30 giugno 2013

Riflessione: la persona nella Bibbia


Poche note di riflessione sul cuore

 Scrive P. Beauchamp, «Nella Bibbia non troviamo un vocabolo che sia equivalente alla nozione di Persona», in L’idea di Persona a cura di V. Melchiorre, Pubblicazioni dell’Università Cattolica, Milano 1996, p. 33. Pero vi è forte l’idea dell’eletto, e questo rimanda all’unico. L’insieme degli eletti costituisce il popolo eletto. Un esempio di questa unicità dell’uomo dinnanzi a Dio è data dal Salmo 91:
[1] Tu che abiti al riparo dell'Altissimo
e dimori all'ombra dell'Onnipotente,
[2] dì al Signore: "Mio rifugio e mia fortezza,
 mio Dio, in cui confido".
[3] Egli ti libererà dal laccio del cacciatore,
dalla peste che distrugge.
[4] Ti coprirà con le sue penne
sotto le sue ali troverai rifugio.
[5] La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza;
non temerai i terrori della notte
né la freccia che vola di giorno,
[6] la peste che vaga nelle tenebre,
lo sterminio che devasta a mezzogiorno.
[7] Mille cadranno al tuo fianco
e diecimila alla tua destra;
ma nulla ti potrà colpire.
[8] Solo che tu guardi, con i tuoi occhi
vedrai il castigo degli empi.
[9] Poiché tuo rifugio è il Signore
e hai fatto dell'Altissimo la tua dimora,
[10] non ti potrà colpire la sventura,
nessun colpo cadrà sulla tua tenda.
 
Questa unicità che prefigura la persona è correlata strettamente al cuore. Nella Bibbia, il cuore è la sede non solo dell'attività spirituale, ma di tutte le operazioni della vita umana. "Cuore" ed "anima" sono la stessa cosa. In questo senso "cuore" non è mai attribuito agli animali. Così nel Deuteronomio (6,5), è scritto: Tu amerai dunque il Signore tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima tua e con tutte le tue forze ... ed anche nel vangelo è ripreso questo concetto, ad es. in Mt 22,37: Gesù gli disse: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Ed ancora in Mc, 12,30-33, ove Gesù sintetizza la Legge, che ha a che fare direttamente col cuore, perché è scritta nel cuore, come se Dio avesse impresso nell’anima i nomoi, che sono innati: Ama dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima tua, con tutta la mente tua, e con tutta la forza tua". Il secondo è questo: "Ama il tuo prossimo come te stesso". Non c'è nessun altro comandamento maggiore di questi». Lo scriba gli disse: «Bene, Maestro! Tu hai detto secondo verità, che vi è un solo Dio e che all'infuori di lui non ce n'è alcun altro; e che amarlo con tutto il cuore, con tutto l'intelletto, con tutta la forza, e amare il prossimo come se stesso, è molto più di tutti gli olocausti e i sacrifici. Su questa base il cristianesimo, soprattutto a partire da San Paolo ha costruito il concetto di Persona. Il cristianesimo dei primi secoli volle usare il termine persona per chiarire le relazioni intercorrenti tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. La persona o ipostasi, dunque, fu estesa dalla deità all’uomo.  La scelta fu molto felice, anche se fu proprio alla base della famosa controversia trinitaria non sopita nemmeno dalle decisioni del Concilio di Nicea (325). Bisognò attendere San Tommaso per una formulazione della persona: in Dio la relazione non è un accidente, ma la stessa essenza divina; di conseguenza la persona è divina. Come l'essenza divina è Dio, così la paternità divina è Dio Padre, la figliolanza divina è Dio Figlio e l'amore divino Dio Spirito Santo. Nella filosofia tomistica l'uomo è persona in quanto natura distinta. San Tommaso aveva messo l'accento sull'essenza della persona, rationalis naturae individua substantia (Summa Theol., I, q.29, ad 1), ma c’è una differenza di fondo tra individuo e persona, come scriveva Mounier:  Ogni persona ha un significato tale da non poter essere sostituita nel posto che essa occupa nell'universo delle persone. Tale è la maestosa grandezza della persona che le conferisce la dignità di un universo; e tuttavia la sua piccolezza, in quanto ogni persona è equivalente in questa dignità, e le persone sono più numerose delle stelle. Il valore irrinunciabile della persona è correlato a quello della famiglia, che deve essere fondato sulla fedeltà e sull’amore coniugale. L’insieme delle persone costituisce la famiglia, l’insieme delle famiglie costituisce la società civile, che deve essere fondata sulla solidarietà e sulla giustizia sociale. Lo Stato deve adeguarsi al diritto naturale, che è la legge eterna, come la definiva San Tommaso, voluta da Dio, oltre a quella rivelata. Solo in questo senso potremmo cogliere il rapporto profondo con Dio, che è rapporto tra persone o meglio tra la nostra persona e le Persone di Dio: il Padre, il Figlio e lo Spirito. E noi siamo persona proprio in virtù di questa relazione con Dio, per cui godiamo per partecipazione, la metessi platonica, delle Persone divine e nello stesso tempo possiamo rapportarci agli altri ed a noi stessi. Le tre anime, come Platone le definiva, la concupiscibile, l’irascibile e la razionale vivono in noi. Un esempio di questo intimo rapporto con Dio ci è dato dal Singolo davanti a Dio di Kierkegaard. Il Singolo per Kierkegaard ha una grandissima importanza poiché è creato ad immagine di Dio. Kierkegaard, in base a tale realtà, attacca la filosofia speculativa e il sistema hegeliano. L'esistenza per il filosofo corrisponde alla realtà singolare, cioè al singolo. La filosofia sembra essere interessata soltanto ai concetti: si preoccupa solo di quell'esistente concreto che possiamo essere io e tu, e non dell'irripetibilità e singolarità della persona. Il singolo in sostanza è il punto su cui egli converge la sua filosofia. Contro i concetti rivendica l'esistenza. Il singolo è la categoria attraverso cui devono passare il tempo, la storia e l'umanità. Ed è il singolo l'unica alternativa all'hegelismo poiché per Hegel ciò che conta è l'umanità. Per Kierkegaard il singolo è la contestazione e la confutazione del sistema, della forma di immanentismo e panteismo con cui si tenta di ridurre e di riassorbire l'individuale nell'universale. Il singolo diviene così baluardo della trascendenza. La persona si erge contro il cristianesimo universalmente diffuso e l'organizzazione sociale dell'umanità come folla. Il singolo si pone nel cammino di riconoscere il proprio io a poco a poco: ne segue la gradualità della vita e gli stadi che impongono nell'esistenza una crescita umana. Prendiamo un passo del Diario di un seduttore: Ella è davvero bella! Povero specchio, deve essere un tormento, fortuna che non sei geloso,. Il suo viso è d'un ovale perfetto, ed ella tiene il capo leggermente reclinato così che, limpida e superba, la sua fronte pare innalzarsi senza che il pensiero la solchi d'una minima ruga. I suoi neri capelli si raccolgono, sottili e morbidi, sulla fronte. Il suo volto è come un frutto, ogni tratto dolcemente pronunciato; la sua pelle, lo sento con gli occhi, è diafana, come velluto toccarla. I suoi occhi: oh! Ancora non li ho veduti, ché sono nascosti dalla frangia di seta si quelle ciglia adunche come uncini pericolosi per chi vuole penetrare il suo sguardo. La sua testa è una testa di Madonna, purezza e innocenza l'improntano. Ella si china come una Madonna, ma non si perde nella contemplazione dell'unico, il che dona una variazione all'espressione del suo volto. Ciò che ella contempla è il Molteplice, il Molteplice sul quale il lustro e lo splendore terreni gettano un loro riflesso. Si leva un guanto per mostrare allo specchio e a me una mano destra bianca e perfetta come marmo antico, senza alcun ornamento e neppure il liscio anello d'oro al terzo dito - brava! Ella solleva gli occhi: come tutto in lei si trasfigura, pur rimanendo invariato! La fronte è un po' meno alta, il volto un po' meno regolarmente ovale ma più vivo. Anche qui, in qualunque senso, pur nella dispersione della personalità, tipo il pirandelliano Uno, nessuno, centomila, il Singolo che è la Persona per eccellenza - e torniamo all’assunto di fondo già evidenziato a principio di questo percorso (Persona=singolo=unico=eletto), - si trova sempre, volente o nolente, a doversi confrontare con sé stesso in tutti gli stadi della vita, ad esempio quelli kierkegaardiani: estetico, etico, religioso. Passiamo all’ultimo punto: il contributo della Chiesa orientale alla costruzione del concetto di persona è fondamentale. Anzi la persona è un ponte di collegamento ecumenico tra le chiese ed è fondamentale. Nella Chiesa orientale  la persona che entra nella vasca battesimale non è vista come quella persona che ne emerge. Perciò alla persona viene dato un nuovo nome, usando sempre ed esclusivamente il nome di un santo. Altra nota ad esempio è la percezione della condizione "miracolosa" dei resti mortali o reliquie, anche se questo da solo non è considerato sufficiente. In alcuni paesi Ortodossi è prassi di rimuovere le tombe dopo tre o cinque anni, a causa dello spazio limitato. Le ossa vengono lavate rispettosamente e poste in un ossario, spesso con il nome della persona scritto sul cranio. Occasionalmente, quando un corpo viene esumato avviene qualcosa ritenuto miracoloso, che mostra la santità della persona. Per quest’ultimo obiettivo abbiamo preso in esame un passo di Isacco di Ninive: Beato colui il cui cuore è stato aperto e che ha percepito qual che Dio farà al genere degli esseri dotati di ragione. È mirabile come la nature intellegibili sopportino questa gioia, esse che conoscono esattamente questa speranza, dove siano invitate esse stesse e noi. (Isacco di Ninive, La conoscenza di Dio, Mondadori, Milano 1985, p. 38). Che meravigliosa descrizione della persona umana! La letteratura in tal senso è immensa, ma ci fermiamo qui. Non ci meravigliamo affatto che leggiamo ne I fratelli Karamazov che c’è un grosso libro con la copertina gialla che copre, nella stanza di Smerdjakov il denaro che fu il movente del delitto. Quando Ivan Karamazov legge il titolo, si tratta de I sermoni del nostro santo padre Isaak il Siro, un libro che Dostoevskij possedeva e dal quale ha tratto molti spunti, soprattutto nella parte del romanzo dove lo staretz Zosima parla dell’amore di Dio.
 
Vincenzo Capodiferro

29 giugno 2013

Gli intellettuali e la prosa in età comunale

Monumento a Cangrande della Scala - Fonte Wikipedia


Piccolo viaggio nella letteratura italiana
 
E' più facile scrivere sulla prosa del Duecento e del primo Trecento italiano se ci si sforza di comprendere, almeno schematicamente, quale tipologia di intellettuali operarono nell'età comunale, cioè in quel periodo della storia d'Italia che inizia simbolicamente con la battaglia di Legnano del 1176, quando i comuni della Lega lombarda sconfissero il Barbarossa, e si conclude nella seconda metà del XIV secolo con il lento ma progressivo e definitivo affermarsi delle signorie.
Il Duecento è dunque anche il secolo dei comuni autonomi e del decentramento politico, che non mancherà di condizionare fortemente la produzione letteraria; è il secolo nel quale emerge la 'ragione' (cioè la contabilità) sia come strumento operativo sia come misura della ricchezza della nuova classe mercantile, la quale vorrà poi emanciparsi anche sul piano politico e culturale, e che troverà nell'istituzione comunale il terreno più adatto al proprio sviluppo.
Il centro comunale più importante per la letteratura in prosa del XIII secolo fu, non ce ne voglia Guido Guinizzelli, soprattutto Bologna, dove già da oltre un secolo era attiva l'università fondata dal giurista Irnerio.
Facciamo tuttavia un passo indietro e dedichiamo due parole alla figura dell'intellettuale perché in questo modo possiamo meglio comprendere, per ogni categoria di autori, le ragioni dello scrivere in un'epoca di così forte transizione politica, sociale e linguistica: in questo periodo dobbiamo dunque ricordare innanzitutto il personaggio dello 'scrittore ecclesiastico', che è l'uomo di cultura più comune se non altro per ragioni di sostentamento personale: più avanti si vedrà di Petrarca (che prese i voti sostanzialmente per amore dello studio), ma tra i maggiori vedremo anche il frate laico Guittone d'Arezzo. Poi ancora viene la nuova e importante figura dello 'scrittore cittadino', appartenente alla classe mercantile o comunque legato alle corporazioni comunali: il ruolo più importante qui lo svolgeranno i giuristi ed in particolare i notai, ma non mancheranno i politici come il giovane Dante Alighieri e Dino Compagni. Più tarda sarà poi la personalità dello 'scrittore di corte' (e siamo nel Trecento), la cui opera è votata al prestigio della signoria: celebre ed esemplificativa di questa letteratura sarà la dedica del “Paradiso” di Dante a Cangrande della Scala, il quale all'epoca manteneva e proteggeva l'esule fiorentino.
Vale la pena di sottolineare come la laicizzazione della cultura, che è diretta ratio di quanto appena sopra accennato, avrà anche conseguenze importanti sul processo di 'secolarizzazione della storia' e mi spiego: nel Medioevo e fino proprio alla metà del Duecento la storia era percepita dagli uomini come prodotto esclusivo della provvidenza divina, ma da ora in poi gradatamente non sarà più così; i libri di ricordi come il “Milione” del veneziano Marco Polo e le “Cronache” di storia comunale diffuse a cavallo fra Due e Trecento, come quelle di Salimbene da Parma o del citato Compagni e di Giovanni Villani a Firenze, contribuiranno ad un graduale e sia pur primigenio sviluppo della storiografia come oggi la conosciamo, cioè come una scrittura della storia che ha nell'uomo un protagonista attivo e consapevole.
Si è detto di Bologna, che per bocca del cattedratico fiorentino Boncompagno da Signa fu “caput exercitii literalis”, cioè riferimento per i letterati del tempo: qui operarono Accursio Bolognese (autore della “Glossa magna”, testo fondamentale di pratica giuridica), nonché il notaio retore ed epistolografo Guido Faba.
Un posto di spicco spetta però al “De ecclesiastica potestate” di Egidio Romano, più che altro per la forte dipendenza da quest'ultima opera della celeberrima bolla pontificia “Unam Sanctam”, firmata da Bonifacio VIII nel 1302; mentre una citazione è dovuta al “Liber consolationis et consilii”, opera morale e filosofica scritta da Albertano da Brescia, dalla cui edizione francese attinse Chaucer per i suoi ben più celebri “Racconti di Canterbury”.
All'interno di questa vastissima e varia produzione letteraria vanno infine marcatamente distinte due autentiche pietre miliari: il “Novellino”, una raccolta di aneddoti in volgare fiorentino che andranno a costituire l'inizio di un genere, quello della novella appunto, destinato a lunga e larga fortuna fino ai nostri giorni; ultimo poi, ma non in importanza, il “Liber abbaci” del pisano Fibonacci, che introdurrà invece le cifre arabiche e l'algebra nella cultura occidentale.

 
Antonio di Biase
 
Bibliografia:
  • Forme della prosa del Duecento”, da pag. 131 a 159 de “La letteratura”, Vol 1, Baldi Giusso Razetti Zaccaria , Paravia, 2006. Dello stesso volume inoltre “La figura dell'intellettuale nell'età comunale” da pag 186 a 207.
  • Storia della letteratura italiana” di E. Cecchi e N. Sapegno, Garzanti, 2001 (Ed. per Corriere).
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-  Pubblicazione riservata a insubriacritica.blogspot.com

28 giugno 2013

Anticipazione: ad ottobre "Misure morbide", Mimmo Iacopino alla Galleria Melesi di Lecco


Con Misure Morbide, Mimmo Iacopino (Milano, 29 ottobre 1962) propone una trentina di lavori inediti, proposti per la prima volta in mostra.

Artista conosciuto per la raffinata qualità dell’utilizzo di differenti materiali, Iacopino si è avventato su una tavolozza fatta di fili mouliné in cotone, strisce di velluto, di raso, metri da sarto, da banco, senza rinunciare alla pittura. Attraverso il sottile gioco di incastri ed eleganti stratificazioni di masse colorate, da vita a una infinita produzione di complessi reticoli. “Trama orditi” in una composizione che diviene con l’atto stesso del fare. La trama cambia, i fili si intrecciano, si intersecano, vengono ricomposti, metabolizzati e, solo dopo numerosi passaggi, l’opera può dirsi compiuta.

Decontestualizzati dal loro abituale campo d’esistenza i materiali, diventano corpi morditi e lucenti che disegnano profondità, proporzione ed equilibrio compositivo. Con uno spiccato rigore “estetico” ereditato da un passato come fotografo di still life (Iacopino arriva da Studio Azzurro), l’artista agisce seguendo un progetto fatto di calcolo ma anche d’istinto, il risultato: il ritmo, il respiro, l’emozione del fare pittura.

Nell’estate del 2012 per la prima volta assembla nello stesso quadro metri e nastri di velluto e raso. Diversi per morfologia e funzione i materiali coesistono, si valorizzano, si esaltano l’uno a contatto con l’altro: Misure morbide.

Sperimentati sotto forme, misure e accostamenti differenti i metri si palesano tra le tante in opere di grandi dimensioni come Misure morbide verticali bindelle intrecciate a velluti dai toni delicati, in Totem colonna verticale alla quale si accompagnano piccole tele satellite tutte fatte di bindelle di differenti colori, Metro cubo sculture a forma cubica e Misura morbida il pezzo “forte della mostra”. Costruita con rigore sul supporto della tela e appoggiatasi nel suo divenire al “limite” del telaio, è stata liberata per palesarsi in tutta la sua tridimensionalità.

Elemento caratterizzante di questa mostra, la misura di Iacopino è una misura altra, non è la matematica operazione d’analisi, non indica, come nella geometria descrittiva, la dimensione lineare o angolare, non è come in metrologia il risultato dell’operazione di misurazione, ne è la misura della musica, qual valore che indica un gruppo di note o pause comprese in una durata definita, la misura di Iacopino è una misura personale: astratta.

All’artista non interessano i centimetri o i millimetri scanditi sui metri, è il prodotto industriale che lo interessa, l’oggetto stesso è il ritmo intrinseco che ha, un ritmo sincopato in un intreccio che ora si palesa, scompare, dialoga con altri materiali, superfici. Spogliata la misurazione di tutti i suoi contenuti, i suoi limiti e tutta la relatività che gli sta intorno, i metri di Iacopino sono solo soggetto: materia e colore.

Preparati appositamente per la Galleria Melesi, inediti anche i gioielli di Iacopino, interessanti ciondoli d’artista.
Accompagna la mostra un catalogo di 60 pagine curato dall’artista e con testo critico di Francesca Brambilla.

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Fonte : Sabina Melesi - Lecco

27 giugno 2013

Economia: fare impresa per il rilancio del paese


Le scelte (obbligate) della politica : lavoro e fisco


di Antonio Laurenzano


Allarmanti i dati diffusi nei giorni scorsi dal Centro Studi di Confindustria: nel manifatturiero il numero di occupati è sceso di circa il 10% e “le imprese italiane saranno probabilmente costrette a tagliare ulteriori posti di lavoro nei prossimi mesi”. Dall’inizio della crisi persi 539 mila posti! Una situazione di grande criticità all’interno della quale si colloca il dato sulla disoccupazione giovanile che ha raggiunto in Italia un tasso del 42% sull’aggregato degli occupati, con un significativo aumento nel primo trimestre dell’anno di quasi 6 punti percentuali sul corrispondente del 2012.
Il nostro Paese vive da tempo un’emergenza economica con preoccupanti segnali di tensione sociale. Sul tappeto tanti problemi che si vanno sempre più aggravando, dal prelievo fiscale divenuto insostenibile alla drastica riduzione dei flussi creditizi delle banche, al crollo dei consumi. Le ricette degli economisti per il salvataggio del sistema Italia si sprecano. Ma tutte, nella prospettiva di una ripresa dell’economia reale, pongono l’impresa al centro del rilancio del Paese. Dal Governo si attende una efficace politica nei confronti delle attività produttive alle quali sono strettamente legate reddito, occupazione e….consumi. Un circolo virtuoso da riattivare attraverso una politica che deve mirare a un alleggerimento della leva fiscale, in particolare con una imposizione più soft degli utili d’impresa (esentare i redditi capitalizzati) associata a un quadro normativo chiaro e stabile nel tempo, con un minor carico di adempimenti burocratici.
Il nostro sistema economico scricchiola sotto il peso della pressione fiscale e della crescente burocratizzazione. Occorre dare certezze a chi vuole fare impresa, occorre sciogliere … lacci e laccioli per liberare risorse ed energie, occorre configurare un diverso rapporto fisco-contribuente in termini di semplicità e di minore reciproca diffidenza. Nell’ottica di un equilibrato sviluppo territoriale, Nord-Sud, va disegnata una nuova road map per la ripresa del Paese, arginando l’inquietante fuga all’estero dei “cervelli” nostrani. Potenziare e valorizzare le specificità produttive delle singole aree del Paese, le loro vocazioni, con interventi mirati, non più a pioggia con un dannoso assistenzialismo che non ha sortito effetto alcuno, alimentando spesso i canali della corruzione e, ancor peggio, quelli della malavita organizzata.
E’ questa l’unica strada percorribile per creare lavoro, supportando cioè lo spirito d’impresa, al di là di trite enunciazioni in odore elettoralistico! Affrontare senza indugi, con determinatezza, il nodo dell’occupazione, il problema centrale dell’attuale situazione di crisi.
Creare lavoro a una condizione imprescindibile: ridurre il costo del lavoro con una progressiva eliminazione dalla base imponibile Irap del costo del lavoro (una vera assurdità!) e con una riduzione degli oneri sociali sulle imprese, in parte fiscalizzandoli e in parte armonizzando le aliquote contributive per gli ammortizzatori sociali. Questo potrebbe favorire il recupero della competitività di prezzo dei nostri prodotti, specie sui mercati internazionali, oltre a propiziare incrementi retributivi se affiancati a provvedimenti di detassazione dei salari di produttività.
E per dare ampio respiro al progetto di ripresa, perseguire una politica di investimenti che incorporano ricerca e innovazione nell’ambito di un piano pluriennale finanziato da “project bonds” europei per una politica industriale moderna al passo con le economie più sviluppate.
Si è perso molto tempo nell’inseguire politiche socio-economiche fallimentari, prive di ogni previsione di crescita. Occorre, in sintesi, puntare su una politica economica interna più espansiva, compatibile con l’Europa, riducendo il prelievo fiscale e riformando la macchina pubblica per essere vicini all’economia reale, far scendere il debito pubblico senza ricorrere a misure di finanza straordinaria che tanto aggiustano …. quanto rompono! Nelle emergenze è necessario recuperare il coraggio delle scelte. Presto!

25 giugno 2013

Libri: "Joyland" di Stephen King


© Sperling & Kupfer 2013

ISBN 978-88-200-5427-4  86-I-13

Pag. 352  € 16,91

King non smette mai di stupire. Per questo suo nuovo lavoro ha scelto un parco giochi e, nonostante ci sia all’interno una sorta di giallo da risolvere, quello che prevale non è l’orrore degli omicidi, né la suspense.
Ciò che troviamo è una dolcezza nei modi, sia nello scrivere che nelle qualità dei vari personaggi.
La delicatezza dell’amore, del primo amore, delle prime delusioni.
La passione per la prima volta di un giovane; i nuovi amori, l’amicizia.
Protagonista un giovane universitario, Devin. Per l’estate trova lavora presso il parco di divertimenti di Joyland, non una Gardaland dei nostri tempi, il libro è ambientato nel 1973; ma semplici giostre: la ruota panoramica, le tazze, i cavallini, la maga che legge la sfera, il tiro a segno e, ovviamente, il castello dell’orrore.
Si vocifera che lì dentro sia stata uccisa anni prima una ragazza, e che il suo fantasma abiti ancora gli angoli più bui.
Devin si appassiona alla storia, tanto che deciderà di rimanere a lavorare lì anche durante la stagione invernale.
Non vedrà mai il fantasma della fanciulla, ma, con l’aiuto di un bambino speciale, risolverà il caso.
La storia è narrata da un Devin anziano che ricorda il dolore per la perdita del suo primo amore, una ragazza che lo ha tradito.
Ci parla degli amici conosciuti nel parco, coi quali aveva lavorato fianco a fianco per tutta l’estate.
Niente colpi di scena eclatanti, niente paura o batticuori particolari; ma ci si affeziona ai vari personaggi, anche a quelli dai modi più bruschi.
Alcuni hanno paragonato questo libro a Il miglio verde e Le ali della libertà… non ho trovato similitudini, le storie sono assolutamente diverse e scritte con toni differenti. Forse la similitudine sta nella trama: perché si parla di uomini, di sentimenti, di emozioni forti.
È difficile per un autore che ci regala i suoi lavori ben dal 1970 riuscire a trovare vicende nuove da narrare e, con esse, riuscire ancora a non essere mai banale e a sorprendere!

 

© Miriam Ballerini

 

24 giugno 2013

Campionato italiano juniores di ciclismo ad Appiano Gentile (CO)



 
Domenica 23 giugno 2013 Appiano Gentile, famosa per la squadra di calcio Inter, si è riempita di tifosi del ciclismo.
Si è disputato il campionato italiano juniores sulle strade cittadine, con arrivo in Piazza Libertà.
Organizzata dal Pedale Appianese, una giornata che ha visto le vie riempirsi di ciclisti accaldati, ma tenaci nei 103 km di gara, suddivisi in 3 circuiti lunghi e 6 brevi.
Presenti club comaschi che hanno fatto squadra col nostrano Pedale Appianese, per organizzare al meglio la gara.
Al termine della gara la volata finale di due concorrenti, mentre i protagonisti più attesi alla vigilia, pare non abbiano lasciato il segno.
Ecco l’ordine di arrivo:
1° Matteo Trippi di Bessi Calenzano, Toscana. Km 136.200 in 3h 11’04’’ media 42.770
2° Luca Raggio di Casano, Liguria.
3° Giacomo Garavaglia di Busto Garolfo, Lombardia.

 

© Miriam Ballerini

 

21 giugno 2013

La peste del Trecento


Immaginario di un virus letale
 
-  La peste! La peste!
Urlano uomini e donne, pazzi di terrore. La paura è dipinta sui volti delle popolazioni del Trecento. La  peste fa orribile strage e rovina. Più avanza, più le notizie si susseguono ininterrotte e sempre più lugubri e impressionanti. Ogni passeggero può essere un untore, o un apportatore del terribile morbo. Le città sono deserte, chiudono le loro porte. Le saracinesche dei castelli sono abbassate. La gente fugge verso le montagne per sottrarsi al miasma. Tutti fuggono: è uno spettacolo di desolazione. Chi assiste i poveri appestati? Tutti fuggono perché hanno la certezza di essere colti dal morbo crudele, solo avvicinandosi ad un ammalato. Per questo gli appestati vengono ammucchiati per strada, vivi e morti, o negli ospedali o si lasciano nelle case soli ed abbandonati. Si dimenticano anche i parenti e gli amici. Fuggire! Fuggire! La peste infuria. La peste bubbonica! La peste nera! È tanti lustri che non fa più la visita all’Europa questa terribile mietitrice, eppure il suo nome mette ancora spavento. Il Medio Evo conobbe questa sterminatrice di popoli, tremenda giustiziera, mandata da Dio a punire le umane iniquità. Si chiama anche peste asiatica, perché è nata in Asia e dopo aver invaso il grande Impero Cinese, mietendo a migliaia le vittime raggiunge l’India e continuando la sua marcia inarrestabile attraverso la Persia si propaga in Armenia e poi in Egitto. Quando i pellegrini della Terra Santa danno l’allarme essa già batte alle porte dell’Europa, che trema impotente alla venuta del contagio. Le isole dell’Egeo sono le prime ad essere invase, poi le rive del Mar Nero. Già avanza verso il Don attraverso le pianure russe. L’Italia può guardarla ancora da lontano, sennonché le navi sono il nefasto veicolo propagatore. Con le ricche merci che caricano nei porti del Levante portano anche la morte distruttrice. I cronisti tramandano che i viaggiatori che sono su quelle navi muoiono tutti, o quasi, prima di arrivare in Italia, quasi come se fossero vascelli di fantasmi. Pisa e Genova, abituate a vedere le loro galere come superbe dominatrici dei mari entrare nei loro porti cariche di ogni ben di Dio si ravvedono e provano che la ricchezza invece di portare il benessere può portare strage e morte. Di là si propaga in Toscana, in Umbria, in Romagna ed oltre, nel Napoletano e in Lombardia. Diventa la regina indisturbata d’Italia, mentre tutti ne seguono esterefatti il corso sterminatore più o meno violento, ad intervalli più o meno lunghi, per più di trecento anni. Da Ostia è importata a Roma ed infesta parecchi quartieri, soprattutto laddove la popolazione è più fitta e le norme igieniche più trascurate. Parecchie nazioni sono invase. Giovanni Villani nelle sue “Cronache”, così ci descrive il terribile itinerario: «Grande pestilenza di mortalità e di fame avvenne nelle parti di Germania, cioè nella Magna di sopra, verso tramontana, ed estesasi in Olanda, Frisia ed in Sislanda; e per Brabante, Fiandra ed Analdo, insino in Borgogna e parte di Francia, e fu sì perigliosa che più che il terzo delle genti morirono; e da un giorno all’altro quelli che pareva sano era morto». E  A. Coppi, nella sua Storia delle più celebri pestilenze, Roma 1832, ci riporta dei dati sconcertanti: l’Italia e la Francia sono le più colpite. Tanto per fare degli esempi: Avignone ai tempi conta 100.000 abitanti, in tre mesi ne perde più di 60.000. Muoiono 500 persone al giorno, poi 1000, poi i vivi non bastano a seppellire i morti. A Parigi ne muoiono più di 1.300 al giorno. L’Italia è spopolata. Solo a Siena giacciono inermi 70.000 cadaveri, a Parma 40.000, a Trapani quasi tutti gli abitanti, a Firenze più di 100.000, come riporta anche Spondano nei suoi Annales Ecclesiastici ad annum MCCCXV. Il morbo si comunica al solo avvicinarsi all’appestato, anzi al solo guardarlo. La prima manifestazione è un bubbone olivastro, o paonazzo, che compare sulle anche o sotto le ascelle. La povera vittima viene assalita subito da una febbre ardente, una sete insaziabile le divora le viscere e poi mancanza di respiro, stringimento di gola e vomito accompagnato da spasimi atroci. La pelle diventa nera ed emette da tutti i pori un fetore intollerabile: alla fine la vittima spira in mezzo a convulsioni indescrivibili. Così scrive Agnolo Tura in una testimonianza della Cronaca Senese: «Per la città non si sentiva più un rintocco di campana, né alcuno rimaneva a piangere i morti, perché i superstiti temevano di subirne la medesima sorte… Il padre non assisteva alla morte del figlio, il fratello fuggiva il fratello, la sposa abbandonava lo sposso per timore del contagio, potendo questa terribile malattia comunicarsi solo con l’alito. Si seppellivano i cadaveri senza nessuna cerimonia e solennità e molti di essi venivano dissotterrati dai cani che li facevano a brani perle vie… Ed io stesso, Angelo di Turo, detto il Grosso, sotterrai i miei figli in una fossa con le mie mani e similmente fecero molti altri». Nessun mezzo umano vale a combattere la peste. Ancora nel 1879, portata dai Cosacchi dopo la guerra Russo-Turca, fa la sua comparsa sulle rive del mar Caspio. L’Europa trema di nuovo. La scienza non ha alcun rimedio, ancora, per debellare il formidabile virus. A nulla serve fermare i passeggeri, sequestrare le merci, sorvegliare le persone sospette, sottometterle a rigide quarantene, farle disinfettare con lavande e con profumi prima di rimetterle in società. L’igiene certo non è curata e la profilassi nemmeno, ma a nulla serve prendere precauzioni contro il mortifero spirito del morbo. I principi e i nobili, ad esempio, prendono precauzioni per evitare l’importazione del male, ma sono tutte inutili e vane. La morte non guarda in faccia a nessuno. Fuggire! Ecco il supremo comandamento in tempo di peste. Cede cito: parti al più presto! Longinquo abi: va lontano! Serusque reverte: tarda a tornare! Mox, longe, tarde. Haec tria tabipicam tollunt adverbia pestem. Subito! Lontano! Tardi! Ecco le parole d’ordine quando la peste si avvicina. Si cercano le cause della peste in alcuni moti astrali. Si accusano gli ebrei di aver avvelenato i pozzi e le fontane. E proseguono gli stermini di quei poveri ebrei, capro espiatorio di tutti i mali del mondo fino al novecento inoltrato, soprattutto in Germania e Francia. Non sono bastati i pogrom delle crociate. E mentre la morte imperversa molti di abbandonano alla frenesia a godere la vita che fugge. Il timore di una morte così orribile rompe tutti i vincoli sociali. Tutti fuggono, tranne qualche cittadino generoso, qualche magistrato intrepido, qualche medico o qualche religioso, mosso da cristiana carità, che resta ad affrontare con eroismo nobile le furie della strage. La storia ancora ricorda l’immaginario di questo virus letale che ha infestato il mondo intero allora conosciuto. Manzoni ne “I Promessi Sposi” ne dà sentite descrizioni, e parla dei monatti, spronati dall’interesse a soccorrere gli appestati.
Vincenzo Capodiferro

20 giugno 2013

Lo psichiatra Borgna: l'ergastolo è come uccidere. Senza speranza l'uomo muore



 
 

 

 

 


 di Michele Brambilla “La Stampa”
 

L’ultima cosa che dice, uscendo dal suo appartamento che si affaccia su uno dei più bei baluardi di Novara, è “possiamo sempre cambiare”. Una sorta di atto di fede nell’uomo. Eugenio Borgna, uno dei padri della psichiatria italiana, non è fra chi crede che siamo solo un insieme di cellule destinate a seguire un programma nel quale non c’è spazio per la libertà. Non crede quindi neppure, come tanti sembrano pensare, che delinquenti si nasce e si muore, senza possibilità di rimorso e redenzione.

 

Proprio “la speranza” è uno dei suoi temi ricorrenti. Provo a sintetizzare, sperando di non banalizzare: la sofferenza può essere feconda, può portarci a riflettere e a migliorare; ma l’importante è che la solitudine non diventi isolamento, e che il dolore non diventi disperazione. Sono, l’isolamento e la disperazione, condizioni umane ahimè così frequenti in carcere, dove non a caso il numero dei suicidi è dieci volte superiore che fuori.

 

Uno dei primi contatti con quel mondo misterioso e terribile che è il crimine, il professor Borgna l’ebbe alla metà degli Anni Settanta, quando la Corte d’assise di Novara affidò a lui e a un collega la perizia psichiatrica su uno dei rapitori della povera Cristina Mazzotti, una diciannovenne sequestrata in provincia di Como e trovata morta in una discarica del Varallino di Galliate. “Uno degli imputati”, racconta, “aveva indotto praticamente l’intero ospedale psichiatrico di Catanzaro a dichiararlo incapace di intendere e volere. Avevano falsificato le cartelle cliniche in una maniera che pareva scientificamente inconfutabile. Sapemmo cogliere in quelle cartelle ripetizioni di moduli standardizzati che attribuivano a questo signore sintomi inconciliabili con gli altri. Quell’uomo aveva dimostrato, nell’ingannare un intero ospedale, una straordinaria intelligenza che pareva demoniaca. Era una persona di nessuna cultura, eppure capace di esercitare una forma di dominio psicologico. Un personaggio da Dostoevskij. Noi lo dichiarammo capace di intendere e volere e fu condannato, alla fine di un processo epocale”.

 

Ma è convinto che anche gli psichiatri abbiano tanto da imparare dal contatto con il carcere. “Ho incontrato le persone che hanno creato strutture di lavoro all’interno del carcere. Non so quali psichiatri avrebbero potuto fare cose come quelle che ho visto. Far lavorare persone che hanno avuto percorsi di quel tipo implica l’essere dotati di una visione dell’uomo e del mondo che non esclude mai le cose ritenute impossibili. Ed è giusto così, perché non si può escludere che anche nel cuore apparentemente più arido e sepolto si possano nascondere risorse che non ci immaginiamo. Coloro che lavorano per il recupero dei condannati sono persone animate da una grande speranza che viene anche dalla fede, che può essere anche una fede civile. Solo così, solo credendo, solo sperando contro ogni speranza, si può costruire un carcere diverso da quello che conosciamo”.

“Ho visto in volto quei detenuti che adesso lavorano. Uno psichiatra qualcosa può capire dagli sguardi. Il modo in cui si presentano colpisce. Colpisce il distacco immediato e radicale tra il pregiudizio, che vorrebbe queste persone perdute, e la realtà che abbiamo di fronte”. Gli chiedo: che cosa è un pregiudizio? Come lo definirebbe? “Come una forza distruttrice. La stessa che colpisce chiunque sia malato di depressione, e viene considerato dai “normali” come un essere destinato a perdersi, a gesti violenti contro il prossimo o contro sé stessi. Invece, la depressione può essere una fase attraverso la quale migliorarci”.

 

“Il pregiudizio è quella particolare deformazione che ci porta a giudicare gli altri generalizzando i comportamenti di un certo momento. Pensiamo ai carcerati. Quelle persone hanno compiuto reati gravissimi, ma se voglio analizzare una persona, non posso partire dal reato che hanno commesso. Metto tra parentesi quel fatto: non lo cancello, ma cerco di capire la persona com’è adesso. Una persona non è definita dal reato che ha commesso, anche se noi abbiamo la tendenza a pensare che invece sia così. Invece dobbiamo vedere la loro possibilità di ri-creazione, o meglio di rinascita”. Continua: “Paradossalmente sono i reati più gravi che possono determinare le conversioni più sconvolgenti. Più grande è il male compiuto, più è possibile essere portati a rendersi conto del proprio errore. Allora accade una cosa terribile, è come una bomba atomica che distrugge l’uomo di prima e lascia aperte strade immense per ripartire”.

 

Chiedo al professore se una simile spinta al cambiamento, che non può essere disgiunta dalla speranza, può scattare anche in chi ha l’ergastolo e, quindi, nessuna speranza di rifarsi una vita, almeno “fuori”. “È il grande tema del tempo. Uno è divorato dal passato per il male che ha commesso, e questo brucia qualunque speranza di futuro. È un pericolo non solo per chi ha l’ergastolo. Chi è detenuto rischia di essere privato di una delle tre dimensioni agostiniane del tempo: passato, presente e futuro. E chi vive una vita che non ha futuro può essere portato a una disperazione senza confronto.

 

“Veda, per evitare equivoci le dico subito questo: le carceri devono esistere. Lo spartiacque, però, dev’essere la diversa immagine della condizione umana. Se riteniamo che l’aver commesso un reato grave debba essere un “per sempre”, noi amputiamo il futuro. E senza il futuro c’è il suicidio. Quanti si chiedono il perché di tanti suicidi in carcere? È ovvio che ci possono essere varie concause, le condizioni di detenzione eccetera. Ma quello che fa decidere per il suicidio è il passaggio dalla speranza alla disperazione”.

 

“Con l’ergastolo nessuno più può mantenere un lumicino di speranza. È un’eutanasia imposta da persone educate, civili, religiose. Dal punto di vista psicologico, è forse la tortura maggiore: l’uccisione della speranza. È come dire: vi uccidiamo due volte. “Quello che noi siamo - ha scritto Nietzsche - è quello che diveniamo”. È il futuro che fa di noi quello che io e lei siamo in questo momento. Noi siamo un’attesa”. Quasi mi vergogno, nel congedarmi, nel chiedergli se il sistema carcerario italiano... Sorride: “Così com’è adesso, mostra di non credere che esista una possibilità di cambiamento”, mi risponde quest’uomo convinto, come San Paolo, che dove abbonda il peccato può sovrabbondare la grazia.

 

Intervista all'economista Alberto Quadrio Curzio sulla crisi in Europa

                                      
La politica economica dell’Ue: rigore e recessione- Le speculazioni dei mercati- La road map per il futuro dell’Italia : fisco, investimenti, occupazione- Uscire dall’euro?: ”un prezzo altissimo!”

di  Antonio Laurenzano
L’Europa, questa Europa non fa più sognare! Il “modello europeo” è da tempo avvolto in una fitta cortina di incertezze e contraddizioni. Un modello che alimenta inquietudini, crea insicurezze. Alle radici del disagio c’è l’impotenza della politica economica dell’Unione, la mancanza cioè di una reale governance economica  e  monetaria. Ne parliamo con l’economista Alberto Quadrio Curzio, Professore emerito di Economia politica all’Università Cattolica di Milano,  editorialista de Il Sole 24 Ore.
-L’attuale crisi finanziaria ed economica ha messo in evidenza le anomalie della governance istituzionale della UEM. Una pericolosa asimmetria fra politica monetaria e politica economica. Quale scenario è auspicabile affinchè l’euro non collassi?
La BCE si è trovata in una situazione molto difficile che l’ha costretta a svolgere delle funzioni di supplenza non previste dai suoi statuti e tuttavia necessarie per l’emergenza. Tuttavia, riprendendo quanto Carlo Azeglio Ciampi, disse in occasione delle celebrazioni dei dieci anni dei attività della BCE, “la costruzione istituzionale dell’Unione europea deve arrivare a disporre dell’intera panoplia degli strumenti di Governo dell’economia: di bilancio, dei redditi, delle strutture materiali e immateriali. Una moneta solida e una politica monetaria efficace, anche perché attuata da una banca centrale autonoma nel perseguire una missione precisa, danno stabilità; prevengono e dissipano incertezze.”
-La recessione economica in atto con la caduta dei livelli occupazionali sta causando in Europa un crescente antieuropeismo. L’euro e l’Europa rischiano di diventare la bandiera dei risentimenti, dei disagi sociali, del populismo, della facile demagogia. Quando si esce da questa crisi?
Una situazione di crisi che si avvia al sesto anno configura di gran lunga la peggiore crisi del dopoguerra che nata  nella finanza (americana)si è poi traslata in quella europea(sui titoli di stato)diventando anche crisi economica ed infine sociale. Le istituzioni europee che funzionavano bene in condizioni di normalità hanno cominciato a traballare ed i mass media invece di assumere un atteggiamento costruttivo e propositivo hanno alimentato i risentimenti. Così i paesi del nord hanno accusato quelli del sud di malagestio e quelli del sud hanno ribattuto accusando quelli del nord di egoismo. Il tutto ha fatto crescere l’euroscetticismo e addirittura l’anti europeismo.
-In particolare, come  risponde a chi, anche in Italia, auspica l’uscita dall’euro e un ritorno alla sovranità monetaria? Quale prezzo pagheremmo con il ritorno alle sovranità nazionali?
 L’uscita dell’Italia (come di qualsiasi altro Paese dell’UEM) dall’euro sarebbe molto dannosa. Sebbene i costi si potrebbero stimare solo dopo che l’evento si è verificato, i danni sarebbero altissimi in quanto si  bloccherebbero tutte le relazioni commerciali, industriali e finanziarie del nostro Paese con il resto dell’Europa e questo inevitabilmente avrebbe ripercussioni sull’economia reale: crescita minore, aumento della disoccupazione e via discorrendo. Il tutto condito di controlli sui movimenti dei capitali e alla fine anche di protezionismo. L’illusione di recuperare   sovranità e con questa gradi di libertà porterebbe esattamente all’opposto con minore libertà economica ed anche con minore benessere per tutti.
-E’ sempre più diffuso in Europa un sentimento anti-tedesco. La Germania con il rigore e l’austerità imposta ai suoi partner con il fiscal compact è ritenuta la causa della crisi economica in atto. Nel mondo per superare la crisi e incentivare la crescita si investe, in Europa si taglia! Qual è il Suo giudizio?
 L’esperienza ci dice che dalle recessioni profonde si esce non tanto o non solo con le liberalizzazioni, quanto con la spesa pubblica orientata soprattutto a investimenti infrastrutturali e ambientali nonché in ricerca e sviluppo che migliorano la qualità di processi e prodotti. La mia impressione è che se non riusciremo ad andare in questa direzione, potremmo dover convivere con la recessione ancora per molti anni. La Germania per ora si sta avvantaggiando della crisi in termini di tassi di interesse sempre più bassi sui suoi titoli di Stato ma se la recessione degli altri Paesi continua,crolleranno le sue esportazioni.
 
-Secondo l’ex Cancelliere Schmidt  “la Grande Germania sta perdendo il senso della storia, del suo riscatto europeo e della solidarietà con i partner”? E’ lecito chiedersi quale Europa per il futuro: quella equilibrata e solidale delle origini o quella germanizzata di oggi?
C’è del vero in tutte queste osservazioni, ma bisogna distinguere due questioni: la posizione della Germania, senza il cui beneplacito nella Uem e  nella Ue non si fa nulla (il che è comprensibile visto che si tratta di un Paese con un pil e una popolazione che pesano tra il 27% e il 28% del totale di Eurolandia); la situazione delle istituzioni in atto e in potenza dell’Europa. La Germania è stata lenta durante la crisi e ciò ha attirato parecchie critiche al cancelliere Merkel ma alla fine ha sempre preso delle decisioni europeiste. Certo che la Merkel non è Kohl.Per questo  il problema è che il suo atteggiamento potrebbe causare danni enormi per i ritardi nelle decisioni mentre i contagi si estendono molto più velocemente. E’ necessario dunque procedere sempre attraverso una logica solidale e con maggiore rapidità
 
-Europa: un’opera incompiuta! Più Europa, più Unione per  vincere la sfida della globalizzazione. Il Presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi ha auspicato il recupero dei  valori fondanti dell’Ue: solidarietà e sussidiarietà. Condivide questa lettura della realtà europea?
 Concordo pienamente. Sono sempre più attuali i due grandi principi – e cioè quelli di sussidiarietà e solidarietà – su cui la Costruzione europea è cresciuta negli Ideali, nelle Istituzioni, nella Società, nella Economia. Ho avuto modo di constatare come valori e ideali da un lato e, dall’altro, ragione e realismo, saggezza e pragmatismo possano cooperare in persone che, pur avendo diversi riferimenti valoriali, intendono promuovere nella ragionevolezza un rinnovato umanesimo tipico della civiltà europea.
-Il recente salvataggio di Cipro con un prelievo forzoso sui depositi bancari  voluto dalle autorità monetarie di Francoforte l’ha convinta? Non potrebbe aver creato un pericoloso precedente esportabile in altri Paesi? 
La bancarotta di Cipro e la sua uscita dall'euro, con imprevedibili conseguenze per l'Eurozona (Uem), è stata fortunatamente evitata. Si è attuata  la ricapitalizzazione dell'intero sistema finanziario con la chiusura della banca più disastrata (Laiki) gravando le perdite sugli azionisti, sugli obbligazionisti e sui depositanti per importi superiori ai 100mila euro. È questa una nuova forma di "bail in" che rappresenta per la Uem una novità assoluta che non convince in quanto decisioni di questa natura dovrebbero essere adottate in contesti giuridico-istituzionali meno improvvisati.
-Come riassumerebbe la  “ricetta”  per azzerare lo spread in Italia e rilanciare il progetto europeo?
 Per l’Europa si tratta di  associare alla stabilità finanziaria il rilancio dell’economia reale da cui dipendono la crescita e l’occupazione. Per me senza investimenti europei in green growth infrastrutturale l’Europa rischia molto essendo ormai a 25 milioni di disoccupati. Ma l’Italia rischia ancora di più perché dal 2008 al 2012 ha visto crescere il tasso di disoccupazione di 5 punti percentuali ed oggi è al 12%.La base produttiva si sta deteriorando con il fallimento di molte imprese. il rilancio senza un spinta europea è difficile .Per questo io ho sostenuto che nel secondo semestre del 2012 il Governo Monti doveva chiedere come ha fatto la Spagna un prestito al fondo europeo o l’apertura dell’ombrello BCE per gli interventi sui titoli di Stato a scadenza triennale. Al proprio interno le ricette per l’Italia sono note ma tra queste darei priorità alla riduzione del carico fiscale su imprese e lavoro.
Messaggio chiaro e forte! E’ tempo di decisioni responsabili per tornare all’economia reale, quell’economia che crea lavoro e distribuisce la ricchezza prodotta, che non si lascia soffocare dalla grande finanza e dai suoi pericolosi intrecci speculativi.
 

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano Addio al “Patto di stu...