30 maggio 2020

Elias Canetti La lingua salvata a cura di Marcello Sgarbi



Elias Canetti

La lingua salvata – (Edizioni Adelphi)

Collana: Biblioteca Adelphi
Pagine: 365
EAN 9788845904172

L’infanzia è uno dei luoghi più frequentati della letteratura e insieme unico, tanto quanto sono diversi i modi di guardarlo degli autori classici e contemporanei. Senza grandi prospettive, se visto dagli occhi di due perdenti dickensiani come David Copperfield e Oliver Twist. Ridicolo e grottesco, quando si osserva dal basso in alto e con un occhio un po’ strabico sulla realtà, come succede ad Oskar Matzerath in Il tamburo di latta di Günter Grass. Surreale e imprevedibile se la realtà viene addirittura capovolta ad arte, come capita ai signori bambini di Daniel Pennac. Uno degli sguardi retrospettivi più indagatori è quello di Canetti.
Lucido e implacabile, mette a fuoco i ricordi e ce li consegna nitidi come fotografie. Immagini che scaturiscono vivide dalle pagine scritte e ci catturano, perché ci portano a guardare alla nostra stessa vita e alle figure famigliari, a rivivere il rapporto con i nostri genitori, il tempo della scuola e i momenti legati alle amicizie.

Il nonno mi guardava con un sorriso astuto e domandava a voce bassa: A chi vuoi più bene, al nonno Arditti o al nonno Canetti?’. La risposta la sapeva, tutti, grandi e piccini, erano innamorati del nonno Canetti, mentre lui non era simpatico a nessuno. Ma volendo costringermi a dire la verità, mi metteva nel più tremendo imbarazzo, ed evidentemente godeva moltissimo a vedermi lì sulle spine, dal momento che ogni sabato si ripeteva immancabilmente la stessa scena. Io da principio non dicevo niente, lo guardavo smarrito, ma lui ripeteva la domanda fino a quando io trovavo la forza di mentirgli e dicevo: ‘A tutti e due!’”.

Avevo diciannove anni quando a Vienna mi trovai davanti ai quadri di Bruegel. Riconobbi immediatamente le molte minuscole figure dell’incendio della mia infanzia. Quei quadri me li sentivo familiari come se li avessi avuti sempre davanti agli occhi. Provai per essi un’attrazione straordinaria e andavo a rivederli ogni giorno.
La parte della mia vita cominciata con quell’incendio proseguiva immediatamente in quei quadri, come se nel frattempo non fossero passati quindici anni.
Così Bruegel è diventato per me il pittore più importante di tutti, ma non l’ho acquisito, come tante altre cose più tardi, con la contemplazione o la riflessione. L’ho ritrovato dentro di me, come se mi avesse aspettato già da molto tempo, sicuro che un giorno sarei arrivato a lui”.

Poi Laurica cominciò ad andare a scuola e restava fuori tutta la mattina.
Sentii molto la sua mancanza. Giocavo da solo e l’aspettavo; quando arrivava a casa, l’andavo a prendere al cancello e la tempestavo di domande su cosa aveva fatto a scuola. Lei mi raccontava, io cercavo di immaginare e mi veniva una gran voglia di andare a scuola anch’io per stare insieme a lei. Qualche tempo dopo tornò a casa con un quaderno, stava imparando a leggere e scrivere. Lo aprì solennemente davanti ai miei occhi, il quaderno conteneva, in inchiostro blu, quelle lettere dell’alfabeto che erano per me la cosa più affascinante che avessi mai visto”.

(c) Marcello Sgarbi

27 maggio 2020

Lisia – Per l’uccisione di Eratòstene Di Marco Salvario



Lisia – Per l’uccisione di Eratòstene
Di Marco Salvario


Lisia è da sempre ritenuto uno dei più grandi oratori dell’antichità. Nato ad Atene nel 445 a.C., non riuscì mai a ottenere la cittadinanza in quanto figlio di uno straniero, un siracusano apprezzato fabbricante di scudi. Il fatto che, nonostante le sue capacità, la sua reputazione e i suoi meriti verso la città più importante dell’Attica, Lisia non sia mai stato accettato a pieno titolo in quella che, nella nostra fantasia, è la patria della democrazia, ci mostra come la celebrata Atene, sempre contrapposta alla violenta e primitiva Sparta, fosse in realtà una città egoista e gelosa dei propri privilegi; gli immigrati avevano pochi diritti, erano sfruttati e soggetti a tassazioni gravose. Nulla di nuovo sotto il sole.
Di Lisia sono giunte fino a noi una trentina di orazioni delle oltre quattrocento che sembra abbia composto. Il suo stile è elegante, pacato, ben strutturato, molto diverso da quello impetuoso e trascinante di un Demostene; affascina, convince, anticipa e confuta le possibili contestazioni della parte avversa, soprattutto si preoccupa di dimostrare assoluto rispetto per le leggi e per la loro corretta interpretazione, perché allora come adesso, spesso la salvezza dell’imputato non era nella legge scritta, ma nella sua integrazione con le regole di comportamento nella società. Lisia è sempre attento, con raffinata ruffianeria, a fare leva sui valori civici e sui sentimenti dei giurati, portandoli a condividere la propria visione degli eventi.

L’orazione “Per l’uccisione di Eratòstene”, si occupa di un caso apparentemente semplice: Eratòstene seduce la moglie di Eufilèto, viene colto sul fatto dal marito Eufilèto ed è assassinato. I parenti dell’ucciso accusano Eufilèto, difeso da Lisia, di avere premeditato il delitto, facendo cadere la vittima in una trappola.
In caso di condanna per il reo non esiste il carcere ma solo la morte, alla quale l’accusato può di solito sottrarsi con l’esilio e la perdita dei beni.
L’opera di Lisia è un’importante testimonianza, che ci permette di conoscere con ricchezza di dettagli le leggi, i personaggi e la vita in Atene, in un periodo storico turbolento e drammatico.
La vittima, Eratòstene, è un giovane sui vent’anni, donnaiolo, che vive di espedienti e sotterfugi. Adocchia la moglie di Eufilèto ai funerali della suocera e la seduce con lo scopo probabile di farsi mantenere da lei.
Della donna non conosciamo neppure il nome, sappiamo che è giovane anch’essa, è stata fino alla sua caduta una brava moglie e ha dato al marito un figlio. Eufilèto si fida di lei e le lascia il controllo completo sulla casa mentre lui lavora nei campi. Viene da notare che Eufilèto non ha mai per la moglie parole di affetto ricordando il passato, né di odio per il tradimento; ne parla come di un buon sottoposto, ubbidiente e preciso.
Le donne nella tanto civile Atene sono considerate poco, al punto che mentre Eratòstene paga la propria colpa con la propria morte, la donna non è ritenuta responsabile, come se la sua natura fosse troppo fragile e inferiore per opporsi alle lusinghe di un seduttore. La sua condanna è che, essendo stata violata, è diventata guasta e impura, suo marito la ripudierà secondo la legge e le toglierà il figlio; sarà scacciata a bastonate da ogni luogo pubblico o sacro, ma nessuno deve ferirla o ucciderla. Il suo ruolo era quello di una proprietà del marito, un oggetto della casa che una volta che è stato profanato, ha perso ogni pregio e contamina i luoghi sacri con la sua presenza.
Con i nostri occhi disincantati, è facile immaginare come questa ragazza giovane, inesperta, annoiata da una vita chiusa e senza prospettive, con un marito noioso e spesso assente per giorni, fosse destinata a cadere tra le braccia di un avido dongiovanni, ritrovando in quella passione proibita, la vivacità e la gioia che saranno le prime scintille che accenderanno i sospetti di Eufilèto.
Il marito assassino è un borghese piccolo piccolo, proprietario di una casa a due piani che ha condiviso prima con la madre e dopo con moglie e figlio; possiede un piccolo podere e spesso passa la notte sul suo terreno, senza tornare a casa, soprattutto dopo la nascita del figlio.
Eufilèto è presentato come un bravo cittadino ateniese, ligio alla legge scritta e morale. Uccidendo Eratòstene, non ha fatto la vendetta di un proprio torto subito, ma ha compiuto un atto di giustizia verso chi aveva violato la sua casa prima che sua moglie, ha eliminato una pericolosa mela marcia per il bene di tutta la comunità.
Eufilèto è un buon uomo, visto con gli occhi del suo difensore, ma la meticolosa organizzazione della sua vendetta, ci fa ipotizzare che in lui si annidi uno spirito calcolatore e malvagio. Vendetta o, peggio ancora, avido calcolo?
Nel delitto la premeditazione c’è tutta, almeno per i nostri parametri di giudizio. Eufilèto è insospettito dai comportamenti della moglie che arriva a chiuderlo in camera e a uscire la sera con scuse improbabili; in seguito è informato della tresca da un’altra amante che Eratòstene sta trascurando. Il marito tradito fa confessare la propria serva, che ha sempre retto il moccolo alla padrona e, con la sua complicità e quella di quattro selezionati amici/testimoni, coglie gli amanti sul fatto, fa ammettere le proprie colpe al rivale e lo uccide, come da diritto ateniese.
Dalle pagine di Lisia intuiamo le accuse che potrebbero costare la condanna dell’imputato; per brevità ne indico solo due:
1) Eratòstene non sarebbe entrato in casa di Eufilèto per sua decisione ma sarebbe stato attirato nella stessa dalla serva della moglie, in questo modo cadendo nelle mani dei suoi carnefici;
2) Eufilèto avrebbe ucciso il rivale dopo avere cercato di ricattarlo.
Per quanto riguarda la prima accusa, il seduttore poteva essere ucciso giustamente solo se sorpreso nella casa del marito ingannato, per la seconda il movente di Eufilèto non sarebbe stato quello di uccidere un malintenzionato che si è introdotto nella sua casa per approfittare di una sua proprietà (la moglie), ma un avido che, scoprendo che l’amante della moglie si era probabilmente fatto dare denaro o valori, pretendeva di ottenerli in dietro e con gli interessi.

Il processo si svolge nel tribunale permanente allestito nel tempio dell’Apollo di Delfi, poco fuori le mura di Atene. Non conosciamo il verdetto de giudici, ma sembra che Lisia abbia perso solo due cause in vita sua e quindi è ragionevole supporre che Eufilèto sia potuto tornare alla sua vita tranquilla, al lavoro del suo podere e occuparsi dell’educazione del figlio.


26 maggio 2020

L' IMPEGNO E IL SILENZIO DI ANGELO IVAN LEONE



L' IMPEGNO E IL SILENZIO DI ANGELO IVAN LEONE

La strage di Capaci si commemora in questa mesta giornata di fine primavera. In questo triste giorno, che viene a cadere in uno dei periodi più neri che il Paese abbia mai attraversato, vorremo chiedere alla classe politica di fare silenzio. Fare silenzio piuttosto che rendere come hanno reso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino una specie di feticcio, di totem e di eroi alla memoria. Questo silenzio servirebbe molto di più rispetto alla conformistica e nauseante apologia che va in scena tutti gli anni. Fare silenzio perché in molti che adesso commemorano questi due giudici da morti, devono, o almeno dovrebbero, vergognarsi di averli lasciati soli da vivi. Falcone sapeva perfettamente cosa significasse questa solitudine. Fu, infatti, proprio lui a confessare, con disarmante sincerità, alla giornalista Marcelle Padovani che quel silenzio non era altro che la morte. "Si muore generalmente perché si è soli". Vero e altrettanto vero quel che ricordo' il suo amico e fratello di battaglia Paolo Borsellino "Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura di morire muore una volta sola". Vogliamo che resti fulgido l'esempio del loro impegno nella lotta contro la mafia che la classe politica, in gran parte, ha, invece, prima ostacolato e, poi, reso una farsa. Ricordiamo a questa classe politica che in Italia la mafia e' stata, sin dalla sua nascita, utilizzata con funzione di controllo sociale sul territorio meridionale che lo stesso stato non voleva controllare e che subappaltava al controllo mafioso, e che la mafia è stata utilizzata durante tutta la Prima Repubblica attribuendole una seconda funzione: quella di agenzia nella lotta anticomunista. Così da essere doppiamente legittimata sia internamente che internazionalmente. Per tutto questo è giusto che la classe politica oggi faccia silenzio.
Ecco, noi oggi con questo silenzio vorremmo impedire che "qualche Giuda", sempre per citare le parole di Borsellino, mischi le sue lacrime di coccodrillo alle nostre. "E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime" Antonio Gramsci.


25 maggio 2020

Stefano Brugnolo e Giulio Mozzi Ricettario di scrittura creativa a cura di Marcello Sgarbi


Stefano Brugnolo e Giulio Mozzi
Ricettario di scrittura creativa - (Edizioni Zanichelli)

Collana: Opere di consultazione
Pagine: 480
Formato: Brossura
EAN 9788808090515

Vi piace leggere? Vi piace scrivere? In ogni caso, in questo libro ce n’è per tutti i gusti: antipasti leggeri che non impegnano, primi piatti sostanziosi, secondi ricercati e come contorno una serie di esercizi sfiziosi e divertenti. Ricco di ingredienti, fatto apposta per chi è stanco della solita minestra, questo particolare ricettario raccoglie esempi delle più creative cucine, spazia fra i generi letterari più vari ed è un’autentica dispensa sempre fornita di suggerimenti. La ciliegina sulla torta?
Ogni capitolo è corredato da brani di autori famosi, in sintonia con l’argomento trattato. Alla voce “Il diario per appunti”, ad esempio, trovate un estratto da: “Il mestiere di vivere” di Cesare Pavese che qui vi propongo.

25 marzo. Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”.

Nulla si assomma al resto, al passato. Ricominciamo sempre”.

Chiodo schiaccia chiodo. Ma quattro chiodi fanno una croce”.

La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia
agli uomini, ho condiviso le pene di molti”.

18 agosto. La cosa più segretamente temuta accade sempre”.

(c) Marcello Sgarbi



“Il CODICE DELL’AMOR DIVINO” Un testo intenso e di forte spiritualità che riprende delle antiche catechesi sul Decalogo A cura di Vincenzo Capodiferro


Il CODICE DELL’AMOR DIVINO”
Un testo intenso e di forte spiritualità che riprende delle antiche catechesi sul Decalogo
A cura di Vincenzo Capodiferro

Il Codice dell’Amor divino. Le catechesi di Mademoiselle Cologne sul Decalogo”, è un testo pubblicato da Edizioni Sant’Antonio nel maggio del 2020. Questo Commento al Decalogo deriva dalle Istruzioni catechistiche del Pensionat Mademoiselle Cologne, appartenente a San Sulpizio, in Parigi, ove ha sede la Compagnia dei sacerdoti di San Sulpizio, fondata da Jacques Olier (1608-1657). Il quaderno delle istruzioni apparteneva ad una delle allieve: Céline Hérard e risale al 1860. Tante erano belle queste esperienze dei pensionati che vengono citate da alcuni autori dell’epoca, come E. M. Faillon, Histoire des Catéchismes de Saint-Sulpice, Paris 1831 e Félix Dupanloup, Vescovo di Orleans, L’oeuvre par excelence ou entretiens sur le catéchisme, Paris 1868. Tra le allieve predilette di Mademoiselle Cologne vi era Clémentine Nicolas, ragazza esemplare, la quale morì l’anno dopo la sua prima comunione. Sulla sua tomba fu scritta la famosa frase che troviamo anche nel nostro testo: A Gesù e a Maria per sempre. Le catechiste erano donne pie, preparate e venivano pagate con l’obolo degli allievi che si iscrivevano al corso. Molto intensa questa esperienza della Chiesa parigina che ci ricorda gli antichi tempi degli arbori della Chiesa, quando i Padri insegnavano la dottrina cristiana. Abbiamo aggiunto a completamento sei prediche del Padre Francesco d’Agira, frate cappuccino, sul peccato e sull’inferno a prosieguo delle istruzioni di Mademoiselle Cologne. Le meditazioni di questo santo frate risalgono agli inizi del ‘900. La maggior parte di queste sono dedicate ad un commento ed approfondimento sul Decalogo, il codice del divino Amore, appunto, scolpito sul Sinai di ogni cuore. Ferventi ed elevate queste note affettuose, rivolte a ragazzine in formazione, racchiudono uno scrigno di tenerezza e di profonda pietà cristiana: pur appartenendo ad un tempo che pare lontano dal nostro, che oramai è oberato dal frastuono della post-modernità, ci devono far riflettere sul valore immenso della legge divina, che è soprattutto una legge d’amore, che si compendia nell’imperativo categorico: “Ama perché ama”, e non solo, quindi, il “Devi perché devi” di kantiana memoria. La legge dell’amor divino, l’agostiniano “ama et fac quod vis” è la sintesi perfetta tra principio di piacere e il principio di dovere. Mademoiselle Cologne insieme ad altre volontarie catechiste ci hanno lasciato questo documento prezioso che testimonia l’importanza dell’educazione cristiana. All’uomo moderno vuole offrire uno spunto di seria riflessione sulla legge di Dio, fatta con parole semplici, affettuose, che si rivolgono a ragazzini e soprattutto ragazzine con fervore, amore e tenerezza. Non mancano certo anche gli effluvi di austerità, che a noi oggi paiono superati, come l’attenzione ai balli, ai festini, alle letture sconce. Ma questi schiaffi d’amore servono, perché non è cambiato nulla: la natura umana rimane sempre la stessa anche se il progresso va avanti. È il caso di ricordare “Uomo del mio tempo” di Salvatore Quasimodo: Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. L’uomo non cambia mai e se prima c’erano i libri, i giornali cattivi, adesso ci sono i cellulari e bisogna stare sempre attenti. I giovani passano ore ed ore al cellulare ed anche gli adulti. Li vedo ogni giorno persi sugli schermini. Non dialogano più. Per comunicare anche a due passi usano le chat. È un tempo difficile. L’uomo contemporaneo potrà assaporare questo gusto antico di bellezza cristiana, quella bellezza sempre viva, che deriva dal più Antico e il più Nuovo, nel contempo, che è Dio stesso, quella bellezza che faceva esclamare ad Agostino: Tardi ti amai, Bellezza sempre antica e sempre nuova. Tardi ti amai. E per di più oggi che si richiede una complessiva ri-evangelizzazione della società occidentale, già evangelizzata un tempo, ma che ha perso il senso della fede. Abbiamo voluto dedicare questa opera ad un nostro antico Padre Spirituale: Monsignor Domenico Venezia, di Tolve. È stata una guida esemplare dei giovani, amorevole, affettuosa e tenera. Ci ha sempre dato la mano nei momenti di difficile cammino. Quando vedeva il giovane correva di lontano, lo abbracciava, come il Padre il figliol prodigo, lo consolava. E come potremo mai dimenticare queste premure amorose dei padri nostri? A maggior ragione si trova proprio a chiusura del testo una bellissima predica del Padre Francesco d’Agira sul figliol prodigo, di cui riportiamo, per beltà alcune strofe del canto bellissimo che veniva intonato nelle chiese un tempo:
Figlio, deh torna, o figlio,
torna al tuo padre amante!
Ahi, quante volte e quante
io sospirai per te.

Ahi, quante volte e quante
io sospirai per te!


23 maggio 2020

LA SFIDA DELLA RIPRESA ECONOMICA di Antonio Laurenzano


LA SFIDA DELLA RIPRESA ECONOMICA

di Antonio Laurenzano

Dal “decreto Cura Italia” al “decreto Rilancio”: una corsa contro il tempo per dare una risposta allo shock del coronavirus che sta mettendo a nudo le debolezze strutturali del nostro sistema socio-economico e finanziario rispetto ad altri Paesi europei. Il lungo lockdown ha inciso in misura drammatica, in molti casi irreversibile, sulla governance delle piccole e medie imprese che rappresentano l’asse portante del sistema produttivo nazionale con l’impiego di oltre l’80% della forza lavoro operante sul territorio. E, dopo la Grecia, siamo il Paese dell’Ue con la situazione peggiore. Lo confermano, nella loro aridità, i numeri pubblicati in questi giorni a Bruxelles come stima degli effetti del Covid-19 nel 2020 in Italia: Pil in diminuzione del 9,5%, rapporto deficit/Pil schizzato all’11,1%, rapporto debito pubblico/Pil che sfiora il 159%, a conferma che il coronavirus non mette a repentaglio soltanto la vita delle persone, ma sta minando il futuro della nostra economia.
In attesa dei contrastati aiuti europei (prestiti o contributi?) legati alle decisioni sul Recovery Fund nel quadro del prossimo bilancio comunitario, il decreto legge “Rilancio” mette in campo risorse per un ammontare pari a circa un decimo del bilancio dello Stato, quasi il doppio dell’ultima manovra di bilancio. Un bazooka di circa 55 miliardi di euro destinati per il 25% alla Cassa integrazione e ai lavoratori autonomi, per il 20% alle imprese, per altri 30% agli Enti locali, alla sanità, al turismo e al commercio, oltre che alle agevolazioni fiscali. In 266 articoli, quasi 500 pagine, la sfida per la ripresa economica del Paese che sarà meglio definita dai 98 decreti attuativi in arrivo, necessari per rendere operativi buona parte delle misure previste dal Governo.
Parola d’ordine: ricominciare. Quasi un imperativo che implica però una serie di condizioni. Superare in primis ogni lentezza amministrativa, ogni ostacolo burocratico sbloccando procedure arrugginite ed eliminando vincoli e balzelli fiscali per favorire gli investimenti e dare forti impulsi all’intera economia del Paese. E per voltare pagina c’è bisogno di una responsabile azione politica che, azzerando uno sterile assistenzialismo con spesa sociale a pioggia, passi dall’effimero consenso elettorale al buonsenso di governo. Dopo promesse e annunci è tempo di elaborare un piano strategico di sviluppo e crescita per rifondare un Paese che, se vuole ripartire e recuperare il terreno perduto, deve disegnare il proprio assetto economico e sociale con rinnovato slancio, fatto di idee e progetti in forte discontinuità con il passato e con il presente.
Serve cioè rilanciare l’economia, far decollare la produzione e il made in Italy per potenziare il motore del Paese con l’obiettivo di fondo di rendere sostenibile il nuovo debito pubblico e credibili per i partner europei le scelte effettuate. Per la debolezza della struttura finanziaria del nostro sistema, il ricorso al credito, se non supportato da una chiara programmazione economica, potrebbe risultare estremamente pericoloso per i precari equilibri della finanza pubblica. Il nostro maxi debito pubblico, se non ridotto drasticamente nel medio termine, continuerà a renderci il Paese dell’Ue più esposto nel tempo ai venti di crisi e ai ricatti dei mercati, oltre che ai continui esami da parte dei “falchi del Nord”, con Olanda e Austria in testa. Per sopravvivere e ripartire sono necessari riforme strutturali, dal fisco alla giustizia, agli appalti, investimenti strategici nel campo delle infrastrutture di trasporto e logistiche, nella digitalizzazione e nella produttività dei servizi non solo pubblici, nella ricerca e nella sanità. Interventi in linea con una politica industriale che punti sulla innovazione e sulla ricapitalizzazione delle imprese attraverso un processo di trasformazione incentrato su nuove competenze e su elevati livelli di competitività internazionale.
Operare dunque in fretta per mettere il Sistema Paese al riparo dal rischio che nei prossimi mesi la recessione si trasformi in crisi finanziaria. Con la crescita economica è in gioco il benessere materiale degli italiani, il loro futuro e con esso la tenuta sociale dell’unità nazionale. Una sfida da vincere con il contributo costruttivo di tutti all’interno di una comune azione europea di integrazione economica.


22 maggio 2020

LA VENDETTA DELLA GIUSTIZIA a cura di Carmelo Musumeci

LA VENDETTA DELLA GIUSTIZIA

 Un buon giudice disse: “Le migliori medicine contro il male sono l'amore e le attenzioni”. Qualcuno gli domandò: “E se non funzionano?” Lui sorrise e rispose: “Aumenta le dosi”.

Quanto male si fa in nome della giustizia o della sicurezza sociale?
In più di un quarto di secolo di carcere, qualche volta ho pensato che i “buoni” sono peggio dei cattivi. Solo che la loro cattiveria non la chiamano crudeltà, ma la chiamano giustizia. Credo che molti confondano la giustizia con la vendetta, ma spesso questa non solo è inutile ma è veramente una maligna spirale di odio.
Sul ritorno in carcere di alcuni boss mafiosi rottamati, in disuso, anziani e malati, ho letto in rete dei commenti di persone contente di questa decisione. Non capisco cosa ci sia da essere contenti se la legge li aveva messi fuori, ma forse il mio senso di giustizia è diverso da quello della gente comune, perché penso che i morti non chiedano vendetta, credo piuttosto che questa la vogliano i vivi.  Dopo tanti anni lo spirito di vendetta è ingiustificato nei confronti di persone che nel mondo criminale non contano più nulla.
In questi giorni abbiamo visto che l’attenzione politica e mediatica si è concentrata su vecchi dinosauri condannati per la mafia del passato, invece di cercare i nuovi spavaldi mafiosi del presente. Si è persino criticato l’operato della magistratura di sorveglianza, che ha solo rispettato la legge e la Costituzione.
A chi farà comodo che questi vecchi boss muoiano in carcere? Non lo so. Penso che forse farà comodo ad alcuni politici, o ai nuovi boss che da anni hanno preso il loro posto. Credo che la vendetta non renda migliore né chi la prova né chi la subisce. E inoltre si fa un favore alla cultura mafiosa. Perché la legittima. E così sembra che la mafia vinca sempre anche quando perde, perché la vendetta moltiplica il male, anche quando viene giustificata in nome della giustizia. Ovviamente se uno commette un reato deve pagare per la gravità di quel reato commesso, ma certo non si deve arrivare alla vendetta o alle condanne esemplari perché non servono a niente (accanirsi contro uno non purifica la società dalla delinquenza).
Nelle carceri andrebbero garantiti i diritti fondamentali delle persone e salvaguardata la dignità, altrimenti, se insegnano durezza, avremo in cambio solo persone aride. Se le carceri sono solo luoghi di frustrazione e tortura, è certo che non faranno diventare le persone migliori. Credo che far morire in carcere un ex boss, vecchio e malato, anche se ben curato, ma lontano dai familiari, sia una sconfitta per la giustizia e per le vittime stesse e, come se non bastasse, sia un favore alla mafia, perché in certi ambienti cancerogeni molti di questi mafiosi una volta defunti passeranno da eroi.
In tutti i casi penso che quello che debba far inorridire non sia tanto la notizia che alcuni boss siano usciti per motivi di salute ma, soprattutto, il fatto che siano stati messi alla gogna mediatica quei magistrati che hanno rispettato una legge dello Stato.

Carmelo Musumeci

Maggio 2020

Intervista di Alessia Mocci ad Ilaria Grasso: vi presentiamo la raccolta Epica Quotidiana



Intervista di Alessia Mocci ad Ilaria Grasso: vi presentiamo la raccolta Epica Quotidiana

Ad ora la poesia è una bomba disinnescata. Chi inviterebbe un poeta in un programma televisivo o lo inserirebbe in una organizzazione come fece Olivetti con Sinisgalli? Nella migliore delle ipotesi spesso vi si dà un ruolo consolatorio che però si rivolge comunque a pochi. Al poeta dunque non rimane che fare ciò che il giornalista non può o non vuole fare e cioè sollevare questioni. In altri fare da portavoce, come ho provato a fare in Epica Quotidiana.” – Ilaria Grasso
Una bomba. Un’arma senza munizioni. “La poesia è una bomba disinnescata”.
Ilaria Grasso con accento polemico (πολεμικός) pone davanti agli occhi l’evidenza dell’assenza del poeta dai programmi televisivi di attualità e cultura e dalle imprese, e ci ricorda dell’ingegnere e politico italiano Adriano Olivetti (Ivrea, 11 aprile 1901 – Aigle, 27 febbraio 1960) che nel 1938 assunse il poeta Leonardo Sinisgalli (Montemurro, 9 marzo 1908 – Roma, 31 gennaio 1981) come responsabile dell’Ufficio tecnico di pubblicità. Olivetti innescò la bomba (βόμβος). Ed il poeta fece gran rumore con le vetrine ed i manifesti pubblicitari che anticiparono di vent’anni il movimento artistico Pop-Art.
Originaria di Lucera in provincia di Foggia, Ilaria Grasso vive a Roma da anni, città nella quale lavora come impiegata. Da osservatrice sensibile ai bisogni ed ai mutamenti della società, compone versi e collabora con portali online quali “Carteggi Letterari”, “Poetarum Silva” e “Zest Letteratura Sostenibile”.
Epica Quotidiana” è stato pubblicato nel 2020 da Macabor Editore nella collana “I fiori di Macabor”, con l’elaborazione grafica della copertina di Giorgio Ferrarini. La prefazione è stata curata dal poeta Aldo Nove.
In autobus al mattino la gente stanca/ sale per andare a guadagnarsi il pane.// Avanziamo isolati dai vetri di una bottiglia/ traboccante di una moltitudine di disperati.// […]– Ilaria Grasso

A.M.: Ilaria, la ringrazio per il tempo concesso in questa intervista e mi complimento per questa sua nuova raccolta dal titolo “Epica Quotidiana”. Rivolgendoci per un attimo al passato: qual è stato il suo primo passo in editoria?
Ilaria Grasso: Grazie a Lei perché in queste domande trovo molta cura nella lettura della raccolta da parte sua e anche la volontà di iniziare un dialogo artistico e culturale sul tema del lavoro e della contemporaneità. Era uno degli effetti che auspicavo con la pubblicazione di “Epica Quotidiana”. Ad oggi riscontro una scarsa capacità di concentrazione e una mancanza di volontà o di contenuti del e nel dialogo. Siamo come persi in una logorrea infodemica senza precedenti che ci impedisce ascolto profondo e capacità di cooperare dialogando. Succede a tutti, me compresa. Trovo sia intellettualmente onesto fare questa premessa prima di partire con l’intervista.
Bene, iniziamo!
Il mio lavoro inizia con la plaquette dal titolo “Le mie verdi miniere di sale”. Era una riflessione sul dolore e aveva senz’altro una radice più intima e intimista ma aveva già in nuce alcune tematiche del lavoro e di una di quelle che considero una delle tante lotte che dobbiamo mandare avanti e cioè la questione femminile. E in questo quadro considero donne anche le donne che non sono nate femmine biologicamente. Ma ritorniamo all’editoria, cosa a volte diversa dalla letteratura. La letteratura per me si compone di tre parti. Una è fatta da chi scrive, l’altra da chi legge, la restante parte è tutta evocazione e mistero e imprevedibile sorpresa. Rappresenta infatti ciò che ti trovi a scrivere e che nasce scrivendo o ciò che ti trovi a pensare leggendo. Le mie verdi miniere di sale ed Epica Quotidiana sono state pubblicate senza la richiesta di alcun contributo da parte mia. La plaquette è stata pubblicata da Arduino Sacco Editore, una piccolissima casa editrice che ha scommesso sui miei versi; lo stesso ha fatto Macabor Editore per Epica Quotidiana. Ho mandato la mia raccolta a svariati editori e in molti mi hanno richiesto contributi fino a mille euro o hanno risposto che la raccolta, pur nella sua validità, non era nella loro linea editoriale. Ero sul punto di affidarmi a una buona tipografia e prepararmi a inviare la raccolta alle varie redazioni affinché raggiungesse i lettori ma ecco che incrocio nel mio percorso Bonifacio Vincenzi che con entusiasmo e gratuitamente mi propone di pubblicare Epica Quotidiana con Macabor Editore. L’ho ringraziato per questo all’interno della raccolta. Le prime copie mi arrivano a casa nei primi giorni della quarantena anche grazie al suo impegno. Insomma ringrazio Bonifacio e la Macabor editore anche per questo!

A.M.: Nella prefazione de “Epica Quotidiana”, lo scrittore e poeta Aldo Nove scrive: “[…] la “chiusa” (quasi sempre gnomica) delle poesie di Ilario Grasso è fulminante e lapidaria. […] ogni componimento […] è più frammento di puzzle che tessera di mosaico, si dà nel suo lacaniano uno-tutto-solo che non riesce più a farsi coro o movimento (eppur si muove, eppure sotterraneo r-esiste).” Ritiene che questa descrizione rispecchi i suoi componimenti?
Ilaria Grasso: Aldo Nove lo conoscevo ma come si conosce un poeta e uno scrittore e cioè tramite i libri. Avendo letto il suo Sono Roberta e guadagno 250 euro al mese, che è stato materiale fondamentale per la mia raccolta, l’ho contattato tramite FaceBook per sottoporgliela e lui è stato molto gentile rispondendo con entusiasmo alla lettura della raccolta. Abbiamo parlato molto e mi ha incoraggiato a pubblicarla. Con il tempo siamo diventati amici e ci sentiamo spesso per confrontarci su varie tematiche e ci vogliamo bene. Aldo ha da subito inquadrato questo aspetto della raccolta pur non conoscendo i miei gusti musicali. Parlo dei CCCP e di Giovanni Lindo Ferretti e di Massimo Zamboni che hanno molto contribuito al farsi del mio pensiero. Ma ritorniamo a “chiuse”, “mosaici” e “frammenti”. Mi rispecchio totalmente in ciò che Aldo ha scritto nella prefazione. Rispondo a queste domande il 29.04.20. Il premier Conte ci dice che il 4 maggio saremo nella fase 2, i cui contorni sono ancora opachi. Sia nella fase 1 che nella fase 2 non sono stati trattati i temi di chi abita da solo, di chi è disabile o ha figli disabili, di chi non ha una casa o ancora dei tossicodipendenti e delle prostitute. O ancora vedo molto disinteresse a parlare delle mafie e della corruzione. Pochi d’altronde anche gli articoli su questi temi. A fronte dei “Fertility Day”, nessuno al governo si domanda e propone qualcosa per la salute psicofisica nei bambini. Come sarà uno stato che non si occupa dei bambini e quindi del futuro del paese? Anche della cultura si parla poco e dunque chiudo la domanda con il pensiero di Formica all’interno di un articolo del giornale Il Manifesto: occorre prima pensare e poi agire. Cosa pensiamo se non leggiamo? Vedo una strana forma di collaborazione da parte di chi tace o fa finta di niente per il “quieto vivere”. Ecco, questo per me non è esattamente far parte di un coro perché anche nel coro il “contro coro” è importante per fare musica e movimento e ritmo ma al momento, nello scenario attuale, non c’è.

A.M.: La raccolta apre con “Le gesta dei padri” che comprende dieci poesie dedicate a grandi poeti, dal toscano Franco Fortini al russo Vladímir Majakóvskij. “Qui a Taranto il rosso dispera./ Ricopre il bucato appena steso e le facciate dei palazzi./ Ottura occhi e narici. […]” si legge e subito si comprende, grazie alla forte immagine che il verso riesce a pennellare, l’incriminato. Perché la poesia è necessaria nella società?
Ilaria Grasso: Erano altri gli autunni e altre le primavere, ti direi. Questa mia non è una forma di nostalgismo ma una feroce presa d’atto che dal passato dobbiamo apprendere riducendo il margine di errore e conservarne memoria ma abbiamo il dovere di pensare più in là del nostro tempo e del nostro spazio con criteri altri e impegnarci tutti a fare proposte inclusive. Mi si domanda sottilmente del ruolo del poeta nella società. Ad ora la poesia è una bomba disinnescata. Chi inviterebbe un poeta in un programma televisivo o lo inserirebbe in una organizzazione come fece Olivetti con Sinisgalli? Nella migliore delle ipotesi spesso vi si dà un ruolo consolatorio che però si rivolge comunque a pochi. Al poeta dunque non rimane che fare ciò che il giornalista non può o non vuole fare e cioè sollevare questioni. In altri fare da portavoce, come ho provato a fare in Epica Quotidiana. Christian Tito, farmacista, poeta e documentarista, non si è mai stancato di fare poesia denunciando le storture del marketing e della globalizzazione e di parlare dell’ILVA, svelando gli aspetti più spinosi della questione della realtà siderurgica più grande d’Italia. Evidenziò infatti l’inquinamento e la disperazione dei tarantini di fronte ai loro morti e alla propria terra stuprata dagli interessi che ruotano attorno a quello stabilimento. Lo ha fatto fino a quando ha potuto. Ora lui non c’è più perché è morto prematuramente.
Tito era in stretto legame con un altro poeta che amo molto, Luigi Di Ruscio, che molti definiscono, a torto o ragione, il “poeta operaio”. Testimonianza della loro amicizia è Lettere del mondo offeso, un libro che raccoglie i loro scambi e riflessioni. Il lavoro che ho fatto con Epica Quotidiana non è stato solo uno studio monografico e tematico sulla poesia e letteratura aziendale e del lavoro ma anche scambi con poeti e con registri, di età e provenienze molto distanti dalle mie. Li ho citati tutti nei ringraziamenti in calce alla raccolta. Ma torniamo a Tito. In una delle sue poesie dice “non importa se voi non leggete le poesie/ perché sarà la poesia a leggervi tutti”. L’ho messa in esergo alla sezione “In-organico” proprio per evidenziare tutte le riflessioni che sopra ho fatto.

A.M.: Ed è con la seconda parte “In itinere” che si raggiunge “Epica Quotidiana” con il suo “garbuglio/ di monumenti e radiazioni” con i “tre semafori di una lentezza disarmante”, “la gazzarra dei motori” e “la metro gonfia”. Versi che fanno pensare ad una grande città affollata, rumorosa, ed ad un personaggio che si aggira quotidianamente in quelle strade. Qual è la fortunata città che ha “tanti i poeti che mandano avanti il Paese” e che “Lavorano in ufficio o chissà dove/ per il mutuo o per pagare le spese.”
Ilaria Grasso: La città è quella dove da più di dieci anni vivo ed è diversa da quella in cui sono nata e cioè Lucera. Come tanti sono andata via dal Sud per mancanza di prospettive e Roma non è una città che esattamente ho scelto. Mi ci sono ritrovata più per lavoro che per altro. Quando ho iniziato a lavorare per la raccolta abitavo a Talenti e per raggiungere il mio luogo di lavoro che si trova nel quartiere San Giovanni di Roma impiegavo un’ora e tre quarti del mio tempo all’andata e lo stesso facevo al ritorno. Più o meno come alcuni miei colleghi che vengono in ufficio da Napoli o da Viterbo o da zone limitrofe a Roma. Ogni giorno che tornavo a casa era un’impresa epica, tra cambi d’autobus e scioperi bianchi e malfunzionamenti. Per non parlare di quando dovevo fare il cambio a Piazzale dei Cinquecento e camminare controcorrente attraversando altri commilitoni che come me andavano a lavorare. Parlo al passato perché, dopo un lungo periodo di logoramento che mi ha procurato forti attacchi di panico che mi hanno costretta a fermarmi per un periodo di sette mesi, ho cambiato casa, sono molto più vicina al lavoro e ora la mia esistenza è meno pesante. Sto molto molto meglio. Ecco da dove nasce il titolo Epica quotidiana e la sezione “In-itinere”. Questa sezione è un impegno a non dimenticare il mio passato e tenerlo bene presente nelle discussioni quando parliamo di lavoro e anche di migrazione.

A.M.: In “Ingorgo” si legge: “La processione avanza sempre nelle stesse direzioni/ tra canini d’acciaio e il guarire dei motori./ Anche in tangenziale, sempre in mezzo al niente affollati.” La chiusa, “in mezzo al niente affollati”, è stata donata dal poeta Giulio Maffii.
Ilaria Grasso: La poesia Ingorgo ha una storia molto particolare. Quando cambiammo dirigente perché il precedente andò in pensione arrivò in ufficio Raffaele Saccà. Nella sua stanza aveva appeso dei quadri molto particolari. Erano degli ingorghi composti da modellini di macchine, carri armati e aeroplani tutti compressi in un’unica composizione “alla maniera di Arman”, come dico nella poesia. Quei quadri mi affascinavano molto e mi davano modo di fare riflessioni sulla contemporaneità. Chiedevo costantemente a Saccà chi fosse l’autore. Lui era sempre sfuggente nelle risposte non dicendomi mai chi fosse. Un giorno, forse stremato dalla mia insistente curiosità, mi disse che era lui l’autore di quei quadri. L’ingorgo era ed è per me metafora ancora valida per rappresentare cosa siamo noi nella costrizione delle nostre vite routinarie e bisognose di status symbol che altro non sono che continuo comprare e continuo desiderio indotto e di cui probabilmente dovremmo imparare a fare a meno. Da quel giorno di quasi cinque anni fa abbiamo iniziato un dialogo sulle arti e sul mondo che hanno portato lui a tenere una mostra personale sui suoi Ingorghi in una delle gallerie del centro di Roma e me alla pubblicazione di Epica Quotidiana. Molto importante è stato anche il dialogo con Giulio Maffii, poeta e collega di redazione. Collaboriamo infatti entrambi con la rivista on line Carteggi Letterari. Spesso gli mandavo mie poesie su Messenger o via WhatsApp e mi dava suggerimenti. Quando lesse la prima volta Ingorghi mi disse: “in mezzo al niente affollati”. Io risposi: “Esatto Giulio! Proprio così! Posso mettere queste tue parole nella poesia?”. Lui fu molto generoso e mi regalò la chiusa di Ingorghi. E così quella chiusa si trovò sia in uno dei pannelli della mostra di Saccà che in Epica Quotidiana. Anche Maffii e Saccà sono presenti nei ringraziamenti, perché la gratitudine per me è anche una forma di dialogo: in essa c’è il riconoscimento che è alla base di un discorso autentico.

A.M.: In “Delle umane risorse” si legge: “Forse un giorno parleremo veramente/ e capiremo davvero chi siamo/ al di là del ruolo e del mercato.” Poco prima in “Mobbing” si legge: “La consapevolezza a volte si paga/ ma a pensarci bene/ è uno sforzo sostenibile, anzi necessario.” Qual è il ruolo della filosofia?
Ilaria Grasso: Nella seconda risposta vi anticipavo già l’importanza per me della filosofia nella produzione poetica e letteraria. Senza una struttura di pensiero cadono ponti e costruzioni ma anche impianti versificatori e stratificazioni linguistiche e concettuali. La filosofia e il pensiero sono dunque per me fondamentali. “Chi sono io? Chi siamo?” sono domande fondamentali per l’individuo. Bisogna interrogarsi e avere il coraggio di ascoltare la o le risposte, prenderne atto, analizzarle ed elaborarle. Già prima del Covid eravamo di fronte a un mutamento antropologico di cui non tutti erano perfettamente consapevoli. Dopo il Covid probabilmente avremo, chissà, anche mutazioni genetiche o biologiche, magari sul funzionamento delle nostre cellule o dei nostri organi. È tutto ancora sospeso. Nel frattempo auspico la nascita di una neo ontologia che consenta di ristabilire i criteri di esistenza di entità come i cyborg o i robot o le IA e solo in seguito concettualizzare in altro genere di filosofia le relazioni o i significati dei loro segni nel mondo e nella poesia.

A.M.: Su “Nello stato in cui siamo” si legge l’Art.1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sullo stipendio. La sovranità appartiene a chi la esercita, quando presenti, nelle forme e nei limiti della tipologia contrattuale.” Qual è il suo pensiero sulla globalizzazione e sul futuro (ma assai vicino, fin troppo vicino) impianto di microchip negli esseri umani?
Ilaria Grasso: Il primo articolo di quella stramba e bislacca costituzione me lo ha donato il mio amico Ubaldo, in una delle tante riflessioni sul parassitismo e sul familismo amorale, due cancri della realtà italiana che vanno in crash con la globalizzazione. Il resto degli articoli li ho declinati io o meglio io e Ubaldo che non ho messo nei ringraziamenti per sua richiesta specifica che rispetto.
Il nostro atteggiamento di fronte alle tecnologie e alla modernità è pieno di resistenze al cambiamento che si manifestano con una enorme rimozione del dolore e dell’errore nella nostra coscienza collettiva e individuale. Non concepiamo anche di cambiare perché “si è sempre fatto così” o per una forma di distonia emotiva collettiva che ci porta a reagire in maniera poco sana di fronte agli imprevisti o alle novità che fanno parte della vita. Quanto ho iniziato a comporre Epica Quotidiana il mio atteggiamento nei confronti della tecnologia era assolutamente oppositivo. Poi con il tempo e con lo studio e l’osservazione della realtà ho compreso che sono anni che siamo sotto controllo. Ho preso consapevolezza che siamo i dati e la merce che produciamo e che ci inducono a consumare senza soluzione di continuità. Dobbiamo arrenderci di fronte a questa inquietante evidenza. Il Covid ha messo in ginocchio bar, ristoranti, pizzerie e tutto ciò che è svago non solo perché volevamo ancora dare l’immagine di una società in buono stato ma perché politiche di vario genere e di varia natura hanno indirizzato il cittadino a fare delle scelte a favore dell’immagine e del proprio tornaconto personale e non del contenuto. Non mi spaventa essere controllata. C’è sempre uno schiavo e un padrone. D’altronde, il BDSM e la letteratura di De Sade, Masoch, la Trilogia di Roberta di Klossowski e Alfred de Musset in Gamiani o ancora Pasolini all’interno delle 120 giornate di Sodoma ci svelano proprio questa importante verità. Nel sesso come nel lavoro diamo sempre il consenso, attraverso un contratto scritto o meno che sia, e dobbiamo rispettare sempre i termini di quel contratto. Ad ogni diritto corrisponde un dovere e i diritti per essere goduti vanno manutenuti, sempre. Ma è il confine a fare la differenza. E su questo dobbiamo tenere gli occhi sempre ben aperti e agire responsabilmente per il bene nostro e dell’altro. Ne siamo consapevoli? Lo facciamo?

A.M.: In questo particolare periodo di isolamento causato dall’epidemia ha avuto modo di scrivere? È stato per lei fonte di ispirazione?
Ilaria Grasso: Non sto scrivendo nulla. Mi faccio sismografo e registro tutto ciò che sento del mondo dalla mia cella claustrale. Ho un taccuino su cui appunto sensazioni fisiche, notizie, i sogni che fanno gli altri e le intuizioni che nascono grazie ai confronti con amici, poeti, qualche giornalista e alle varie chat e gruppi FB che seguo. Mi appunto anche fantasie erotiche mie e di altri per capire come lavora il senso di imminente apocalisse sull’eros e sul desiderio. Leggo molto (libri e giornali) e ogni sera registro un video dove leggo poesia e saggistica. Rappresenta per me una forma di preghiera laica che mi aiuta a usare la voce e mettermi in connessione col mondo. Vivo da sola o meglio in compagnia di me stessa e sono immersa pienamente nel silenzio interrotto dalle sirene delle continue autoambulanze che sento solo quando ho le finestre aperte. Il mio tempo non è tutto mio. Una parte lo dedico per contratto alle attività che svolgo “da remoto”. Insomma sono una smartworker. Mi domando: mi piacerebbe essere sempre in smartworking? Penso di no perché il lavoro è anche spazio che si trasforma in luogo grazie alle relazioni che lo abitano. I luoghi di lavoro vanno dunque presidiati e custoditi non solo perché il lavoro è uno degli elementi che assorbono maggiormente l’esistenza degli uomini ma perché sono uno degli spazi dove è ancora certo ci siano esseri umani. Un ufficio deserto credo sia un’immagine inquietante al pari di quello di una fabbrica dismessa. Quindi per il futuro sono per un uso moderato e contingentato dello smartworking.
Ma ritorniamo al tema della clausura e alla sua dimensione predominante e cioè il silenzio. Nel silenzio si manifestano i nostri mostri interiori ma è anche il contesto che prepara l’epifania di una intuizione o di una sorpresa. Quando abitavo in Puglia la mia casa era piena di un silenzio assordante e inammissibile per la mia inquietudine. Ora il silenzio ha assunto un valore di veglia, di ascolto profondo ma significa anche tempo lento all’interno del quale contemplare oggetti astratti. Dove pensare e ripensare. Dove leggere e rileggere libri e punti di vista. Il silenzio è quella cosa che dovremmo imparare a custodire per il “poi”.
C’è solo una cosa che al momento un poeta che vuole dirsi tale deve fare in tempi di Covid e cioè tutelare e proteggere la libertà di pensiero in tutti i contesti.

A.M.: Sul display del PC leggo: Attività completata con successo” dunque possiamo salutarci con una citazione…
Ilaria Grasso: Chiunque di noi si trovi a lavorare al PC per svariate ore è costretto a leggere una frase del genere per cui mi è sembrato giusto trattare la questione con ironia, dato che nella vita di tutti i giorni la realtà è alquanto pesante e alienante. Esiste una intera categoria di lavoratori che non fanno altro che cliccare tutto il giorno e vengono definiti “click workers”, che poi è il titolo della poesia da cui è citato il verso con cui inizia la domanda. Chi sono questi lavoratori? Vi lascio la definizione di clickwork secondo me più lucida ed esaustiva che è di Roberto Ciccarelli. La trovate in “FORZA LAVORO. Il lato oscuro della rivoluzione digitale” edito da DeriveApprodi. Eccola qui:
[Il clickwork è una rappresentazione della forza lavoro composta da una folla di mansioni depurate dal corpo e dall’intelligenza umana, disponibili per ogni attività e al servizio di un comando diretto, senza mediazioni, esercitate dall’infrastruttura digitale. Il lavoratore è un primate che compone codici su una tastiera senza comprenderli. È il risultato di un nuovo evoluzionismo: il passaggio dalla forza lavoro che usa un personal computer alla persona che diventa computer sarebbe il grado finale dell’autorealizzazione umana]”.

A.M.: Ilaria, le domande generano risposte e le risposte ulteriori domande. Il fondamento del dialogo con l’altro e con il sé. Auguro al lettore di inciampare nella lettura di questa tua “Epica Quotidiana” e di prendere qualche istante della giornata per ragionare sugli interrogativi che hai proposto in questa intervista. Domande, a mio avviso, valide in ogni epoca come farmaco (φαρμακός), propriamente come espulsione per giungere all’agognata catarsi (ἀγωνιάω, κάθαρσις). Saluto con le parole del filosofo ed orientalista francese Constantin-François de Chassebœuf, conte di Volney:
Il dubbio, rispose, è forse un crimine? L’uomo è forse padrone di sentire diversamente da come sente? Se una verità è evidente e concreta, dovremo solo compatire chi non la riconosce: la pena scaturirà proprio dalla sua cecità. Se essa è incerta o equivoca, come trovarle, invece, un carattere che non ha? Credere senza evidenza e senza dimostrazione è segno d’ignoranza e di stupidità. Il credulone si perde in un labirinto di incongruenze; l’uomo assennato esamina e valuta, per rendere concordi le sue opinioni; e l’uomo in buona fede tollera la contraddizione perché solo da essa nasce l’evidenza. La violenza è l’argomento della menzogna e l’imposizione d’autorità di una credenza è l’atto e l’indizio di un tiranno.

Written by Alessia Mocci

Info
Sito Macabor Editore
http://www.macaboreditore.it/
Acquista “Epica Quotidiana”
http://www.macaboreditore.it/home/index.php/libri/hikashop-menu-for-categories-listing/product/103-epica-quotidiana
Fonte
https://oubliettemagazine.com/2020/05/14/intervista-di-alessia-mocci-ad-ilaria-grasso-vi-presentiamo-la-raccolta-epica-quotidiana/

21 maggio 2020

DARKER di E L James a cura di Miriam Ballerini


DARKER di E L James
© 2018 Mondadori – Omnibus
ISBN 978-88-04-68820-4
Pag. 580 - € 19,00

Mi sono trovata questo romanzo fra le mani per errore, non mi piacciono i libri d'amore e tanto meno quello erotici.
Per chi non lo sapesse, E L James è la scrittrice dei vari romanzi: 50 sfumature di grigio, di nero, di rosso.
Ormai me lo sono trovato nella mia libreria e ho iniziato a leggerlo.
Darker, più scuro, è la storia di Christian Grey, protagonista degli altri romanzi, narrato da lui in prima persona.
Ho deciso si recensirlo perché, alla fin fine, non è stata una lettura così deludente come pensavo all'inizio.
Anche se, ritengo abbia due pecche di cui discuterò alla fine.
Christian narra di sé, delle sue sensazioni ed emozioni. Negli altri romanzi è stato conosciuto come un dominatore, con diverse amanti che a lui si sottomettevano, accontentando le sue fantasie erotiche che sfociavano nel sadomaso.
Lui è ricco, bello, affascinante.
Ma tutta la sua sicurezza crolla nel momento in cui conosce Anastasia e se ne innamora. Lei, dopo che lui ha tentato qualcuno dei suoi strani giochetti, lo ha lasciato.
La disperazione per la sua perdita gli fa capire l'uomo che vuole essere e fa di tutto per riconquistarla.
I due si amano e, ogni giorno, fra varie vicissitudini più o meno surreali, trovano un terreno comune in cui venirsi incontro.
Sarebbe un bel romanzo se l'autrice non forzasse alcune scene di sesso che, francamente, non hanno poi tutta questa fantasia e nemmeno un esagerato erotismo. Incastrandole a forza ogni poche pagine.
Non disturbano, nel senso che non sono volgari e non dà fastidio leggerle nemmeno a una persona come me che non è amante del genere.
Ecco, se si fosse limitata a scrivere una storia d'amore, anche affondando un poco in più in una psiche piuttosto disturbata scavandone i motivi, secondo il mio modesto parere, ne sarebbe uscito un buon libro.
Altra pecca è quella che, ogni qualvolta Christian debba iniziare un dialogo, prima di questo, la scrittrice metta quello che lui pensa, parlando di se stesso in terza persona.
Ad esempio: “Mettila a suo agio, Grey”.
« Te l'ho detto. Preferisco le brune ».
Questo modo di impostare i dialoghi mi ha un poco disturbata.
Nonostante ciò, lo possiamo definire un romanzo d'amore con tratti erotici. Non spiacevole da leggere, che a momenti è una compagnia gradevole.

© Miriam Ballerini


LA MIA MUSICA a cura di Roberto Bertazzoni


LA MIA MUSICA

Nasce sicuramente da una sensazione, un'emozione che poi, lentamente, si allarga. E l'interesse per questa piccola cosa si espande poi per cerchi concentrici che crea un sasso buttato in uno stagno.
Senti una sorta di connessione interiore, speciale, per quello che hai coperto ed è entrato in te. D'improvviso. Come è successo a me.
Ero bambino quando sentii nascere questo entusiasmo crescente, la necessità di mettermi in relazione con la dimensione della musica.
Presto è diventata passione e non mi ha più lasciato. È diventata il senso e il centro della mia vita. In lei ho riposto tutti i miei pensieri, le mie paure, le ansie, i progetti, le gioie e le speranze.
Ricordo che, per un certo periodo, mi chiudevo tutti i pomeriggi in camera e spegnevo la luce. Oppure coprivo la finestra con un telo per creare l'oscurità. E lì, seduto a terra su di un tappeto, rimanevo a occhi chiusi ascoltando, per ore, la musica ad alto volume.
Lei entrava dentro di me, mi avvolgeva, mi circondava e mi stordiva. Era quello il mio “sballo”.
Ciò che più desideravo era sentirmi parte dei suoni, come a un nutrimento al quale era impossibile rinunciare.
La musica è anche un percorso di studio, un processo di apprendimento che devi saper organizzare, soprattutto quando ti concentri su uno strumento. Ma ci sono dei momenti, mentre suoni, che non si riescono a descrivere con le parole.
Quello che si esprime diventa una poesia fatta di suono; la tua fragilità e la tua forza interiori si espandono attraverso di essa, raccogliendosi nell'essenza del suono stesso.
Tra noi si usa dire: suoni come sei. Ed è proprio così. Se tengo un concerto e non mi sento a posto con me stesso, non sarò in connessione neppure con il mio strumento e i suoi suoni.
C'è quindi una strettissima relazione tra quello che hai dentro, in quel preciso momento, e il modo in cui si manifesta il suono.
Esso è il tuo pensiero che agisce per primo e, soltanto dopo, esisterà la musica.
Suonare con passione significa riuscire a mettere tutto te stesso proprio dentro quel suono. E il suono sarai tu e diventerai persino riconoscibile.
Quel suono ti permetterà di elaborare e disegnare il tuo mondo interiore, facendoti capire chi eri e chi sei.
Ti confronterai con i tuoi valori, capirai quello che vuoi nella tua vita.
Il mio suono dei diciotto anni è diverso da quello di adesso, in quanto oggi sono diverso e ho fatto altre esperienze.
Avere intelligenza, sensibilità, passione e la capacità di riconoscere i propri limiti, facendoli diventare anche la propria forza: forse proprio qui, a mio parere, sta la grandezza della musica.

© Roberto Bertazzoni

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano Addio al “Patto di stu...