30 marzo 2009

Geografia: ancora sulla carta geografica

  Al geografo francese Frémont piace pensare alla carta geografica come ad uno strumento di grande fascino nei confronti dei bambini i quali, pur continuando ad osservare i planisferi appesi alle pareti della loro classe, hanno oggi certo molti più strumenti di conoscenza rispetto ai loro coetanei del passato.
E’ opinione di questo geografo umanista che la carta geografica sia molte cose a un tempo.
La carta è una rappresentazione in scala di una porzione dello spazio terrestre, è imperfetta perché oltre ad essere una riduzione è anche una proiezione, ma rispetta delle regole rigorose. Si tratta quindi di uno strumento che, a partire dalle prime rappresentazioni babilonesi, si è affinato nel tempo, per diventare indispensabile a partire dall'epoca delle scoperte geografiche. Con la rivoluzione quantitativa poi il livello di perfezionamento e di dettaglio delle carte è migliorato in maniera incommensurabile a partire dal 1950, quando le carte si disegnavano ancora a mano, fino ai giorni nostri. La enorme quantità di dati gestibili oggi, ha inoltre reso la carta geografica uno strumento a portata di click, che ha rivoluzionato il lavoro del geografo attraverso una utilizzazione assai più duttile che in passato. I GIS, i sistemi di informazione geografica, la fanno oggi da padrone nel settore.
E’ però molto importante rilevare che la carta non ha un valore assoluto, è solo una rappresentazione umana della realtà, tanto è vero che non si potrebbe mai arrivare a dire che una carta in scala 1:1 è la realtà, poiché ciò che viene rappresentato ha sempre un valore simbolico, legato al modo di pensare di chi la disegna. Ad esempio il geografo Gould ha scritto un testo sulle “Mappe mentali”, ad indicare che ciascuno può costruire una propria rappresentazione dello spazio che lo circonda.
Interessante è anche notare che le carte possono ingannare, perché possono mettere in evidenza, senza necessariamente mentire, una cosa piuttosto che un’altra, una città, una via di comunicazione, un rilievo accentuato con il colore: in pratica non esiste una carta senza il cartografo, senza una studio accurato su ciò che si vuole mettere in evidenza.
Per questo lo studioso francese pone l’accento sulla legenda, nel suo doppio valore, di decodifica della mappa da un lato, ma anche sul suo significato mitologico, sul linguaggio che esprime chi la progetta e sulla interpretazione simbolica da parte di chi la legge. La legenda esprime infatti informazioni che non sono generalizzabili ad altre carte.
C’è infine da vedere la carta come punto di forza. Noi siamo abituati a pensare che la carta sia uno strumento per tutti e di tutti, in parte è così, ma non va dimenticato che essa è uno strumento di potere politico, perché delimita, quindi non è strano pensare che tutti i grandi paesi siano interessati ad una cartografia militare, quella con scala compresa tra 1:20.000 ed 1:200.000 . Chi ha mappe satellitari molto accurate, le conserva gelosamente, spesso nascondendone una visione completa agli stessi paesi alleati. La carta, militarmente, ha un enorme valore simbolico, perché trasforma uno spazio generico in uno spazio che si possiede o che non si possiede.
E’ poi un punto di forza nello sviluppo territoriale perché può mostrare ciò che piace e nascondere ciò che non piace e viceversa, diventando uno strumento per la progettazione, la propaganda e la simulazione, così come può essere mezzo adeguato di analisi del sociale, mettendo in evidenza ad esempio le aree più ricche, più pericolose, meno alfabetizzate di un paese.
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Autore: A. di Biase
Fonte: Armand Frémont - "Vi piace la geografia?" - Carocci editore
Fonte iconografica: Google

29 marzo 2009

Storia greca: la nascita della democrazia

Nota enciclopedica
La Biblioteca di Alessandria, bruciata con tutto il suo contenuto all'inizio dell'Era cristiana, raccoglieva almeno un migliaio di discorsi di uomini politici ed oratori ateinesi ed attici, i quali oggi avrebbero grandemente contribuito a colmare il vuoto di documentazione che caratterizza invece questo periodo storico, soprattutto se si vuole condurre uno studio che riguardi le istituzioni politiche. Si sa dunque piuttosto poco.
Certamente la Grecia di allora non era uno stato unitario, bensì un insieme di comunità/città/stato (tò Hellenikón) che si riconoscevano reciprocamente l'appartenenza ai medesimi costumi, lingua e religione.
Nella sostanza ogni città era una comunità autonoma, anche se certo centri importanti come Atene, Sparta e Tebe esercitavano una certa influenza sul territorio circostante. Nella pólis greca, nonostante spesso fosse composta da ben pochi cittadini maschi (polítes) in rapporto alla popolazione complessiva, il potere politico era in mano al popolo, che lo esercitava - pur nelle sue contraddizioni, come la pratica della schiavitù - con metodi pubblici e collettivi, sulla base di principi e di situazioni concrete, che sono tipici del mondo moderno.
Non è sbagliato quindi, senza arrivare all'etimologia del termine, attribuire ai Greci l'invenzione della politica, come la conosciamo oggi.
Per comprendere le forme politiche della Grecia classica sembra indispensabile approfondire il significato di un termine che non ha una precisa corrispondenza nelle lingue moderne: la politeía.
Il retore ateinese Isocrate, nella sua opera Aeropagitico, definisce la politeía come la psyché (l'anima) della pólis, mentre per Aristotele la politeía è il bíos, cioè la vita dello stato.
Politeía è però anche "cittadinanza", "condizione del cittadino", "diritto del cittadino", la "Athenaíon Politeía" e cioè la "Costituzione degi ateinesi", opera di scuola aristotelica, indica un altro significato, mentre lo stesso Aristotele nella Politica le attribuisce anche il valore di "regime politico".
Pure in Erodoto politeía è indicato con il significato di "cittadinanza", sebbene questo storico greco venga soprattutto ricordato per il cosiddetto "dialogo persiano", uno scritto dove vengono messi a confronto i pensieri di tre notabili, Otane, Megabizo e Dario, difensori rispettivamente della democrazia, dell'oligarchia e della monarchia. Nel passo di Otane è poi interessante sottolineare che la parola demokratía, ben nota allo scrittore, non viene usata per essere sostituita dal termine isonomía, cioè l'uguaglianza delle leggi, senza ulteriormente specificare a quale gruppo o classe sociale questa isonomía verrebbe applicata. Quindi l'isonomía di Otane non esclude a priori l'oligarchia ed ha un legame tutto sommato debole con quelle forme di governo che noi oggi chiamiamo democratiche.
Nella seconda metà del V secolo a.C. il dibattito sulla democrazia si fa più intenso, ma anche più maturo. A titolo di esempio sulle posizoni divergenti nella letteratura del tempo possono essere citati due testi: uno è il discorso che Tucidide mette in bocca a Pericle, l'altro è proprio la Costituzione degli ateinesi.
Per Pericle la democrazia è fare l'interesse di una maggioranza, sebbene le leggi siano uguali per tutti. Da una parte il cittadino è direttamente coinvolto nella politica della città e non può a questo sottrarsi, dall'altro è invitato ad uno stile di vita libero e felice, una condizione questa che è ammessa ed auspicata per tutti.
La critica proveniente dall'aristotelico autore della Costituzione è però serrata e riguarda il cosiddetto governo dei poneroí, cioè delle persone che oltre ad essere povere materialmente sono povere anche di virtù, le quali sono ammesse al potere dal sistema democratico e lo sfruttano per i loro interessi. l limite della democrazia in pratica, secondo il Vecchio Oligarca - autore anonimo della Costituzione - risiede nel fatto che il popolino segue i propri interessi, senza preoccuparsi della propria virtù o di quella di coloro che possono dargli ciò che chiede. Il popolo - come dare torto fino in fondo a questo autore? - non gradisce i galantuomini, preferisce invece le canaglie; per questo, secondo l'Oligarca, la democrazia di Pericle ha grossi limiti.
Una soluzione a questo problema, sebbene del tutto ideale, arriverà dal pensiero platonico quando, nel IV secolo a.C., si teorizzerà una pólis retta da una oligarchia di filosofi. La città ideale di Platone è una città senza proprietà privata e senza famiglia, amministrata in una perfetta unità di intenti tra governanti e governati, laddove i governanti hanno raggiunto l'idea del bene, riuscendo per questo ad essere giusti. Nelle Leggi poi l'ultimo Platone arriverà ad ipotizzare una società retta da leggi buone, le quali possano assicurare un governo giusto, correggendo in parte il tiro che nella città ideale aveva voluto affidare il governo ad uomini eccessivamente idealizzati, rari e comunque soggetti a deviare da un comportamento corretto.
Sempre del IV secolo a.C. è il già citato Aeropagitico di Isocrate, uno scritto che è espressione di un desiderio di restaurazione della cosiddetta pátrios politeía, la costituzione dei padri, fondata sull'Aeropago. Il clima di incertezza di quegli anni spingeva, come spesso accade, verso un ritorno al passato che in questo caso sarebbe stato però un rigurgito oligarchico, con il ritorno alle differenze di capacità, di ricchezza e di stato sociale che, di fatto, sarebbero state implicite alla costituzione ancestrale.
La forma di costituzione che avrà il maggior successo, sia teorico che reale, sarà però la politía, la costituzione mista ipotizzata da Aristotele nella Politica. L'autore era convinto che solo due fossero le forme di costituzione realmente interessanti: la democrazia e l'oligarchia. Con il modello misto pensò di equilibrare i difetti dei due modelli, attraverso la creazione di una costituzione non utopica ed adatta alla maggior parte delle póleis. La politía è la costituzione della classe media, sia in termini di censo che culturali; fondata su un principio democratico è nei fatti una forma oligarchica che non esclude nessun cittadino il quale si sforzi di assomigliare alla media dei suoi simili.
Questa forma di costituzione mista è, in fondo, quella più vicina ai modelli democratici moderni.
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Fonte: G. Poma - "Le istituzioni politiche della Grecia in età classica" - Edizioni Il Mulino
Fonte iconografica: www.athensguide.org
Rev. 01-02-13 Adb

"Favolette lette lette" a cura di Irene Caliendo

Un libro “raccontato” passo passo dalla sua curatrice, dalla prima all’ultima pagina, dalla nascita dell’idea alla sua realizzazione. Nasce infatti dal piacere e dalla bravura di favoleggiare l’idea di una raccolta di favole scritte d’impulso da grandi e piccini che si misurano con quest’arte tanto antica e sempre viva che stimola la fantasia, o di essa ne è lo sfogo. La favola dà vita a un mondo in cui tutto è possibile eppure molto spesso svela un’interiorità che diversamente non avrebbe modo di manifestarsi e diventa mezzo per mettere in campo potenzialità che altrimenti resterebbero sconosciute. Dalla prima all’ultima pagina si sente la narrazione di Irene Caliendo, ora in forma di prefazione, ora in forma di versi (intro-dotta e intro-detta), ora come guida che introduce le varie sezioni dell’antologia, distinte per tematiche, in punta di piedi e con voce sommessa, per poi chiudere con una propria favola che spiega tutte le motivazioni del libro e, come ogni favola che si rispetti, lascia aperte tutte le porte della fantasia perché… il meglio deve ancora venire, basta solo mettere in campo la propria creatività. In questo percorso la curatrice è accompagnata da tre promettenti illustratori che danno a ogni racconto una sua immagine, creando una vera e propria festa di personaggi, animaletti e oggetti venuti fuori dalle parole e che quasi sembrano animarsi… quasi… perché un tocco di colore ancora manca e ogni lettore potrà darlo a proprio gusto. Un libro che è una festa che coinvolge tutti: curatrice, illustratori, autori e lettori, ognuno a modo suo protagonista. E la festa si svolge in casa Albus, un posto accogliente per chi ama la buona lettura… a qualsiasi età.
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Irene Caliendo vive a Maddaloni. Ha ottenuto riconoscimenti nell’ambito letterario nazionale.
E' anche autrice di teatro.
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Fonte: Elena Grande - Albus edizioni - http://www.albusedizioni.it/

26 marzo 2009

Libri: "Osti custodi" di Beppe Bigazzi

di Antonio V. Gelormini
Sacerdoti di una liturgia laica del benessere. La summa di un cenacolo ispirato agli ordini monastici più tradizionali che, nel rigore della regola, garantivano al corpo - tempio dell’anima - quell’alimentazione semplice, genuina ed equilibrata. Prodromo, con la preghiera, al più alto e completo benessere spirituale.

La Gioconda Accademia degli Osti Custodi nasce nel 2003 da un’idea di Beppe Bigazzi, Luigi Cremona, Mauro Quirini, Carlo Raspollini e Luca Zanini. Ristoratori senza saio e senza tonsura, che si sono dati la missione di salvaguardare e diffondere la tradizione culinaria del territorio, utilizzando materie prime locali e stagionali. Le cosiddette eccellenze della tavola, i veri “capolavori” dell’agricoltura italiana.

E’ per questo che l’ultima fatica del loro “padre guardiano”: “Osti custodi”, Beppe Bigazzi – Ed. Giunti, 2009 pp. 431 € 14,50, è una sorta di breviario da tenere a portata di mano, in cucina, per consultarlo ogni qualvolta ci si accinge alle consuete celebrazioni davanti ai fornelli. O, meglio ancora, prima di uscire per quella delicata “cerca” quotidiana, chiamata spesa.

Il volume presenta 30 ristoranti del Nord, Centro e Sud Italia, 300 menù e relative ricette per ogni stagione e la preziosa indicazione dei fornitori locali di materie prime. Garanzia trasparente di freschezza e genuinità. Ma è arricchito anche, nella sezione finale, dalla certosina scelta di Beppe Bigazzi di produttori di qualità, suddivisi geograficamente e per tipologia di prodotto gastronomico, che è il frutto di anni di sue ricerche sul territorio.

Esso non è solo una guida o un ricettario. Quanto un messale innovativo di facile consultazione, per promuovere virtuosa sensibilità e rapporti interattivi con questa rete di “santuari del gusto” e dei loro “oracoli”. Il vero patrimonio inestimabile di un’identità nazionale, il cui valore intrinseco è custodito nella policromatica varietà delle sue tipicità locali. Un manuale per invitare ed accompagnare il lettore-consumatore ad un sano cambiamento di abitudini alimentari. Per pretendere qualità, sempre. A partire da casa propria.

Profeti del mangiare cosiddetto “a chilometro zero” (l’utilizzo di prodotti provenienti dal territorio circostante), gli Accademici coltivano anche la speranza di un “mercato accanto alle tavole”. Diventare piccole vetrine della tipicità, per favorire ed affermare il concetto di cucina stagionale, ovvero quella legata a quanto la terra produce nei vari mesi dell’anno.

Beppe Zullo, il suo “bosco dei sapori perduti” e la cantina scavata nel tufo ad Orsara di Puglia, al centro del Distretto Culturale Daunia Vetus. Alfio Pradella e il Circolo Arci Salardi di Mantova, dove si cucina la tradizione, con prodotti coltivati o allevati in famiglia, quella del suocero: il Mastro risottaio Paolino Tirelli. E ancora, nell’aretino, Paolo e Daniela Tizzanini con l’impareggiabile Osteria dell’Acquolina, la meta giubilare di un cultore sopraffino come Manuel Vàsquez Montalbàn. Sono solo alcuni “ospedali” d’eccellenza, dove curare ed alleviare le sofferenze lungo un pellegrinaggio tra colline, alla ricerca di equilibri perduti con la natura e con se stessi.

Tanti altri, oltre quelli già annoverati tra gli Osti Custodi, svolgono il loro lavoro con altrettanto spirito di sacrificio e grandi capacità. Cercarli, trovarli e valorizzarli farà guadagnare nuove indulgenze e, moltiplicandone porte, insegne e cartelli, renderà più possibile il ritorno, ad occhi aperti, nel Giardino dell’Eden. Almeno su questa Terra.

(gelormini@katamail.com)

24 marzo 2009

"Il giovane Holden" di Jerome David Salinger

di Augusto da San Buono
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1. Uno scrittore fantasma
“Il giovane Holden” (The Catcher in the Rye) è un libro che fu pubblicato quasi sessant’anni fa da uno scrittore fantasma, Jerome David Salinger, che da quasi 50 anni non scrive praticamente più nulla (Frannie and Zooey, l’ultimo suo racconto, risale al 1961), indifferente a qualunque tipo di richiamo, ed è uscito di casa una sola volta per andare a vedere la Callas al Metropolitan, ma poi arrivò in ritardo e non fece in tempo a sentire la grande diva lirica. Salinger, che ora ha novant’anni, essendo nato nel 1919, vive praticamente murato vivo nella sua casa di Cornish, una cittadina del New Hampashere, in un allusivo misticismo che si richiama alle filosofie orientali e che sembra voler rispecchiare lo stato d’animo di crescente impotenza e totale rinuncia ad agire, a “ fare”, movimento che si era diffuso nell’America degli anni sessanta fra i giovani anticonformisti, di cui “Il giovane Holden” è l’emblema, il portabandiera indiscusso. Ed è per questo che quando uscì il romanzo, nel 1951, fu subito un grandissimo successo, un best seller, tradotto in tutte le lingue possibili. Ma è stato ( ed è tuttora ) un libro mitico, un vero e proprio “totem” per molte generazioni di studenti “perduti” e non, aspiranti scrittori e non. Dopo aver letto “Il giovane Holden” capisci meglio alcuni mostri sacri della letteratura come Kafka (Holden non è così radicale e metafisico) o Proust (Holden non è certamente così colto e raffinato); capisci meglio perfino alcuni classici dell’ottocento, ad esempio “L’Ortis” di Foscolo o “L’Adelchi” di Manzoni. Certo, Holden ha più ritmo, più ironia, ma c’è in lui qualcosa di quei personaggi tragici e romantici. Ritrovi in Holden una eco del dolore di Ortis, di Adelchi e anche di Werther. Infatti il suo motto è “soffri e sii grande”. Ma in questo gioco letterario possiamo spingerci ancora più in là, fino ad affermare che tutti gli eroi decadenti della letteratura di questo secolo, noi li ritroviamo in Holden, ma in uno scenario più vicino al nostro, in un linguaggio colloquiale, talora gergale, sicuramente più affettuoso e immediato, in un contesto sicuramente più credibile e accessibile alle nostre emozioni quotidiane.

2.Ma chi è Golden Caufield?
E’ presto detto, uno studente di sedici anni, alto un metro e novanta, che è stato cacciato dal “College” per la quarta volta e che invece di ritornarsene a casa e dichiarare il proprio fallimento ai genitori, decide di andarsene in giro per New York dove trascorre tre giorni e tre notti senza meta. Fa un po’ come il Leopold Blom (quello dell’Ulisse di Joyce) che gira 24 ore per Dublino ciondolando il suo testone “ senza sapere che cavolo fare”. Anche Holden è un bugiardo matricolato con un talento particolare nell’inventare e raccontare le sue storie che alla fine sembrano vere a tutti, anche a lui stesso. Del resto l’unica cosa che gli interessa è la letteratura, leggere i romanzi. “Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere, e tutto quello che segue, vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e chiamarlo al telefono tutte le volte che ti gira“ (sic!). Quella di Holden è la storia di un’età eternamente inquieta, fotografata al volo, un attimo prima che venga inghiottita dalla banalità e dall’ipocrisia della vita degli adulti, spazzata via dall’artificiosità e dalla turpitudine della maggior parte delle nostre esistenze. In fondo è una storia semplice, una sequenza di foto in bianco e nero, ma di una notidezza assoluta che registra, nella sua perenne attualità, la delusione della scuola e dei proff (“Dormite sodo, stronzi”) e i giorni di solitudine a vagabondare in giro - ieri nei night, oggi nelle discoteche del sabato sera , - navigando tra nostalgia e sogno. E poi gli scontri-simbolo, quello con la prostituta (il misterioso rito di iniziazione sessuale) e quello sentimentale, dolcissimo, ma che non durerà, non può durare . E’ un viaggio breve quello di Holden che si conclude come tutti i viaggi, con il ritorno a casa, ma solo per una visita clandestina alla sorellina Phoebe.
3. Un’età “contro”.
La storia di Holden finisce in tronco (è il suo stile) quando proprio non te l’aspetti. “E questo è tutto quello che son disposto a raccontarvi“. E tu lettore ci rimani male, perché ti eri affezionato a Holden Caufield, il giovane Ulisse del nostro tempo. Ma di Ulisse sappiamo tutto, sappiamo che torna anche lui clandestino, estraneo nella sua Itaca per poi riconquistarla cacciando i proci. Di Holden non sappiamo se è riuscito a riconquistare la sua Itaca. Sappiamo però che è riuscito a salvarsi dal dirupo scosceso di quella giovinezza costretta sempre ad essere un’età “contro”. Contro gli adulti, ma anche contro quelli della sua età , e finanche contro sé stessi. Un’età da piangersi addosso. “... Allora d’un tratto mi misi a piangere. Non potevo trattenermi e piangevo in modo da non farmi sentire, ma piangevo. La vecchia Phoebe si prese uno spavento da morire, quando mi misi a piangere e mi venne vicino e cercò di farmi smettere, ma quando uno comincia non può mica smettere di punto in bianco, accidenti… Poi però smette e via… ”OK, vecchio Holden, ora vattene per la tua strada con “l’infanzia schifa e compagnia bella e via discorrendo”… Vattene con le tue intuizione e le tue profezie ( “A New York, ragazzi, è il denaro che parla”), vattene con la tua verginità intatta (con la puttana non ha funzionato). Ormai il tuo tempo è finito, vecchio Holden, perché tu appartieni ad un’altra epoca, il novecento, e noi siamo ormai da un pezzo in un altro secolo, un secolo incontrollabile. Ma dal duemila e nove, dove ci troviamo, senza sentimentalismi, anche noi ti diciamo che sentiremo un po’ la tua mancanza, Holden, come tu, alla fine della tua storia, sentivi un po’ (vero?) la mancanza di tutti quegli “ stronzi dormienti” di cui ci avevi parlato.
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Fonte per l'immagine di copertina: www.ibs.it

22 marzo 2009

Geografia: i geografi

  Con il temine 'geografia' si intende, in base alla etimologia greca, la descrizione della Terra. Quindi, secondo Frémont, non esiste una geografia senza geografi, senza persone che hanno una certa percezione dello spazio occupato da sé e dagli altri: egli sostiene inoltre questa percezione essere molto antica, addirittura precendente al Neolitico, poiché l'uomo non si è mai mosso a caso sulla superficie terrestre, dimostrando di avere da sempre un sentore geografico del territorio, sebbene primitivo.
Tra gli autori appartenenti a quello che potrebbe essere definito l'Olimpo dei geografi dobbiamo certamente citare diversi greci. Erodoto (V sec. a.C.) viaggia parecchio ed ammanta i suoi racconti di storia e mitologia. Eratostene (III a.C.) calcola la misura della circonferenza terrestre. Strabone (I sec.) scrive una Geografia in diciassette volumi. Più degli altri varrà però il nome di Claudio Tolomeo; grande cartografo, astronomo e matematico, lascerà associata al suo nome una visione del mondo che resisterà intatta fino a Copernico.
Dopo i Greci ci sono gli Arabi che con Idrisi, scienziato alla corte siciliana di Ruggero II, riescono a mettere a punto una mappa dell'occidente piuttosto accurata per il tempo, dall'Africa settentrionale fino alla Norvegia ed alla Polonia.
In Cina non c'è molto, nonostante la presenza di un imperatore geografo, Yu il Grande, che fece misurare le dimensioni della terra, considerata quadrata in contrapposizione ad un cielo circolare.
Con le scoperte geografiche del XV secolo prende poi grande vigore la scienza cartografica ed a Parigi nasce nel 1821, con finalità essenzialmente lucrative e speculative, la prima società geografica.
La geografia moderna nasce invece forse con Alexandre von Humboldt, il quale sarà protagonista di un grande viaggio di 10000 km in America del Sud, annotando, descrivendo e misurando tutto ciò che gli fu possibile.
Dopo la diffusione delle idee darwiniane infine, nascerà nell'Ottocento una marcata contrapposizione ideologica tra la scuola tedesca di Ritter e più in particolare di Ratzel (determinismo ambientale) nei confronti di quella francese il cui principale esponente fu Paul Vidal de La Blache, sostenitore di tesi storicamente dette possibiliste, perché fondate su un modello scientifico basato su fattori geografici, tra i quali viene annoverata anche l'influenza umana sull'ambiente, in contrapposizione alla pur riconosciuta e nota influenza dell'ambiente sull'uomo.
Frémont si diletta anche in una breve classificazione dei geografi moderni in quattro categorie:
- il viaggiatore, che si sposta da una conferenza ad un'atra in giro per il mondo;
- il cartografo ingegnere, molto informale, semplice e pragmatico, che sa ben vendere il proprio mestiere.
- il geografo dei numeri, esperto di geografia quantitativa e fortemente votato all'elaborazione numerica dei sistemi geografici.
- il geografo sporco di fango: quello della scuola francese di René Musset, di origine modesta, spesso contadina, è una tipologia di studioso al quale piace vedere di persona e toccare con mano.
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Fonte: Armand Frémont - "Ti piace la Geografia?" - Carocci Editore
Fonte iconografica: Google

21 marzo 2009

"La liturgia della Chiesa nell'epoca della secolarizzazione" di Roberto de Mattei

Benedetto XVI ha affermato che “la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal culto della liturgia che talvolta viene addirittura concepita: "etsi Deus non daretur". A questa formula, che riassume l’itinerario di secolarizzazione della società contemporanea, il Papa ha opposto quella "etsi Deus daretur", che contiene una visione del mondo fondata sul principio del sacro. Espressione per eccellenza del sacro è la liturgia, la preghiera pubblica della Chiesa, atto di culto non del singolo uomo, ma della comunità dei battezzati, riuniti attorno al Santo Sacrificio dell’Altare. Questa liturgia non è solo la trasmissione della parola di Dio all’uomo, e la sua santificazione attraverso i Sacramenti; essa è anche e innanzitutto un insieme di forme sensibili che elevano l’uomo verso Dio e lo aiutano a glorificarlo e a rendergli il culto dovuto. Negli anni successivi al Concilio Vaticano II, si è voluta sostituire la liturgia tradizionale con una nuova liturgia per avvicinare il mondo alla Chiesa. Il risultato è stato contrario alle aspettative e spesso catastrofico. Il Motu Proprio Summorum Pontificum, con cui Benedetto XVI ha restituito piena cittadinanza alla liturgia tradizionale, indica una direzione diversa. Il Rito romano antico costituisce oggi, secondo l’autore, la risposta più radicale alla sfida della secolarizzazione, che è la sfida del laicismo e dell’umanesimo anticristiano, che aggredisce la Chiesa e la società contemporanea.
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Fonte: Edizioni Solfanelli

20 marzo 2009

"Segni" di Tinti Baldini

SEGNI di Tinti Baldini
© 2009 Altromondo Editore ISBN 978-88-6281-241-2
Pag. 121 € 11,00


Segni
è il titolo di questa prima raccolta di poesie di Tinti Baldini. Solo segni come se fossero orme di lei donna, lasciate dietro sé. Ma questi segni lasciano un solco ben marcato in chi legge le sue poesie. Non riesco a dire quale ho preferito, quale mi ha dato di più, quella scritta meglio.
Tutte sono valide, scritte con precisione, non una parola di più o di meno di quelle che sarebbero servite.
Tinti scrive che questi testi “sono legati a ricordi e immagini del passato fuse nel presente” e che sono presentate al lettore in un ordine cronologico.
La Baldini ha un modo di scrivere asciutto, usa spesso l’anastrofe. Filosoficamente si chiede, cerca risposte, raramente lascia senza soluzioni.
Nei suoi testi troviamo ben presenti la natura e gli animali, usati anche per meglio comprendere e chiarire il suo pensiero.
Anche nei testi più duri sa porsi con una dolcezza e una delicatezza del tutto naturali.

NEBBIA
e mani che svettan
carezze
vuotano sassi
dal cuore.

CONDANNA
Siamo condannati
a guardare e
capire senza scampo.

La poetessa ci parla di sé, del suo sentire, della natura da lei osservata. Di tutto ciò che può colpirla camminando per strada. E’ attenta osservatrice del prossimo e di ogni minimo gesto sa trarre un senso del tutto particolare.

INDIFFERENZA
Veder passare
ombre
e non scoprirle.


SPECCHIO
E’ momento di estraneità
quando stenti e fuggi
lo sguardo diretto
in attesa di risposta.

Condivido il suo pensiero ben espresso in questo testo, di scrittura come terapia, come aiuto personale.

FOGLIO
Sembra
avverabile
penetrare
nelle scorze
nodose
del dolore
scrivendo
parole.

Altro fattore che mi ha colpita è che anche i titoli, così come i testi, sono per lo più asciutti, essenziali, una sola parola a voler dire tutto.
Dice di lei Roberta Bagnoli nella prefazione: “La raccolta, di sostanza e variegata, rappresenta uno spaccato del suo intenso vissuto; la poetessa attraverso ricordi e sottili metafore ripercorre il suo viaggio di donna attenta e sensibile, regalandoci una profonda e chiara testimonianza dei suoi valori fondamentali e lo fa in versi spontanei e pregni di sentimento”.
Sono davvero pochi i poeti che mi sanno prendere e lasciare una forte emozione legata ai loro testi, non posso nascondere la mia ammirazione verso questa donna, madre, professoressa, quindi poeta, che mi trova in sintonia con quanto sa esprimere con la sua penna che incide segni che si incidono nell’anima.


© Miriam Ballerini

16 marzo 2009

"La fattoria degli animali" di George Orwell

di Augusto da San Buono
1. Un paladino dei miserabili
Parlando della “Fattoria degli animali” di Orwell, tale professor Giampaolo Castracani, da San Severo, provincia di Foggia, ha detto papale papale che è una “minchiata”. Cerchiamo intanto di capire come è nata questa famosa opera, facendo un breve profilo dell’autore, Eric Blair, in arte George Orwell. Era figlio di un piccolo coloniale inglese che si mostrò particolarmente dotato negli studi. Il padre pensò bene di mandarlo in un collegio in Inghilterra dove il ragazzo si mise in luce e vinse una borsa di studio per Eton, dov'erano notoriamente tutti i figli di papà inglesi e lo trattarono come un paria, facendogli sentire pesantemente la sua appartenenza ad una classe inferiore. Gli fecero degli scherzi crudeli e infamanti tali da farlo rinunciare agli studi universitari e renderlo un frustrato per tutta la vita, accentuando in lui a dismisura una coscienza di classe fino ad allora appena avvertita e un forte sentimento di rabbia e senso di rivalsa. Da allora in poi, e per tutta la sua breve vita, cercherà un compenso, un riscatto alle proprie umiliazioni, manifestando disprezzo per gli intellettuali e i dottrinari riformatori del mondo. Si arruolò nella polizia imperiale indiana e visse cinque anni in Birmania, denunciando e condannando il sistema coloniale. Quando ritornò in Europa, a 25 anni, il forte sentimento di solidarietà per i poveri, gli sfruttati, i reietti, i drop out, gli ultimi della società, fece di lui un paladino solitario, triste e disilluso, una specie di Don Chisciote, un cavaliere dalla triste figura alla rovescia, che cerca invano un contatto, un accordo con la realtà di un mondo dal quale viene sistematicamente trascurato, respinto, tradito. Per diciotto mesi vive in mezzo ai poveri e ai barboni parigini e londinesii, come in una forma di autopunizione. Poi, come un apostolo , un missionario laico del proletariato , farà esperienza tra le masse di vagabondi impiegati nella raccolta del luppolo , e quella di insegnante mal pagato e sfruttato dalle istituzioni , di giornalista che indaga sulla vita dei minatori , di attivista del partito socialista inglese , di volontario nella guerra civile di Spagna a fianco della milizia comunista , che non esiterà a condannare nei suoi eccessi, prima con una critica radicale del comunismo ( "Homage to Catalonia") e poi.... E poi con la sua grandiosa favola (“Animal Farm”) che ben quattro editori si rifiutarono di pubblicare, dove seppe leggere con molto anticipo l'effetto corruttore dell'assolutismo e la distopia di un futuro regime totalitario. La sua fu, però, più che una visione politica, una dolorosa presa di coscienza di ciò che si sarebbe sempre più allargato, come una forbice mostruosa, delle differenze di vita spaventose tra una piccolissima parte della umanità, ricca e prospera, e l'altra infinita moltitudine degli esseri umani destinati a sopravvivere agli stenti e alla fame. Ecco questa sua partecipata difesa dei deboli, insieme alla presa di posizione ferma e vigorosa in favore della libertà, della giustizia e della sanità intellettuale, è la sua vera grandezza, il suo valore di narratore, tutto il resto è secondario.
2. La vera faccia del comunismo
George aveva un animo candido e comunque si sarebbe battuto per i poveri , ma forse non con quella energia e volontà feroce , se non ci fosse stato in lui , sempre presente, come una ferita aperta e dolorosa, quel sentimento di frustrazione, di offesa e di umiliazione subito a Eton, dai virgulti di una classe aristocratica e intellettuale di un impero Inglese che stava decadendo e si stava disfacendo proprio grazie a uomini-simbolo degli straccioni, uomini di fede tenacissima e ostinati più di loro, come Gandhi, che cominciarono a dare delle grosse spallate alla storia della loro grande immensa terra fatta di sopraffazioni , crudeltà e ingiustizie da parte dei colonialisti inglesi. Con “Omaggio alla Catalogna”, scritto di getto quale passionale reportage delle sue esperienze dirette, con le pallottole dei cecchini franchisti ancora fresche e con la sua povera gola sanguinante, e quindi con tutta la freschezza e franchezza delle vicende appena vissute, documento di eccezionale valore storico, testimonianza diretta della guerra civile spagnola e presa di coscienza, Orwell - a cui si svela la vera faccia del comunismo e del "potere" in genere - dichiara il proprio assoluto organico rifiuto contro ogni totalitarismo , a qualunque ideologia appartenga, destra o sinistra che sia ( ed è questa la sua grandezza di uomo e scrittore), ma "La Fattoria" non è certamente una minchiata, se mai la " continuazione" di quella presa di coscienza e la volontà di informare la gente quanto ci sia di stupido, doppio, crudele, machiavellico, disumano dietro la facciata del comunismo, è la storia, (la sua storia) in forma di satira, con la struttura della fiaba classica , di una rivoluzione fallita, di un credo illusorio e utopistico. Non era facile scrivere contro il comunismo allora, cinquant’anni prima della caduta del muro di Berlino - seppure sotto forma di fiaba classica -, non era facile dire alle masse che erano disinformate, raggirate, ingannate sulla vera natura del comunismo che allora sembrava essere la nuova dottrina dei poveri, il nuovo vangelo. Ecco perchè , Prof. Castracani , la fattoria non è una sciocchezza, una stupidaggine, ergo, una minchiata, ma lo è certamente la sua asserzione, di questo ne sia pur certo. (Tremo al solo pensiero di ciò che insegnerà ai suoi allievi!).
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La foto di copertina proviene da www.ibs.it

13 marzo 2009

"Chiedilo all’amore”, racconti di Giuseppe Bianco.
di Bruna Alasia

“Un uomo e una donna si fusero l’uno nell’altra. Profumo di burro sciolto nel tegame, voglia e bisogno di essere una sola cosa, come il cielo e il tramonto, la notte e la sua alba”.
E’ l’immagine che Giuseppe Bianco, nel suo libro di racconti “Chiedilo all’amore”, propone in situazioni psicologiche diverse, scandagliando i chiaroscuri dell’anima nel groviglio dei sentimenti.
L’amore fatto di comprensione e complicità, quello subito, l’amore che nasce dalla seduzione intellettuale, l’amore infedele, l’amore platonico, quello da sempre cercato, che si esaurisce dopo una volta, l’amore che non ha parole o che si esprime via Sms con un TVB (Ti voglio bene).
Tasselli di emozioni alle prese con il sentimento sul quale si regge la vita: un viaggio nella sua magia, nel suo dolore, finanche nella sua ineffabilità.
Giuseppe Bianco è un giovane talento campano. Ha pubblicato la raccolta di racconti “Lungo la strada del tempo” (Spartaco 2001), “Il baule delle storie perdute” (Araba fenice 2001), “Faximile. 49 riscritture di opere letterarie” (Frilli 2004), “Vedi Napoli e poi scrivi” (Kairòs 2005), “Oxé. Racconti erotici italiani” (Zona 2006), “Angeli” (Keltia 2006) “Florilegio” (Lisi 2007). Ha curato l’antologia poetica “Le parole per te” (Giulio Perrone 2006). Ha vinto numerosi premi letterari. Organizza l’associazione “Le parole per te” che da spazio ad esordienti o ad autori già affermati e da nove anni bandisce il premio “Città di Caivano”, con il merito di vivacizzare e valorizzare una zona, ahimé, nota per vicende meno nobili, indicando quelle promesse locali che, come bucaneve, spuntano su un terreno impervio.

Autore:
Bianco Giuseppe
Editore: Albus Edizioni
Genere: letteratura italiana: testi
Collana: Narrando
Pagine: 137
ISBN: 8890294914
ISBN-13: 9788890294914
Data pubblicazione: 2007
Euro 10

"Fregati dalla Storia" di Lodovico Ellena

Lodovico Ellena
FREGATI DALLA STORIA
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-89756-52-2]
Pagg. 224 - € 12,00

Questo volume include dozzine di piccole storie che la storia con la maiuscola dà per sottintese, ma che in realtà non si conoscono affatto o si conoscono in modo approssimativo. Alcuni di questi brani sono stati pubblicati in precedenti volumi, altri come articoli giornalistici, la maggior parte invece vedono in questa sede la luce per la prima volta. Si tratta di vicende minime, dettagli, sfumature o di fatti poco noti e in qualche caso addirittura colpevolmente ignorati dalla storia ufficiale, quella “politicamente corretta”. Storia e geografia si intrecciano alle biografie di personaggi della cultura o della politica colti nella loro quotidianità diventando così più “umani”. Luoghi, religioni, cimiteri, simboli, superstizioni, curiosità, riti, mestieri e tragedie ignorate: una miniera di notizie derivate dallo studio di attenti specialisti che nel corso dei decenni hanno consegnato al sapere e alla cultura il frutto delle loro ricerche. Vicende a volte “piccole” che risultano estremamente utili per comprendere ancor meglio il clima culturale di un periodo o lo spirito di un’epoca. Un libro che aiuterà soprattutto gli studenti, ma non solo loro, a comprendere meglio la storia; un libro utile per integrare la conoscenza e meditare.
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Fonte: Ufficio stampa Tabula Fati

11 marzo 2009

Geografia: gli insediamenti rurali

  Le popolazioni sedentarie si distinguono a seconda se vivono in campagna (insediamento rurale) o se vivono in città (insediamento urbano), anche se le forme intemedie sono molte.
L'insediamento può essere accentrato in villaggi, sparso in case isolate o a nuclei di abitazioni più o meno vicine. Per villaggio (o centro rurale) si intende però non semplicemente un agglomerato di abitazioni, bensì un centro di vita organizzata sul piano sociale, comprendente attività di pubblico interesse e basato su un'economia prevalentemente ma non esclusivamente agricola.
Le ragioni di questa o quell'altra disposizione delle case sono molteplici, alcune evidenti come la possibilità di approvigionamento dell'acqua o la morfologia del rilievo; altre meno ma sempre importanti come il sistema di gestione della campagna: il latifondo favorisce infatti l'accentramento, mentre le proprietà piccole orientano la popolazione ad una maggiore dispersione.
Le case sparse
La casa riflette essenzialmente il tipo di organizzazione agricola dei propri abitanti oltre ad avere caratteristiche tipiche del luogo nel quale viene costruita, sia per quanto riguarda i materiali da costruzione sia per ciò che concerne l'adattamento climatico. In generale le case sono distinguibili in forme unitarie e forme complesse.
Tre le forme unitarie distinguiamo la casa unicellulare, dove la famiglia contadina, non possedendo grossi mezzi, vive in un unico vano, dividendolo con gli animali quando presenti; la casa ad elementi sovrapposti, che ha il rustico al piano terreno e l'abitazione sopra, con una scala di pietra che sale aderente alla facciata; la casa ad elementi giustapposti, con abitazioni e stalla-fienile adiacenti o con addirittura una parete in comune.
Tra le forme complesse distinguiamo invece la casa ad elementi separati, con la casa, il fienile e la stalla variamente collocati in uno spiazzo; la casa a corte, dove gli elementi separati sono disposti ai quadrilatero attorno ad una corte appunto ed alla quale si accede tramite un portone.
Nel Mezzogiorno, dove è diffuso l'allevamento ovino, è presente la masseria, che è un quadrilatero di edifici rustici in muratura.
Va detto, infine, che non sempre le case sparse lo sono in maniera disordinata. In Italia non sono infatti rari gli esempi di centuriazione romana (la piana di Marcianise, la via Emilia da Bologna e Rimini, il graticolato tra Padova e Mestre) cioè di suddivisione del terrento in quadrati di 710 metri di lato (2400 piedi). Le case sono poste in questo caso lungo le strade perimetrali. In epoca romana ciascun appezzamento era detto centuria, perché approvigionava 100 famiglie.
I nuclei abitativi
Il nucleo è un aggregato elementare di case che non hanno una funzione attrattiva per la zona circostante. I nuclei sono per lo più frutto della tradizione latina di suddivisione della proprietà agli eredi, che porta la fattoria a diventare, con il trascorrere del tempo, un agglomerato di case.
I centri rurali
Anche se è già stata data è oppurtuno rimarcare la definizione di centro rurale, e cioè un agglomerato di case con funzione attrattiva per il territorio circostante, avente una vita sociale ed economica organizzata (una chiesa, una stazione ferroviaria, dei negozi ecc..). La nostra fonte sottolinea come la morfologia del territorio possa fungere da sprone alla creazione di villaggi, ad esempio la presenza di fiumi o di asperità può fare da catalizzatore. Esempi di questo sono i centri di ponte, di confluenza (Pavia), i centri di fondovalle (Valganna), di pendio, di terrazzo orografico, di cocuzzolo (Bergamo alta), di sella, di sprone e di dorsale.
I nomi dei centri possono poi dire molto sulla loro origine: i nomi che terminano in -asco lasciano per esempio intendere una origine ad opera dei Liguri. L'origine romana è invece spesso tradita da una terminazione in -aco e -ago. I centri nati con finalità difensive hanno invece spesso nomi derivati da parole latine come Castrum o Oppidum.
Un'ultima categorizzazione dei villaggi riguarda la loro disposizione nello spazio. In questo senso dobbiamo distiguere i villaggi agglomerato, che si sviluppano spontaneamente attorno ad un centro di attrazione (economico, sociale o religioso che sia), dai centri di strada (tipici della Germania orientale) che hanno una forma allungata nel senso della via di comunicazione che li attraversa.
Sempre caratteristici della Germania orientale, disposti lungo l'antico confine tra Germani e Slavi, sono i villaggi rotondi, dalla tipica forma difensiva.
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Fonte: Compendio di geografia umana - Dagradi, Cencini - Pàtron edizioniFonte fotografica: Google

10 marzo 2009

In ricordo di Francesco Ogliari

Facciamo oggi un saluto particolare al prof. Francesco Ogliari, avvocato di cassazione in gioventù, professore universitario, presidente del circolo milanese della Società Dante Alighieri e presidente del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano per 25 anni. Non era facile, la prima volta che ci si andava, raggiungere il suo Museo dei trasporti di Ranco: bisognava inoltrarsi tra i boschi che portano alla sponda orientale del Lago Maggiore, dopo il Sasso Bàllaro e poco prima della Rocca di Angera.
Ogliari si è spento due giorni fa, i funerali si svolgeranno oggi a Malnate, cittadina alle porte di Varese della quale era originario.
Ore 15:30
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Fonte fotografica da Google: www.jessi.it

08 marzo 2009

"Gli eroi della Marina" di Augusto Benemeglio

di Salvatore De Michele (*)
“Gli eroi della Marina” di cui Augusto Benemeglio , ediz. L’uomo e il mare, 2008, racconta le gesta sono personaggi che hanno inciso profondamente sul suo animo. Da essi, certamente, da giovane studente trasse ispirazione per abbracciare, come scelta di vita, la Marina, nei cui ranghi, dopo trent’anni di servizio, raggiunse un altissimo grado (Capitano di Vascello). I suoi legami con il mare pertanto sono antichi e indissolubili. Egli oggi, da vecchio marinaio in congedo, guarda a questi personaggi con grande rispetto e devozione, ne ricostruisce la loro la vita e ne canta le gesta con grande venerazione, ma la ricerca si indirizza, anche, verso la loro vita privata, intima, per scoprire i loro sentimenti ,il loro carattere, il loro mondo relazionale Oggi l’autore, che può vantare un’esperienza vasta e profonda dell’esistenza umana , non cerca solo l’eroe, ma guarda all’uomo, allo spirito che animava questi eroi, al loro sentire più profondo convinto che le loro azioni non furono solo conseguenza del loro spirito guerresco e tanto meno del desiderio di avventura. Trova in essi un profondo spirito umanitario che dà significato alle loro azioni. Un senso di appartenenza che non era solo Patria, ma spirito di solidarietà e fratellanza. Salvatore Todaro l’eroe al quale vorremmo istintivamente ispirarci, non dimentica che in ogni “nemico“ c’è l’uomo con tutti i suoi valori. Todaro è ai nostri occhi un simbolo, un grande. C’è una contrapposizione tra il suo l’eroismo e l’inevitabile violenza della guerra, che egli supera con la sua umanità . Percepisce che la guerra non può annullare l’uomo e lo evidenzia con le sue azioni . A chi gli rimprovera il suo spirito umanitario egli risponde: “ La guerra è il male“. E sappiamo come la guerra può estinguere l’uomo e diventare barbarie. Salvatore Todaro è un uomo vero, uno spirito libero che comunque non rifiuta il senso della disciplina che la condizione di militare gli impone. Augusto Benemeglio ci presenta i suoi eroi sotto una luce nuova , diversa da come la iconografia tradizionale ce li ha finora rappresentati . Questi uomini ce li mostra, a giusta ragione, come testimonial di storie vissute da uomini grandi e liberi, sempre fedeli a quel senso di lealtà che contraddistingue tutti gli uomini di mare. La drammatizzazione dell’affondamento della corazzata Santo Stefano, curata a suo tempo da A.B. , a cui io ho assistito, e rappresentata in numerosi contesti del Salento, con grandissima cornice di pubblico ( in estate piazze di paesi gremite, con mille spettatori ), ci mostra un Luigi Rizzo orgoglioso dell’azione appena commessa, ma anche addolorato dalle conseguenze dell’affondamento della nave in cui persero la vita molti uomini di mare , che facevano parte della Marina austro – ungarica e che sulla chiglia della nave capovolta invocavano aiuto in dialetto veneto. Anche qui l’eroe conserva la sua essenza di uomo. Un’analisi dettagliata del libro di A.B. non è nello scopo di queste note , ma non possiamo trascurare che azioni di grande valore furono compiute anche da uomini semplici che rivestivano un grado minimo nel corpo degli equipaggi della marina e che non solo collaborarono nel compimento di grandi azioni ma individualmente furono protagonisti di grandi gesta. E come dimenticare l’immagine di Emanuele Perrone, gallipolino, capo meccanico, a bordo del sommergibile Galvani, che rinuncia alla propria vita e rimane attaccato ai comandi dei motori per consentire ad altri membri dell’equipaggio di mettersi in salvo. Sono momenti di grande emotività e drammaticità durante i quali immagini struggenti della sua famiglia si fondono con la visione della terra nativa .
* Ammiraglio(C) , già comandante del Porto di Trieste e di Gallipoli

05 marzo 2009

Giovanni Bianco, l'ultimo eroe di Gallipoli


di Augusto da San Buono

“Amici, ci aspetta una barca e dondola /nella luce ove il cielo s’inarca /e tocca il mare” (M.Luzi)

1. Sono trent’anni che Giovanni Bianco mi racconta la sua impresa, passeggiando lungo il molo di sottoflutto del porto mercantile di Gallipoli , o per i sentieri di vetri infranti di via Potenza, o a casa sua , seduto in poltrona davanti ad una telecamera , oppure al tavolino dell’Anmi, con una birra e una gazosa. E ogni volta è una storia diversa , che ti fa rabbrividire, commuovere , sentire il tuo fallimento , o innalzare il tuo cuore alla rosee sponde stagnanti delle vele d’oro, là dove , si dice, stanno gli eroi dimenticati , fino ai giardini dei limoni maghrebini , che sembrano crescergli sotto i piedi ben saldi …sulle nuvole. Infatti, quando si immerge nei suoi ricordi , Giovanni è un gigante con la testa negli alberi , e dai suoi capelli d’argento , le ombre dei ricordi , uccelli prigionieri , uccelli coll’ali di carta, volano come i gabbiani di Anteri.


2. Ed ecco che lo rivedo ancora una volta , in piedi , al timone del suo dragamine RD 44, con la luce della speranza, il segreto della salvezza , eccolo che vira decisamente a dritta, verso capo Zebib , dirige verso quella radura sabbiosa che traguarda le colline di Cartagine , e riesce a far adagiare la nave sulle secche nonostante i caccia americani lo bracchino come avvoltoi , e nonostante abbia il petto squarciato da una scheggia di proiettile che gli ha fatto la barba al cuore , senza toccarlo , e gli si è conficcata proprio lì, tra gli interstizi , a due millimetri dal confine mortale. E’ stremato , Giovanni Bianco , riverso sulla calda sabbia della secca di Zebib , tra la calce il sangue gli scogli la cenere e i segni simbolici della sua impresa , un timone di legno e una barra d’acciaio. I marinai del Battaglione San Marco , spettatori improvvisati non paganti , che stanno risalendo la costa, inseguiti dai carri armati degli alleati, fermano la loro marcia, lo salutano, lo abbracciano idealmente con sguardi pieni di speranza e gratitudine , e i loro gesti sono pieni di risonanze universali , olè Giovanni, olè!, gridano in un sincero tributo d’affetto, un legame che unisce tutti i marinai del mondo. Olè, olè, Giovanni, riecheggiano i gridi e le esultanze dei suoi compagni , trentacinque marinai che stavano per affondare, da lui salvati, che ora gli vanno vicino, lo confortano, lo adagiano su un telo, gli mandano un bacio , chiedono aiuti a infermieri e medici del battaglione che sta per risalire la spiaggia. Mentre sopra di loro, ormai al riparo, continuano a volare i carboni ardenti del cielo , Giovanni Bianco paga il suo immane sforzo e cade svenuto sulla spiaggia, col petto squarciato. Accorre il medico del Battaglione San Marco, un Ufficiale napoletano , e lo rianima. Con le forbici gli taglia il corpetto incatramato nel sangue nero, poi con il bisturi e una garza sterile ( è tutto quello che ha) compie l’operazione, da sveglio, senza nessuna possibilità di mitigare il dolore. Lo tengono in quattro, il povero Giovanni mentre il medico gli taglia la carne viva insieme e rimuove la scheggia di proiettile conficcata a due millimetri dal cuore. Dovrebbe imbarcare subito, Giovanni, con la nave ospedale “Gradisca” . Ma non fa in tempo, gli inglesi stanno arrivando , e non fanno sconti a nessuno, neppure ai feriti gravi come lui . Viene portato in un campo di prigionia dove rimarrà per tre anni. Riuscirà a sopravvivere, e questo è un altro miracolo della sua vita , un'altra storia di questo sublime eroe di Gallipoli da tutti dimenticato. E si capisce perché. Infatti , vederlo così, oggi, tra i frontali slavati di case di periferia , le finestre polverose , la ruggine dei metalli dei cassonetti sfregiati lungo le strade piene di buche, con l’aurora che ha lasciato la sua macchia sporca nello squallido giardino condominiale , ridotto ad un lager di cemento e di inferriate , Giovanni Bianco sembra solo un povero vecchio pensionato che si fatica l’esistenza, con quei quattro soldi che gli passa il Governo dopo cinquant’anni et ultra di duro lavoro, uno che di buon mattino naviga tra i marciapiedi mal finiti , il catrame unto e puzzolente e l’afa d’agosto che soffoca gli asfittici eucalipti e gli oleandri amari incarcerati in quel condominio in cui vive da quarant’anni. Come tanti altri vecchi, Giovanni vive in una sorta di terra di nessuno , senza un potere contrattuale , come un peso e un fastidio per la società; vive in quei confini da cui uno vorrebbe sfuggire , ma sono inevitabili , quando sei vecchio e senza soldi , vive in quei luoghi della necessità , dell’indifferenza, della solitudine , luoghi che sembrano non esistere se non al momento in cui ti tocca navigarli.


3. Come tutti gli uomini che hanno una barca che li aspetta , e dondola nella luce ove il cielo s’inarca e tocca il mare, Giovanni è innamorato della Madonna, è sempre in attesa di un sospiro, di una voce, di una grazia estrema. E’ ancora vivo in lui il ricordo del cappellano militare, don Cosimo De Vittorio, che tanti anni fa , lui appena ragazzo , benedice la statua della Madonna del Carmelo , su cui sua madre ha versato fiumi di lacrime. Giovanni è un giovane schivo, silenzioso , che fa le cose per bene, in modo concreto, ma anche fantasioso, ci mette passione, ci mette l’anima, insomma, e con la sua innata modestia, il suo coraggio, i suoi gesti esperti , rapidi, sicuri , determinati , riesce a conquistare rapidamente la stima e la simpatia di tutti . Preferisce i toni lievi, sommessi , gli archi , o le arpe mosse dal vento , la brezza marina che lo sfiora e quasi gli canta l’ode del silenzio azzurro, quei silenzi incredibili che conosce da sempre , da quando , bambino , andava per mare , sulla barca a remi di Tata , fiero di essere un pescatore , con tutti i rischi e le limitazioni , e la fame che gli torceva le budella e gli impediva qualsiasi volo pindarico. “Non avevamo niente, d’inverno facevamo la fame più nera, stavamo anche tre giorni senza mangiare. Posso dire di aver vissuto un tempo che soffre e fa soffrire” . Nei suoi ricordi non c’è posto per la nostalgia dell’infanzia: “Non avevamo niente con cui giocare , dormivamo in tre in un letto, non c’erano gabinetti, non c’era luce elettrica , non c’era altro che freddo , fame e miseria”. Bianco è uno che è vissuto come i suoi avi , di fatalismi , attese lente , di affanni misurati , di immense fatiche azzurre , di sopravvivenze quotidiane , di futuro incerto . “Prima di partire per la guerra, non ero mai uscito da Gallipoli. Non conoscevo neppure Lecce”. Lo rivedi in fotografia, quando era un giovane di diciotto anni , bello, biondo, aitante , pantaloni , camicia e piedi scalzi ,sulla barca a remi , pieno di fame arretrata e di desiderio di fuga , lo vedi immerso fra le reti e le nasse , e teso all’onda del grecale o del libeccio . E ora te lo trovi davanti , sempre meno eretto , sempre meno alto, coi suoi ottantotto anni , immerso nella periferia di Gallipoli , in uno dei tanti (brutti ) appartamenti di via Cagliari , con la moglie dove vive quietamente e serenamente tra i ricordi da marinaio e gli album di fotografie sbiadite. A vederlo così, ripeto, ti fa tenerezza, quel vecchio marinaio che se ne va per antichi sentieri con la schiena curva e le ossa rotte , è uno dei tanti anziani di cui Kofi Annan diceva che dovevano essere considerati non un peso e una negatività per la società , bensì agenti beneficiari dello sviluppo, per gratuità , memoria, amicizia, saggezza, voglia di pace, ma lo diceva tanto per dire, perchè quello era il suo ufficio. Invece Giovanni Bianco è realmente un patrimonio , un dono di memoria amicizia saggezza che non meritiamo, un monumento vivente .


4. E’ l’ultimo eroe di Gallipoli , un eroe purissimo che affrontò la tempesta e il fuoco delle armi mostrando il petto come facevano i guerrieri antichi , anche se ha sempre odiato la guerra: “ La guerra non è mai buona, non serve a niente, anzi la guerra rovina il mondo, è la peste dell’umanità”. E lo dice uno che l’ha vissuta, che ha visto il cielo di piombo e fiamme venirgli addosso , uno che ha saputo esprimere il sacro ardore , l’amore per la sua città e per la sua patria , senza solenni giuramenti , gridi o parole reboanti , ma con gesti e azioni concrete ; uno che ha saputo affrontare con calma e decisione la sua “ora” , la sua prova , mentre tutto era caos , fuga e disperazione . E poi , quando tutto è tornato normale , si è rimesso in disparte, in mezzo alle cose taciute , le cose di tutti, la famiglia (numerosa) , un lavoro umile e onesto ( pescatore e poi , in tarda età, bidello alla scuola media di Piazza Carducci) , la dignità , la solidarietà, l’amicizia , le cose che contano nella vita . E poi c’è la solitudine , che ti è sempre compagna, la tua stella dei sogni e della fantasia che ti guida , e lo scoglio , simbolo delle difficoltà e dei naufragi , il suo amato Scoglio, dove si nasce marinai e non si diventa eroi per caso, lo si è per tutta un’intera esistenza , anche se misconosciuti. Giovanni era bravo nell’arte di traghettare un nave in balia delle onde, l’arte antica dei fenici , l’arte di Palinuro , timoniere di Ulisse , un arte nella quale sono in pochi, pochissimi a poter emergere, in cui bisogna conoscere la trama segreta del silenzio e del vuoto , del principio amaro dello scoglio e la musica della sabbia Eccolo , all’alba del 5 maggio 1943 , sulle coste maghrebine, a bordo dello scassato dragamine senza nome ( “RD 44”) che pattuglia le acque della Tunisia, tra capo Bon e capo Bianco. E’ appena salpato da Biserta puntando circolarmente ad est, cauto, circospetto, sottocosta , sempre verso est , dove apparivano le colline di Cartagine, nei pressi di capo Zebib . E’ un’alba di bonaccia con mare liscio e senza una bava di vento, e Giovanni è al timone , accanto a lui il comandante della nave, il Tenente di vascello Giuseppe Ferrari , un siciliano normanno , biondo, di pelle chiara. Parlano degli inglesi che avevano vinto ad El Alamein e avanzavano a rotta di collo, degli americani che erano a Casablanca e si portavano ora proprio verso Biserta, della loro potenza bellica, gli aerei ,i sommergibili , i carri armati, gli equipaggiamenti super, le sigarette, il cioccolato. Sanno già da molto tempo che la guerra è perduta. Ma parlano anche , con batticuore , delle loro città lontane , delle loro famiglie e delle speranze nel futuro. Bianco si è guadagnato la stima del suo Comandante anche come avvistatore di mine , conosce tutto di quella bagnarola galleggiante , verricello, cavi d’acciaio, cesoie e bussola, sa come si aggancia una mina , sa della sua furente esplosione, il suo fragore infernale , i momenti di ansia e di paura. Per 50 lire in più, tanto valeva l’avvistamento di una mina, lo stipendio di un mese, Giovanni sta sempre in coperta, al freddo, con l’occhio aguzzo, nella foschia o nella prima nebbia del crepuscolo mattinale.Per questo pescatore di Gallipoli , nato sul mare e con dentro il suo abisso solitario e un cielo affondato ; per questo giovinetto che si è nutrito di buio e silenzi , coll’endemico problema del pane quotidiano e della sopravvivenza, che pregava la Madonna del Carmine come un carmelitano scalzo , e viveva dentro un nero arcobaleno fatto di sacrifici e sofferenze , un arco viola che fa vibrare lunghe corde del vento , - quella vita dura del marinaio in prima linea , a gomito a gomito con la morte, era solo una delle tante sfide che il destino gli aveva apparecchiato e che avrebbe dovuto affrontare.


5. Lui era ignaro , non sapeva ancora di avere dentro di se un eroe , anche se riusciva sempre a fare posto agli altri , a far più posto dentro di se, qualsiasi cosa gli chiedessero. Qui gettava le cime, là ricuciva le reti, o faceva i nodi da provetto marinaio; teneva i remi come se fossero pale d’altare , e sapeva saltare da una barca all’altra quasi volando sul mare. Al timone era come Palinuro che dirige contro l’ignoto, nessuna cosa lo spaventava , e conosceva come pochi il silenzio del mare , la curva dell’onda e il vuoto del mare. E la voce del mare. Dura. Roca. Fonda. E la voce dei pesci, che considerava fratelli ancora più sfortunati di lui. Conosceva ogni piccolo movimento, ogni piccola ansa, ogni mulinello, ogni curva dell’onda, ogni angolo di scarroccio o deriva, ogni corrente , ogni capriola o virata dei delfini . Tutto era pieno di movimento, ogni cosa si muoveva, anche quando sembrava dormire. E continuava ad aprire sempre le porte del suo cuore, a fare posto dentro di se, fino a quando? Non lo sapeva, ma sapeva che finchè sarebbe riuscito a farlo si sarebbe guadagnato onestamente la vita. E così fece anche quando partì per la Marina, la prima volta in viaggio, la prima volta sul treno, la prima città che non fosse la sua. Vide Brindisi con la sua testa di cervo, e quel porto, così grande, immenso, con tante navi!E poi Ancona , l’antica città dei dori, la città-zebra che diventa un gomito , un gomitolo d’ombra alle tre del pomeriggio, tutta bianca, sul promontorio di querce d’argento, e poi Zara!, la città dei viburni, capitale della Dalmazia, coi suoi tetti rossi e le guglie che corrono verso il mare.Aveva perlustrato per mesi la costa istriana, con quella nave senza nome, RD 44, avevano snidato il mare seminato di mine , scortando le navi che portavano il Battaglione San Marco a Sebenico e a Spalato, aveva anche combattuto, contro la Jugoslavia che era entrata in guerra al fianco degli alleati. No, non aveva sparato neppure un colpo, ma aveva caricato i proiettili del cannone 76/50, proiettili che pesavano 25 kili l’uno , aveva assistito alla resa di San Michele e di tutte le isole vicine a Zara, aveva portato a bordo una suora ferita alla mammella sinistra, che faceva parte del convento di Monte San Michele, una fanciulla che aveva lo stesso volto di una delle sue cinque sorelle. L’aveva sfiorata con lo sguardo, aveva pregato per lei quel Dio che scioglie tutti gli affanni.. Giovanni sentiva di amare intensamente la vita, e stupiva ogni giorno di essere vivo, di essere utile a qualcuno , al suo comandante , alla nave , alla patria, ai suoi fratelli del sud, tutti imbarcati su quel dragamine scassato , siculi, napoletani, lucani, calabresi , molisani , con cui sentiva di avere in comune un grande bazar di parole, espressioni, ammiccamenti, mimica, tratti del volto, anche se lui non gesticolava , era sempre pacato e se ne stava quieto , in silenzio, in attesa che qualcuno gli dicesse, fammi posto Giovanni, devo entrare in te, vedo che la tua porta è aperta. Ma talvolta , anche a bordo, come nella sua Gallipoli, gli sembrava che fosse attraversato da un Dio malvagio che gli impediva di soddisfare le esigenze più elementari e innocenti , parlare e ridere cogli altri, mangiare, dormire, faticare, amare la gente, il mare, la luce del sole e delle stelle. Ecco, di fronte ad un dio malvagio, - si chiedeva - come si comporterebbero gli uomini? Forse sarebbero più buoni, non pretenderebbero o richiederebbero niente ad un dio del genere , temendo chissà quale risposte. Ma qualcuno forse lo combatterebbe , si scaglierebbe contro di lui ,mentre altri se ne starebbero nascosti da lui , e altri ancora gli darebbero la caccia – temerari cacciatori deicidi. E infine altri ancora avrebbero avuto comunque fede che un giorno sarebbero riusciti a migliorare quel dio malvagio. Tra questi ultimi ci sarebbe stato lui , Giovanni, con una fede incrollabile nell’uomo , una fede che era all’ultimo respiro. Forse ogni tuo respiro è l’ultimo alito di un altro, pensava mentre assisteva al naufragio della motonave Boita , e si dava da fare per salvare i 40 naufraghi, ( “Era impressionante vedere quel bestione con la chiglia capovolta, sembrava un isolotto a fior d’acqua) , oppure era intento a liberare un marinaio imprigionato nei relitti , col rischio delle mine . Ci era andato insieme al meccanico armarolo Carmelo Greco – “Puttana da’ beddha matri, sempre a noi toccau” – e c’erano riusciti, a salvare il marinaio che era nella pancia della motonave con il sangue che gli usciva dalle orecchie e gridava “paisà, paisà, aiutatemi”, nuotando tra quelle bolle oleose gigantesche in superfice . La nafta gli sarebbe rimasta addosso per giorni e giorni. Ma lui , come sempre, aveva svolto bene il suo compito, e stavolta volevano dargliene atto in modo concreto , con una promozione a sergente:“Il comandante aveva fatto subito le proposte all’ammiraglio Biancheri che era lì col Battaglione San Marco, e la promozione sarebbe arrivata presto , ma subito dopo le cose precipitarono”. Giovanni ricordava ancora quel marinaio tagliato in due dalle cesoie del tagliamine, uno spettacolo crudele e orrendo, come stupida , crudele e orrenda era la guerra...


6. Ma ecco che sta accadendo qualcosa, in quelle acque calde di Cartagine , suona l’allarme di bordo. Tutti ai posti di combattimento. Nel cielo, da sud-est, una squadriglia di caccia americani . Stanno arrivando come avvoltoi sopra di loro. Non ci sono speranze, hanno solo due scassate mitragliatrici per far fronte agli aerei. Non hanno scampo. Colle caldaie a tutta forza e il cielo pieno di fumo , la nave va in fuga , inseguita e bombardata dai caccia americani, viene colpita in più punti , una sventata di mitraglia arriva al ponte di comando, il comandante viene ferito ad entrambe le gambe . La carcassa è ormai piena di falle e va alla deriva, rischia di affondare da un momento all’altro. Anche Giovanni viene colpito, ma lui non se ne avvede, fino a quando tenta di dar mano al suo comandante. Allora s’accorge che ha il petto pieno di sangue , e non ce la fa ad usare il braccio sinistro. Bianco - gli dice il comandante riverso in terra – ce la fai a portare la nave su capo Zebib ? Giovanni dice di sì, certo che ce la fa. Allora punta le colline di Cartagine , le vedi? Vira laggiù, piomba dritto sulla Sirte , sul basso fondale di sabbia. Se ci arriviamo in tempo, se ci sediamo sul fondo , ci salviamo, altrimenti per noi è finita. Intanto dalla costa la nostra contrarea era in funzione , ma non riusciva ad avere risultati pratici, e i caccia americani , da levante , iniziano un’altra manovra di viraggio , sono sopra il dragamine e lo subissano di bombe e proiettili . Lo scafo , nuovamente colpito sbanda, s’inclina a poppavia , ma ormai è giunto in prossimità della secca , dove miracolosamente s’arena e s’adagia placidamente , come una chioccia , salvato , insieme ai trentacinque marinai dell’equipaggio , dal timoniere Giovanni Bianco da Gallipoli, a cui andrebbe data una medaglia d’oro , una solenne stretta di mano , e il riconoscimento perenne della patria.


7. Invece , come sappiamo, Bianco viene fatto prigioniero dagli inglesi che lo trattano esattamente come tutti gli altri , e di questa impresa straordinaria si perde ogni traccia . Per più di cinquant’anni non ne parlò mai nessun giornale, nessun bollettino di guerra , nessuna rivista di terz’ordine , nessun giornalino parrocchiale . (era il 1996 , quando Gino Schirosi pubblicò il primo articolo su Bianco , sulla rivista “L’uomo e il mare”, da me fondata ) , e per molti anni sembrò addirittura che questa storia fosse inventata di sana pianta da un povero pescatore di Gallipoli , che era rientrato in Patria , dopo tre anni di dura prigionia , nell’estate del 1946 , sporco lacero e pidocchioso , senza possedere nulla se non i suoi stracci e quella storia stramba, come tanti reduci mitomani. ( “Con gli altri salentini prigionieri ci incontrammo alla stazione di Lecce . Eravamo magrissimi, sporchi, dei pezzenti assaliti dai pidocchi , dalla commiserazione , dall’ingratitudine della nostra patria che ci aveva dimenticati, e anche fra noi non c’era alcuna solidarietà “) . Infatti devono passare ben otto anni da quei fatti di guerra (era il 25 aprile 1951) , prima che Bianco venga convocato in Municipio per ricevere dal Sindaco di Gallipoli , nel silenzio più assoluto e in assenza di qualsiasi formalità , una medaglia d’argento al valor militare, con annesso diploma di merito che conteneva la seguente motivazione: “ Destinato al timone di dragamine , operante in acque fortemente contrastate , coadiuvava il Comandante in occasione di un attacco da parte dei numerosi aerei avversari manovrando brillantemente sotto l’intenso mitragliamento e spezzonamento. Gravemente colpito al petto rimaneva al suo posto eseguendo con calma e serenità gli ordini del Comandante , pur esso gravemente ferito. Esempio di stoicismo , tenacia e grande attaccamento al dovere”. Ma intanto lui , Giovanni Bianco, questo eroe purissimo , questo gigante che naviga con la testa tra le nubi , continua ad andarsene in giro travestito da vecchio pensionato , sempre più curvo e malfermo sulle gambe , e continua a raccontare per l’ennesima volta lo spettacolo meraviglioso della sua storia.

02 marzo 2009

Geografia: l'abitazione

Nota enciclopedica
Secondo la nostra fonte, sebbene la cosa sia discutibile, la cultura spirituale è svincolata dall’ambiente, mentre quella materiale è fortemente vincolata alle condizioni materiali di sopravvivenza.
II “genere di vita” viene definito come l’insieme delle pratiche adottate da un gruppo umano al fine di garantire la propria sopravvivenza.
Tra le pratiche più diffuse vanno necessariamente annoverate quelle utili all’approvvigionamento alimentare, in origine ottenuto tramite raccolta, poi con la caccia e dove possibile con la pesca; oggi con l’allevamento e la coltivazione, che è influenzata dalle condizioni climatiche, ragione per cui ogni area del pianeta ha una sua caratteristica alimentazione di base (es: riso in Oriente, mais in America Latina, pane in Europa).
Certamente legato alla cultura materiale è l’abbigliamento, influenzato dal clima e dagli usi, ma più di tutto è l’abitazione a rendere gli uomini tutti uguali nel loro bisogno di riparo, eppure diversi nel costruire ed arredare in questo o in quell’altro modo.
Quindi bisogna distinguere, a seconda del grado di sviluppo e della geografia delle popolazioni, in:

Abitazioni primitive: la grotta è oggi poco usata, sebbene sia stata l’abitazione primitiva per eccellenza. Testimonianze di abitazioni in grotta sono rimaste nel nord ovest della Cina, dove esistono interi villaggi scavati nel terreno monsonico. La Cappadocia turca è inoltre nota per le sue chiese scavate nella roccia, né possono essere dimenticati i Sassi di Matera, che per secoli hanno ospitato al loro interno i braccianti lucani.
Presso le popolazioni primitive le abitazioni sono tuttavia anche oggi ridotte all’essenziale, e sono spesso solo ripari dal vento, costituite da stuoie sollevate per un lato dal terreno, oppure paraventi di rami e frasche, dove il clima lo consente. I boscimani, un po’ più evoluti, utilizzano il riparo semicircolare, mentre gli aborigeni vagano sostanzialmente nudi, utilizzando un riparo di frasche solo per la mimetizzazione durante la caccia.
Gli eschimesi utilizzano d’inverno il noto iglù, mentre d’estate utilizzano il kayak come riparo mobile, adatto alla pesca ed alla caccia.

Le tende dei nomadi
Le abitazioni nomadi sono caratteristiche di quelle popolazioni che abitano terreni inadatti all’agricoltura e sono quindi dedite allo spostamento con animali al seguito. Secondo la nostra fonte le abitazioni nomadi sono di tre tipi fondamentali:
La tenda turco-mongola è costituita essenzialmente da una palizzata circolare, giuntata all’estremità per fissare la raggiera della telaio di copertura. La tenda turca ha 4-5 metri di diametro ed è ricoperta con stuoie di lana che vanno a ricoprire la cuspide del tetto, mentre in mongolia è più grande, con un tetto arrotondato e ricoperto di pelli, per via del clima più rigido.
La tenda araba ha base quadrangolare con un tetto a due o più spioventi ricoperto con lana e pelo di cammello, è sostenuta da strutture di pali intrecciati i quali consentono anche la separazione in vani, sostanzialmente per dividere le donne dagli uomini.
Le tende arabe sono spesso disposte circolarmente attorno ad uno spiazzo centrale dove vengono custoditi gi animali durante la notte.
La tenda conica di pelli è invece diffusa presso le popolazioni boreali dei pastori di renne, come i Lapponi. Si tratta di abitazioni rudimentali che vengono spesso collocate in inverno nel sottobosco delle foreste di conifere, dove si trova al tempo stesso riparo dall’inverno ed un sia pur magro pascolo per gli animali.

Le capanne degli agricoltori
La differenza sostanziale tra tenda e capanna è che la seconda è fatta per restare ed è quindi tipica di una popolazione residente, dedita all’agricoltura. Ce ne sono di diversi tipi.
La capanna conica, scomoda perché poco spaziosa, è diffusa nelle terre fredde della Siberia e della Terra del fuoco.
La capanna a alveare, diffusa in Congo ed in Amazzonia, è sempre circolare, ma i rami del telaio vengono incurvati nella parte alta per formare una copertura emisferica che poi viene fittamente ricoperta di vegetazione, risultando in questo modo impermeabile.
La capanna cilindro-conica è diffusa nell’Africa sud sahariana ed è costituita da una intelaiatura cilindrica in argilla o da una palizzata circolare, sormontata da una copertura conica ricoperta di paglia e/o argilla. Il cono ed il cilindro sono strutturalmente elementi separati.
La capanna quadrangolare, facile da dividere internamente, è diffusa in Brasile nella versione a botte, dove i rami ed i pali dei lati lunghi vengono piegati a copertura; nella versione a tetto spiovente è invece diffusa in India ed Indonesia.

La casa
La casa deriva dalla capanna mano a mano che le condizioni si fanno favorevoli ad una permanenza duratura degli uomini in uno stesso luogo, cioè con la nascita delle cosiddette società evolute. Esempi molto primitivi di casa sono gli iglù eschimesi e i trulli pugliesi, dove la copertura è ottenuta per sovrapposizione circolare di ghiaccio o di pietra che vanno a costituire una struttura stabile, non demolibile dalle intemperie.
Nelle aree ricche di boschi le case stabili sono nate e tuttora vengono spesso costruite in legno, ma non sono rari esempi di abbinamento con l’argilla, come nell’isba russa, una casa tipicamente di tre stanze su un solo piano, isolata dall’umidità del terreno e costruita con palizzate sovrapposte riempite di argilla e letame, in modo da conferire al tempo stesso impermeabilizzazione ed elasticità, cosa questa che rende l’isba particolarmente adatta alle zone sismiche.
I mattoni
furono inventati in Medio oriente, ma lì per l’assenza del legname necessario vennero in origine utilizzati solo in forma secca e non cotta. Con i romani, per derivazione delle abitazioni rettangolari degli assiro-babilonesi prima e delle abitazioni greche a peristilio poi, nasce la domus, l’antenata dell’abitazione, con stanze rettangolari disposte attorno ad un cortile interno. Nel bacino del Mediterraneo si diffusero poi abitazioni costituite da varianti della domus, come quelle che adottarono il patio per elemento centrale. Per tutto il tardo Medioevo si ripeteranno gli schemi architettonici romani in forme sempre più scarne, fino alla nascita della casa moderna, così come la conosciamo oggi.
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Fonte: "Compendio di geografia umana" - Dagradi, Cencini - Pàtron edizioni
Fonte iconografica da Google: www.architettura21.eu

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

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