30 marzo 2019

La papessa nera a cura di Angelo Ivan Leone

LA PAPESSA NERA

La faccia che non vedete sbuffoneggiare è la faccia vera, pericolosa e seria della destra italiana. L'immortale Giorgio Gaber diceva: io non ho paura di Berlusconi in se, ma di Berlusconi in me. Oggi si può ben dire che il problema non è Salvini, ma chi verrà dopo Salvini, ossia dopo che il circo sarà finito. Ed ecco in questa foto una diapositiva di chi potrebbe venire dopo Salvini.
Berlusconi si è storicamente sempre battuto, Salvini da solo o con la sua armata Brancaleone giallo-verde tendente al nero (un orrore solo a immaginarlo!) o con una bella alleanza (un patto d’acciaio, magari cinese!) di destra-destra in azzurro-nero-nerissimo quasi svastica, si abbatterà da solo. Andreotti storicamente non lo si è battuto mai. "Tutto cambia" c'era scritto in una comune hippy tanti anni fa "Gesù Cristo mai".

"Ma non ho mai sporto querela, per un semplice motivo: possiedo il senso dell'umorismo. Un'altra cosa possiedo: un grande archivio, visto che non ho molta fantasia... e ogni volta che parlo di questo archivio, chi deve tacere, come per incanto, tace."
IL DIVO (c) Angelo Ivan Leone

28 marzo 2019

La grande bellezza di ‘quella’ Roma, che non è quella di oggi a cura di Angelo Ivan leone


L’eterno duello: etica vs estetica

La grande bellezza di ‘quella’ Roma, che non è quella di oggi

D’Annunzio si circondava non di bellezza, ma di patacche. Ecco cos’è il Vittoriale: un museo di patacche, e pataccaro lo era anche nel modo di scrivere barocco e copiato, e copiato male, da Nietzsche. Shopenauer non aveva un pessimismo implacabile, ma un pessimismo che si poteva e si doveva affrontare con la via della liberazione dal dolore. Essa non era, nel suo grado massimo, la contemplazione estatica dell’opera d’arte che ne era solo un momento e dei più fuggevoli, relativi e aleatori, ma aveva il suo culime e apogeo nel nirvana che Schopenauer mutuava come concetto dalla filosofia indiana e come assunto filosofico dall’epicureismo ellenistico più che romano. Chiarite queste postulatorie del ragionamento espresso nel video entriamo nel vivo e veniamo alla “Grande Bellezza” che l’autore riassume grossomodo in un primato della vita estetica, sempre per rimanere nei ritmi del filosofo. La vita estetica tuttavia non è vedova in questo film ma contrapposta, come lo è da sempre storicamente ed esistenzialmente, alla vita etica. In questo conflitto tra estetica ed etica c’è il succo del film. Si pensi alla suora, vero esempio di ascetismo e di nirvana, ergo di etica, non a caso sembra la copia esatta di Madre Teresa di Calcutta, che a queste due superbe idee non era affatto estranea, che dice a Jep: mangio radici perchè le radici sono importanti“. Ecco, e con quel mangiare radici e non dimenticarsi mai delle vere radici del genere umano noi oggi vogliamo ricordare un popolo come quello romano che, con quel suo fare severo sin nelle cibarie, basti ricordare i veterani di Cesare che un anno si lamentarono perchè erano finite le verdure ed erano costretti a mangiare carne o Catone il Censore che si cibava di fave e cicorie pur avendo sconfitto per sempre l’ultima grande nemica che l’Urbe aveva, ossia Cartagine (Semper delenda est!), sottomise e irradiò di civiltà il mondo intero. “La grande bellezza” di quella Roma e di quei romani (vita etica) contrapposta alla “grande bruttezza” di questa Roma e di questi romani (vita estetica) che somigliano ai loro avi: come una mosca somiglia ad un aquila solo perchè volano entrambe.

25 marzo 2019

Paesaggi d'estate di Gianfranco Galante a cura di Vincenzo Capodiferro

PAESAGGI D’ESTATE
Idilli leopardiani nel ricordo dei viaggi dell’infanzia, di Gianfranco Galante

In “Paesaggi d’estate. Affreschi dipinti a mente d’un pensare assai fluente” uscito nel 2018, presso Gianpi Sas a Varese, l’autore, Gianfranco Galante, ci offre dei veri e propri affreschi leopardiani, affondati nei fondali marini del ricordo dell’infanzia perduta. Vi si respira aria di quel pessimismo nostalgico che anima tutta la poetica dei nostri sud-diti (i soggiogati del sud). Sud è nostalgia per eccellenza. Ecco la platonica reminiscenza dei luoghi dell’infanzia! Si scende nei fondali di quell’iceberg freudiano-junghiano soggettivo-collettivo e qui si trova il ritorno, l’eterno ritorno in quei “paesaggi d’estate”. È l’eterno ritorno del migrante nei luoghi dell’esilio, nella Sicilia, il cuore del Mediterraneo, un cuore palpante d’amore. Il tema forte è quello del viaggio, il viaggio che faceva l’emigrante da Milano alla Sicilia e dalla Sicilia a Milano, percorrendo tutto lo stivale dell’Italia, il Bel Paese, che sbalordisce il visitator cortese: «In “paesaggi d’estate” sono presenti immagini, istantanee mnemoniche … attraverso occhi di bambino prima e ragazzino poi, che ha percorso un viaggio mille volte. Una tradotta di circa quaranta ore. Sopra un treno lungo lungo … viaggiando di giorno, di notte … Con scomparti super affollati … con gli odori di cibo sempre nell’aria … con l’olezzo dei piedi … Ed in più il fumo di sigarette … Una transumanza …,» ci ricorda Gianpi - così chiamiamo il nostro amico Gianfranco e permettetecelo! - nella Introduzione al testo. Adesso non si possono immaginare più nemmeno questi viaggi, perché ci sono le frecce rosse, gli aeroplani, ma allora? E permetteteci anche di intersecare i nostri “paesaggi d’estate”, anche perché anche noi abbiamo vissuto quei momenti struggenti delle partenze e degli arrivi per andare dai nonni, dai genitori, dai cari. Ci aspettavano come il Padre il figliol prodigo. E poi si tornava, dai nostri boschi a Milano:

Milan s’arriva,
colle selve di antenne rivolte,
e così ti arride la sorte!

Così annotavo anch’io nei miei diari. A Milano ci accoglieva una selva di antenne televisive: che strani alberi! Fare un viaggio del genere per dei ragazzini, come io, Gianpi, e tanti altri, era un’impresa. Mi ricordo una volta con mia nonna che giunti a Milano si mettevano i grossi scatoloni in testa, con la spara, il grande fazzoletto arrotolato che serviva da base e una volta uno di quelli cadde e si fracassò e tutte le forme di cacio si misero a rotolare giù. Tempi difficili!

Tutto nel vano/ si fa mistero,/ ogni colore/ diventa nero;/ e vola nel cuore/ dei nostri sentire,/ l’allegra speranza/ di presto toccare,/ con pelle e con mano/ il caldo raggiare/ del sole nostrano./ E sonno sia!

Ecco lo stile di Gianpi! Uno stile semplice, classicistico, permeato di quel sano pessimismo che ha accompagnato tutta la poetica dei nostri cantori, da Leopardi a Montale, da Capra ad Ungaretti. È il dolore della terra perduta che ispira il vento delle Muse. Nel quadro di un pessimismo cosmico si libra la speranza del sole. La luna accompagna le notti, anche il viaggio …

Continua l’andare, prosegue il suo viaggio,
il treno col buio, di notte, ha coraggio …

e ancora:

cielo terso e luna tonda,
vola treno in notte fonda!

Adesso le stagioni sono cambiate, non si capisce più nulla e le super-lune le ammiriamo più d’inverno che d’estate, ma allora i parametri temporali, stagionali, erano stabili. La luna accompagna le notti, il sole è il giorno. Il nostro poeta - permettete di esprimere un caro ricordo - Rocco Scotellaro, poeta dei contadini, cantava e nomava la sua raccolta, come un covone: È fatto giorno! Il sole del cielo si confondeva colle messi mature ed egli fu martire, fatto morire all’età di Cristo, per crepacuore. Egli è il “Cristo” che “si è fermato ad Eboli”. Egli era un populista vero, come Leone Tolstoj, non come i populisti demagoghi di oggi. Anche Tolstoj - badate bene - toccò l’ultima stazione e morì. Era su di un treno. Avete visto il film: L’ultima stazione? Ulisse viaggia. Ogni viaggio è un’Odissea.

E sonno sia!

La vita è sogno! Ce lo ricordano tutti da Calderon a Pirandello, che pure scrisse la novella: Il treno ha fischiato! La vita è un viaggio, è come il viaggio di Gianpi nei “paesaggi d’estate”. Mons. Forno mentre moriva diceva: Mò parte u treno! Il viaggio continua anche dopo la morte. Non finisce mica qui! È un viaggio eterno, infinito. Il treno è un mondo che viaggia nel mondo. Ci trovi di tutto e di più. Si incontrano e si scontrano persone di ogni tipo. Il finestrino del treno si affaccia sul mondo. Oggi i treni hanno i finestrini che non si aprono, perché c’è l’aria condizionata. Non si può esprimere la stessa emozione dei treni coi finestrini che si aprivano e alle stazioni colle mani pendenti che toccavano le mani dei cari! È come morire. E quei treni fiancheggiavano il Mare Nostro, il Tirreno, il mar dei Tirseni, antichi abitatori d’Italia.

e vede laggiù, la terra finisce,
c’è un braccio di mare che popolo unisce …

aunisce. Il mare unisce i popoli e la Sicilia lo sa, ma li anche divide. Così aveva sostenuto lo storico Pirenne in Maometto e Carlomagno. Dal mare venivano i sanguinari Saraceni. Dal mare oggi arrivano i migranti. Il Mediterraneo è il mare di mezzo, oggi tomba e speranza dei popoli.
Ma torniamo al nostro viaggio. Mi ricordo da bambino che da Lagonegro partiva la lettorina per andare a Salerno. Gianpi annota lo stesso nell’introduzione: «La ripresa del viaggio dopo la pausa della traversata marinaresca del treno. La lenta, asfissiante, noiosa, pigra tradotta verso Palermo. Con il binario che attraversava mille volte la strada statale… Con il mare a destra e i monti a sinistra. E poi l’ultimo tratto fino a casa, nel territorio di Castellammare del Golfo, in quel di Segesta; ma solo dopo aver penato in stazione a Palermo, in quanto l’orario di partenza della littorina, con due sole carrozze tutte in legno ed a gasolio, verso Castellammare, era molto aleatorio ed incerto». Torno un attimo con la mente a Lagonegro: oggi la ferrovia fantasma, abbandonata da decenni ci offre un macabro spettacolo da dove partivano le famose “lettorine”, che gli anziani chiamavano: il treno con la fuma. Scusate queste intersecazioni con Gianpi, ma il tema è molto forte, coinvolgente.

Ed ad ogni stazione che arrivi e che ferma
il treno si blocca a fermata eterna…

Sembra il viaggio delle antiche transumanze dei pastori, che si fermavano nelle “stationes”, ricordo ancestrale delle antichissime vie romane, su cui si stagliavano i tratturi. Presso il castello diroccato di Notano, a Castronuovo, si fermavano tutti i pastori con gli armenti transumanti.

Lassù non c’è scusa,/ passa il tempo e si riposa …/ Non lavoro, non fatica,/ sol dormire e poi giocare …

Gianpi, il cartolaio intellettuale, illuminato, ci offre questi paesaggi d’estate, un poema che sa di omerico e anche di America, di scoperta. Un viaggio che si spinge al di là delle colonne d’Ercole, con Cristoforo Colombo che dice: Non potrai mai attraversare l’oceano se non hai il coraggio di perdere di vista la riva. Ci racconta le sue emozioni che danzano nel ricordo.

Poi ferma a un contado del tempo che fu,
sotto la Rocca di Cefalù …

Si ricorda ciò che si ama. Ricordare deriva da recordare: riportare al cuore. Dove non c’è amore non c’è ricordo.

Qui giunti in Trinacria/ una lingua si parla:/ Sventura! A chi dice dialetto,/ perch’è canto; chiaro e schietto/ e in ogni siculo feudo non fa difetto…

In Sicilia si parla un’unica lingua, bello! Da noi ogni paese ha un dialetto. Già da Castello a San Chirico cambia lingua e non ne parliamo se vai a Lauria – più vicino al siculo – o a Senise, a Tursi! Leggete Albino Pierro! È una favola. L’”Ultimo canto di Saffo” di Gianpi è “Chiant’amaru”, proprio in dialetto siculo. Vi si legge una profondissima nostalgia, che ci fa ricordare Pino: Terra mia!
Comm’è triste, comm’è amaro/ sta assettato e guardà…

Il viaggio di Gianpi non ha data, è atemporale, riposa nei meandri dell’anima. È lo stesso viaggio dentro l’anima che va fatto con maieutica ironia. Ricordare significa riportare al cuore. Se non si ama nulla si può ricordare. A proposito di treni una volta mio zio Carmine sbagliò classe: si mise in prima classe. Passa il controllore e contesta che doveva pagare la differenza. Egli stava mangiando la sua colazione con un coltellaccio da contadino. Si alza e comincia a parlottare in dialetto e nello stesso tempo roteava quel coltello ad uncino, che si usava per le potature, da destra a manca, ma non per far del male, né per minacciare: Eh! Treno è questo e treno è quello! Il controllore si spaventa e lo lascia stare.

A chiudere il ricordo del nonno:

e mille volte ancora, io e il nonno, allora,
riuscimmo fuori a riveder le stelle …

Buon viaggio nella lettura di “Paesaggi d’estate” di Gianpi, Gianfranco Galante.

(c) Vincenzo Capodiferro

24 marzo 2019

I giorni della pazzia a cura di Angelo Ivan Leone

I giorni della pazzia
Tratto da:Onda Lucana® by Angelo Ivan Leone-Docente di storia e filosofia presso Miur
G8 di Genova, poliziotti condannati a pagare quasi 3 milioni di euro per le violenze alla Diaz.
Ogni generazione ha avuto la sua prova del fuoco, qualcuno diceva che: “ogni generazione ha avuto il suo Vietnam”. Ecco, quella prova del fuoco e quel Vietnam, per la mia generazione sono stati affrontati in una delle più belle città del nostro Paese, sempre troppo bello per chi lo deve abitare. La Superba macchiata da “una scena da macelleria messicana” come Ferruccio Parri alias il Maurizio della nostra Resistenza chiamò un’altra vergogna italiana in quel di Milano che lo aveva visto nascere, crescere, applaudire, trionfare e omaggiare fino al discorso del teatro lirico (16 dicembre del 1944) si consumò l’estrema ingiuria sul corpo del morto Benito Mussolini a Piazzale Loreto.
Per la nostra generazione non fu la collera belluina della plebe ma una violenza organizzata, tollerata e indirizzata da parte dello stato, poco italiano, e molto cileno, quello di Pinochet, s’intende, a volere macchiare una città come quella di Genova e un nome di istruzione e di vittoria: la scuola Diaz, trasformata dagli opliti dell’odio in una nuova vergogna italiana.

21 marzo 2019

Il bullismo e la “generazione invisibile” di Antonio Laurenzano

Il bullismo e la “generazione invisibile”
di Antonio Laurenzano


I recenti atti di vandalismo registrati in Provincia e “firmati” da alcuni minorenni ripropongono l’altro aspetto, ancor più inquietante, del disagio giovanile: il bullismo, un male sociale sempre più diffuso nel Paese. Un fenomeno di forte impatto che in Italia riguarda il 33% dei ragazzi in età adolescenziale. Un ragazzo su tre subisce episodi di violenza verbale, psicologica o fisica, come confermano le tante telefonate al numero verde istituito dal Miur. Si susseguono nel Varesotto iniziative e incontri per sensibilizzare ragazzi e famiglie sulle problematiche legate al bullismo: da Varese (progetto pilota all’Isis Newton con Polizia e Confconsumatori) a Luino (carabinieri in cattedra), da Tradate (agenzia formativa della Provincia) a Gallarate (meeting dei lions cittadini).
La questione giovanile rappresenta il nervo scoperto della società. Da tempo si è aperta una frattura profonda fra le generazioni, una frattura che comporta spesso l’impossibilità di trasmettere dai padri ai figli i modelli comportamentali, le gerarchie dei valori, perfino le regole della quotidianità. Il vuoto ideologico e culturale, l’intolleranza civile e religiosa sono ormai i simboli di una società allo sbando, sempre più in balia di falsi profeti e di mercenari senza scrupoli.
I giovani rappresentano l’anello debole di un sistema attraversato da forti tensioni, sono figli di una società priva di freni inibitori, in cui l’autorevolezza, intesa come credibilità valoriale, è stata soppiantata dalla trasgressione. In una società dove è vietato vietare, dove non ci si indigna più per niente, non c’è da stupirsi di atti violenti di tanti giovani, allevati senza un esempio, senza una guida salda, senza regole di comportamento.
Priva di un “vissuto”, incapace di proiettarsi verso il futuro, la “generazione invisibile” vive il presente acriticamente, adagiandosi, e spesso rifiutando con violenza quello che la società è in grado di offrire. Il vuoto che opprime il ragazzo dopo l’abbandono delle certezze dell’infanzia rende tutto paurosamente insignificante. Umberto Galimberti, docente di Filosofia e Psicologia all’Università di Venezia, nel suo libro “L’ospite inquietante”, parla del “nichilismo che si aggira insidioso fra i giovani, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti. C’è un nulla che li pervade e che li affoga, un rifiuto del sociale: eroi del nulla”. E’ l’analfabetismo emotivo che non consente ai giovani di riconoscere i propri sentimenti fino a perdersi nel deserto della comunicazione virtuale! La famiglia è vissuta come ultima spiaggia per l’affermazione della propria identità e la maturazione della propria personalità.
Dietro realtà apparentemente inspiegabili si annidano motivazioni profonde collegate alla crescente solitudine in cui vivono le nuove generazioni, confinate in un mondo a parte dove, se vengono a mancare gli interlocutori naturali, ossia i genitori, prendono il sopravvento nuove figure di riferimento, estranee al circuito relazionale della famiglia: gli amici, quelli del “branco” , con i quali si condividono ansie e timidezze, i primi segni cioè di quel disagio che se non interpretato in tempo si trasforma in pericolosa devianza.
Cosa fare, dunque, per sconfiggere il bullismo? “Connettersi” con il mondo dei giovani. Educarli alla legalità, alla cittadinanza attiva, all’impegno sociale per renderli protagonisti consapevoli del loro ruolo attraverso il recupero della smarrita visibilità. Coniugare la libertà con il senso del dovere per poterla vivere non come trasgressione ma come valore di grande significato. In un mutato contesto sociale, la famiglia e la scuola dovranno “insegnare ai giovani l’arte del vivere” per restituire loro l’antico ruolo di “strumento di cambiamento sociale”.

18 marzo 2019

LA RIFORMA DEL FISCO di Antonio Laurenzano

               
LA RIFORMA DEL FISCO        
di  Antonio Laurenzano 
         
Ci risiamo! Si torna a parlare di semplificazioni fiscali, il solito tormentone di ogni Governo per rendere più trasparente il difficile rapporto fra Fisco e contribuente nell’ottica di un ordinamento tributario conoscibile nelle forme e comprensibile nei contenuti. Da tempo si avverte la necessità di un fisco semplificato che, oltre a ridurne la pressione, sostenga la crescita fronteggiando un’inflazione legislativa che produce incertezza e confusione. Tante norme (più di centodiecimila in vigore!) che, a volte in modo contraddittorio, regolano la stessa materia. Una proliferazione della normativa  che è causa non solo di uno scadimento qualitativo della legislazione tributaria ma anche della potenziale ignoranza della legge, con grave pregiudizio della certezza del diritto, divenuta una chimera! Tanti ostacoli sulla strada della trasparenza fiscale: problemi interpretativi, incertezze operative e scorie burocratiche accompagnano quotidianamente contribuenti e professionisti. Interventi spot, proroghe estemporanee, a conferma di un sistema tributario imperfetto nei suoi meccanismi operativi, nelle sue procedure, nei suoi strumenti di controllo. La lotta all’evasione passa attraverso un Fisco semplice e non attraverso fastidiosi adempimenti in costante aumento che causano spesso un dispendioso contenzioso.  
Un sistema tributario da ricostruire nei suoi principi fondanti: semplicità, certezza ed equità per l’affermazione del dovere fiscale inteso come “dovere di solidarietà che, come ha osservato di recente Enrico De Mita, costituisce il fondamento sul quale si regge l’organizzazione dello Stato moderno”, il dovere cioè di concorrere alle spese pubbliche in base alla capacità contributiva, principio sancito dall’art. 53 della Costituzione. “Senza una giustizia fiscale la democrazia muore”. In attesa di una seria riforma che spazzi via anacronistici balzelli (erariali, regionali e comunali) e conferisca chiarezza e credibilità all’ordinamento tributario, l’esecutivo gialloverde prova a snellire la burocrazia, semplificando alcuni obblighi amministrativi. In Commissione Finanze alla Camera è stata presentata una proposta di legge che dovrebbe azzerare alcuni adempimenti comunicativi e stravolgere il calendario delle dichiarazioni fiscali. Un tentativo di razionalizzazione del ginepraio fiscale, una “bonifica” sempre promessa e mai realizzata! I dubbi sull’esito finale dell’operazione non mancano per i soliti paletti ministeriali. Sarà il “new deal” o l’ennesimo ballon d’essai, un misero dejavu? Sarebbe un’altra beffa per imprese e professionisti sempre più tartassati da scadenze, moduli e adempimenti vecchi e nuovi, ultimo dei quali la fatturazione elettronica con le infinite complicazioni operative.
E’ particolarmente ricco il pacchetto delle modifiche fiscali proposte. Si va dall’abolizione delle comunicazioni dei dati delle liquidazioni Iva alla cadenza annuale dello “spesometro”, dalla eliminazione del modello 770 dei sostituti d’imposta all’ampliamento dell’ambito operativo del versamento con il modello F24, con l’ inclusione delle imposte indirette (registro, successione, donazione, ipocatastale). Dulcis in fundo il regime alternativo delle dichiarazioni d’intento Iva per gli esportatori abituali e lo slittamento dal 31 ottobre al 31 dicembre del termine di presentazione della dichiarazione dei redditi. Un mix di modifiche la cui approvazione è legata all’iter parlamentare e quindi ai tempi lunghi della discussione e ai rischi di “annacquamento”.
Il buonsenso imporrebbe l’immediata cancellazione di norme e adempimenti inutili nella consapevolezza che semplificare il fisco significa ridurre l’impatto asfissiante della burocrazia, rispettare i contribuenti nei loro diritti di operare in un quadro normativo chiaro e definito, ma soprattutto significa legittimare  all’interno del sistema tributario il necessario rapporto di fiducia e collaborazione tra cittadino e fisco, cardine del vituperato “statuto del contribuente”. Una sfida di civiltà giuridica!

Atto d'amore a cura di Angelo Ivan Leone


Atto d’amore. Quella sirena che diede i natali a una delle città più belle che il mondo abbia mai avuto la fortuna di vedere edificate
                                                          di Angelo Ivan Leone

Poco di meno di una regina e poco di più di una dea.

Sembra d’ascoltarla quella sirena che diede i natali a una delle città più belle che il mondo abbia mai avuto la fortuna di vedere edificate. Si ascolta Napoli in queste parole che vanno cantate alla stregua di un sacro rito. Una confessione, anzi la Confessione in piena regola dinanzi all’assoluto di un prete, il mediatore tra noi (uomini) e Dio che, lungi dal sentirsi in virtù di questo ruolo, qualcosa a mezzo di un superuomo, si riscopre più uomo degli uomini, anzi, tanto per rimanere nelle parole del filosofo: “umano, troppo umano”.
Non a caso la canzone si apre con una citazione proprio di Nietzsche in questo video che rappresenta quel qualcosa che rende un capolavoro, diverso da una qualsiasi opera d’arte.

“Si deve essere dei capolavori”

avrebbe detto il più nicciano dei nostri attori: Carmelo Bene. E che altro è un attore se non una maschera, anzi, la Maschera. C’è tutto un mondo intorno, avrebbero cantato certamente i Matia Bazar. Ecco qui questo mondo che si chiama cultura meridionale, è sublimato con la religiosità napoletana. Quell’atto di fede e d’amore che questa città, questo popolo e questa terra sempre ti chiede in nome della sua sublime bellezza incantata e incatenata a quella montagna che sputa fuoco e poi, giù, il mare. Tra acqua e fuoco, tra vita e morte, tra paradiso e dannazione, sia sempre lode a te: Partenope.
[immagine tratta da insolitaguida.it]

L’ITALIA È UNA REPUBBLICA INFONDATA SUL LAVORO Riflessioni di filosofia del diritto a cura di Vincenzo Capodiferro


L’ITALIA È UNA REPUBBLICA INFONDATA SUL LAVORO
Riflessioni di filosofia del diritto

La Costituzione italiana comincia con un valore importante: L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Ma forse i padri costituzionali si sono sbagliati? Questo principio fu caldeggiato soprattutto dalle vecchie forze socialiste, della sinistra vera, che non ha nulla a che vedere con la sinistra attuale. Il lavoro, il denaro, sono diventati miti utopistici, perché? Perché stiamo via via perdendo tutti i diritti del lavoro, conquistati a forza di lotte, battaglie, martiri? Possibile che ogni minima crisi possa del tutto invalidare tutto il processo di integrazione del lavoratore? Eppure il lavoro è nobiltà: nobilita l’uomo, è parte integrante della sua natura. Ma lo rende simile alla bestia. Qui sta tornando di brutto il fantasma dell’alienato di Marx. Ma da dove torna? Dai modelli neo-stakanovisti dei regimi post-comunisti, proprio da là. Ah! Povero Marx! Se tornasse a nascere e vedesse che fine hanno fatto tutti i regimi comunisti e post-comunisti si metterebbe mano ai capelli. E ne aveva tanti! Traditori! Hanno solo sfruttato le sue teorie per instaurare regimi più borghesi di quelli borghesi, fascisti, nazisti e compagnia bella. Forse avrebbe ascoltato le remore dei revisionisti, come il Bernstein. A fronte della grave frattura economica che imperversa imperterrita dall’ottobre del 2009 e che ci ricorda da lontano quella particolare congiuntura che fu la Crisi del 1929, consapevoli delle gravi difficoltà che tutti i governi, di destra e di manca, debbono affrontare per contenere il debito pubblico e per rivitalizzare le energie di produzione e i sistemi bancari, non ci sembra giusto però operare dei tagli troppo netti, delle potature troppo energiche che vanno a colpire puntualmente la base radicale dell’albero sociale: i primi ad essere tagliati sono i giovani precari, gli operai, le donne, l’Istruzione, la Sanità, i servizi, in una parola i ceti più deboli. Chi deve pagare, in pratica, l’enorme buco derivante dai malaffari globalistici, dalla corruzione imperante, dal fallimento di un sistema che è diventato insostenibile, soprattutto per le giovani generazioni? È sempre il povero. Ciò che si afferma oggi è una forma di super-capitalismo oligarchico, una plutocrazia onniveggente ed onnipotente di multinazionali e nazioni e di un perfetto sistema finanziario-bancario che è capillare, come una piovra immensa, un Leviatano, per usare il termine hobbesiano, un mostro mai visto prima ad ora. Prima c’era il povero industriale di provincia, che forse era più socialista dei socialisti stessi, di Marx stesso. Engels era un industriale! Marx un mantenuto! C’erano industriali che avevano accolto le sollecitazioni dei socialisti, malamente detti utopisti: non meno utopista fu il comunismo marxiano. Abbiamo esempi in Lombardia, sotto i nostri occhi: i Borghi, etc. Nessun ministro pota i rami alti, le corporazioni, le “caste”, tanto per usare un termine molto caro a chi si propone come riformatore, quelle sette sociali che hanno dominato e dominano dal fascismo ai fascismi dell’Italia democratica sino allo sfascismo totale che oggi ci colpisce. Chi risente di più allora di queste restaurazioni che portano il nome e la bandiera di riforme sono i giovani, gli anziani, le donne, le famiglie che non arrivano più a fine mese, le famiglie mancate dei giovani che sono impossibilitati ad averne una, le famiglie sfasciate dal consumismo e non dal comunismo, dall’egoismo e non dall’altruismo, dall’individualismo, le famiglie abortite, divorziate, ridotte alla fame. Cosa faranno i giovani, sui quali grava tutto questo peso del malgoverno degli adulti-adulteri? Ci sarà una questione sociale come non se ne è mai visa nella storia!
Non è il caso di citare sempre questo oramai noto articolo 1 - è come l’articolo il, il più importante di tutto! - della Costituzione Italiana. È il caso, invece, di ribaltare il processo di pseudo-riforme che ha seguito una scalata al contrario: mobilità, che è diventata precarizzazione, frantumazione, rigidità, esclusione, disoccupazione, producendo un attentato al lavoro, al lavoro dei giovani che è precario, ma anche al lavoro degli arruolati in un esercito di intellettuali e di manuali allo sbaraglio, alla confusione, allo spostamento, alla fuga dai posti abituali di lavoro per raggiungere mete senza meta. La ricchezza di uno Stato si misura non tanto dai PIL delle banche e delle balene in un oceano senza fondali, ma dal lavoro. Lo diceva Smith nella bibbia del capitalismo classico: La ricchezza delle nazioni. Più c’è lavoro, più ci sono entrate, più lo Stato è ricco e può distribuire. Questo fece Roosevelt col New Deal . Ci vorrebbero altri Roosevelt, altri Stalin coi piani quinquennali. Ma dove sono? I nostri politici … guardate! Lo stato ha il dovere di far lavorare la gente anche quando il lavoro non c’è. Keynes ce l’aveva ammonito. Or ora tagliare le risorse nel momento più critico per il popolo significa tagliare l’albero sociale, significa condannare questa società, le famiglie alla miseria e con la miseria l’economia non si riprenderà mai, né la produzione, né la vendita, né la trasformazione. Tagliando una parte del sociale inevitabilmente tutti ne saranno colpiti. Povero Marx, se vivesse oggi assisterebbe ad uno strano fenomeno: invece di proletarizzarsi la borghesia si è imborghesito il proletariato. Ma il debito pubblico è infinito! Ma il debito pubblico è infinito, esponenziale! Come si fa ad assicurare il lavoro a tutti? Come si faceva in America: di giorno si colmano le buche, di notte si fanno. L’unico modo per togliere i debiti è un crac super-inflazionistico. Più volte è stato usato nella storia, basta guardare la Germania di Weimar negli anni venti. Stresemann, che era un socialista doc, come anche Rathenau, col suo socialismo di guerra, l’aveva capito bene! Se non azzeriamo i debiti, che purtroppo sono stati fatti a causa dell’avarizia e dell’ingordigia umana, che è l’unica causa di tutte le guerre e di tutte le crisi economiche, non possiamo rilanciare l’economia pubblica. Ma questo oggi non si può fare in un sistema bancario centralizzato. Si poteva fare in un sistema bancario controllato dallo Stato, il quale poteva imporre il famigerato “corso forzoso”. Sono operazioni che costano sacrifici per un po’, ma non c’è altra via d’uscita! Altrimenti l’unica via di sfogo era la guerra: Hitler lo sapeva benissimo coi suoi soldatini drogati di pervitin! Perché comanda il dio Mammona, non Dio! Ma vogliamo tornare alla guerra? Dio ce ne liberi! Si può distruggere in altro modo e poi lanciare le ricostruzioni, senza fare le guerre fuori, oltre l’Europa e l’America, nei posti degli schiavi del neocolonialismo economico. Il socialismo va riformato! Va innanzitutto spiritualizzato: ricollegato alle sue legittime radici religiose: dei primi cristiani, di Muntzer, di Huss, dei riformatori socialisti, non quelli borghesi, come Lutero e Calvino! Va favorita la solidarietà leonina tra le classi, come nella “Rerum Novarum”. Leone era un papa socialista!
La condizione del lavoratore oggi è subalterna, debole, fatiscente, sotto tutti i punti di vista. La qualità del lavoro è scarsa: tutti sono sottopagati. La quantità del lavoro è frammentaria, non solo per la discontinuità del precariato storico quanto per la continua riduzione del lavoro stesso. Intanto la sinistra becera, imborghesita, staliniana ha rafforzato la figura del dirigente unico. Ogni nuova riforma del lavoro è una “guerra lampo”, un diktat dei vincitori, frutto di decretizzazioni economiche più che di una vera e propria esigenza di razionalizzazione delle risorse. Il nuovo “Congresso di Vienna” europeista, o “Congresso di Bruxelles” indebolisce i parlamenti e vuole restaurare antichi regimi: il nuovo impero romano, il nuovo spauracchio del Reich hitleriano è un impero economico, non politico. Hitler ha vinto la guerra. Germania capta ferum victorem coepit. L’Europa non va però distrutta, tornando a forme pericolose di nazionalismo, ma va solo rinnovata fortemente. Bisogna seguire Kant: con la Lega dei Popoli. La Lega del grande Alberto da Giussano deve diventare una Lega dei popoli d’Europa, deve essere ingrandita non solo all’Italia, ma all’Europa. La Giovine Italia, come fece il Mazzini, deve diventare la Giovine Europa. Povero Mazzini: se vedesse cosa è diventata oggi l’Europa! Deve essere una lega non solo economica, ma morale, religiosa, culturale! Funziona così! Gli USA non sono solo un semplice aggregato di stati e staterelli, ma un organismo legato da valori comuni, culturali, sociali, morali, religiosi, oltre che economici.
Malgrado la larga distribuzione di potere d’acquisto sul mercato nazionale più sotto forma di redditi di professioni ausiliare della produzione che non sotto forma di salari industriali o agricoli, la sproporzione è crescente tra l’accumulazione capitalistica, accresciuta dalla concentrazione finanziaria delle banche e la possibilità d’acquisto del mercato nazionale. L’esperienza disastrosa della crisi attuale ha reso vegliardi tutti gli Stati sui sintomi continuamente rinnovati d’ingorgo dell’economia, di depressione, chiamata ormai recessione. Queste riforme, questi taglieggiamenti non risolveranno niente: il fondo del problema resta immutato. La crisi è elusa giorno per giorno, ma le sue basi rimangono, ed essa è soffocata solo a prezzo di una politica mondiale che si ripercuote sulle condizioni di sviluppo di tutti i paesi, industrializzati e non. La crisi è elusa con questi tagli alle risorse, al capitale umano, oltre che finanziario, dell’Italia. Il mondo post-industriale rischia di trasformarsi di getto in un’età della pietra, in un mondo pre-industriale, con tutto internet e i cellulari. Si può perdere tutto, ma non i cervelli pensanti di questa era, gli unici a poter risollevare le sorti di questo mondo in crisi.
Dov’è il primario, dov’è il secondario? C’è solo il terziario: non dico più nulla! Povero Smith! Povero Marx, tradito dai suoi stessi rivoluzionari che si sono venduti al dio Potere, a Moloch, a Mammona! L’economia si può rilanciare solo ripartendo dall’agricoltura e dall’industria. Abbiamo distrutto tutti gli stabilimenti! Bisogna rifondarli. Il lavoro è lungo, ma la storia è fatta di corsi e ricorsi, come ci insegna la buonanima del Vico. C’è un forte squilibrio tra progresso tecnico, che oramai va per fatti suoi come una macchina ben congeniata e regresso economico. Se non c’è al centro del progresso l’uomo, tutto è perduto. Il lavoro prima di tutto è un fatto umano, sociale, un’integrazione costruttivista. Questo costruttivismo attivo, trasformatosi in puro attivismo afinalistico, ci porta inevitabilmente e forme sovrapprodduttrici. Qui Malthus non c’entra niente. Non si deve sempre ripresentare lo spauracchio malthusiano-darwiniano della sovrappopolazione per giustificare le guerre, le rivoluzioni e gli stermini di massa. Queste sono follie superdarviniste, o di darwinismo accelerato, o scellerato, che manco in natura esistono. Ma poi l’uomo non è solo un animale naturale, ma soprannaturale. Come fa ad esserci sovrapproduzione e sovrappopolazione? Allora? Tutto è possibile per una normale e continua convivenza pacifica. Il lavoro va rivalutato come fatto umano: più diritti si riconoscono al lavoratore, più doveri si possono pretendere. Più si paga, più la prestazione sarà efficiente, efficace. Se si assicurano solo i bisogni basici della piramide di Maslow, la produzione sarà inefficace, inefficiente. O si riduce il lavoro a forme neo-servili. I valori morali, politici, sociali, religiosi debbono produrre valori economici e non viceversa. Il denaro in sé avvilisce, svilisce ogni cosa, la pauperizza. È a forza il vero valore che può produrre anche economia, non il profitto di una manciata di miliardari drogati a scapito di una massa di miserabili. L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, significa dire questo: sul lavoro come fatto umano, sociale, remunerativo, non sul lavoro servile, non sullo sfruttamento. Lo Stato è tenuto ad intervenire nelle situazioni di disagio. La comunità salva il singolo: questa è la vera legge di natura. Il gregge sacrifica una parte di sé per salvare se stesso. Ma se la logica è: si salvi chi può! Non funziona! Il lavoro manca a causa dell’egoismo e dell’individualismo sfrenato. Per il profitto chiudiamo tutti gli stabilimenti ed andiamo ad aprire in Papuasia, così sfruttiamo gli zombie fino all’esaurimento psico-fisico. Non è solo l’egoismo la molla che fa scattare il capitalismo, come pretendeva Smith, ma l’è il socialismo, la socializzazione. Dal capitalismo individuale si è passato a quello sociale, poi a quello di stato, o totalitario, infine a quello globale. Si è arrivati all’ultimo stadio di espansione del capitalismo, che si esprime nel totalitarismo democratico globalizzante. Se non si torna a forme di socialismo pratico, religioso ed economico, il benessere generale delle masse decresce. Qui avviene il contrario della forbice marxiana: non è che aumentano i poveri e diminuiscono i ricchi, come se la ricchezza fosse un bene con parametri assoluti, ma più aumentano i poveri più i ricchi si impoveriscono, più i poveri si arricchiscono più i ricchi si arricchiscono. Il bene economico ha sempre valore sociale, collettivo, non può avere solo valore individuale. Se così fosse perderebbe per sé di valore. Quindi cade il teorema malthusiano: più aumenta la popolazione più c’è ricchezza, se questa viene intesa correttamente e legalmente nel legittimo uso delle risorse, soprattutto quelle non rinnovabili e senza offendere la Natura, procurando disastri climatici e di ogni tipo. Uno sviluppo che non sia nel rispetto della Natura porta inevitabilmente alla fin del mondo. L’apocalisse la procuriamo noi, non Dio. Dio ci aspetta dopo per chiederci il conto!

Vincenzo Capodiferro




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