29 gennaio 2007

Leopoldo Pirelli

di Antonio V. Gelormini

Leopoldo Pirelli era nato a Velate, un borgo di Varese, nella splendida villa degli Zambeletti, la famiglia di imprenditori farmaceutici cui apparteneva la madre Ludovica. Rampollo della pura aristocrazia imprenditoriale milanese, con Enrico Cuccia e Gianni Agnelli ha costituito il triumvirato e cuore del “nocciolo duro” dell’economia italiana del dopoguerra.

Discrezione e riservatezza, in perfetto stile calvinista, lo hanno sempre caratterizzato insieme ad una costante attenzione alle fasce sociali più deboli. Capitano d’industria per eredità familiare, a Gianni Agnelli lo accomunava non solo una profonda ed affettuosa amicizia, ma anche la singolare situazione di non poter contare su un erede diretto per il futuro delle loro aziende.

Ossessionato dalla dimensione industriale, come fattore determinante per competere con i colossi d’oltre oceano, diversi sono stati i tentativi di joint-venture con prestigiosi marchi internazionali. Fino al disastro della scalata alla Continental, che aprì le porte alla crisi della Pirelli (fu allora che il figlio Alberto gettò la spugna, sotto il peso di un’imponente esposizione debitoria).

E’ l’ascesa del genero Marco Tronchetti Provera, imposto anche dalle alchimie finanziarie di Enrico Cuccia, ed è contestualmente il cambio di rotta dall’ossessione della dimensione alla temerarietà della diversificazione. Tra dismissioni, conversioni e new asset all’odierna Pirelli hanno cambiato le gomme. Corre più veloce, ma il rischio di uscire di strada si nasconde al di là di ogni curva.

L’erede trovato, non sempre è quello sperato.

Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

25 gennaio 2007

Dolci e Alasia

Documenti storici – L'intervista di Landolfo Landolfi allo scrittore Franco Alasia, recentemente scomparso, su Danilo Dolci, che fu premio Lenin e candidato al premio Nobel per la Pace.
DOLCI e

ALASIA
Sociologo, educatore, rivoluzionario, scrittore, poeta ma, soprattutto, uomo d’azione. La nonviolenza come strumento di persuasione.

A mezzo secolo di distanza dalla proficua esperienza siciliana di Danilo Dolci**, ripercorriamo quegli anni affidandoci ai ricordi di un prezioso testimone, Franco Alasia, l’uomo che più di ogni altro gli ha vissuto a fianco in quell’intensa stagione di amarezze e di successi.


Quando ha conosciuto Danilo Dolci?
“Nel 1947, a Sesto San Giovanni. Frequentavo una scuola serale per studenti lavoratori. Danilo venne a fare una supplenza. Io avevo vent’anni, lui 23, eravamo i più giovani. Siamo diventati subito amici. E’ strano come a volte ci si incontri nonostante la differente formazione. Io ero un operaio, lui suonava il pianoforte, scriveva poesie. Il nostro rapporto andava oltre la cultura. Per Danilo il lavoro manuale non era meno importante di quello intellettuale”.
Quando è andato la prima volta in Sicilia?
“Danilo era sceso a Tappeto, nel palermitano, nel febbraio del 1952. C’era già stato dieci anni prima con il padre capostazione ed era rimasto particolarmente colpito dall’estrema povertà. Mi scrisse di raggiungerlo, lo feci dopo qualche mese”.
Era già stato nel Sud? Si ricorda le prime impressioni?
“No, non c’ero mai stato. Ho trovato grande miseria, sporcizia ovunque. Non c’era acqua. Credevo di essere arrivato in Africa, in India. Non c’erano fognature, dalle case partivano dei piccoli scoli che riversavano i liquami in una fenditura aperta, il “vallone” che correva al centro della strada. Inoltre, bisogna ricordare che fino a poco tempo prima la zona era sotto controllo della banda di Salvatore Giuliano. Anche se era importante distinguere tra mafioso e bandito. Il primo era un criminale, il secondo un contadino affamato che si ribellava”.
Quali furono i primi problemi che vi trovaste ad affrontare?
“Il più grosso sicuramente quello dell’acqua. La soluzione era una sola. Costruire una diga sul fiume Jato che avrebbe permesso di irrigare 10 milioni di ettari, triplicando il lavoro e il guadagno delle persone. L’ostacolo maggiore era rappresentato dai mafiosi che vendevano l’acqua. Hanno cercato di bloccare l’opera ma, alla fine, siamo riusciti ad averla vinta. La gente non aveva paura solo della mafia, ma anche dello Stato. La diga avrebbe dovuto sommergere 400 ettari e i soldi per l’esproprio sarebbero arrivati dopo quattro o cinque anni. Ci fu una mobilitazione generale, un digiuno e, per la prima volta, i proprietari furono risarciti in due mesi”.
Avete ricevuto minacce?
“Sì…sì. Io e Danilo ci siamo anche incontrati con uno dei rappresentanti della cupola mafiosa. Del resto, c’era una forte connivenza tra mafia e pubblici poteri. Ricordo che sul corso principale c’era la sede della Democrazia Cristiana, lì entrava sempre un famoso boss italo-americano per partecipare alle riunioni. Nessuno si scandalizzava, neanche le sinistre”.
A un certo punto della vostra attività di denuncia vi trovaste anche nei guai con la giustizia?
“Si. Una volta, subito dopo le elezioni, ci siamo chiesti come si era formato il consenso elettorale attorno ad alcuni famosi candidati. E scoprimmo che uno di questi, un ministro democristiano, era stato eletto con i voti della mafia. Convocammo due conferenze stampa a Roma e scoppiò lo scandalo. Fummo denunciati per diffamazione e condannati: Danilo a due anni, io a un anno e sette mesi, anche se furono riconosciuti i particolari motivi di valore morale e sociale, per cui non li scontammo”.
Dell’esperienza della Radio Libera di Partinico, cosa ricorda?
“A Bologna avevamo un amico radioamatore, un giudice. Tramite lui comprammo tutto il materiale occorrente. L’antenna era alta 12 metri, il problema era montarla senza essere visti dalla polizia che ci controllava costantemente. Bisognava giocare d’astuzia. Come diversivo, divulgammo la notizia che Danilo avrebbe parlato in piazza nel tal giorno alla tal ora. Un sistema di tiranti, precedentemente preparato, ci permise di sollevare l’antenna e di iniziare, prontamente, a trasmettere. Contestualmente avevamo contattato Ferruccio Parri e gli avevamo affidato dei documenti da consegnare al capo del governo, Rumor. Telefona di qua, telefona di là, le autorità hanno ritardato di 27 ore il loro intervento. Poi sono venuti hanno sfondato la porta e interrotto le trasmissioni”.
Eravate legati a qualche partito politico? Alla sinistra?
“No”.
Un’ultima domanda, Dolci era una persona religiosa, frequentava la chiesa?
“Non nel senso tradizionale del termine. Aveva una religiosità nel suo rapporto con le cose, con la gente, nell’amore verso il prossimo”.

**Danilo Dolci nasce a Sesana (Trieste) nel 1924. Si diploma al liceo artistico di Brera e si iscrive alla facoltà di architettura, sempre a Milano. Fin da giovane si dedica ad intense letture e studia il pianoforte. Il suo interesse per i più deboli si dimostra presto. Conosce Don Zeno Saltini e, per circa due anni, condivide con lui l’esperienza di Nomadelfia. Una comunità sorta nell’ex campo di concentramento nazista di Fossoli, in Emilia, che accoglieva i bambini privi di genitori. Il 1952 rappresenta una svolta per la sua vita. Da quest’anno Dolci si getta in una intensa attività pubblica che lo vedrà impegnato nelle più disparate e disperate battaglie, principalmente nella zona del palermitano. Dalla fondazione del Borgo di Dio a Trappeto alla realizzazione della diga sul fiume Jato. Dal “Centro studi e iniziative” a Partinico al Centro sperimentale di Mirto. Fino ad arrivare alla fondazione, nel 1970, della prima radio libera d’Italia, Radio Sicilia Libera, durata solo 27 ore. E’ tutto un fiorire di iniziative. Né possiamo dimenticare le sue denunce sulle connivenze tra mafia e politica. Tutte azioni intraprese attraverso la non violenza attiva – digiuni, scioperi alla rovescia, “pressioni”sociali e l’educazione della comunità. Ma Dolci non fu solo un sociologo, un educatore, un rivoluzionario, un uomo d’azione, un idealista, fu anche un apprezzato pubblicista, scrittore e poeta. Numerosi riconoscimenti incoraggiarono la sua opera, tra i tanti il prestigioso premio Lenin e la candidatura al Nobel (entrambi per la pace). Muore nel 1997 nell’ospedale di Partinico.
Nella foto Alasia e Dolci negli anni Sessanta.
--------------------------------------------------
Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

23 gennaio 2007

"Impulso di verso" di Gianfranco Contini

Gianfranco Contini
IMPULSO
DI VERSO
Poesie
Presentazione di Pina Lalli

Parole in poesia, impulsi che spingono il pensiero a lasciarsi raccontare dalle sensazioni. La vertigine del sentire si lascia revitalizzare e invadere da un flusso che travolge, sia pure nello spazio di un verso, di una strofa, di una rima. Poesie diverse, sguardi incrociati sul macrocosmo dei grandi problemi e sul microcosmo delle passioni personali. A tratti, nelle poesie di Gianfranco Contini, s'intravede e sistaglia lo spiraglio di un pensiero, -il pensiero- quasi fosse inagguato nel vortice di un'euforia tentata ma effimera: quella del vivere intensamente il proprio passaggio nel tunnel veloce del tempo, pur così lungo da trascorrere.
----------------------------
Gianfranco Contini, psichiatra, si è formato alla psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico a Bologna presso il Gruppo "Psicoterapia e Scienze Umane". Ha lavorato nei servizi per la salute mentale in Lombardia, Molise ed Emilia Romagna. Ha diretto il progetto di chiusura dell'Ospedale Psichiatrico "San Lazzaro" di Reggio Emilia. Ha svolto attività di docente per le scuole di specializzazione in psichiatria delle università di Bologna e Chieti. È membro del Comitato Scientifico della collana di "psicoterapia e psichiatria" della Casa Editrice Clueb di Bologna ed è direttore scientifico della rivista "Prospettive in psicologia". È autore, oltre a quindici volumi di saggi scientifici, di due romanzi: "Alla fine del dolore" (Pescara 2004); "Centottanta" (Bologna 2006).

Tabula fati, Chieti 2007
[ISBN-88-7475-120-6]p. 96 -
Euro 6,00


Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

22 gennaio 2007

Film – la recensione di Bruna Alasia

UNA VOCE
NELLA NOTTE
Con Robin Williams, Toni Collette, Bobby Cannavale, Rory Culkin, Sandra Oh
Regia di Patrick Stettner

“Una voce nella notte” è tratto dal romanzo omonimo e vagamente autobiografico di Armistead Maupin, scrittore acclamato negli Stati Uniti. La storia, che non riveliamo per non togliere il gusto della sorpresa, parte da un intrigante spunto. Un romanziere famoso (interpretato da Robin Williams) presenta da anni un programma radiofonico di successo ma la sua vita sentimentale è in crisi perché il suo partner, sieropositivo e molto più giovane di lui, se n’è andato. Il protagonista, in questa delicata fase, soffre del blocco dello scrittore ed è in cerca di un’ispirazione che dia ossigeno alla sua vita e a un contratto che pericolosamente langue. Un giorno un curatore editoriale gli consegna un manoscritto che contiene le memorie di un quattordicenne che ha subito violenze e molestie sessuali indicibili dalla famiglia. Lo scrittore ne è affascinato, vuole esplorare quel mondo pericoloso, instaura con il ragazzino un’ amicizia telefonica coinvolgente e cerca di conoscerlo per salvarlo: da questo momento la sua esistenza scivola in un gorgo imprevedibile dove ciò che appare potrebbe non essere, dove l’esistenza del bambino stesso è mistero.
Armistead Maupin ha definito UNA VOCE NELLA NOTTE “un thriller del cuore”, un giallo psicologico incentrato sui fantasmi e sulle pulsioni interiori. Ma il film non ripete la seduzione del racconto, Robin Williams non riesce a ravvivare con la sua interpretazione sequenze dove i colpi di scena risultano incomprensibili. Peccato, a un inizio accattivante non segue un finale all’altezza.
Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

18 gennaio 2007

Recensione: "Pianura proibita" di Cesare Garboli

Cesare Garboli
Pianura proibita
Adelphi

La raccolta di critica “Pianura proibita” può essere a buon titolo considerata una sorta di diario di lavoro, oltre che il testamento intellettuale di uno degli ultimi grandi allievi di Natalino Sapegno, Cesare Garboli, scomparso nel 2004.

Si tratta di un testo non semplice, ma decisamente gustoso che fa della pacata discontinuità e della totale assenza di pedanteria – peccato mortale, secondo lo stesso Garboli, per un filologo – la propria trama conduttrice. La “pianura proibita” è – lo ricorda il testo – quell’orizzonte della scrittura che secondo gli arabi può essere raggiunto da un autore che vi aspiri solo dopo un intenso e prolungato sforzo. La critica sembra attribuire a Garboli medesimo l’etichetta di “studioso in guerra coi libri”. Non li amava, i libri, ma ne aveva bisogno per quell’esigenza di “pianura” che in oltre cinquant’anni di letture e scritti lo ha portato a “muoversi come un animale in mezzo a foreste e montagne, prima di scendere a valle a trovare riposo”.

Fra i capitoli maggiormente meritevoli occorre citare il primo, “Longhi scrittore”, dove si dà una suggestiva interpretazione della critica d’arte intesa come una sorta di trasposizione geometrica, con l’opera che diventa dunque un insieme di punti, una “galassia mai ferma”, una “costellazione”. “Mio sodalizio con De Pisis” rievoca invece vivide immagini della vita dell’artista ferrarese, intento ad “annusare” le vie di Parigi ed a cercare in esse la strada della propria espressione pittorica. Provocatorio è il capitolo su “Il Paracleto”, mentre suggestivo è quello dedicato alla questione della rappresentabilità del Logos nell’arte figurativa, intitolato “La scuola del silenzio”.

Se invece dovessimo sceglierne uno solo, ci sarebbe da puntare su “Dante e Guido”, un’intensa lettura del Canto X dell’Inferno, alla ricerca di Guido che non c’è e che spinge l’autore ad un fine parallelismo fra i versi di Dante, Virgilio e Brunetto Latini, fino quasi a scorgere in essi un unico “secreto calle”.

Or va mastro Burnetto / per un sentiero stretto
(Tesoretto, 1183-84)

(A. di Biase)
Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

17 gennaio 2007

Arturo Toscanini

La foto
Toscanini c'è ancora
(tratta da "La Prealpina" del 16 gennaio 2007)

La mattina del 16 gennaio 1957 una notizia svegliò New York: «Arturo Toscanini, uno degli immortali della nostra epoca, non è più». Il grande direttore d'orchestra aveva novanta anni e viveva a Riverdale, poco fuori dalla metropoli americana. Ancora oggi - 50 anni dopo la sua morte - è difficile pensare come un uomo in una sola vita sia riuscito a realizzare tanto, diventando esempio di statura morale, di gusto artistico e di intransigenza culturale. Quando ebbe la responsabilità della Scala, operò una vera rivoluzione del gusto teatrale e musicale: pretese le luci spente in sala durante lo spettacolo; impose il sipario che si chiude al centro, al posto di quello antico che cala dall'alto; vietò vietò i bis, i capelli in testa in platea e l'ingresso ai ritardatari. Giunse persino a vietare l'accesso al palcoscenico ai grandi finanziatori del teatro, come il duca Uberto Visconti di Modrone (il padre del futuro regista Luchino). E questo sarebbe nulla, se non fosse accompagnato da una continua ricerca della perfezione delle esecuzioni musicali. Nato a Parma, il 25 marzo 1867, Toscanini è figlio di un sarto e corista, acceso garibaldino; il piccolo trascorre così buona parte dell'infanzia con i nonni materni. A 11 anni ama già la musica e ottiene un posto gratuito al conservatorio di Parma, dove si diploma in violoncello. A 18 anni è a S.Paolo del Brasile e a Rio, dove gli orchestrali contestano il direttore Miguez. Toscanini sale sul podio per la prima volta ed è un trionfo con Aida, Rigoletto, Trovatore e Faust. Tornato in Italia nel 1887, suona il violoncello alla prima di Otello alla Scala, ma torna sul podio nel 1892 a Genova e Torino. Passa alla Scala quale direttore di concerti e nel 1896 è a Torino con Boheme e al Metropolitan di Nuova York con Fanciulla del West (interpretata da Caruso). Nel 1898 diventa direttore artistico e maestro principale alla Scala, mentre Torino gli affida i 43 concerti dell'Esposizione internazionale. Il 26 febbraio 1902, per la traslazione delle salme di Verdi e della Strepponi, dirige 900 voci nel coro del Và pensiero, che non compariva alla Scala da vent'anni. L'anno dopo è a Buenos Aires, poi di nuovo a Torino, quindi al Metropolitan. Scoppia la guerra e Toscanini è interventista: si spinge con una banda militare quasi in prima linea. Nel 1920 dirige un'orchestra italiana negli Usa. Al suo ritorno, nasce l'Ente autonomo Teatro alla Scala di Milano. Dopo un anno di lavoro organizzativo, presenta "Falstaff", "Boris Godunov", "Mefistofele" con Pertile, "Debora e Jaele" di Pizzetti, "Belfagor" di Respighi, il "Nerone" di Boito. Con la Scala va Vienna e a Berlino, quindi torna negli Stati Uniti, a capo della Filarmonica di Nuova York, con la quale viene in Europa nel maggio 1930. Il suo rifiuto di eseguire "Giovinezza" lo rende sgradito ai fascisti, mentre l'università di Georgetown gli conferisce la Laurea honoris causa. Finita la guerra, la Scala lo richiama, dopo la ricostruzione del teatro: dirige il terzo atto della "Manon" e il prologo del "Mefistofele", il coro del Nabucco e il "Te deum".

Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

15 gennaio 2007

In morte di Cino da Pistoia

In morte di Cino da Pistoia*

Piangete, donne, et con voi pianga Amore;
piangete, amanti, per ciascun paese,
poi ch’è morto collui che tutto intese
in farvi, mentre visse, al mondo honore.

Io per me prego il mio acerbo dolore,
non sian da lui le lagrime contese,
et mi sia di sospir’ tanto cortese,
quanto bisogna a disfogare il core.

Piangan le rime anchor, piangano i versi,
perché ‘l nostro amoroso messer Cino
novellamente s’è da noi partito.

Pianga Pistoia, e i citadin perversi
che perduto ànno sì dolce vicino;

et rallegrasi il cielo, ov’ello è gito.

---------------------------------------

*il sonetto non ha un titolo originale, ma fa parte del dittico 'In morte' che Francesco Petrarca dedicò a Cino, uno dei più grandi intellettuali contemporanei. Cino, quasi sconosciuto se rapportato al suo spessore, fece parte di quella ristretta rosa di 'notari' che, da una parte all'altra della Penisola, traghettarono la poesia volgare dalla rima primitiva della scuola siciliana fino alle soglie dell'Umanesimo.
Cino morì fra la fine del '36 e l'inizio del '37.
Il sonetto porta il numero 92 nella bella edizione del Canzoniere edita da Mondadori.
(Nella foto: Dante, Cino e Petrarca)

--------------------------------------
Libero circuito culturale da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

Film – La recensione di Bruna Alasia
COMMEDIA SEXY
Regia Alessandro d’Alatri
Con Sergio Rubini, Margherita Buy, Paolo Bonolis, Stefania Rocca,  Elena       Santarelli, Michele Placido, Rocco Papaleo
 
L’On. Bonfili (Paolo Bonolis), devoto circondato da ecclesiastici e simboli religiosi, è alle prese con una legge bacchettona sulla regolamentazione della famiglia e su un’immagine di irreprensibile nitore si sta giocando la carriera. In realtà l’onorevole ha un’amante, un’attricetta molto sexy, alla quale ha regalato un attico con vista sul Colosseo. Nel momento in cui rischia di essere scoperto, per evitare lo scandalo, l’On. Bonfili mette in atto un piano di depistaggio: parte con la famiglia per Parigi e manda in vacanza l’amante con il suo autista.
La manovra riuscirà, ma fino a un certo punto…
Da qui una serie di avventure godibili che conducono a una conclusione consolatoria, dove sono puniti i cattivi e premiati i buoni, attraverso il filo della favola satirica che fa di questa pellicola non soltanto un “film panettone” ma anche una commedia di costume sul mondo della politica e dello spettacolo, confermando Alessandro d’Alatri regista di livello.
Scontata la bravura di Sergio Rubini, Margherita Buy e Stefania Rocca; piacevole la recitazione di Elena Santarelli, ex dell’isola dei famosi; simpatica ma un po’ sopra le righe l’interpretazione caricaturale di Paolo Bonolis, più adatto forse a impegnare la sua parlantina e la sua mimica sul grande schermo.
 
 

12 gennaio 2007

"Quasi possibili" di Costantino Quarta

Libri – recensione di Bruna Alasia

QUASI POSSIBILI
di Costantino Quarta
Edizioni il Filo
€ 14.00


“Quasi possibili” è la raccolta di racconti di Costantino Quarta, premiati in diversi concorsi letterari, che oggi le edizioni il Filo presentano nel panorama letterario come voce nuova. Autore nato a Roma nel 1953, dove tuttora vive e lavora, Quarta racconta con taglio agile e cinematografico quattro storie metropolitane “Quasi possibili” che, soprattutto alla luce degli ultimi fatti di cronaca nera, assumono un tono di veridicità sul mistero della condizione urbana, popolata di individui crudeli e assurdi, aggiungendo al ritmo della suspence story una nota di kafkiana rappresentazione dei rapporti tra gli uomini.
Alcune azioni accadono a Napoli, altre nella capitale e dintorni, ma poco importa il loro tessuto sociale e geografico, perché tutte hanno come comune denominatore la capacità di attirare il lettore in un dedalo fantastico di coincidenze, apparentemente inspiegabili ma verosimili, che tengono desta la sua attenzione. Un noir che si fa seguire, sospeso tra realtà e sogno, popolato di personaggi horror, dove la città diventa una scatola magica, una sorta di “Arancia meccanica” il cui pericoloso incubo non resta che scoprire.
------------------------
Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com
IL GRUPPO
FOTOGRAFICO
AUTOSCATTO di Miriam Ballerini

Appiano Gentile (CO), 1980.
Quattro persone, appassionate di fotografia, istituiscono il gruppo fotografico Autoscatto.
Si tratta di: Franco Fumarola, Enrico Munaretto, Gianni Pagani e Franco Tarantini.
Da subito, l’Autoscatto si distingue dagli altri foto club per la presenza di una attrezzata e attiva camera oscura.
Il gruppo si ingrandisce e arriva a racchiudere una trentina di soci. Tiene corsi di fotografia, sviluppo e stampa seguiti da almeno una ventina di allievi.
Attualmente, dopo circa due anni di fermo che potremmo definire una pausa di riflessione, l’ associazione è tornata a riunirsi, progettando programmi per il futuro.
Dopo l’avvento del digitale il gruppo ha subito una botta d’arresto: insegnare camera oscura non aveva più un suo senso e le attività sono andate via via scemando.
Oggi, si ripresenta con una veste rinnovata, con un nuovo presidente e con nuovi intenti. Quelli, cioè, di aprire la collaborazione ad altri foto club, del comasco e oltre, con i quali avere un fruttuoso scambio di idee e la possibilità di organizzare mostre fotografiche.
Inoltre, l’associazione proseguirà con l’impegno preso con il comune di Appiano Gentile, di mantenere un archivio storico.

Questo il nuovo direttivo:
Presidente Aldo Colnago
Vice presidente Ivan Buzzi
Segretario e tesoriere Francesco Lombardini.
Soci: Serrago Giancarlo, Bruno Fasola, Marinoni Giuseppe, Franco Fumarola, Enrico Munaretto, Gianni Pagani, Franco Tarantini.

Chi volesse avere informazioni può telefonare al 338-4558930 da lunedì al venerdì, dalle 19,00 alle 21,00.
Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

Recensione: "Mandato di arresto europeo" di Alberto Costanzo

Alberto Costanzo
MANDATO D'ARRESTO EUROPEO
[ISBN-88-89756-14-4]
P. 96 - € Euro 8,00
Edizioni Solfanelli - Chieti 2007

In tutti i paesi dell'’Unione Europea il mandato d’'arresto europeo è pienamente operante. In tal modo garanzie elaborate nel corso di secoli di civiltà giuridica vengono spazzate via da un’ eurocrazia anonima, lontana, priva di legittimazione popolare, che opera secondo procedure sconosciute alla stragrande maggioranza degli europei. Non solo lo Stato rinuncia ad una delle sue prerogative inalienabili — la tutela dei propri cittadini all’'estero, —ma persino la difesa tecnica (l’'avvocato difensore) viene vanificata. Ci sarà pure un giudice a Berlino!”, aveva esclamato il mugnaio di fronte alla prepotenza del re di Prussia. E l’aveva trovato, il giudice. Oggi non c’è più. Queste pagine aiutano ad orientarsi in una materia di scottante attualità sula quale l’'opinione pubblica è tenuta totalmente all'’oscuro.

ALBERTO COSTANZO, nato a Torino nel 1962, si è laureato in Giurisprudenza e dal 1991 esercita la libera professione di avvocato. Da molti anni collabora all’'organizzazione di iniziative e manifestazioni culturali con la finalità di far conoscere al grande pubblico autori, opere e tematiche “non conformi”, che la cultura ufficiale emargina o censura. È fondatore, insieme ad altri, del periodico “La Fortezza”.

http://www.edizionisolfanelli.it/
Info: edizionisolfanelli@yahoo.it

Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

11 gennaio 2007

I racconti di Versailles – n. 3 - di Bruna Alasia

QUANDO LUIGI XVI ERA BAMBINO
Racconto terzo

Rientrato da Compiégne, la residenza vicino alla foresta dove aveva trascorso un appassionante periodo di caccia e in solitudine si era riletto Robinson Crosue, stanco del viaggio Luigi Augusto si buttò a dormire dopo avere esagerato con la cena: montagne di creme Chantilly sopra la frutta con ghiaccio tritato! Mangiare per lui una droga. Al buio, nella stanza col letto dal baldacchino contornato di tende doppie, lo stomaco pesante come un macigno, stentò a prendere sonno: ripensava, come accadeva spesso, a suo padre e a sua madre entrambi morti prima delle nozze con Maria Antonietta. Che tour de force quel matrimonio, banco di prova, quotidianità stravolta dall’ obbligo dinastico con un’ estranea, una consorte che parlava francese con un accento che intimidiva. Per questo scaricava le energie rincorrendo i cervi, dilettandosi a fare chiavi insieme al fabbro, contento quando poteva andare a letto da solo. Non era felice come marito, cosciente di non essere tale a causa dei suoi problemi sessuali: l’idea di fallire, di non sapere fare figli, lo ossessionava. Avrebbe preferito restare bambino, se avesse potuto. La responsabilità di diventare re, la nuova condizione di render conto a madame delfina, lo disturbava al punto che l’ infanzia pur avara di affetti, a ripensarci, diventava fatata.
Lo stancavano della sua graziosa moglie i continui rimbrotti. Lui applicava la filosofia del “vivi e lascia vivere” assumendo un atteggiamento che avrebbe definito di distacco, ma lei un giorno gli aveva chiesto “a che si deve la vostra apatia Monsignore?”. Si era sentito denudato. Maria Antonietta si ergeva a giudice, voleva condizionare gli altri! Ad esempio, non sopportava Madame du Barry e premeva perché fosse isolata. Non aveva completamente torto dal momento che Madame era passata da una casa di piacere a quella di Luigi XV, ma se suo nonno voleva così, avrebbe potuto mettersi contro di lui? A parte il fatto che segretamente finiva per trovarla simpatica: allegra, sincera, quando lo invitava a cena con sua maestà era affettuosa e sorridente, troppo naïve forse ma non calcolatrice, capace di raffinati intrighi. Una del popolo certo, però buona: a Versailles ciò era merce rara e accettarla significava farsi benvolere dal sovrano senza prenderne a modello la condotta.
Ricordava che una sera, rientrando dal gabinetto del Pendolo dove aveva tirato tardi giocando a carte con la du Barry e suo nonno, Maria Antonietta gli aveva sbarrato il passo:
- Monsignore, la vostra condotta è esecrabile!
- Cosa?
- Siete stato ricevuto da quella signora…
- Sono stato dal re…
- Come potete avallare questo scandalo a corte?
- Non posso decidere io per il sovrano…
- Ma siete voi il futuro re di Francia, quale esempio darete?!
- Madame, non esagerate… conviene essere gentili con Luigi XV…
- A Schönbrunn tutto questo non sarebbe successo…
- Madame, qui non siamo in Austria…
- Purtroppo… - e Maria Antonietta era scappata via.
Cosa avrebbe dato Luigi Augusto in momenti come quello, insopportabili per il suo carattere, per affondare ancora il viso nel petto di maman Marsan e sentirne il profumo, o meglio la puzza di sudore…
Mamma Marsan, vedova di un principe di Lorena, governante dei figli di Francia, che si era coscienziosamente occupata di lui e dei suoi fratelli giacché la loro madre, sua altezza Maria Giuseppina di Sassonia, non aveva tempo. Luigi sentiva ancora il bisogno di una vera mamma, gli era mancata una persona che lo accettasse per quello che era: dolore da cui neanche i re guariscono. Per di più aveva avvertito con grande sofferenza come madame de Marsan, “la sua piccola amica”, gli aveva preferito il fratello, il duca di Borgogna, l’erede al trono, l’idolo da cui tutti erano attratti.
Girandosi emise un rutto liberatorio e dietro le palpebre rivide la stanza dei giochi com’era allora, con il camino acceso, dove insieme avevano percorso il primo tratto della vita.
Suo fratello era duca di Borgogna, lui duca di Berry: da piccoli venivano chiamati Borgogna e Berry. Luigi era nato il 23 agosto del 1754, Borgogna aveva tre anni di più. Erano molto diversi, persino fisicamente: Borgogna delicato, con lucenti capelli corvini e un viso appuntito, Berry tarchiato, biondo con la mascella quadrata. Mamma Marsan diceva che gli occhi di Borgogna esprimevano uno sguardo da maestro e andava in estasi per le sue frasi argute che il Mercurio di Francia riportava: -“ Che acume… sentite questa…” Berry, timido e taciturno, all’ombra dell’altro si sentiva dimenticato. Più veniva messo da parte più si appartava e il delfino per lui diventava sempre più irraggiungibile.
Nel 1758, quando Borgogna ebbe sette anni, certi signori imparruccati e austeri, chiamati “membri della facoltà”, lo presero in disparte e gli fecero molte domande. Sprofondato in una seggiola con braccioli troppo alti il piccolo rispose con padronanza. Richiesto quale fosse il suo più grande desiderio Borgogna dichiarò:
- Diventare re… inviato da Dio per incoraggiare il popolo.
I signori si guardarono eloquenti e stabilirono che l’esame era terminato e che il delfino era pronto. Mamma Marsan, cambiati i suoi abitini infantili con un vestito da grande, lo affidò a quegli sconosciuti con commozione e si eclissò per non tradire emozioni.
Il mattino dopo Berry si svegliò da solo.
- Borgogna dov’è?
- E’ passato agli uomini – rispose madame de Marsan aiutandolo a indossare il pagliaccetto.
- Ma dov’è andato?
- Te l’ho detto è passato agli uomini… è diventato grande… ora farà una vita veramente seria… dovrà imparare il protocollo, l’etichetta, le riverenze… di lui si occuperà il duca di La Vauguyon…
Berry la guardò interrogativo e sospettoso.
- Borgogna adesso è grande… – spiegò la governante - Avrà gentiluomini personali, paggi personali, scudieri personali, il suo elemosiniere, il suo cappellano… hai capito?
- No.
- Borgogna assisterà alle cerimonie in pubblico come un grande… - lo mise a sedere e gli allacciò i nastri delle scarpe.
Cerimonie in pubblico? Penso angosciato Berry ricordando vagamente come, a due anni e dieci mesi, quando suo nonno gli aveva fatto conferire l’onorificenza degli ordini di Saint Lazare e del Mont Carmel davanti a uno stuolo di sconosciuti era scappato per la paura…
- Ma Borgogna dov’è? Perché non c’è? – Berry chiamò il suo nome, attese, nessuna risposta. Corse fuori dell’enorme camera da letto, guardò nelle altre stanze, allineate senza fine in sinistro silenzio. Quando capì che suo fratello non sarebbe tornato scoppiò in un pianto dirotto e inconsolabile.

Borgogna invece divenne presto fiero del suo ruolo. A otto anni era altezzoso, calato nel rango, prendeva sul serio il fatto di ascendere da Dio, cosciente di ciò che rappresentava, era beffardo, arrogante e redarguiva tutti, fino all’insolenza. Pigro e soddisfatto non voleva studiare: il latino in particolare gli ributtava. La sua intelligenza e il suo acume, pur aiutandolo, non potevano sempre colmare il vuoto di chi preferiva trascorrere il tempo a trastullarsi e i cortigiani assecondavano, per calcolo e per paura, il suo amore per il divertimento.
Un giorno accadde che Borgogna si trovasse sopra un bellissimo cavallo di cartapesta nella sala dei giochi con un gentiluomo della Manica al suo servizio, il marchese di La Haye. Il piccolo delfino lo spronava fingendo di essere inseguito e lo stesso faceva il marchese.
- Forza Monsignore! Seminate i vostri nemici… - diceva La Haye al piccolo e nella foga, senza rendersi conto della potenza impressa, gli diede una manata. Il bambino perse l’equilibrio, precipitò da oltre un metro, si slogò l’anca rimanendo malamente impigliato con un piede in una staffa. Una terribile fitta. Scoppiò a piangere.
- Monsignore, vi siete fatto male? – balbettò il marchese sbiancando.
- Sì. -
- Molto?
- Sì.
- Fate vedere - la Haye tastò l’anca del duca che mugolò più forte.
- Coraggio – il marchese cercò di calmarlo e di asciugargli le lacrime pensando terrorizzato che sarebbe stato cacciato da Versailles se fosse sorto un problema – non è nulla… non fatevene accorgere o ci puniranno. Promettetemi di non di dire niente a nessuno altrimenti ci proibiranno di giocare ancora, avete capito?
- Dite davvero? - Borgogna lo guardò perplesso.
- Ma certo… promettete di mantenere il segreto?
- Ve lo prometto – rispose il piccolo alzandosi e nel farlo sentì che la gamba gli doleva moltissimo ma, onestamente e stoicamente, mantenne la parola data a la Haye.
Fino al giorno in cui l’ascesso all’attaccatura della coscia non divenne così doloroso e gonfio da impedirgli di camminare. Venne messo a letto. Spesso aveva la febbre. L’edema si andava facendo più scuro e i chirurghi decisero di incidere la piaga. Tagliarono, senza anestesia, con un bisturi che entrò a tre dita di profondità e grattò l’osso. Terrorizzato e debole, Borgogna quasi non fiatò. Purtroppo, a causa degli strumenti non sterilizzati e di un’incisione condotta senza cognizione, il male si aggravò. La piaga si fece purulenta e la tubercolosi vi si stabilì. Era ogni giorno più esangue, la febbre toccò vette da far temere per la sua vita. Per alleggerirne la sofferenza i genitori pensarono di dargli un compagno di giochi. E fu così che il duca di Berry, a soli sei anni, uno prima del tempo, fu anch’esso obbligato a “passare agli uomini”. La cerimonia ebbe luogo l’8 settembre 1760: quel giorno il futuro Luigi XVI smise l’abituale pagliaccetto di velluto bordato di pelliccia per un completino da grande, coi pantaloni lunghi, secondo l’ultima moda francese.
Essere separato da mamma Marsan fu di nuovo traumatico:
- Maman…. Non lasciarmi… maman… – gli tese le braccia senza esito Berry.
La governante aveva totalmente rimpiazzato la madre vera, Maria Giuseppina di Sassonia che, alle prese con le toilettes, le messe, i pranzi e le cene, le tappezzerie, la musica, le letture pie, non aveva mai vissuto con i propri figli. La separazione e la condizione nuova costarono a Berry una lunga misteriosa malattia. L’adattamento alla vita col fratello non fu facile: era grande fatica accontentarlo, tanto più che l’immobilità e la sofferenza lo avevano reso irascibile. Berry lo riteneva un sovrano e si sentiva il suo servitore.
Un giorno giocando a carte con lui si accorse che barava.
- Ma che fate, mi fregate l’asso?
- No, quest’asso è mio! – esclamò Borgogna levandolo dal mazzo dell’altro, Luigi fece per replicare ma il delfino lo zittì con un’occhiata. Per quanto sempre meno in forze il primogenito era imbevuto del potere, dell’immagine deificata e falsa, del principe ereditario, e non per cattiveria ma perché così era stato educato.
Al fratello minore impartiva dei sermoni moralizzatori.
- Voglio prendere nelle mie mani la vostra educazione… - sentenziava il malato in direzione di Berry, chiedendo al tutore di leggere ad alta voce La gazzetta di Versailles, che elencava le sue debolezze e i progressi spirituali. Quindi, al fratellino che lo guardava con occhi sbarrati, pontificava: – Cercate di imparare come amo correggermi dai difetti… farà bene anche a voi!
Se il tutore si imbatteva in un passo imbarazzante e critico, Borgogna alzava la voce:
- Basta! Da tutto questo ormai mi sono corretto!
Berry con quei boccoli biondi, la fossetta sul mento cicciotello, gli occhi cerulei e limpidi, la bocca a cuore, pur trattato con prepotenza e umiliato dal confronto, voleva comunque bene al fratellino, che sentiva come unico protettore. Per questo quando a Borgogna venne impartita l’estrema unzione perché stava per raggiungere il regno dei cieli, Luigi non capì: che voleva dire “passare al Signore”, dove lo mandavano questa volta? Il male però era inesorabilmente giunto allo stadio finale: alla tubercolosi ossea si era aggiunta quella polmonare e Borgogna morì la notte di Pasqua mentre una campana batteva le due. Era il 21 marzo 1761.
Il povero duca di Berry continuò ad abitare le lussuose sale che l’altro aveva abbandonato e si sentì solo. Era intimamente certo, per di più, di non contare agli occhi dei suoi genitori: non era facile succedere a qualcuno che aveva qualità eccezionali, non era facile essere il sopravvissuto, non lo era diventare a sua volta delfino. Ora infatti, dopo suo padre, il principe ereditario sarebbe stato lui perché primo dei figli rimasti. E questa consegna, giunta a seguito di un lutto al quale aveva assistito giorno dopo giorno, gli aveva istillato una segreta ansia, oltre alla sensazione nient’affatto vaga di inadeguatezza e di timore per il futuro.
L’anno seguente si ammalò suo papà: anche il principe Luigi Ferdinando morì a causa della tubercolosi, nel dicembre del 1765, a soli trentasei anni e dopo molte sofferenze. Fu sotterrato con grande solennità sotto l’altare candido della cattedrale di Sens. Il piccolo Luigi aveva di quel giorno un ricordo nebuloso: come di grande vuoto, di smarrimento alla comunicazione che adesso il suo nome cambiava e che per tutti sarebbe divenuto Monsignore il delfino. Poi suo nonno Luigi XV, sulla porta della chiesa, lo accarezzò asciugandogli le lacrime: “Povera Francia… – mormorò – un delfino undicenne, un re di cinquantasei anni…”.
A quel tempo le epidemie, le malattie, non risparmiavano proprio nessuno, nemmeno i più ricchi: fra loro solo i più forti sopravvivevano. Così un paio di anni dopo morì sua madre, Maria Giuseppina di Sassonia, infettata a sua volta dalla tubercolosi al capezzale del marito. A vegliare sul suo futuro non restò che il tutore, il bigotto e interessato duca di La Vauguyon. Ma già anni prima il duca, appena scomparso suo padre, andava accarezzandogli le spalle con languide dita adunche, meditando su quale capitale sarebbero state le confidenze di un futuro sovrano.
Nel freddo marzo del 1766, La Vauguyon e Berry, una mattina stavano percorrendo in carrozza il lungosenna verso Notre Dame. Il protocollo impediva a Luigi XV di assistere a una cerimonia mortuaria e La Vauguyon, accompagnando il piccolo assumeva il delicato incarico di sostituirlo. Scesi sul piazzale i due si avviarono alla cattedrale dove si sarebbe svolta la messa da requiem per il riposo del principe Luigi Ferdinando: vedendo le statue dei re di Israele e di Giudea, ora che suo padre non c’era più, Berry pensò alla caducità dei sovrani ed ebbe un attimo di vero sgomento. Entrarono. C’era odore di incenso, sotto i piedi l’ammattonato diseguale. Presero posto. Il suono dell’organo, osservò interrogativo la vergine. Gli tremò il mento. Dietro le lacrime i rosoni variopinti diventarono fiori bagnati. Provato dall’ufficio stancante sulla via del ritorno Luigi Augusto, depresso, non disse una parola. Di nuovo a Versailles il tutore insistette per condurlo davanti al ritratto di suo padre. Bui corridoi, labirintiche sale, scorciatoie misteriose con porte mimetiche. Poi, rischiarato dalle candele, quel volto, dipinto appena l’anno prima, forse un po’ smagrito ma sereno, la fronte ampia e illuminata.
“ Abbiamo reso al delfino gli ultimi doveri – disse ieratico il duca di La Vauguyon - lui non c’è più, ma non potremo mai dimenticarlo e lo piangeremo insieme. Sappiate fin da ora che sarò io a rimpiazzare vostro padre: lui mi ha dato la più grande prova della sua fiducia incaricandomi di prendere il suo posto presso di voi per insegnarvi a diventarne degno”.
Il piccolo scoppiò in singhiozzi e si gettò fra le braccia del tutore.
La Vauguyon, con inconsapevole sadismo, continuò:
“Promettetemi che l’imiterete, che vi impegnerete sin da ora”. Poi indicò il quadro: “Vedete il suo ritratto? Immaginate che respiri ancora, venite a meditare davanti alla sua immagine, proponetevi ogni giorno di copiare una delle sue virtù… ripetete, ripetete le sue orme sempre… fate che io possa un giorno dire: Dio mi ha innalzato tra gli uomini migliori, ha dato alla Francia il più grande dei principi e me lo ha restituito nella persona di suo figlio!”
Quelle parole cariche di morte e di responsabilità piegarono definitivamente il bambino. Il volto mummificato del tutore sembrò ravvivarsi, gli tremò il doppio mento, il naso aquilino fremette di orgoglio, sorrise: - Ecco… vedo che avete capito.
Luigi pianse, si fece accompagnare a letto, gli chiese di restare e di tenergli la mano. Quando La Vauguyon sparì si addormentò con la testa piena di immensità : aveva un modello da perseguire, altissimi livelli da raggiungere, doveva diventare un dio, degno dei suoi avi. Essere se stesso una colpa e un lusso che non poteva permettersi. Dormì male rigirandosi più volte e verso il mattino sognò una scala a chiocciola che lo portava in cielo e non finiva: di colpo si svegliò tutto sudato, vide la stanza piena di ombre misteriose. Affreschi sul soffitto come mostri. Spaventato chiamò il valletto di camera:
- Dell’acqua… presto!
Indugiò a bere finché non fu più calmo.
Sensibile, insicuro, con un’infanzia di sofferenze, di inclinazioni naturali soffocate, fragile, senza particolari talenti, senza grinta. Paffutello e sgraziato, un bambino ordinario come milioni: ma per inesorabile forza d’inerzia Luigi Augusto Capet era sospinto dagli eventi, prigioniero orgoglioso di una tradizione secolare, verso un destino da re, incredibilmente straordinario quanto deciso dal caso.
Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@virgilio.it

08 gennaio 2007

"Il processo all'Ordine dei Templari" di Alberto Lapidari

Il processo all'Ordine dei Templari

Il motivo principale per il quale ci si accosta facilmente all’ultimo testo sui Templari scritto da Alberto Lapidari - giovane storico non professionista, ma molto ben documentato -, è l’intenzione prontamente mantenuta di tenersi lontano dal tradizionale filone fantastico e filoesoterico che normalmente caratterizza i testi sull’argomento e che, se non stanca mai i dietrologi e i 'maghi', finisce per allontanare inesorabilmente gli amanti delle letture stuzzicanti.

Il testo è abbastanza breve perchè raccolto nel tipico formato tascabile della collana di saggistica “Il calamo e la ferula” dell’editore Solfanelli di Chieti.

Il tema sviluppato da Lapidari in quella che è anche stata la sua tesi di laurea è dunque prettamente storico e si focalizza, cogliendo probabilmente il nocciolo della questione, sul processo a quello che viene definito come l’ordine monastico più glorioso della storia della cristianità.

La prima cosa che colpisce è il contrasto tra l’immagine che una certa letteratura ci lascia dell’Ordine e quella che emerge dall’analisi della documentazione storica e dallo studio del contesto politico e religioso del tempo. Clemente V, un papa politicamente debolissimo - così debole da essere costretto a spostare la sede papale da Roma ad Avignone, dando in questo modo inizio al celebre settantennio di cattività -, cerca di difendere l’Ordine del Tempio dalle accuse infamanti che il “religiosissimo” re francese Filippo il Bello ha raccolto contro quest’ultimo. La sodomia e l’idolatria nei confronti del cosiddetto e mai rinvenuto “Bafometto”, - un nome che probabilmente non fu scelto a caso dagli inquisitori del tempo per la sua assonanza con “Maometto” – oggi sarebbero state credute poco realistiche o magari condannate per l’appartenenza degli accusati ad un ordine religioso, ma certo l’accusa rivolta ai Templari – e confermata da molte confessioni, sia pur sotto tortura, come emerso troppo tardivamente – secondo la quale nelle procedure di ammissione i novizi erano invitati a “sputare sulla croce”, anche oggi farebbe rabbrividire i più.

Lapidari ricorda inoltre che, come del resto anche oggi avviene, non tutti gli appartenenti al famoso ordine militare erano persone di cultura. Fra loro vi erano anche individui modesti che si ritrovarono in uno scandalo ed un processo più grandi di loro.

Nel testo viene anche ricordato che non si può escludere la pratica della sodomia da parte di singoli appartenenti all’ordine, ma certo i Templari godevano – nonostante le voci di popolo ben sfruttate dall’accusa - di una considerazione eccezionale per la propria condotta morale, cosa questa che si nota per via di alcuni particolari citati dall’autore: la ricchezza accumulata dall’Ordine – soprattutto immobiliare - era a quel tempo considerevole e tale da potersi considerare appetibile per uno stato in grave difficoltà economica come la Francia di Filippo, al punto che si sospetta sia stata questa la vera ragione storica delle false accuse che gli furono rivolte; eppure è notevole ricordare che fu desiderio del pontefice istituire all’uopo tribunali ecclesiastici costituiti da una maggioranza di frati francescani e domenicani, cioè dai cosiddetti ordini mendicanti. Non può non stupire questo frangente perché ricorda che i Templari, pur gestendo collettivamente un enorme patrimonio, presi singolarmente non possedevano che le proprie vesti. Se poi non bastasse il contesto processuale per rendersi conto della considerazione nel quale era tenuto l’Ordine, si può ricordare che ispiratore della Regola templare era stato San Bernardo da Chiaravalle, il quale ne aveva anche tessuto le lodi nell’opera “Elogio della nuova cavalleria” ed aveva donato loro la Regola benedettina.

Altre cose poi fanno pensare ad obiezioni più sensate sulle attività del Tempio: ad esempio in un’epoca nella quale i tassi di interesse non erano controllati come oggi, i Templari contendevano agli Ebrei il primato sul “credito”, ma agli inquisitori del tempo questa dovette sembrare un’accusa troppo debole per gli usi vigenti. Oppure va ricordato l’uso di custodire gelosamente le procedure di ammissione all’Ordine e di evitare di parlare pubblicamente di certi argomenti; ma quello che oggi parrebbe anacronistico dovette all’epoca sembrare comprensibile pensando che questa era una prassi diffusa in molte scuole di filosofia dell’antichità’.

Nel complesso si deve ribadire che “Il processo all’Ordine dei Templari” è un libro pregevole sull’argomento, nuovo e sintetico, meritevole per lo sforzo documentario anche se non integralmente condivisibile nei giudizi.

Un appunto? Lapidari è fin troppo polemico nelle sue conclusioni, soprattutto quando ci tiene a sottolineare che l’Ordine del Tempio è oggi estinto, come se davvero fosse necessario sottolinearlo e come se, in fine, l’affermazione nascondesse invece una qualche preoccupazione. In questo frangente l’autore va rassicurato. L’Ordine del Tempio è estinto, ma per fortuna molte altre Regole sono sopravvissute. Nessun orizzonte dello spirito è svanito con l’estinzione dell’Ordine dei Templari.

(A. di Biase)

Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

04 gennaio 2007

"La canzone di Susannah" di Stephen King

Stephen King
LA CANZONE DI SUSANNAH
© 2004 Sperling & Kupfer Editori S.p.A

Prosegue la saga in questo sesto libro della famosa serie della Torre Nera.
Susannah, posseduta da Mia, incinta del Tizio, fugge attraverso la porta introvata per andare a partorire.

In questo volume vediamo i personaggi a noi ormai noti, spostarsi dal mondo dove si sono trovati e uniti, alla ricerca della torre nera, per tornare nel mondo conosciuto, in diversi quando.
Jake, padre Callahan e Oy inseguono Susannah – Mia.
Roland e Eddie vanno a trovare Calvin Torre, il proprietario del terreno con la rosa, per concludere il loro contratto e proteggere così quel fiore assai prezioso per l’incolumità dei mondi.
Questo sesto libro scorre veloce, pagina dopo pagina. Ed è quello che, finora, raccoglie in sé, custodisce, i trucchi migliori del vasto repertorio di King.
Oltre che a ripresentarci brani e personaggi pescati da altri suoi libri famosi, il lettore si trova a tu per tu con lo stesso King. Roland e Eddie, infatti, lo vanno a cercare, dopo aver compreso di essere dei personaggi scaturiti dalla sua fantasia.
Ho trovato questo passaggio davvero geniale!
Il libro si conclude col parto imminente di Susannah – Mia e con delle pagine prese da un diario tenuto da King, il quale racconta come stia procedendo il suo lavoro.
E, altro colpo di scena, lo scrittore sfrutta l’incidente che ha avuto nel 1999, quando fu investito da un minivan; ma, sorpresa delle sorprese, ne resta, forse,ucciso.
Chi sarà, allora, a scrivere il settimo e ultimo libro della serie della Torre Nera?
----------------------------
Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

02 gennaio 2007

Documentari – Verso un mondo nuovo – recensione di Bruna Alasia

VERSO UN MONDO NUOVO
1967, la Sicilia in cammino
Regia di Alberto Castiglione.


A nove anni dalla sua scomparsa, Danilo Dolci, sociologo-poeta più volte candidato al nobel per la pace, rimane personaggio complesso e non ancora esplorato intorno al quale l’attenzione storica si focalizza alla ricerca di testimonianze e immagini che possano ricostruire il suo messaggio e la sua vita.
Con il patrocino del Ministero dei beni culturali, la Koiné film e il centro per lo sviluppo creativo Danilo Dolci, hanno reso possibile il documentario di Alberto Castiglione “Verso un mondo nuovo: 1967, la Sicilia in cammino” che ripercorre le tappe dell’opera di Dolci partendo dalla “Marcia per la Sicilia occidentale e per un mondo nuovo” organizzata da Dolci e dai suoi collaboratori, che ebbe luogo dal 6 all’11 marzo 1967 e vide tra i partecipanti Carlo Levi, Ernesto Treccani, Ignazio Buttitta e Lucio Lombardo Radice. Attraverso rare immagini storiche, rare registrazioni di discorsi di Dolci alla popolazione, attraverso la lettura di sue poesie e annotazioni, il documentario di Alberto Castiglione percorre le tappe più importanti dell’operato e del pensiero del sociologo-poeta: dalle manifestazioni per il lavoro, l’acqua e la pace, sul finire degli anni ’60, alla progettazione e costruzione della scuola di Mirto, nei pressi di Partinico (Palermo) dove si insegna con il metodo maieutico fondato da Dolci stesso.
Attraverso il racconto di alcuni stretti collaboratori di Dolci, come Orazio De Guilmi, Pino Lombardo, Lucio Giummo, Renate Zwick, Giacoma Cannizzo, del suo giovane biografo Giuseppe Barone, attraverso le testimonianze di bambini educati a Mirto, di persone che lo hanno conosciuto e hanno vissuto la sua diretta influenza, Alberto Castiglione ricompone una preziosa messa a fuoco degli avvenimenti, degli obiettivi e dell’eredità di Danilo Dolci: la lotta non violenta contro la mafia, per un’acqua democratica, la prima radio libera del nostro paese, lo sperimentare attraverso la musica nuovi rapporti umani, secondo Dolci unica via per il cambiamento reale dell’esistente.
Tessera importante, quella di Castiglione, documento necessario e fondamentale alla conoscenza di una figura poliedrica che molto ha contribuito, con ineguagliato esempio morale, alla crescita democratica del nostro sud, sentito come laboratorio sperimentale per uno sviluppo planetario.
Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano Addio al “Patto di stu...