. 




L’artista ferrarese edifica un solido abito materico, che muta in dimora della dissertazione: costruisce infatti un nucleo che preservi questa preziosa rivelazione. La naturalezza del legno diviene indicativa di veridicità; la veste, invece, vede l’alternarsi di terre odorose della rude preziosità del tempo e di passione, e altresì di rade soprasensibili. 
Un connubio, questo, che suggella il legame tra passato, presente, concretezza e introspezione spirituale.
Marco Nava identifica le prime coi colori ocra, oro e rosso mentre le seconde le libera con il grigio/viola. 























Realizza così un eloquio materico/cromatico che parla di storia e di appartenenza, addentro un divenire nell’ottica del ricongiungimento tra la sfera umana e quella divina.
Dall’esterno si può percepire il senso di una preziosità artistica che ricorda l’arte del kintsugi giapponese, ove il collante e la doratura sono accorpate, entrambe, nella significanza della maturazione evolutivo/riflessiva.
La scelta della forma stessa del costrutto, letta in chiave cabalistica, conduce ad una visione dello scorrere tempo lineare. Ciò comporta, rispetto alla tradizione che vede quest'ultimo procedere secondo un cammino speso  lungo una rotta circolare e, quindi, approdare nuovamente al punto di partenza, il dirimere se stessi nell'ottica di un cambiamento. 


L’autore apre poi uno spiraglio… una soglia appena percettibile: essa si manifesta come laiason, che coinvolge immediatamente l’osservatore. In questo modo l’artista appassiona un'unica persona alla volta. 
Avvicinando l’occhio a quel luminoso aleph, il fruitore vedrà riflesso l'occhio stesso e l'ineffabile costrutto pitto/plastico, entrando simultaneamente in sinergico dialogo con il proprio sé e con il contesto. 



L’artista neoavanguardista realizza, tra quelle pareti, la prigione, sollevandola dalla vicenda biblica per allignarla nella dimensione di una metafisica realistica: le fattezze sono infatti quelle di una nicchia muraria, alleggerite però dalla scelta cromatica operata da Marco Nava, che conduce all’atmosfera 
dell’incertezza ma anche a quella del cambiamento e delle nozze tra superno e terragno.




















Le figure non esistono più: l’autore enfatizza la forza della chiarificazione divina, traducendola nella presenza vivibile di una mano, espressa nell’obrizo del divino.




A quanto possiamo discernere, l’unico scopo dell’esistenza umana è di accendere una luce nell’oscurità del mero essere.
(Carl Gustav Jung)

Con "Liberazione 2.0"  , Marco Nava traduce in un istante artistico la possanza della presa di coscienza, che sopraggiunge unicamente quando l'essere umano suggella l'armonia con il proprio io più intimo e con la parte divina, che in esso è custodita. 
Entra allora in comunione con il fluire universale: il ricongiungimento con l'essenza divina divelle, quindi, la cella umana, assolvendolo dalla prigionia del mero essere, da Jung sopra citato.
Attraverso quest'opera, l'artista di Ferrara esplicita un messaggio fondamentale, attuandolo in maniera scelta e inusuale. 
L'opera sarà presente alla collettiva ΓΕΦΥΡΑ:TRA PASSATO E PRESENTE, che si terrà a Genova dal 5 al 31 Maggio. 

10 maggio 2021

“IL VIAGGIO” DI LILIANA BASSANETTI Una raccolta poetica delicata e soffice a cura di Vincenzo Capodiferro

 


IL VIAGGIO” DI LILIANA BASSANETTI

Una raccolta poetica delicata e soffice


Liliana Bassanetti è nata a Tradate nel 1963 e vive nella bassa comasca. Ha pubblicato “Il viaggio”, con Elpo Edizioni, Como aprile 2021. Liliana da sempre ama la lettura, «negli ultimi anni ha iniziato a scrivere poesie, ispirandosi al mondo circostante, miscelando tra loro esperienze proprie e altrui, emozioni e fantasia». Ha partecipato a numerosi concorsi ed ha conseguito anche importanti riconoscimenti. Questa è la sua prima esperienza di pubblicazioni e noi incoraggiamo queste giovani leve che si dedicano alla letteratura. Leggiamo nella prefazione: «Leggere le poesie di Liliana Bassanetti è spalancare una grande finestra sul mondo e scoprire di essere cercati, guardati, scossi. A cercarci, a guardarci e a scuoterci sono le sue poesie che, con il loro carico di emozioni … ci consolano… Liliana ha il coraggio della poesia…». Ed è proprio così. Il poeta è colui che si apre al mondo. Il “mondo” si esprime come diceva Heidegger in un orizzonte aperto, al contrario di “terra” che indica, invece, una chiusura. La raccolta si apre già col tema molto forte e ricco del viaggio: Ed eccomi qui/ sul medesimo vecchio binario,/ con una valigia non più leggera e pronta/… ma pensare e ingombra/ di persone, di affetti, di tanti ogni nascosti. Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi, scriveva Marcel Proust. La vita stessa è un viaggio. Il binario ci fa ricordare non solo il viaggio quotidiano che compivamo nei tragitti lavorativi da una scuola all’altra, ma il viaggio dell’emigrazione, con la valigia di cartone, ricca di poverissime cose. Mi ricordo che un anno viaggiavo con mia nonna sul treno che prendemmo a Sapri per Milano e che portava degli scatoloni in testa, come si usava fare. Ad un certo punto si ruppe lo scatolo e rotolavano delle forme di cacio. Liliana ha visto Matera, città a me cara, perché sono lucano: Non sassi ripudiati/ ma pietre vive nelle quali/ in un canovaccio di tufo/ convivono e si sostengono/ pace e povertà… A pensare che tra quei Sassi convivevano uomini e armenti. Tanto dovette essere sublime quella immagine da attirare il Pasolini nel suo “Vangelo”. Ne “Il viaggio” troviamo vari temi. Come quando si sta su di un treno e si guarda dal finestrino, ecco che appaiono quelli che Liliana chiama Scatti d’autore: Le fotografie sono poesie/ scritte con gli occhi/ da leggere con il cuore. Come non ricordare i cipressi carducciani? Sottolineiamo in particolare il tema della guerra, in “Soldato di ogni tempo”: Io soldato di ogni guerra e di ogni tempo/ sono partito con l’impeto di un bambino…/ Ho lottato contro nemici invisibili/ controllate da potenze ingorde di benessere. Qui si rincorrono sfumature ungarettiane, ma anche di Quasimodo, c’è una eco lontana di “Uomo del mio tempo”. La guerra diviene interiore, assume una dinamica diversa, diviene guerra virtuale, contro nemici che non si vedono, ma i sono. I versi di Liliana sono tutti da gustare, e si potrà assaporare la delicatezza di una poesia vergine e pura.


Vincenzo Capodiferro

Alessandro Baricco – Oceano mare – a cura di Marcello Sgarbi

 


Alessandro Baricco
Oceano mare (Edizioni Feltrinelli)


Collana: Universale Economica

Formato: Tascabile

EAN: 9788807883026


Alessandro Baricco non ha bisogno di presentazioni. Personalmente e in tutta modestia – ne ho un parere un po' altalenante. In “Castelli di rabbia”, per esempio, non mi ha convinto. In “Oceano mare” – forse perché sono molto legato all’acqua – mi ha invece trascinato a capire di più. Perché quando l’ho terminato, il romanzo con cui Baricco si è confermato come uno dei più interessanti scrittori italiani, mi ha lasciato questa impressione: cercare di comprendere.

È chiaro che il mare, qui, è metafora dell’esistenza. E la locanda Almayer è il teatro dove, al limite con il surreale, si intrecciano le storie personali e le vicende dei protagonisti: è un luogo-non luogo. In realtà, l’incrocio di più destini.

Quello del professor Bartleboom, che cerca di stabilire dove finisce il mare. O del pittore Plasson, che per i suoi quadri usa solo l’acqua marina. O ancora della giovane Elisewin, che nel mare dovrebbe trovare la sua guarigione. Con uno stile caratterizzato da un continuo variare di registri, fino a sfiorare il poetico, in “Oceano mare” Baricco ci guida verso l’ignoto.

Sapete, è geniale questa cosa che i giorni finiscono. È un sistema geniale. I giorni e poi le notti. E di nuovo i giorni. Sembra scontato, ma c’è del genio. E là dove la natura decide di collocare i propri limiti, esplode lo spettacolo. I tramonti”.

La vita si ascolta così come le onde del mare… Le onde montano… crescono... cambiano le cose… Poi, tutto torna come prima... ma non è più la stessa cosa...”.

Chi l’avrebbe mai detto che baciando gli occhi di un uomo si possa vedere così lontano”.


© Marcello Sgarbi


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