30 marzo 2008

I racconti di Versailles – 15 – di Bruna Alasia


LA RABBIA E LE PIUME
Racconto quindicesimo

Luigi XVI e Maria Antonietta, dopo l’incoronazione, ripartirono da Reims con un tempo che si annunciava incerto. Attraversarono villaggi perduti tra lande coperte solo di erica, ginestre e felci, accolti dai rintocchi delle campane e dalle arringhe interminabili dei notabili di provincia orgogliosi dell’occasione insperata in cui pavoneggiarsi. Vicino alla capitale si diradarono i campi e apparvero distese di mais e di quel grano, raro e preziosissimo, che aveva scatenato sommosse. I contadini al passaggio delle carrozze eleganti riconoscendoli si toglievano il cappello; manovali impegnati in corvée, prestazione senza compenso, a riparare una strada , si fermarono lanciando degli evviva! Viaggiarono per giorni come in trance: lui frastornato e scosso dal torpore, lei euforica all’idea dei piaceri della nuova condizione. A volte, cullati dalle ruote, si addormentarono tra cuscini che poco attutivano gli scossoni: il re a bocca aperta, lei persa in un sorriso.
Quel giorno, entrando a Parigi, la regina rivide in sogno il colloquio di un’ora avuto a Reims con Choiseul, strappato a Luigi con un’astuzia di cui era fiera: sperava ancora che il fautore del suo matrimonio, il suo vecchio amico, tornasse a Versailles.
Il rombo di un tuono la interruppe e aprì gli occhi: si accorse che tirava vento e una pioggia fitta, fredda e rumorosa cadeva da un cielo di piombo.
- Che succede?!
- Non preoccupatevi, è un acquazzone estivo… - rispose con calma il marito.
- Ma dove siamo?
- Non lontani dal Louis-le-Grand…
Era il college universitario dove sarebbero stati accolti con l’ultimo discorso di circostanza.
- Pfff…. – sbuffò Maria Antonietta davvero stufa. Anche Luigi XVI non vedeva l’ora di tornare a casa, era stanco e il temporale gli aveva messo voglia di leggere e di dormire. Fu con distacco e noia che accolsero l’ultimo benvenuto del corpo docente, degli studenti, del diciassettenne vestito di nero che inginocchiato sotto la pioggia, imperterrito, si inzuppò completamente pronunciando un discorso in latino. I reali rimasero in carrozza senza replicare.
Sulla strada del ritorno Luigi ammise:
- Non ho capito una parola.
- Ma chi era il borsista che ha parlato? - chiese Maria Antonietta a Madame Campan.
- Maximilien de Robespierre…
- Uno qualunque… - concluse il re.
***
Rientrato a Versailles Luigi XVI per prima cosa si occupò della designazione del nuovo segretario della real casa. Impresa tutt’altro che facile perché in continuazione veniva tirato ora da questa, ora da quella parte. Maria Antonietta avrebbe voluto qualcuno del clan di Choiseul, Maureapas e Turgot chiedevano Malesherbes. La giovane regina si cimentava in piccoli intrighi con piacere infantile tanto da confidarsi con un diplomatico, intimo della madre, il conte di Rosenberg:
13 luglio 1775
Avrete forse sentito dell’udienza che ho dato al duca di Choiseul a Reims.(…) Crederete che l’ho visto avendone prima parlato con il re, ma non immaginate quanto ci ho messo per non aver l’aria di chiedere permesso. Ho detto che avevo voglia di vedere Monsieur Choiseul e che l’unico imbarazzo era sul giorno. L’ho messa così bene che “il pover’uomo” ha stabilito, lui stesso, l’ora più comoda nella quale vederci. Credo di aver usato in quel momento tutta la mia femminilità.
Ci siamo inoltre sbarazzati del signor di La Vrillière (…). Lo rimpiazzerà Malesherbes.
(…) E per di più ho altri progetti per la testa. La marescialla di Mouchy* deve lasciare il suo incarico (…). Non so ancora chi prenderà il suo posto, ma ho chiesto al re di approfittare della transizione per far diventare sovrintendente della casa Madame de Lamballe. Giudicate dalla mia gioia. Renderò felice un’ amica intima e sarò ancor più felice di lei. E’ ancora un segreto, non ditelo all’imperatrice.
Ma il conte di Rosenberg, segretario di Maria Teresa, scelto perché riferiva sulla condotta della figlia essendo suo amico, stabilì di mostrare la lettera alla madre.
L’imperatrice d’Austria appena lesse sbiancò: “Quel pover’uomo al re di Francia! Parla così alle varie Lamballe e Polignac quella scervellata?!” Abilissima tessitrice di equilibri, la sovrana avvertì come una minaccia inaudita la mancanza di soggezione verso il marito: “se lei stessa non si inchina all’ autorità, che fanno gli altri?”
Maria Antonietta aveva scritto senza malizia, credendolo un aneddoto divertente, canzonatorio ma pur sempre affettuoso. Ma negli affari di stato l’intenzione non conta e Maria Teresa riunì subito il gran consiglio.
***
Quando Rose Bertin ricamava alla Meridiana, si credeva invulnerabile, sentiva che sotto l’ala protettiva di sua maestà nulla poteva accadere. La vita della modista, difficile perché si era fatta da sola, si dilatava in un sogno di grandezza. Aveva quindici anni il giorno in cui, arrivata dalla provincia, aveva scoperto Parigi. Più tardi, a rue Saint Honoré, accanto ai salotti a lei sconosciuti dell’ intellighentia illuminata, aveva aperto “Il gran Mogol”, atelier per grandi dame. Prime clienti la duchessa di Chartres e la principessa di Lamballe. Se all’inizio si recava raramente a Versailles, adesso vi passava tanto tempo da rifiutare commissioni convenienti, che non incidevano sul bilancio perché faceva prezzi folli alla regina. Rose si permetteva ciò che ai ministri era negato: la privacy di sua maestà. Ne era fiera al punto da trattare con sufficienza anche i pari, che la detestavano. Una plebea a corte per “madame l’etiquette”, duchessa di Noailles, era stato l’affronto più grave mai subito: aveva protestato con sdegno ma invano. Incontrandola Rose adesso alzava il mento, impostava la voce e parlava solo se obbligata.
Felice di ricamare fazzolettini tra la regina e la cara Lamballe, quel giorno godeva al pensiero che la pedante signora lasciasse il palazzo al seguito del consorte.
- La duchessa di Noailles ora si fa chiamare marescialla di Mouchy? – chiese la modista a sua maestà
- Madame l’etiquette è onoratissima che il marito sia divenuto maresciallo di Francia e fa di tutto per sottolinearlo.
- Non credo lasci Versailles per questo…
- E perché?
Mademoiselle Bertin indicò la principessa di Lamballe.
- E’ gelosa di madame… da quando é sovrintendente della casa non accetta di essere seconda.
La principessa sospirò.
- Non riaprite la ferita, per carità! – e gli occhi le si inumidirono
Subito Maria Antonietta si intromise:
- Godetevi l’ala di mezzogiorno Maria Teresa! Dodici stanze, undici anticamere… tutto vostro… potrete organizzare meravigliose serate!
La Lamballe sospirò. Bussarono alla porta e Madam Campan annunciò:
- E’ arrivato il corriere…
- Fatelo entrare – esclamò la regina correndogli incontro .
Riconobbe la lettera della madre, rosa, con il sigillo, lanciando un gridolino di gioia. L’aprì trepidante. Leggendola il cuore prese a batterle e il volto si fece scuro :
Schönbrunn 30 luglio 1775
Una lettera scritta a Rosenberg mi ha gettata nella più grande costernazione. Che stile! Che leggerezza! Dov’è finito il cuore così buono, così generoso, dell’arciduchessa Antonietta? Non vedo che intrighi, bassi istinti, spirito di persecuzione, dileggio. Tresche come una Pompadour, una du Barry, nulla che appartenga a una regina, una grande principessa, una principessa della casa di Lorena e d’Austria, piena di bontà e decenza. Il vostro successo troppo rapido e gli adulatori mi hanno fatto tremare per voi dopo quest’inverno, quando vi siete gettata nei piaceri, agghindata in modo ridicolo. Le corse da un divertimento all’ altro senza il re, sapendo che non ci prova gusto e che, per pura compiacenza, vi accompagna e vi lascia fare tutto, tutto ciò (…) vedo confermato nella vostra lettera. Che linguaggio! Il “pover’uomo”! Dov’è il rispetto e la riconoscenza per la sua compiacenza? Vi lascio alle vostre riflessioni e non vi dico altro, sebbene da dire ci sarebbe ancora.
***

La sovrintendenza della real casa, in passato soppressa perché fonte di troppe complicazioni e intrighi, aveva portato molti soldi nelle casse della principessa di Lamballe. La regina non amava rifiutare nulla ai suoi amici, figuriamoci in un momento in cui si sentiva vagamente annoiata. Voleva bene a Maria Teresa ma la sua arrendevolezza, il suo pudore, il suo conformismo, non la stimolavano: sperava trovasse altri svaghi, così lei sarebbe stata più libera. Non ne era consapevole ma la ricopriva d’oro per tacitare il suo senso di colpa. Abituale e interessato modo di dedicarsi, come pretendeva, al benessere dei sudditi: il popolo erano gli intimi, chi non conosceva non esisteva. Come non esisteva il denaro, entità astratta di cui disponeva senza mai averlo guadagnato: per risparmiare il re rinunciava a cagnolini e cavalli ma la regina aveva raddoppiato la scuderia. Per di più la ristrutturazione del piccolo Trianon, grazie alle sue inesauribili stravaganze, si faceva di giorno in giorno più costosa.
Maria Antonietta gettava soldi dalla finestra mentre Turgot, austero controllore delle finanze, inseguiva il sogno di raddrizzare i conti e riformare lo stato.
Nei primi mesi del 1776 aveva presentato al parlamento sei editti, quattro dei quali miravano alla cancellazione della corvée e di alcuni vantaggi professionali. Si trattava di un passo verso la democrazia: la corvée era infatti l’obbligo del lavoro gratuito al signore e, per di più, il contrasto alle corporazioni stimolava la libera concorrenza. Il preambolo alle disposizioni di Turgot diceva: “Il re vuole assicurare a tutti i soggetti, e soprattutto ai più deboli, a coloro i quali non hanno altra proprietà che il lavoro e l’ industriosità, il pieno e intero godimento dei diritti…”
Ma, come ovvio, sentendosi attaccati nei loro privilegi nobiltà e clero protestarono e il parlamento si rifiutò di registrare gli editti, salvo il più insignificante. Luigi XVI accettò allora di imporli con il letto di giustizia. Lo scontento crebbe. Il clan di Choiseul fece pressioni perché la regina reclamasse con il re e Maria Antonietta, che non sopportava quel ministro così avaro, ne approfittò per far valere le sue ragioni.
Una notte, nel letto matrimoniale dove Luigi dopo aver tanto faticato si era accasciato come al solito senza concludere, Antonietta, anche per sfogare l’ansia della frustrazione sessuale, lo aggredì:
- Non avete voluto chi proponevo io… adesso guardate che disastro!
Luigi girò il volto tutto sudato.
- Quale disastro?
- Ce l’hanno tutti con voi e con Turgot!
- Siete arrabbiata perché ha detto che 150.000 luigi alla principessa di Lamballe sono troppi?
- Sono arrabbiata perché mette in pericolo la vostra credibilità!
- La principessa di Lamballe ha fatto avere al fratello 40.000 luigi di pensione…
- Chi lo ha detto?
- Monsieur Turgot.
Maria Antonietta, alla luce della candela, piazzò gli occhi in faccia al marito.
- Monsieur Turgot ama i derelitti ma dei nostri grandissimi problemi non si preoccupa… vi rendete conto?!
- Si preoccupa invece! Qui sta l’ errore… è convinto che la longevità della monarchia passi attraverso le riforme…
- Utopie.
- Non è utopia dire che 200.000 luigi per la vostra scuderia sono troppi!
La regina strinse il cuscino con stizza.
- Non ne posso più di uno che fa le pulci a quello che spendiamo… licenziatelo!
- Mai!
Il re si voltò dall’altra parte e si zittì. La discussione era andata oltre: non amava contraddire la consorte, godeva nel compiacerla ma avrebbe voluto essere capito. Quel ministro a lui sembrava un uomo onesto, mosso da sentimenti nobili: tanta contrarietà, tanta irresponsabilità, era cosa triste. “Non ci siamo che io e Turgot ad amare il popolo….” sospirò rassegnato.
***
Ma, a soli due mesi da quella notte, attaccato da Maria Antonietta, dai privilegiati, poco amato dalla chiesa, respinto dai parlamenti, Turgot il 12 maggio del 1776 fu costretto a ritirarsi. In quei giorni diede le dimissioni anche Malesherbes, ministro illuminato che, nel breve periodo in cui fu in carica, si adoperò per riformare in senso più umano le carceri. La caduta di Turgot e Malesherbes a Versailles sollevò grida di giubilo, serpeggiò aria di festa, la regina tornò a sperare nel ritorno di Choseul e partecipò più volentieri a balli e gite. A corte apparve sempre più sovente Leonard, il suo parrucchiere. Fantasioso, galante, intraprendente, aveva lanciato con strepitoso successo la moda delle pettinature svettanti. Uno dei primi e pochissimi parrucchieri maschi che aveva sbaragliato tutte le concorrenti in gonnella.
Quel pomeriggio di inizio estate Leonard aveva pettinato Maria Antonietta e le amiche. Dopo una giornata di lavoro intenso, durante il quale non aveva quasi toccato cibo, stava per rientrare a Parigi ma, raggiungendo il suo calesse laccato, si accorse che era in panne. Bestemmiò. Per fortuna poco lontano scoprì che un’altra professionista si accingeva a lasciare Versailles. La chiamò a gran voce:
- Mademoiselle Bertin! Mademoselle Bertin!
Sentendosi apostrofare la modista si fermò con un piede sul predellino della carrozza. Lo stupore fu grande quando vide chi correva verso di lei.
- Monsieur Leonard, come mai qui? Il vostro giorno non è domenica?
- Sono dovuto venire per una commissione urgente… un ballo all’opera… mademoiselle Bertin mi si è rotta una ruota e non sarà riparata che stasera…. mi dareste un passaggio?
- Ma certo….
La sarta entrò e gli fece posto, Leonard sedette guardandosi attorno compiaciuto:
- Davvero una carrozza di gran classe!
La Bertin diede ordine al cocchiere di partire e guardò il volto levigato dell’uomo:
- Il minimo per essere all’altezza…
- Avete ragione… quante spese per far bella figura! Pensare che quel Turgot ci dava dei privilegiati… -
- Anzi i parrucchieri li ha rispettati… voleva abolire le corporazioni tranne che parrucchieri, farmacisti, orefici e stampatori…
Il giovane scrollò le spalle con sufficienza:
– Figuriamoci! Sono contento che il re se ne sia liberato: quando è circolata la notizia della sua caduta la regina, il conte di Artois, hanno giubilato!
- Dobbiamo ringraziare Maria Antonietta per la cacciata? – insinuò la sarta
- Tutti erano contro Turgot… può darsi che anche sua maestà abbia avuto paura…
- Meglio così – concluse mademoiselle Bertin guardando il sole baluginare tra gli alberi del bosco.
Leonard si fece più da presso e abbassò il tono:
- Ho sentito che sullo Spione inglese si criticava il re per aver prima appoggiato Turgot, aver imposto la sua volontà con due letti di giustizia e poi, in piena bagarre, al massimo della confusione, avergli ritirato l’appoggio senza neanche conoscere i difetti di queste riforme…
- Sapete com’è…. pure durante la guerra della farina non sapeva che pesci pigliare…
Leonard la guardò malizioso:
- Certo non si può intitolare un pouf a questa circostanza, ma sarebbe carino…
– Io l’ho fatto invece e i colori erano splendidi!
- Davvero? E com’era?
- Pizzo bianco come la farina, pajettes dorate e spighe… e tante piume rosse!
- Rosse?
- Rosse come la rabbia! Un’esplosione di piume…. un vulcano in eruzione… ve lo immaginate?
Lui schioccò le dita.
- La rabbia e le piume, mmh! …. mademoiselle Bertin…. davvero eccitante! Come si chiamava?
- Cappello alla rivolta.

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* Marescialla di Mouchy, titolo che si era dato Madame l’Etiquette

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25 marzo 2008

"Il pittore merdazzèr" di Fiorella Borin

Fiorella Borin
IL PITTORE MERDAZZÈR
Edizioni Tabula fati
[ISBN-88-7475-113-3]
Pagg. 48 - € 4,50
Copertina di Alice Burattini
www.edizionitabulafati.it
edizionitabulafati@yahoo.it
Anno Domini 1574. Costantino Ritsos, diciottenne greco di belle speranze, sbarca a Venezia con il sogno di entrare come apprendista nella bottega di Tiziano Vecellio. Ma il destino beffardo gli concede solo un maleodorante posto di merdazzèr, ovvero di netturbino. Anziché arrendersi alla malasorte, l’ingenuo Costantino continua a esercitarsi con pennelli e colori, convinto che prima o poi la gloria busserà alla sua porta. Nella cornice di una Venezia popolata di personaggi picareschi — dal marinaio Cristoforo all’inquietante sartina Genziana, alla nasuta suor Maria Euserbia Contarini fino a Semiramide regina dei ciarlatani — il protagonista vivrà avventure esilaranti, ma dovrà fare i conti con una realtà che non premia (e non perdona) gli sprovveduti.
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*Fiorella Borin è nata a Venezia. Laureata in psicologia, si dedica da molti anni alla narrativa, ambientando spesso le sue storie nella Venezia del XVI secolo. Ha pubblicato la raccolta di racconti "La Signora del tempio nascosto" (Airplane, 2003) e i brevi romanzi storici "Le putine del canal Gorzone" (Montedit, 2002), "Mir i dobro" (Montedit, 2005), "La sciarpa azzurra" (Era Nuova, 2005). Con Tabula fati ha pubblicato nel 2004 il racconto storico-fantastico "Il bosco dell’unicorno".
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24 marzo 2008

La Bellezza

"La bellezza è una forma di Genio, anzi è superiore al Genio, perché non ha bisogno di spiegazioni. E' fra le grandi cose del mondo, come la luce del sole, o la primavera, o il riflesso in acque scure di quella conchiglia d'argento che chiamiamo luna. Non può essere messa in dubbio. E' sovrana per diritto divino. Rende principi quelli che la posseggono. Sorridete? Ah! Quando la perderete non sorriderete... Talvolta dicono che la bellezza è solo superficiale. Può darsi. Ma almeno non è superficiale come il pensiero. Per me la bellezza è la meraviglia delle meraviglie. Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze. Il vero mistero del mondo è il visibile, non l'invisibile."
Lord Henry Wotton a Dorian Gray
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16 marzo 2008

Trent'anni dopo

di Antonio V. Gelormini

E’ una sorta di pellegrinaggio laico quello che compio, ogni volta che mi capita di tornare a Roma, recandomi anche solo per pochi momenti in via Caetani. Davanti alla lapide che ricorda la tragedia umana di un grande statista: “Cinquantaquattro giorni dopo il suo barbaro rapimento, venne ritrovato in questo luogo, la mattina del 9 maggio 1978, il corpo crivellato di proiettili di Aldo Moro. Il suo sacrificio freddamente voluto con disumana ferocia, da chi tentava inutilmente d’impedire l’attuazione di un programma coraggioso e lungimirante a beneficio dell’intero popolo italiano, resterà quale monito e insegnamento a tutti i cittadini per un rinnovato impegno di unità nazionale nella giustizia, nella pace, nel progresso sociale”.

E’ l’omaggio spontaneo, con un viaggio nella memoria che si ripete ogni volta davanti a quella lapide, a chi un giorno entrò con dolcezza e senza saperlo nel percorso formativo di un ragazzino di paese. Ponendo riparo col sorriso, la calma e la forza del progetto politico ad un’ingiustizia, che ne aveva segnato l’intera adolescenza.

Flash back al 2 maggio del 1967 nell’aula di quinta elementare dell’Istituto di Suore della Carità di Troia, un piccolo centro della Daunia, in Puglia. Quella mattina Raffaele, uno dei nostri “compagni di classe” (che bizzarra è la vita, se penso alla terminologia), venne punito, rimanendo fuori e in piedi fino al nostro rientro a casa, per aver partecipato il giorno prima, insieme a suo padre, alla sfilata del 1 maggio. Una punizione incomprensibile. Uno strappo che segnò le nostre coscienze e che accese inquietanti interrogativi: Raffaele veniva punito per aver seguito suo padre. Incredibile. Ancor più per me, che facevo il chierichetto e vedevo quella famiglia di “comunisti” ogni domenica a Messa fare anche la Comunione.

Quella mattina del 16 marzo 1978 Aldo Moro in Parlamento avrebbe sancito il riparo a un’antica ingiustizia. Il suo era stato un lavoro tenace e paziente, per poter convincere molti cattolici (non tutti) ad accogliere i comunisti nella maggioranza. Lo dettava il senso di responsabilità verso il Paese. Lo suggeriva proprio l’ispirazione cristiana, che imponeva di anteporre il bene comune all’affermazione di ogni identità di parte.

La riparazione venne interrotta violentemente da un’improvvisa frenata, a cui seguì una micidiale raffica di mitra, che lasciò a terra all’incrocio di via Fani le vite innocenti di cinque servitori dello Stato. L’impotenza, la paura e poi il terrore presero il sopravvento e per 55 giorni tennero il mondo sul filo di un’inutile speranza. Fino al dolore, all’amarezza e al dramma del corpo giustiziato e abbandonato in una Renault rossa in via Caetani. L’ingiustizia aveva trovato riparo in un’ingiustizia ancora più grande.

Ero convinto che ce l’avrebbe fatta. Nessuno aveva il diritto di spegnere quel sorriso rassicurante, che aveva calmato i miei timori di bambino con la sua stessa ciocca di capelli bianchi, messogli in braccio, in una singolare forma di omaggio, durante uno dei tanti tour elettorali nei paesi di provincia. Il sorriso e la carezza confortante avevano fatto di quel segno di diversità un elemento di uguaglianza. Anzi, un vero e proprio motivo di orgoglio: avevo il ciuffo bianco come Aldo Moro. E lui lo sapeva.

Anche per questo continuerò ad andare a pregare davanti a quella lapide. E chiederò ai miei figli, Eduardo e Benedetta, di farlo con me e dopo di me, e di insegnare a farlo anche ai figli dei loro figli. Affinché la forza del ricordo e dolcezza di quel sorriso alimentino a lungo la fiamma dei giusti.

(gelormini@katamail.com)
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"Siamo solo noi" di Alessandro Cavazzoni

Il primo libro di Alessandro Cavazzoni

Alessandro Cavazzoni, per tutti “Il Puccio”, è prima di tutto un amico e un bravo ragazzo, ma soprattutto è molto simile ad Oscar, il protagonista del libro che ha scritto in una fase complicata della sua vita; forse sarebbe meglio dire, per uscire, da una fase complicata della sua vita.
Alessandro infatti è ancora prima che uno scrittore un tecnico elettricista dipendente delle bonifiche, che in un maledetto giorno di ordinario lavoro sopravvive ad un infortunio dal quale, dicono le statistiche, escono vivi non più del 2% delle persone.
Una scarica da 15.000 Volt gli attraversa il corpo e a testimonianza delle statistiche, nei giorni della riabilitazione il medico che lo segue buttando lì una battuta, gli consiglia di cambiare la sua data di nascita con quella del giorno in cui è sopravvissuto all'infortunio.
La convalescenza e la riabilitazione sono lunghe otto mesi, ed è in questo periodo che Alessandro legge molto, ha tempo per riflettere e nasce in lui la voglia di provare a scrivere un romanzo di fantasia che però è molto simile alla vita reale.
In pochi mesi nasce “SIAMO SOLO NOI, storia di un'amicizia” edito da SBC Edizioni; un romanzo che ho avuto modo di leggere quando ancora era in bozza, e da subito si fa apprezzare per la semplicità della scrittura e la naturalezza del racconto.
Una storia molto simile a quella di tanti ragazzi del nostro tempo, non autobiografica, ma ricca di spunti presi dalla realtà; soprattutto una storia di amicizia sincera, merce molto rara di questi tempi.
Oscar, il protagonista vive qui da noi e trova lavoro in un'azienda di serramenti, conduce una vita tranquilla e da subito conosce due operai dell'azienda, suoi coetanei, con i quali nasce un'amicizia che li porterà a tante uscite insieme nelle notti reggiane e a varie vacanze, non solo con i due operai ma anche con la compagnia di Oscar in giro per l'Europa (notevole per dovizia di particolari e bellezza delle atmosfere narrate quella in Irlanda).
La vita di Oscar scorre abbastanza spensierata tra uscite serali, lavoro, ragazze e partite di calcetto per quasi tutto il libro.
Una storia del tutto identica a quella di tanti di noi, ed è probabilmente questo che rende la lettura particolarmente piacevole, nella quale molti giovani potranno ritrovarsi per luoghi, situazioni e gergo, sicuramente molto familiare.
Nulla a che vedere con il finale, realmente a sorpresa e con una forte morale, che porta il lettore ad un attenta riflessione sul valore della lealtà e dell'amicizia.
Il giudizio conclusivo è secondo me quello di “un'opera prima” ben riuscita, anche in considerazione del fatto che Alessandro non aveva mai scritto altri libri, né racconti brevi.
Avendo seguito da vicino la vicenda rimangono da sottolineare le difficoltà e i costi che un giovane scrittore deve sostenere oggi in Italia per riuscire a pubblicare qualcosa, materia sulla quale si dovrebbe fare qualche riflessione in più, in epoche in cui i giovani vengono spesso etichettati come privi di impegno sociale e di valori forti, l'esempio di Alessandro e di altri come lui andrebbe di certo incentivato di più, per evitare di trovare librerie piene solo dei soliti best seller o dei triti e ri-trti Pansa o Vespa.
SIAMO SOLO NOI, è possibile trovarlo nelle edicole e nelle librerie della zona o acquistabile on line nella sezione autori italiani moderni al sito:
www.sbcediedizioni.it
Mauro Nicolini
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15 marzo 2008

L'anima di cristallo di Alberto Burri


di Augusto da San Buono
Con Paola Mondini, che mi fa da guida, m’aggiro nel complesso monumentale di Villa Carpegna, dimora secentesca non molto lontana da San Pietro, attuale sede della Quadriennale di Roma, per la presentazione del libro di Piero Palumbo“Burri.Una vita”, edizioni Electa, 2008, uno dei preziosi “quaderni” della Quadriennale, istituzione di cui fa parte la mia deliziosa accompagnatrice, e che più di cinquant’anni fa (maggio del 1956) presentò i primi “sacchi” di Alberto Burri, che fecero scandalo nel tempio dell’arte, a tal segno da chiedere l’intervento dell’Ufficio di Igiene affinché “fossero rimosse quelle schifezze spacciate per opere d’arte “. Ci fu anche una denuncia nei confronti dell’Ente stesso, reo di “sperperare il denaro del contribuente in maniera così indecente”, e cioè “acquistando degli stracci maleodoranti”. Ma, come ben sappiamo, quegli “stracci” fecero carriera fino al punto da far considerare oggi l’autore tra i maggiori artisti in assoluto nel panorama dell’arte di questi ultimi sessant’anni. Oggi chi possiede uno di quegli “immondi stracci”, possiede una fortuna incalcolabile. Ed è giusto che sia così, dice Lorenza Trucchi, perché queste opere che sembrano al limite del disfacimento, dell’insulto, dell’irrisione, per un misterioso miracolo di forma e di stile, si riscattano e quasi si sublimano in una bellezza altra. Burri va capito così, di getto, e la sua materia, tremenda e splendida, ricca e poverissima, alchimia di colla, biacca, vernici e mistero, deve essere sentita quasi fisicamente, specialmente quando ci giunge come una novità del tutto imprevista.

Per parlare del libro, sono stati invitati , oltre alla suddetta Trucchi, altri critici dell’arte di livello internazionale quali Bruno Corà e Cornelia Lauf, Giovanni Carandente, Gino Agnese, e – dulcis in fundo - un grande artista contemporaneo come Jannis Kounellis, pittore e scultore italo-greco, uno dei massimo esponenti dell’arte povera, che è stato in qualche modo “allievo” di Burri, anche se “l’etrusco” di Città di Castello non si riconosceva in quei panni, né si sentiva a sua volta allievo di nessuno. Introduce il Presidente della Quadriennale, Gino Agnese, che rende testimonianza all’artista (unitamente a Trucchi e Carandente) in una sorta d’appendice al libro di Palumbo, libro che ha il raro pregio di riportare in vita Burri com’era, umbro fin nelle midolla, chiuso, ruvido e concreto, ma anche vagabondo e sognatore; studioso serio e rigoroso, lavoratore instancabile, ma anche giocoso e buontempone, in specie con gli amici dell’infanzia. C’era in lui tutta la luce magica e quieta dell’Umbria, il grigio perla dei marmi, il grigio tortora o piombo della nebbia che sfuma i campanili, le strade, gli specchi d’acqua, e l’azzurro delle colline del Pinturicchio, del Beato Angelico, del Signorelli, di Raffaello, oltre alla profusione di verde che circonda tutta la regione, il verde argentato degli ulivi, il verde profondo dei lecci, il verde opaco dei cipressi, e il chiarore dell’erba, che da sempre lo vinse, lo affascinò, lo stregò.

Burri era uno spirito libero, con una musica silenziosa dentro e una violenza creativa fatta di ombre del reale e di astratte tensioni, con l’ansia della ricerca e il desiderio di dominare l’inerte materia, quella più infima, degradata spregiata, plasmarla come docile creta e farla diventare cosa viva, vitale, ricca di energia, di fascino o repulsione, poetica, metafora e simbolo della rivalsa dei diseredati, degli sconfitti, degli ultimi, una sorta di catarsi. In effetti, come rileva Lorenza Trucchi, l’arte di Burri, - e parliamo dei sacchi, dei catrami, delle muffe, dei legni, dei ferri, delle combustioni, dei “cretti” e dei “cellotex”, - è qualcosa “di inquieto e inquietante, fuori da ogni classificazione. Le suture, le abrasioni, gli inserti di colore, per lo più rosso e nero, i suoi amari segni, le sue cicatrici, le sue ustioni, le sue fistole e le sue stigmate perpetue, fanno pensare ad un’operazione chirurgica, riportano Burri alla sua prima attività, al dottor Burri che gioca la sua partita tra la vita e la morte, ovvero tra le materia e la forma. Vince la forma, vince la bellezza, una nuova bellezza che si manifesta per opposizione dopo il primo attimo di sconcerto”.

Ma c’è chi non ha mai superato quel primo attimo, come l’illustre senatore comunista Umberto Terracini che fece una interrogazione parlamentare chiedendo la testa della Direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna che aveva osato esporre al pubblico “l’indegna sozzura raccattata dalla gerla di uno spazzaturaio”. Erano i sacchi di Burri, quelli che Brandi, dopo un periodo di grossa perplessità, definirà “ sacchi gloriosi ”. I sacchi erano i suoi capolavori – dice Toti Scialoja-; invece di dipingere incollava i pezzi di sacco grezzo a cui aggiungeva colore creando una specie di piaghe sanguinolente, c’era un pathos enorme, sembrava il colore di Velazquez… Io lo ammiravo molto, ma lui a quel tempo era spregiato, e molti critici che andavano per la maggiore dicevano che la sua arte era una solenne porcheria. Ma Burri non se la prendeva più di tanto, sapeva che alla fine avrebbe vinto lui. E poi era un uomo semplice, un umbro schivo, riservato, appartato, ma anche capace di divertirsi, di ridere, di far baldoria con gli amici. Burri aveva ironia da vendere: “Parlatemi di tutto, preferibilmente di calcio, caccia, e donne, ma per carità non parlatemi d’arte e di politica. E neppure di religione”.

In realtà Burri era uno di quegli atei che inseguono perennemente il paradiso. La ricerca della perfezione del cromatismo e dell’armonia geometrica, la grazia, la purezza, il gesto definitivo, erano il suo paradiso. E lo trovava, lo realizzava in quell’attimo prodigioso della creazione che ferma il tempo. La sua arte si fonda sulla velocità, dinamicità di spostamento, sulla trasformazione della liturgia drammatica, il fuoco, la fiamma, le combustioni, gli strappi, le ferite, le lacerazioni, e sull’arcana forza della luce, sull’innocenza del suo mormorio sognante, sulle vibrazioni sonore della materia, sulla perfezione delle figure geometriche, nel segreto del cielo, nel battito d’ali di una farfalla imprigionata in un sacco o in una plastica. Burri annulla le cose per innalzarle a essenze assolute, a inni di estasi e solitudine, a spazi interiori, a esistenza spirituale, grazie ad un procedimento misterioso e inconscio che si basa sul gesto e l’energia, che rifulge e si cela, un procedimento che si sottrae a qualsiasi regola o ordinamento; anche se la tradizione conta, eccome, dice Kounellis, è un discorso di unità, è avere l’idea di un popolo e l’idea di una dialettica, è ritrovare il passato che è proiezione del futuro, un punto dialettico tra noi e la verità.

Palumbo, con questo libro, ci ha restituito “l’anima di cristallo” di Burri , nella sua pienezza umana e artististica, con testimonianze preziose di Giovanni Carandente (bellissimo il suo cortometraggio in cui si vede il maestro mentre realizza le proprie opere), Lorenza Trucchi e Gino Agnese, il padrone di casa… Aneddoti, aspetti di varia umanità ed un corredo di oltre cento foto, lo fanno rivivere così com’era, sbalzandolo a tutto tondo in una giostra di sogni e d’attese, piena di incroci paralleli, d’incontri e scontri, nei vari momenti e aspetti che hanno caratterizzato la sua vita abbastanza lunga (80 anni, nonostante un grave enfisema polmonare che lo aveva limitato, costringendolo a vivere, nei mesi freddi, a Los Angeles o sulla Costa Azzurra, vicino Nizza, dov’è morto nel 1995) e intensa. Ed ecco, in rapida successione, conosciamo il Burri avventuroso, ammalato di mal d’Africa, un po’ come il “nostro” Florio Santini. E poi il Burri laureato (era medico, ma esercitò la professione solo per pochi anni) che non fece mai sfoggio dei suoi titoli accademici, anzi li volle dimenticare e ripartire da zero; il buon soldato, ma anche il P.O.W. (Prisoner of War) irriducibile e orgoglioso del Texas che ebbe il coraggio di dire cento volte no agli americani che gli chiedevano di collaborare, patendo per questo la fame più nera (fu costretto a mangiare perfino un serpente). Ma quello di dire no ai potenti, - ed è una capacità che hanno solo i grandi uomini, - era una sua caratteristica peculiare. Infatti molti anni dopo dirà no perfino a sua maestà l’avvocato Gianni Agnelli, che era sceso dall’elicottero, a Città di Castello, per comprare un suo “sacco”, uno di quegli stessi vieti sacchi di tela che erano stati schifati un po’ da tutti e che paradossalmente fecero carriera proprio in America, il paese che aveva in qualche modo posto fine alla carriera del tenente medico Burri, sottraendogli la borsa dei ferri e impedendogli di esercitare la professione nel campo di concentramento texano. E fu così, un po’ per celia e un po’ per non morire di noia che Burri, al pari di altri ufficiali prigionieri, si mise a dipingere, a trent’anni suonati, e decise, d’amblè, che non avrebbe più fatto il medico (si rifiutò di dare pareri e consigli anche ai colleghi malati del campo di prigionia). Decise che avrebbe fatto il pittore, una scelta che sgomentò tutti, amici e parenti, a cominciare dalla madre, la gentile e colta maestra elementare Carolina Torreggiani. Ma non ci fu verso di farlo “rinsavire”. Rientrato dalla prigionia, se se andò a Roma, dapprima ospite di un cugino violinista e poi ramingo nelle stanzette subaffitto o nei garage della Capitale, dove faceva vita da bohemien, perennemente senza una lira in tasca e con la pancia vuota.

E poi troviamo Burri il cacciatore, il tiratore infallibile (vinse diversi premi nel tiro al piattello), l’indomabile, l’indocile, l’uomo forte e determinato, ma anche l’uomo “dall’anima di cristallo”, con una sensibilità durissima e fragilissima, “che poteva anche rompersi, ma prodigiosamente si sarebbe poi ricomposta, tornando intatta” come dice Gino Agnese. Il Burri che sposa Minsa Craig, una danzatrice americana esile, vaga, inidonea alla manualità, che viveva di musica e di poesia; sposa questa singolare mediocre artista senza una vera passione, un’attrazione, un vero interesse, una donna diversissima da lui,
in tutto, e tuttavia rimarranno insieme per quarant’anni.

Ormai famoso, ma non ricco (non vendeva volentieri le sue opere, alla fine i “Burri” migliori fanno parte della fondazione Albizzi di Città di Castello, e ciascuno può andarle a vedere), insignito dei premi nazionali e internazionali più prestigiosi, a chi gli chiedeva di spiegare la sua arte, diceva sempre che le parole per lui non significavano niente, ciò che voleva dire lo esprimeva con la pittura, “ una libertà raggiunta, costantemente consolidata, difesa con prudenza, così da trarne forza per dipingere di più”. Dipingere per lui era essere, era forza, era raccoglimento, era silenzio e dramma. Si riconosceva in una frase di Dyson Freeman: “La sapienza è il controllo magistrale dell’imprevisto”.
Che dire ancora di questo straordinario artista, che è il più riconosciuto a livello internazionale negli ultimi sessant’anni?, che dire ancora del bel libro di Palumbo, giornalista specializzato in profili biografici, temi culturali e critica di costume, oltrechè autore teatrale e radiotelevisivo? Burri è l’altra faccia della medaglia dell’Italia dei personaggi di Alberto Sordi : non è opportunista, ha il coraggio delle proprie opinioni, rifugge ogni mondanità, è leale , è parco di parole, fa vita appartata, è un compagno silenzioso; sessanta anni di storia di un italiano “controtendenza”, con riferimenti di cronaca, aneddoti, curiosità, percorsi lineari o labirintici, silenzi, ma anche franche risate, o ironiche come piacevano all’umbro, che in vecchiaia sembrava un colonnello inglese in pensione. Belle le foto, con un Burri tutto giubbotti di pelle e odore da polvere da sparo, sportivo, duro, contadino, cacciatore accanito, pane vino e pittura, bello, con una faccia scolpita e gli occhi pungenti, schietto, con un riso che gli passa negli occhi come un lampo, e la risata vivace . Un giorno andò a trovarlo il vecchio Ungaretti e rimase scioccato. “Ho provato lo stesso choc che da giovane avevo provato a contatto con la pittura di Picasso”.
Sì, era un uomo dall’anima di cristallo che sapeva dire no. Uno, conclude Kounellis, a cui i giovani si devono ispirare. Devono anche loro saper dire no, se vogliono cambiare questo stato di cose. No ad ogni tipo di mercificazione, prostituzione, per un posto di lavoro che spetta loro di diritto, ma anche no ad ogni deviazione dalla strada maestra, no alle sirene dell’ozio e dei guadagni facili. “Tutto nasce da un no, il no rappresenta una diversità sconvolgente, ed è la piattaforma per un futuro giovanile”. Parola di Jannis Kounellis, allievo (mancato) di Alberto Burri.
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09 marzo 2008

La felicità secondo Erasmo



«La felicità consiste, soprattutto, nel voler essere ciò che si è»

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03 marzo 2008

Cinema – la recensione di Bruna Alasia

“Onora il padre e la madre” di Sidney Lumet

Titolo originale: Before the devil knows you’re dead
Nazione: USA

Anno: 2007

Genere: Thriller
Durata: 120’
Regia: Sidney Lumet
Cast: Philip Seymour Hoffman, Ethan Hawke, Albert Finney, Marisa Tomei, Rosemary Harris
Produzione: Unity productions/Linsefilm ltd. production
Distribuzione: Medusa
Data di uscita: 4 marzo 2008

“Before the devil knows you’re dead” tradotto in Italia con “Onora il padre e la madre” é un thriller psicologico e avvincente, diretto con rigore, in una atmosfera di silenzi espressivi, dal leggendario Sidney Lumet: di lui basti ricordare “L’uomo del banco dei pegni”, “Assassinio sull’Orient Express”, “Quel pomeriggio di un giorno da cani”, “Quinto potere”.

All’età di 83 anni Sidney Lumet celebra in perfetta forma il suo quarantacinquesimo lungometraggio affrontando, come in altri film divenuti classici, l’abisso inquietante della natura umana che, a confronto con le proprie debolezze e paure, deflagra nell’apparente solidità di una famiglia medio-borghese.

Il film narra di due fratelli, Andy e Hank Hanson, cresciuti da una coppia di genitori per bene, proprietari di una gioielleria. Andy, il maggiore, pur guadagnando un superstipendio come dirigente di una grande azienda, non ce la fa a mantenere uno stile di vita minato dal dispendioso vizio della droga, se non attingendo alle casse della società per cui lavora. Hank, il più giovane e sprovveduto, dal canto suo non riesce nemmeno a pagare gli alimenti all’ex moglie e alla figlia.

Il maggiore dei due fratelli escogita una soluzione per risolvere ogni loro problema economico: una rapina nella gioielleria di famiglia. Piano perfetto, che dovrebbe far contenti tutti dal momento che gli ignari genitori intascheranno l’assicurazione per il furto, mentre Andy e Hunk guadagneranno con la vendita dei gioielli.

Però, come si suol dire, “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi” e da quel momento nel calderone tenebroso dei sentimenti ribolliranno livori, bramosie, paure, vendette, sensi di colpa, tradimenti, in un intrico di ghiaccio nitido e teso, culminante in un finale mozzafiato, tale da giustificare quel noto proverbio irlandese che dice: “In Paradiso meglio arrivarci mezz’ora prima che il diavolo si accorga della nostra morte”.

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01 marzo 2008

Seguitemi!


Per l'argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta.

Inferno XXI - 136,139
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"Cara Ada" di Fabio Musati

Fabio Musati
CARA ADA
Edizioni Tabula fati
[ISBN-88-7475-111-7]
Pagg. 48 - € 4,50
Copertina di Elena Pacaccio
http://www.edizionitabuilafati.it/
edizionitabulafati@yahoo.it

“Ogni parola che scende sulla carta rimarrà nel tempo, sarà letta numerose volte, riletta, custodita negli anni, incisa nella mente della persona cui capiterà sotto gli occhi. Sarà una scultura della mente, una fotografia del pensiero: Cara Ada. Quante volte Ada avrà riletto queste due lettere che ho di fronte a me? Quanti sogni avranno prodotto all’inizio quelle parole, scelte con cura, con attenzione, da chi ben sapeva quanto una lettera allora fosse importante, ponderosa, memorabile? Quante lacrime avrà versato successivamente pensando all’amore perduto, all’occasione mancata, al destino sfuggito chissà dove?”
È un destino beffardo a giocare con il nome e la vita di due donne negli anni del fascismo in un paesino della Valsesia. Il cielo, da paradiso, diventa l’inferno rovesciato dal quale piovono fuoco di granate e qualche lettera indirizzata ad Ada.
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*Fabio Musati, classe 1957, è originario della Valsesia e vive a Milano con la moglie Valeria e il figlio Guido. Nel giugno 2005 ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti dal titolo "Nel corpo del tempo" per i tipi di Artemis e la seconda è in corso di pubblicazione con Prospettiva Editrice.Nel biennio 2005-2006 ha vinto vari concorsi di narrativa breve tra i quali la sezione G. Caporale del Premio Teramo 2006 e la quarta edizione del Premio Tabula fati, primo assoluto con "Cara Ada". Nel 2006 è stato inoltre assistente alla drammaturgia dello spettacolo teatrale "1989. Crolli" della compagnia ATIR di Milano.
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ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

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