29 aprile 2022

Alessia Mocci intervista Alessandro Cortese: ecco il romanzo La mafia nello zaino

 


Alessia Mocci intervista Alessandro Cortese: ecco il romanzo La mafia nello zaino


Ricordo che ero davanti la tivvù e che d’un tratto si interruppero le trasmissioni su tutti i canali. Ricordo la cronaca. Le scene dei film di guerra che erano però verità e non finzione. Io di quel pomeriggio mi ricordo tutto e lo conservo gelosamente… perché quell’evento ha contribuito a farmi diventare la persona che sono e io amo moltissimo la persona che sono. Se avessi mai scritto un romanzo sulla Sicilia, inevitabilmente, avrei dovuto raccontare dell’omicidio di Paolo Borsellino.” – Alessandro Cortese

Un palazzo della memoria, le fondamenta de “La mafia nello zaino” sono i ricordi personali dello scrittore siciliano Alessandro Cortese (Messina, 1980).

Edito nel 2022 da Il ramo e la foglia edizioni con copertina dell’artista palermitano Giulio Rincione, “La mafia nello zaino” è un romanzo che s’addentra nella buia realtà della Sicilia, quella menzionata nel titolo: la mafia.

Con la voce e le aspettative di un ragazzino di appena dieci anni, Alessandro Cortese amalgama ricordi della propria infanzia all’invenzione letteraria per ricordare persone uccise in modo atroce come Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, padre Pino Puglisi, ed il ladro Nino Sboto.

“La mafia nello zaino” è la storia di un bimbo, di un nano e di un assassino: ogni personaggio recita al meglio la sua parte cercando di assecondare il Fato.

Alessandro Cortese si è mostrato molto disponibile nel rispondere ad alcune domande non solo inerenti alla sua pubblicazione ma anche sulla sua vita e sulle sue esperienze. Buona lettura!


A.M.: Salve Alessandro sono trascorsi otto anni dalla pubblicazione del romanzo storico “Polimnia” e devo ammettere che mi hai sorpresa con “La mafia nello zaino” perché dai toni aulici sei passato al colloquiale e regionale siciliano di un picciruddu di dieci anni. Che cosa è avvenuto in questi anni di silenzio editoriale?

Alessandro Cortese: Ciao Alessia, risponderei volentieri che sono andato a letto presto, ma non sarebbe nulla di più falso… ho perso il conto delle ore di sonno non goduto negli ultimi anni: non sono una persona che rimane ferma, piuttosto ho quell’inquietudine che mi spinge a fare. Così fino al 2017 ho scritto… ho portato avanti molti altri lavori letterari, soprattutto di notte e di mattina presto, nelle ore che non dedicavo al lavoro retribuito, e per me scrivere è sempre stata una forma di autoanalisi o, se preferisci, è sempre stato lavorare su me stesso. Dopo ho effettivamente smesso di farlo… “La mafia nello zaino” è un romanzo del 2015 e a rivederlo oggi, che se ne va per la sua strada, mi sembra una vita fa. Oggi rimango circondato da appunti su storie lasciate incompiute che, mi piace pensare, prima o poi concluderò. E mi capita di riflettere sul fatto di non aver più scritto… magari ho semplicemente raggiunto un equilibrio che prima non avevo e, senza una ricerca personale, anche le mie storie sembrerebbero prive di forza.

Tu lo sai, le mie storie hanno sempre vissuto di una forza incredibile. Con quella forza Lucifero si è ribellato contro il regime, in Eden, e si è rialzato dal fondo del baratro, in Ad Lucem. Con quella stessa forza, Leonida e i suoi spartani, insieme ai greci, hanno resistito alle cariche dell’invasore persiano in Polimnia. Poi quella forza l’ho data alla curiosità di un picciriddu, piccolo ma grande, per provare a capire cos’è la mafia, ed è vero che il mio registro stilistico è cambiato completamente: Eden, Ad Lucem e Polimnia lavorano sul mito e il mito pretende epicità… e non saprei essere epico senza essere aulico.

Ne “La mafia nello zaino” racconto una storia inventata usando elementi autobiografici… inutile dirti che un picciriddu siciliano bravo a passare da un’avventura all’altra restando per strada non parla in modo aulico ma, piuttosto, è già tanto che usi un po’ di italiano in mezzo a tutto quel siciliano.

Aggiungo che ho sempre saputo scegliere i registri nelle mie narrazioni e in realtà non per merito mio: sono sempre stati i personaggi delle mie storie che, venuti a trovarmi, hanno sempre parlato in un certo modo. Io li ho semplicemente ascoltati.


A.M.: La copertina del romanzo è stata curata dall’artista palermitano Giulio Rincione, un’illustrazione che riporta in modo preciso alcuni dettagli importanti, come ad esempio la presenza delle duemila lire nella tasca dei pantaloni del picciriddu ed i fumi neri che traboccano dalle torri cilindriche della raffineria. Come hai conosciuto Giulio?

Alessandro Cortese: Hai presente quando immagini le cose? Se hai un’immaginazione come si deve, capita che quanto hai immaginato tu ce l’abbia davanti agli occhi, come fosse qualcosa di concreto.

Io ho sempre avuto le idee chiare, su cosa ci dovesse essere sulla copertina dei miei libri, e così è stato anche per “La mafia nello zaino”. Sapevo che poteva funzionare soltanto un’immagine che fosse cartoonesca ma non troppo, seria ma non troppo, e ho pensato ci fosse una persona soltanto capace di realizzarla, un artista che è stato la mia unica scelta e l’unico che ho contattato: Giulio Rincione.

Giulio è uno degli illustratori più importanti del mondo, ha uno stile assolutamente unico e, soprattutto, è siciliano. Potrà anche sembrare campanilismo, il mio, ma non lo è: certe cose nel mio romanzo potevano essere veramente colte soltanto da un siciliano… e questo dissi a Giulio, quando lo contattai. Gli dissi che ero convinto che solo un altro siciliano avrebbe saputo raccontare il mio romanzo con un’immagine e basta. E così è stato: nessuna prova, nessun bozzetto. Giulio ha letto il libro e ha illustrato la copertina perfetta.

La sua copertina sarà, probabilmente, uno dei motivi che mi faranno gioire sempre dell’idea di essere tornato nel mondo letterario, dopo averlo abbandonato. Basta guardarla per capire quanti dettagli trovino posto perfettamente all’interno della cornice: le due mila lire in tasca al picciriddu, ad esempio, che vengono rubate dalla borsa di Raffaella all’inizio del romanzo, o la raffineria sullo sfondo del teatrino dell’Opera dei Pupi. Nessuno ha suggerito a Giulio cosa disegnare, è tutto frutto della sua visione artistica… ma se avessi suggerito qualcosa, gli avrei chiesto di mettere in copertina la raffineria: la Sicilia ha sofferto, e soffre, per la presenza dei molti petrolchimici che ne hanno devastato tanto il territorio quanto la salute pubblica; nella Valle del Mela, dove si erge il “mostro”, la raffineria di Milazzo, ci sono zone limitrofe in cui ogni famiglia ha un malato di tumore in casa, eppure è tutto normale, sia per lo Stato che per le autorità ambientali; vivere in Sicilia significa anche questo: si baratta la propria salute pur di avere in cambio uno stipendio sicuro.


A.M.: “La mafia nello zaino” è un romanzo di finzione letteraria che riconduce ad eventi accaduti nella realtà, uno di questi è centrale nel libro e nella vita del protagonista, cioè la presenza del giudice Falco Di Giovanni e del suo collega Paolo, esempi di persone oneste che cercano non solo di aiutare a ristabilire una sorta di ordine ma anche di tagliare i fili del “puparo” che manipola i cittadini come se fossero marionette. Era tua intenzione palesare l’omaggio a Paolo Borsellino e Giovanni Falcone perché sin da subito li hai presentati come tali, dunque, ti chiedo perché un siciliano di Messina sente il dovere di ricordare episodi accaduti nel 1992?

Alessandro Cortese: Ho scritto “Il bimbo, il nano e l’assassino” (inizialmente il titolo era questo, “La mafia nello zaino” è stata una fortunata intuizione dei miei editori, Giuliano Brenna e Roberto Maggiani de Il Ramo & e la Foglia, NdA) nel 2015, di getto. In 5 mesi. Per me era un periodo particolare… a tutti gli isolani, andati via dall’Isola, succede che a un certo punto della vita si voglia tornare a casa. È il richiamo della terra ed è il richiamo del sangue o, se preferisci, è il canto della sirena. Davvero ho pensato di tornare a casa, nel 2015… ma chi va via non può più tornare. Non davvero. Ho quindi voluto farlo ma non fisicamente, l’ho fatto in modo a me più congeniale, costruendo un palazzo della memoria.

Nel mio palazzo della memoria, il paese è diventato simbolo dell’intera regione: la Sicilia inizia quando entri in paese e uscire dal paese significa uscire dalla Sicilia. Ho usato precisi riferimenti geografici non badando al fatto che non fossero poi corretti nel contesto locale, perché a me interessava costruire una Sicilia fatta di ricordi. Sono gli splendidi ricordi di quando ero un ragazzino che correva, con gli amici, in BMX rossa ogni pomeriggio. Sono i ricordi che mi porterò fino a quando sarò vecchio, perché mi ricordo ogni minuto di quei pomeriggi e ogni avventura vissuta in posti che, in Sicilia, sono esattamente uguali e come erano più di trent’anni fa, quand’ero quel bambino.

Ho smesso di essere quel bambino quando uccisero Paolo Borsellino: l’omicidio di Falcone fu per me più distante… mi giunse la notizia ma non vidi servizi ai telegiornali, fu come se mi avessero riferito la cosa ma non ci rimasi davvero a pensar su.

Per Borsellino fu diverso. Ricordo che ero davanti la tivvù e che d’un tratto si interruppero le trasmissioni su tutti i canali. Ricordo la cronaca. Le scene dei film di guerra che erano però verità e non finzione. Io di quel pomeriggio mi ricordo tutto e lo conservo gelosamente… perché quell’evento ha contribuito a farmi diventare la persona che sono e io amo moltissimo la persona che sono. Se avessi mai scritto un romanzo sulla Sicilia, inevitabilmente, avrei dovuto raccontare dell’omicidio di Paolo Borsellino.


A.M.: “«La mafia?» lo sentii ripetere. «E che è?». […] «Persone» gli risposi. «Che fanno cose cattive». […] «Ma chi t’ha insegnato questa parola?» volle sapere mia madre […] «Il giornale. L’ho letta». […] «E sai perché non hai visto la mafia?». […] «Perché la mafia è come Colapesce. È una leggenda che si sono inventati in televisione, per raccontare qualcosa ai vecchi che non lavorano più e restano a casa tutto il giorno. I vecchi guardano i telegiornali, che gli raccontano qualcosa vera e qualcosa no. La mafia non è vera».” Il nostro piccolo eroe, il picciriddu, è incuriosito da questa entità – la mafia – di cui in paese non si vuole parlare; l’argomento diventa appassionate e si rivolge ai genitori la cui risposta lo lascia ancora più disorientato. Ritengo che questo breve dialogo sia come il taglio dell’occhio nel film di Luis Buñuel, una cesura netta con il passato che apre al caos. Quand’è stata la prima volta che hai sentito la parola “mafia”? Hai usato elementi autobiografici per scrivere il dialogo sopracitato?

Alessandro Cortese: Non saprei dire quando ho sentito per la prima volta la parola “mafia”… probabilmente a scuola, o da qualche adulto che ne parlava, magari da qualcuno che voleva fare una battuta o in televisione, visto che quand’ero bimbo andava sulla Rai la fiction de “La Piovra”. Sinceramente non saprei dire, con certezza, quando ho sentito per la prima volta questa parola. Mentre posso dire con certezza, invece, che quel dialogo sulla mafia tra il mio picciriddu e i suoi genitori sia uno degli eventi incredibili che la scrittura sa regalare: sono sempre rimasto convinto che, quando inizio a scrivere di loro, i miei personaggi vivano di vita propria; dire che io non gli ho mai messo in bocca le parole che dicono può sembrare inverosimile, ma davvero io resto in ascolto di ciò che hanno da dire… la sensazione che ho spesso provato è di scrivere sotto dettatura, facendo attenzione a cogliere ogni parola, un po’ come mi capitava all’università quando prendevo appunti a lezione, solo che ascolto gente che non esiste davvero, non in questo mondo almeno.

Ma per quanto quel dialogo non sia autobiografico, sono moltissimi gli elementi che lo sono invece… Giulio il ladro, il ragazzo ucciso all’inizio del mio libro, è in realtà Nino Sboto e davvero a lui hanno tagliato le mani perché rubava; allo stesso modo, la scena dell’omicidio fuori dalla sala giochi è il racconto esatto di quanto successe quel pomeriggio, io stavo giocando ai videogames e ammazzarono a colpi di pistola un tizio a 50 metri di distanza.

Come dicevo, questo mio romanzo è un palazzo della memoria e le fondamenta di questo edificio sono i ricordi personali che probabilmente non potrò mai dimenticare, per il carico emotivo che sono stati capaci di concentrare. Il resto è il racconto di personaggi nati tra quei ricordi, che usano alcune cose del mio passato per dire al lettore di loro.


A.M.: “«Ma non è colpa mia!» iniziai a pigghiari p’avanti per non restare indietro. «La mafia m’ha fatto venire questi dubbi!». E quando pronunciai la parola mafia, l’espressione di padre Pippo tornò uguale a quella che gli avevo visto fare davanti all’avvocato Cantarò coperto dal lenzuolo, quindi prese una sedia e s’assittò, come se le gambe gli fossero invecchiate di colpo e non ce la facesse a reggersi.” Padre Pippo è accostabile a Falcone ed a Borsellino come personaggio positivo ma non solo perché, anche in questo caso, ci troviamo davanti ad un caso di cronaca bensì perché anche se il suo “mestiere” lo inserisce nei “segreti di mafia” si adopera per aiutare i giovani togliendoli dalla strada. Uno dei personaggi “negativi” che instaurerà un rapporto con il picciruddu è presente anche nel sottotitolo del libro: il nano e più precisamente “Antonio Izzo ’ngiuriatu Ninu u nanu”. Anche il nano proviene dalla realtà?

Alessandro Cortese: Padre Pippo è il mio ricordo di padre Pino Puglisi. Io vengo da una realtà cittadina nella quale i Salesiani rappresentavano, per noi bambini, il posto in cui crescere lontani dalla strada. Ai Salesiani ho giocato a pallone e pure a scacchi, ho mangiato qualche buon gelato, ho conosciuto gente che mi ha insegnato come ascoltare la musica che mi avrebbe fatto compagnia per il resto della vita, ho litigato con altri ragazzi, fatto la corte a qualche ragazza, pregato e bestemmiato. Per me i Salesiani hanno rappresentato esperienza di crescita da ogni punto di vista, e i preti dei Salesiani mi hanno dato altrettanto.

Quando padre Puglisi fu ucciso, ricordo che pensai nessuno potesse salvarsi da un proiettile, neppure uomini che hanno il favore di Dio. Ma pensai pure che a morire non fosse solo un prete, che non si fosse sparato solo a una persona… era come se avessero sparato allo spirito dei Salesiani e al loro essere alternativa alla strada.

I Salesiani del mio paese non hanno salvato tutti ma hanno salvato molti, esattamente come fece padre Puglisi a Palermo. Celebrare padre Pino Puglisi, nel mio romanzo, significava per me fare un omaggio a quel senso di protezione che i Salesiani hanno sempre saputo darmi.

Non è ispirato a nessun personaggio reale, invece, Ninu u nanu, il boss mafioso con cui il mio picciriddu si misura per tre volte nella storia: la prima volta è “iniziazione”, la seconda è “consapevolezza” e la terza è il “finale”, quindi il viaggio di crescita del mio piccolo eroe passa tutto attraverso il nano che, simbolicamente, è la mafia. La mafia può essere una persona minuscola, nella realtà, ma quella persona minuscola può diventare un gigante, quando accresciuta dal potere che riceve. Io sono fissato con il simbolismo, ‘ché tutto è simbolo me lo ha insegnato Carl Gustav Jung e, se ti fermi a guardare, i simboli ti circondano… non so scrivere senza usare i simboli e anche “La mafia nello zaino” è un romanzo mio, da questo punto di vista.


A.M.: Il romanzo è anche un inno alla Sicilia da parte di un siciliano che da più di vent’anni vive e lavora nella penisola; durante la lettura oltre a scoprire chi è l’assassino vengono raccontati miti come il già citato Colapesce, Scilla e Cariddi prorompono nell’immaginazione del bambino che gira festosamente nelle strade del paese con la bicicletta. Vengono descritte le Eolie, lo Stretto di Messina, il bellissimo promontorio costiero di Tindari, i campi pieni di fiori, il teatro dell’Opera dei Pupi, l’odore di fritto della vostra cucina tipica. Forse questa non è una domanda ma un complimento perché chi – come me – ha avuto modo di visitare Milazzo per i riferimenti geografici (ma il ragionamento vale per qualsiasi luogo dell’isola se si prendono in considerazione altri elementi del libro) viene catapultato negli occhi del picciriddu che guarda l’arcipelago o verso ovest “il verde delle colline […] l’azzurro cristallino […] con sullo sfondo il promontorio di Tindari e il grande santuario della Madonna Nera”.

Alessandro Cortese: Per un isolano, l’Isola sarà sempre casa. E per un isolano non c’è forse rimpianto, e colpa, più grande di aver lasciato l’Isola. Nel corso degli anni, qualcuno mi ha rimproverato di essere andato via dall’Isola, di non aver dato all’Isola quel che ho dato altrove, di non aver provato a restare con maggiore determinazione. Chi mi rimprovera sembra dimenticare che io, per laurearmi, ho fatto ogni genere di lavoro sottopagato mi si presentasse e, da laureato, poi mi proposero di lavorare, gratis e per due anni, in un laboratorio per “imparare il mestiere”. In pochi sanno che io, oggi, sono tra gli insegnanti più famosi d’Italia, grazie alla mia attività online di insegnamento, e che la stessa attività proposi di farla a siciliani magicamente spariti quando si sarebbe dovuto parlare di compenso.

A me la Sicilia ha insegnato tanto e tolto molto più di quanto mi abbia dato: ha tolto il lavoro a mio padre e sono cresciuto in mezzo a mille difficoltà, ad esempio, e mi ha anche quasi ucciso, quando a 17 anni sono stato pestato a sangue da parte di un gruppo di una decina di ragazzi, al centro della piazza del mio paese e sotto gli occhi di amici che non hanno mosso un dito. Me ne sono andato con piacere e lo rifarei ogni giorno. Ma nonostante tutto la Sicilia è dove sono nato, dove sono cresciuto, dove ho imparato e dove sono diventato io. Amo la Sicilia tanto quanto profondamente la odio… e credo che in questo romanzo siano perfettamente bilanciati l’odio e l’amore che io provo per casa mia.

Non avrei voluto nascere da nessun’altra parte e non avrei voluto fare esperienze diverse da quelle che la Sicilia mi ha permesso di fare. La amerò sempre e per sempre l’avrò nel cuore… ma non ci tornerei mai.


A.M.: In chiusura una domanda leggera: hai intenzione di organizzare delle presentazioni del libro in Sicilia?

Alessandro Cortese: Ogni libro che ho pubblicato ha avuto una o due presentazioni in Sicilia, mi sembrerebbe assurdo non farne adesso che ho scritto un libro sulla Sicilia. Le farò e so che, come sempre accaduto anche in passato, saranno occasione per rivedere vecchi amici e per fare nuove amicizie. Ora ne ho in programma una nella mia città, Barcellona Pozzo di Gotto, e un’altra a Messina, ne farò una a Montesilvano dove vivo in Abruzzo e forse ne farò una a Roma, città dei miei editori, e a Milano, dove sono nato editorialmente grazie a Eden e ArpaNet.

Dopo tanti anni, addirittura otto, tornare in libreria a presentare un mio romanzo non so cosa possa significare per me… un po’ mi spaventa, non lo nego, perché non so se sono ancora capace di farlo. Non ho più le energie di un tempo, non ho neanche la voglia di un tempo, ma mi è sempre piaciuto mettermi e rimettermi in gioco, e scrivere per me è sempre stato un gioco meraviglioso. Vediamo come andrà.


A.M.: Salutaci con una citazione…

Alessandro Cortese: Beh, mi sembra obbligato citare uno scrittore siciliano e il suo omaggio ai palazzi della memoria: “Penso che se uno potesse correre più presto della luce e sopravanzarla e fermarsi ad aspettarla in qualche stazione di stella, vedrebbe replicarsi per intero tutto il rotolo del passato”. È Gesualdo Bufalino che, con la sua “Diceria dell’Untore”, mi ha insegnato che gli scrittori sanno anche andare più veloce della luce.


A.M.: Alessandro ti ringrazio per il tempo che hai dedicato all’intervista, ti ringrazio per la sincerità che ogni volta dimostri e questo non è mai scontato. Ti seguo nella scelta di un siciliano e cito lo scrittore di Girgenti Luigi Pirandello: “Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!”



Written by Alessia Mocci


Info

Acquista “La mafia nello zaino”

https://www.amazon.it/mafia-nello-zaino-bimbo-lassassino/dp/B09GQJLG4V

Leggi una recensione de “La mafia nello zaino”

https://oubliettemagazine.com/2022/02/06/la-mafia-nello-zaino-di-alessandro-cortese-un-omaggio-a-giovanni-falcone-e-paolo-borsellino/


Fonte

https://oubliettemagazine.com/2022/04/19/intervista-di-alessia-mocci-ad-alessandro-cortese-vi-presentiamo-la-mafia-nello-zaino/


27 aprile 2022

ALCUNI EPISODI DEI CONFLITTI FRA LE GENTI IROCHESI E GLI ESERCITI INGLESI E POI CONFEDERALI DOPO IL TRATTATO DI PARIGI DEL 1763 E LE GUERRIGLIE DEL CAPO INDIANO PONTIAC a cura di Enrico Pinotti


ALCUNI EPISODI DEI CONFLITTI FRA LE GENTI IROCHESI E GLI ESERCITI INGLESI E POI CONFEDERALI DOPO IL TRATTATO DI PARIGI DEL 1763 E LE GUERRIGLIE DEL CAPO INDIANO PONTIAC


Gli almeno quattro anni che seguirono il Trattato di Parigi del 1763 furono cruciali per le sorti delle genti che popolavano i Grandi Laghi fra gli odierni Stati Uniti ed il Canada. La Lega delle sei Nazioni irochesi stava perdendo il consenso delle sue popolazioni perché troppo indulgente verso l’occupazione inglese. Restavano le numerose tribù dissenzienti schierate o non a fianco del capo Pontiac e non è che fossero solo i popoli Cree e Nipissing, come certa storia afferma: le genti indiane che appoggiavano l’opposizione di Pontiac ai poteri inglesi erano tante ma non erano su territori contigui, erano sparse ai confini del Canada sud-occidentale, fino ad arrivare all’Illinois e la valle dell’Ohio e fu proprio in questi territori che si sono svolte le battaglie decisive fra gli irochesi di Pontiac e le truppe dell’ormai Confederazione statunitense.

A nulla valsero in seguito gli sforzi di Capo Giuseppe al comando dei Nasi Forati per riacquistare territori e dignità di un popolo ormai sconfitto

Di seguito vogliamo raccontare alcuni episodi di questi anni cruciali, fino all’uccisione per mano indiana, pagata dai comandi confederali del condottiero indiano avvenuta nel 1769.

La Francia, scrivono gli storici, è stata radiata dall’immenso bacino del Mississippi, ma i francesi, sia per la loro alleanza con gli indiani sia per le guarnigioni avanzate, avevano mantenuto l’ordine in quelle regioni. A chi spettava ora questo compito? Senza dubbio all’esercito britannico. Il generale Amherst inviò una missione ad occupare i porti francesi. Essa incontrò l’opposizione delle genti indigene. Un capo tribù ottawa, Pontiac, diventò il capo della resistenza.

Ricordiamo Pontiac mentre svolgeva l’ultimo intervento al Grande consiglio nel villaggio indiano sul fiume Ecorse, quando i capi convenuti in rappresentanza di tutte le tribù di pellerossa dalle più lontane regioni, sembravano galvanizzati dallo sguardo fiero, dall’espressione dura, dall’eloquio fiammeggiante, ma soprattutto dalla chiarezza organizzativa di questo guerriero dalla pelle scura, che gestiva e si comportava con la sicurezza di un uomo abituato al comando.

Dopo aver enunciato ai suoi fratelli i soprusi patiti s’era deciso a chiarire la ragione di quella convocazione che non era e non poteva essere un festival delle lamentazioni. Era di fronte a uomini valorosi che al rimpianto concedevano poco tempo.

Pontiac aveva riunito i capi delle tribù non per riempire le loro orecchie di parole vane ma per tratteggiare le linee essenziali di un piano che egli aveva maturato nel tempo e sul quale aveva riflettuto per due anni. In parole chiare e semplici, Pontiac proponeva un attacco simultaneo di tutte le tribù contro i forti inglesi nella regione dell’Ohio e dei Grandi laghi. L’intenzione era di distruggerli completamente e in modo definitivo. Espresso in questi termini, il progetto di Pontiac poteva avere i contorni vaghi e inconsistenti dell’utopia, la colorazione di un sogno in cui si sarebbe placato il desiderio di vendetta di un intero popolo, ma il guerriero metteva nell’esposizione del piano i complessi stratagemmi con cui dovevano essere aggredite le difese nemiche basando ogni attacco sulla sorpresa, suggerì tattiche per travolgere con il fuoco gli insediamenti inglesi con il favore delle fasi lunari in cui sarebbe cominciata la guerra di liberazione del territorio indiano.

I capi tribù presenti furono persuasi che il programma fosse ambizioso, ma erano altresì convinti che soltanto un uomo come Pontiac, con la sua intraprendenza avrebbe potuto trasformare questo mosaico di popoli e di tradizioni, queste tribù tanto diverse e spesso ostili fra loro, in una forza unitaria. La personalità di un capo carismatico assopì gli odi violenti, dissipò vecchi rancori e il suo piano venne accettato per acclamazione, senza discussioni, all’unanimità. Quel giorno gli indiani sciolsero il cerchio di guerra con la ferma intenzione di annientare i bianchi ad ovest dei Monti Allegani e trasformare questa catena e il corso del fiume Ohio nelle nuove frontiere del territorio indiano.





Nel finale della sua oratoria Pontiac aveva espresso tutta la sua passione e i convenuti tornarono ai loro villaggi spinti dal desiderio di tradurre in realtà il progetto di guerra del nuovo capo dei pellerossa.

Quello che accadde in seguito gli inglesi non l’avrebbero dimenticato mai più. La determinazione, la ferocia e la contemporaneità della reazione indiana furono tali che gli inglesi non riuscirono in un primo tempo neppure a rendersi conto di quanto stava accadendo.

Come sotto in un unico colpo caddero i forti di Michilimackinac, Sault Sante Marie, Green Bay, St. Joseph, Ouitenon, Miami, Sandusky, Presque Isle, Le Boeuf e Venango. Alcuni come Presque Isle furono conquistati d’assalto, altri come Michilimackinac con l’inganno.

A Michilimackinac, i Chippewa e i Sauk invitarono i soldati della guarnigione ad assistere ad una partita di lacrosse che consiste nel lanciare una palla servendosi di racchette dal lungo manico, uno sport in qualche modo precursore del tennis. Senza sospettare di nulla i soldati assistettero alla partita che si svolgeva fuori delle fortificazioni incoraggiando i contendenti. A un tratto, ad un segnale stabilito, la palla superò le mura del forte, gli indiani chiesero di riprenderla e i soldati trovarono del tutto naturale aprir loro le porte. Gli indigeni avevano usato la palla come un grimaldello, come un cavallo di Troia per entrare nel forte, furono centinaia di guerrieri a farlo e massacrarono quasi tutti i soldati della guarnigione. Sopravvissero all’assalto improvviso soltanto pochi militari e il comandante maggiore Etherington che furono fatti prigionieri.

Quasi tutte le guarnigioni del territorio subirono la stessa sorte: i soldati che non morivano in battaglia venivano poi torturati a morte. Il piccolo gruppo che presidiava il forte di Green Bay fu salvato da una circostanza curiosa che vale la pena raccontare. Abbiamo detto che il progetto di Pontiac fu approvato per acclamazione, ma al grande convegno non erano presenti i rappresentanti dei Sioux, un grande e ardimentoso popolo confinante con i territori degli irochesi. I Sioux avrebbero potuto mettere in campo fino a trentamila guerrieri. Gli inviati di Pontiac, il quale non avrebbe voluto perdere questo prezioso alleato, si recarono ripetutamente presso i maggiorenti di quella tribù per poter stringere un’alleanza. I Sioux furono irremovibili, per la semplice ragione che della coalizione facevano parte gli indiani Chippewa che erano loro irriducibili nemici. Non solo non si unirono all’alleanza ma inviarono un loro capo alla tribù degli indiani Menominee che vivevano presso il Green Bay, con un ordine perentorio: “proteggere la guarnigione inglese o i miei compagni sioux verranno sterminati”. Questo atto comportava essere al fianco degli inglesi ed era estremamente divisivo anche per future alleanze fra i nativi americani.

I Menominee rispettavano Pontiac ma sapevano di cos’erano capaci i Sioux, presero alla lettera l’imposizione ultimativa: promisero al tenente Gorel e ai suoi diciassette uomini di lasciare pacificamente il forte e assicurarono loro una scorta di novanta guerrieri che seguirono in canoa gli inglesi imbarcati su un battello più grande: in questo modo il gruppo di Gorel attraversò la baia.

Sulla riva venne avvistato un gruppo di Chippewa e i Menominee si prepararono alla battaglia decisi a combattere a favore degli inglesi, piuttosto che affrontare i Sioux. Per uno di quei casi che spesso non hanno spiegazioni, i Chippewa non attaccarono. Dopo aver attraversato il lago Michigan, inglesi e indiani sostarono in un villaggio ottawa, dove si trovavano il maggiore Etherington e otto dei suoi uomini sopravissuti al massacro del forte Michilimackinac. Si svolsero lunghe trattative tra il tenente Gorel e gli Ottawa e i prigionieri furono liberati dagli indiani. In seguito, inglesi ed indiani attraversarono il lago Huron, la Georgian Bay, si spinsero lungo il fiume French, raggiunsero il lago Nipissim, valicarono numerosi portages –tratti di terreno fra un corso d’acqua e l’altro che obbligavano al trasferimento a spalla delle canoe- e s’immisero nel fiume Ottawa che discesero fino a Montreal.

A parte questo episodio che pure ha un significato profondo nella logica e nella psicologia indiana, il quadro generale per la lotta di liberazione dei territori dei pellerossa, era tutto sommato confortante, sebbene Pontiac avesse conseguito vittorie strepitose soltanto nei confronti di obbiettivi relativamente modesti.

Un passo avanti significativo e forse decisivo sarebbe stato fatto soltanto mettendo fuori gioco i due punti strategici degli inglesi: Fort Detroit, che consentiva il controllo del traffico nel sistema dei Grandi Laghi e Fort Pitt, sorto sulle rovine di Fort Duquesne, che proteggeva la frontiera.

Pontiac preparò l’attacco a Fort Detroit, credeva di agire in gran segreto ma all’ultimo momento s’accorse di essere stato tradito e lo tradì proprio una ragazza chippewa appartenente ad una tribù nemica dei Sioux. Il piano era stato studiato minuziosamente ed il colpo di mano era stato fissato per il 7 maggio. La fanciulla era innamorata del maggiore Henry Gladwyn e dopo essersi chiesta se era più importante la sopravvivenza del suo popolo o quella del suo amante, decise per la seconda ipotesi e svelò il piano di Pontiac all’ufficiale: ad un’ora stabilita, il capo guerriero sarebbe entrato nel forte con sessanta uomini con il pretesto di barattare mercanzie, ma ognuno di essi avrebbe portato un fucile carico sotto le coperte.

Il maggiore Gladwyn che poteva guidare il gioco, si guardò bene dal chiudere le porte del forte, lasciò che i guerrieri entrassero e si assicurò che fossero sotto il tiro dei fucili inglesi. A Pontiac bastò un semplice sguardo per rendersi conto che il suo piano era fallito, fece un cenno e i suoi uomini si ritirarono mentr’egli restò a parlare e a fumare con il maggiore prima di seguirli.

Quando uscì, i guerrieri indiani aprirono un fuoco d’inferno contro il forte, che si prolungò incessantemente per sei ore e mentre tutti gli inglesi che vivevano nel piccolo villaggio attorno al forte venivano barbaramente massacrati, i franco-canadesi non subirono alcune molestie.

Il maggiore Campbell ed il tenente McDougal furono inviati dal comandante a parlamentare con Pontiac, che contro ogni regola li fece prigionieri e lasciò che in seguito Campbell fosse torturato a morte. Intanto una spedizione di soccorso era partita da Niagara; era guidata dal tenente Cuyler ed era composta da novantasei uomini che portavano viveri e munizioni alle barche. I soccoritori vennero intercettati presso la foce del Detroit dai Wyandots e solo due barche riuscirono a sfuggire all’agguato. Su una di esse si trovava il tenente Cuyler, che nonostante fosse ferito riuscì a raggiungere Fort Niagara.

I soccorsi veri e propri giunsero soltanto in luglio a bordo di una flottiglia di ventidue imbarcazioni cariche di cannoni, viveri e munizioni per duecentottanta uomini, fra i quali il famoso Robert Rogers e venti dei suoi rangers. Comandava la spedizione il capitano James Danzell che riuscì a risalire il Detroit grazie ad una fitta nebbia. Gli indiani erano in agguato e quando il vento ripristinò la visibilità aprirono il fuoco, ma ormai l’obbiettivo era vicino e i danni furono per gli inglesi ridotti al minimo, vi furono quindici fra morti e feriti.

All’arrivo dei rinforzi la guarnigione esultò e Danzell, dal canto suo, era ansioso di attaccare il campo di Pontiac, che il capo ottawa, con ostentata determinazione, aveva organizzato a sole tre miglia a nord del forte e sulla stessa riva del fiume. Si opponeva allo scontro diretto e immediato il maggiore Gladwin, comandante del forte, ma alla fine autorizzò il capitano ad agire.

Alle due del mattino del 31 luglio 1763, James Danzell si mosse con duecentocinquanta uomini. Quando a metà strada fra il campo indiano e il forte i soldati iniziarono l’attraversamento di un ponte sul torrente Parent, che a causa di quello che accadde avrebbe preso il nome di “Corsa Sanguinosa”, dal buio echeggiò il grido di guerra degli ottawa e una scarica di fucileria abbatté metà dell’avanguardia confederale. Terrorizzati per l’aggressione che non avevano saputo prevedere, i soldati superstiti corsero indietro inciampando sui morti e sui feriti ma trovarono Danzell con la spada in pugno e più che mai intenzionato a non retrocedere, raccolse le sue truppe, guidò una carica lungo il ponte ma gli ottawa, pur scomparendo dietro gli alberi e i cespugli continuavano a sparare con i fucili che gli avevano venduto a caro prezzo i coloni, i trafficanti d’armi ed anche le autorità della Confederazione.

Il giovane capitano comprese in quel momento la riluttanza del comandante del forte a concedergli l’autorizzazione a muoversi, ora capiva ma era troppo tardi.

Tentò di ritirarsi ordinatamente per non aggravare la situazione, si mise alla retroguardia, proteggendo il ritorno dei suoi uomini. Dalle fucilerie che provenivano dalle due parti del sentiero fu colpito due volte, poi mentre cercava di soccorrere un compagno ferito, un colpo lo uccise.

Questi alcuni episodi di quelle guerre per le conquiste di terre e territori. Logico chiedersi da quale parte stia la ragione. Da sempre le popolazioni si muovono nel mondo per trovare luoghi adatti alla sopravvivenza, da sempre si scontrano con chi quelle terre le abita: i conflitti sono enormi e sanguinosi. A fomentare questi conflitti, a trarne profitti e convenienze in genere erano le compagnie commerciali come tutt’ora, anche se è cambiato il nome delle industrie che producono materiale bellico e non bellico. Restano le atrocità e le disumanità perpetrate da una parte e dall’altra: è così quando vi sono le guerre, tutte le guerre, ed è per questo che dovrebbero essere evitate, visto che l’Uomo è provvisto di ragione: gli eventi succedutesi dopo gli anni di cui abbiamo parlato (il riferimento alle guerre del 21° secolo non vorrebbe essere casuale in questi giorni dell’aprile 2022) stanno a dimostrare che purtroppo, così non è ma noi continuiamo a sperare il contrario. Il Capo Pontiac fu poi ucciso in circostanze mai chiarite dopo i suoi tentativi di riavere almeno in parte le terre e le dignità sottratte ai suoi popoli da parte di invasori.

Il prossimo intervento vorremmo dedicarlo agli indiani Cheyenne, i quali con le genti irochesi ebbero a che fare perché da loro combattuti e sospinti ad emigrare dal nord verso il sud-est degli attuali Stati Uniti.

A cura di Enrico Pinotti

26 aprile 2022

I CONTI PUBBLICI E LE INCERTEZZE DELL’ECONOMIA Di Antonio Laurenzano

 


I CONTI PUBBLICI E LE INCERTEZZE DELL’ECONOMIA

Di Antonio Laurenzano

Conti pubblici, problema di sempre. Il Documento di economia e finanza (Def) approvato dal Parlamento ha aggiornato gli obiettivi di finanza pubblica e il relativo piano di rientro del saldo strutturale di Bilancio alla luce del mutato quadro macroeconomico caratterizzato dal rallentamento della crescita. Un documento che nell’aridità di numeri e tabelle ripropone per la prossima Legge di bilancio incertezze e vincoli di spesa sullo sfondo del peggioramento di ogni previsione economica. I prezzi dell’energia, l’acutizzarsi del conflitto in Ucraina con le sanzioni alla Russia, ma anche la nuova ondata della pandemia e l’incremento dell’inflazione al 6,7% sono i principali fattori critici. In tale scenario, la previsione tendenziale di crescita del prodotto interno lordo (Pil) per il 2022 scende dal 4,7% programmatico della Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (Nadef) dello scorso settembre al 2,9%, quella per il 2023 dal 2,8% al 2,3%. Una perdita di prodotto stimata nel biennio pari a 40 miliardi di euro. Confermati gli obiettivi per il disavanzo contenuti nella Nadef: il 5,6% nel 2022, in discesa fino al 2,8% nel 2025.

Il via libera al Def apre la strada a misure espansive dell’economia con aiuti a favore di famiglie e imprese per circa 6 miliardi di euro. In particolare, contrasto al caro-energia e al costo del carburante, potenziamento del bonus sociale contro la povertà, sostegno a favore di lavoratori giovani e donne. Per effetto di questi interventi, la crescita programmatica, secondo le stime (ottimistiche) del Mef, sarà più elevata di quella tendenziale, raggiungendo il 3,1% per fine anno con riflessi positivi sull’andamento dell’occupazione. Per far fronte a tutte queste esigenze di carattere socio-economico, il Parlamento ha impegnato il Governo a valutare un nuovo “scostamento di bilancio, qualora si verifichi un peggioramento dello scenario economico e le risorse disponibili non fossero sufficienti a garantire misure per la promozione di una crescita economica più elevata e sostenibile”. Una scorciatoia pericolosa: aumento del deficit, e quindi del debito pubblico, significa dovere spendere di più per pagare gli interessi al mercato finanziario che, nel tempo, potrebbe essere meno disponibile a prestarci soldi se non a prezzi (tassi d’interesse) più alti. In prospettiva, sarebbe più razionale imboccare senza compromessi politici la strada della revisione della spesa pubblica: quest’anno spenderemo oltre 900 miliardi di euro. Una efficace “spending review”, con tagli agli sprechi, alle ruberie, alle malversazioni, al di là di ogni sterile e demagogica difesa di bandierine di partito, darebbe credibilità alla manovra delineata dal Governo per la graduale riduzione del debito (150,8% nel 2022), nonostante le maggiori uscite per interessi sui titoli di Stato generate dall’aumento dell’inflazione.

Perplessità da parte della Corte dei Conti nella valutazione della manovra, “esposta a ulteriori e considerevoli rischi”, a causa delle incertezze legate a ragioni geopolitiche che hanno accentuato le tensioni già esistenti sui prezzi dei beni energetici e di molte materie prime e che incidono in particolare sulle economie europee, ancora impegnate in un difficile recupero degli squilibri indotti dalla pandemia. Crescita tendenziale sovrastimata. Se rischi e timori si dovessero materializzare, richiederebbero un’appropriata ricalibratura delle scelte di bilancio con adeguate misure di sostegno (interventi selettivi) ma anche di consolidamento della finanza pubblica per il mantenimento dei relativi equilibri. Il quadro economico- finanziario infatti potrebbe peggiorare con un livello del tasso di rendimento dei BTP a 10 anni più alto di 100 punti base e un accesso al credito più difficile per effetto dell’aumento dello spread. Obiettivi futuri dell’economia tutti da ridisegnare per armonizzarli con i processi a livello comunitario.

L’eccesso di ottimismo rilevato dai giudici contabili nel Def per la previsione di crescita del Pil, e condiviso da Bankitalia e dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb), ripropone il problema di fondo: il contenimento degli effetti economici collegati alla pandemia e alla guerra in Ucraina. L’iter politico-economico verso la manovra d’autunno appare tutta in salita. E non incoraggiano di certo le analisi del Fmi che per le maggiori economie europee (Francia, Germania Regno Unito e Italia) prevedono, nella prima parte del 2022, crescita piatta, se non addirittura recessione. Ma per l’Italia, secondo l’agenzia di rating S&P, potrebbe registrarsi una inversione di tendenza grazie alle riforme pro-crescita che il Governo italiano punta a finalizzare entro la fine di giugno nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Queste riforme, dalla giustizia agli appalti pubblici e della concorrenza, dalla burocrazia al fisco, sbloccheranno gli afflussi dei fondi europei Next Generation EU per finanziare gli investimenti nelle energie rinnovabili e rilanciare l’economia.

Una sfida da vincere. E’ l’ora di scelte unitarie responsabili, non dell’avventurismo elettorale. La fragilità del Paese rischia di tradursi in instabilità fuori controllo in presenza di una programmazione economica e finanziaria non sostenibile. I mercati finanziari non perdonano.

“CAREZZE” BIANCA BEGHIN a cura di Maria Marchese

 


CAREZZE” BIANCA BEGHIN a cura di Maria Marchese

L’elemento più delicato sarà il primo a cadere. “

Arthur Bloch, “Corollario di Klipstein alla Legge della gravità selettiva” , La legge di Murphy, 1977

Nell’opera “CAREZZE” , Bianca Beghin annichila l'ineluttabilità: l'autrice solleva, dai “doveri quotidiani” , l’esistenza, polverizzando la scontentezza.

Raccoglie, indi, dalla sua memoria, un suolo caro, evanescente, che involve e la storia di una terra e la storia dei sandali, che l'hanno amata; linee curviformi e frugali caratterizzano quello spazio di tutti, coronato da sorgivi raggi.

L’autrice veneta, però, lo rende, poi, un privilegiato loco natìo, da cui gemmano, come carezzevoli pensieri, due levità.



Lo smeraldino riserbo, infatti, muta, oppure gemma, in una diade di umane e delicate pienezze, che si flettono, leggermente, sovrapponendosi; esse celebrano, così, un gesto di appartenenza, di crescita e protezione.

La pittrice imporpora il verde manto originario, dapprima, di passione e riflessioni, e esso digrada, allora, in una violacea presenza, che vibra al richiamo del corpo e dell’anima. Questa si abbandona, indi, volgendo in odorosa di alba, nella verità del proprio altre ego.

Bianca Beghin li ricongiunge, alfine, al cosmo universale, preservandone, invero, la vita.

La fragilità, che, secondo Bloch, decreta, normalmente, la fine, diventa, tra le mani di Bianca Beghin, fermezza inviolabile.

L’opera rappresenta un elogio visivo alla follia, laddove quest’ultima diviene verità: l’autrice veneta fugge, così, dall’ovvietà, per ricamare una grazia eterna.

Il pennello sorrade la grevità del suolo, naturalmente, preservandone l'odorosa rudezza, ‘sì che la significanza di quel ricordo rimanga incontaminata. L’opera è presente, assieme a “CATARSI” , alla collettiva spagnola “FRAMMENTI DELL’IO” , inaugurata il 27 Gennaio 2022, presso Quo Immobiliaria, nella città di Alicante. La parte organizzativa e quella curatoriale dell’evento sono state seguite dallo storico dell’arte Valeriano Venneri e dalla poetessa e curatrice comasca Maria Marchese.


25 aprile 2022

Fotografia costruttiva a cura di Miriam Ballerini


 
FOTOGRAFIA COSTRUTTIVA


Ieri ho visitato Busto Bricks, una mostra molto particolare aperta il 23 e il 24 aprile a Busto Arsizio (VA), presso il museo del tessile.

Ricordate i mattoncini della Lego con cui giocavamo da piccoli? Ecco, loro sono i veri protagonisti di questo genere di manifestazioni.

Oltre alla mostra di giochi, trenini, automobili, ecc. costruiti coi famosi mattoncini e corredati dai loro protagonisti gialli, sono rimasta colpita dalla mostra fotografica.                                                                                                                             La mostra è stata allestita dal gruppo “Fotografia costruttiva”, dove il connubio “passione per i Lego e per la fotografia” ha trovato un modo di sposarsi. Ho conosciuto Daniele e Alessio Varisco, due fratelli dai quali è partita tutta questa passione che, al momento, ha raccolto l'adesione di oltre 7000 iscritti e che ha una particolarità che è bene sottolineare: è una passione che unisce sia i bambini che gli adulti.

Ma di cosa si tratta? Il campo di gioco è ogni occasione possibile dove piazzare i propri protagonisti, cioè i Lego, con sullo sfondo l'ambiente, una stanza, una situazione, uno sport, ecc. L'importante è che i personaggi scelti si adattino al contesto. La tecnica usata per costruire l'immagine è lo still-life, oppure si usa la contestualizzazione in ambienti reali. Il progetto è nato il 1 gennaio del 2017.

Ho chiesto loro quali siano i mezzi da utilizzare e, anche in questo caso, la risposta è stata che non vi è un limite: si possono utilizzare dai cellulari alle macchine fotografiche  reflex.



Pertanto è una passione veramente aperta a tutti, e che ha ottenuto l'avvallo dal marchio ufficiale Lego. Qualche esempio? Uno squalo con omino accanto alle onde del mare, o un omino elefante con posata sulla mano una farfalla (unico scatto foto montato!). O ancora … un'automobile con sullo sfondo una villa antica... ogni foto frutto di una particolare fantasia.

Ne volete sapere di più?

Ecco dove raccogliere altre info, iscrivervi, oppure dare una sbirciata a queste fotografie diverse dal solito!

www.fotografiacostruttiva.com

Potete seguirli anche su facebook e instagram.


© Miriam Ballerini

Nella foto Daniele Varisco e Alessandro Milani



Àlvaro Mutis - Trittico di mare e di terra – a cura di Marcello Sgarbi


 Àlvaro Mutis - Trittico di mare e di terra(Einaudi)

Collana: I coralli

Pagine: 176

Formato: Brossura

EAN: 9788806144098

Quando penso a Mutis non posso fare a meno di ricordare due figure molto apparentate al personaggio di Maqroll il gabbiere, protagonista delle tre storie raccolte nel romanzo: la prima è quella del veneto Hugo Pratt, maestro del fumetto creatore di un marinaio avventuriero come Corto Maltese e lui stesso amante dei viaggi in mare, tanto da avere posseduto una barca insieme a Milo Manara, altro grande fumettista. La seconda è quella di Fabrizio De André e la sua “Smisurata preghiera”, ispirata proprio alle vicende di Maqroll, legate all’amicizia, alla vita e alla morte. Tre racconti, tre esistenze, tre diversi percorsi del destino. C’è la struggente e malinconica ballata di addio al mondo di Sverre Jensen, pescatore amico del gabbiere. L’incontro con il pittore Alejandro Obregòn, capace di osservare il lato nascosto della realtà per trarne insegnamento. E infine i giorni trascorsi con Jamil, figlio di Abdul Bashur, un caro compagno di navigazione di Maqroll. Dedicato a chi non si pone limiti e a chi cerca la sua rotta.

Il mare è la cosa più importante che ci sia al mondo. Bisogna saperlo vedere, seguire i suoi cambiamenti d’umore, ascoltarlo, annusarlo. Sa perché? Per una ragione molto semplice che tutti credono di conoscere e che non riescono mai a capire fino in fondo: perché lì è nata la vita, da lì siamo venuti e una parte di noi rimarrà sempre sommersa laggiù tra le alghe e le profondità nelle tenebre”.

Richiamò particolarmente la mia attenzione il volto espressivo del parroco, con le spesse ciglia scure, la bocca dalle labbra delicate, sempre con il sorriso spontaneo e ironico di chi ormai ha vissuto a sufficienza per dare importanza solo all’essenziale e lasciare da parte l’indulgenza per le miserie dei propri simili. Gli occhi scuri e sempre attenti, aperti di fronte all’interlocutore, denunciavano da lontano l’origine saracena degli abitanti dell’isola”.

L’unico ordine – mi disse in quell’occasione – in cui possiamo confidare, l’unico sicuro e definitivo, è quello della morte. Questo lo capiamo tutti, ormai lo so. Ma l’astuzia consiste nel continuare a vivere e nel cercare di non avere relazioni troppo strette con lei. Quando la morte invita bisogna voltarle le spalle. Non per paura, naturalmente, ma con la certezza che non è interessata a noi ma alle nostre povere ossa, alla nostra carne con cui alimenta le sue legioni”.


© Marcello Sgarbi

22 aprile 2022

JACK LO SQUARTATORE – UN DEMONIO A WHITECHAPEL – a cura di Miriam Ballerini


 
JACK LO SQUARTATORE – UN DEMONIO A WHITECHAPEL – Tutta la sua esistenza aveva acquistato un senso da quando aveva scoperto il suo enorme potere- testi di Sergi Rodriguez Ibarra

© 2022 EMSE Italia

Questo saggio appartiene a una collana da poco pubblicata da EMSE dal titolo conduttore “I volti del male”. Per saperne di più potete trovare tutte le informazioni su https://www.ivoltidelmale.it

Jack lo squartatore è stato il primo serial killer dell'epoca moderna e, nel 1888, nell'Inghilterra vittoriana, fece molto parlare di sé, per poi scomparire senza lasciare traccia. In questo libro si parla di lui, delle sue vittime, del suo modo di agire; evitando di speculare sul nome che ancora non è stato consegnato alla storia, ma elencando chi, negli anni, anche postumi, sia entrato nella rosa dei sospettati.

Tutti sappiamo che uccise cinque donne. In realtà, in quel periodo, vennero trovate ben undici vittime. Il celebre detective e criminologo Robert Keppel (colui che aiutò ad arrestare Ted Bundy), assieme ad altri colleghi ha svolto un'indagine, studiando la scena del crimine, giungendo alla conclusione che, le vittime attribuibili a Jack, possano essere sei.

In questo breve saggio troviamo l'introduzione, dove si ricostruisce una notte in cui Jack ha colpito e cosa possa avere sentito. Ne “L'inizio del terrore”, si descrivono i primi omicidi. Particolare che, quale spazio fra un periodo e l'altro venga utilizzato il disegno di un coltello da cui cola una goccia di sangue.

“Nasce Jack” è il momento in cui, lo stesso assassino, comincia a scrivere alla polizia, presentandosi, vantandosi della sua opera. Lui stesso, dopo che la stampa lo aveva soprannominato “Grembiule di cuoio”, si affibbia il nome con cui ancora oggi è noto: Jack lo squartatore. In una lettera spedita alla Central News Agency di Londra, scrive: “Non sopporto un certo tipo di donne, e non cesserò di squartarle finché non le avrò eliminate tutte”.

“Il doppio caso” quando, nella stessa notte, vennero uccise due prostitute.

“Orrore a Miller's court” l'ultimo delitto attribuito a Jack, quando arriva alla distruzione totale del corpo di Mary Jane Kelly.

“I soliti (più o meno) sospetti”, è l'elenco di tutti i nomi su cui, all'epoca, si è indagato.

“Epilogo una leggenda avvolta nel mistero” i sospettati che, negli anni, sono stati presentati alla stampa. Ad esempio in “Ritratto di un assassino” di Patricia Cornwell si accusa il pittore Walter Sickert.

In fondo al libro troviamo il profilo psicologico scritto da Vicente Garrido: “Io vedo Jack come una persona che commette i suoi delitti per pura e semplice opportunità”.

Ancora oggi Jack resta un mistero che, ritengo, nessuno riuscirà a svelare. Si sono tentate, con le nuove tecniche di investigazione che ora si hanno a disposizione, a cercare tracce di dna e altre prove. Ma possiamo capire quanto tutto questo sia davvero difficile data la quantità di anni trascorsi. Forse è meglio che così rimanga: un mostro avvolto nel mistero che, solo le sue vittime, hanno conosciuto nel momento peggiore della loro vita.

Vittime che, in questo saggio, vengono raccontate per quanto si sia appreso allora, nonostante la vita defilata che conducevano. Molte di loro, infatti, raccontavano bugie, per nascondere quanto era accaduto in precedenza nella loro miserabile vita. Tutte vivevano di espedienti, prostituendosi. Erano alcolizzate e, tutte, avevano alle spalle relazioni fallite con uomini più o meno violenti. Pare quasi fossero state incanalate a tutti i costi verso la strada che le avrebbe condotte a quella morte violenta.

Triste che la storia abbia fatto della loro misera vita, una vita, solo nel momento in cui sono diventate vittime senza giustizia, nell'attimo in cui il sangue e lo squartamento le ha lasciate fredde e finite in mezzo a una strada.


© Miriam Ballerini

fonte: "Jack lo squartatore" di Sergi Rodríguez Ibarra: un demonio a Whitechapel - OUBLIETTE MAGAZINE

19 aprile 2022

DIZIONARIO DEI TERMINI DIALETTALI DI ARZENGIO a cura di Miriam Ballerini

 


DIZIONARIO DEI TERMINI DIALETTALI DI ARZENGIO

Enrico Pinotti e Giancarlo Bianchi si sono messi d'impegno in una impresa non da poco: scrivere un dizionario, traducendolo dall'italiano al dialetto del loro paese: Arzengio, in provincia di Pontremoli. Entrambi hanno lasciato la loro terra giovani, ma questo loro lavoro ci fa notare che le loro radici sono rimaste ben salde nel luogo di nascita.                                                                                         Ma perché impegnarsi in un lavoro così titanico? Oltretutto mai finito, ma sempre bisognoso di aggiornamenti? Il giorno in cui ci siamo accorti che alcune parole per definire questo o quell'oggetto non ci venivano più in mente”. Ecco da dove è partita l'idea di mettere su carta il loro sapere: fin da piccoli hanno sempre parlato dialetto e, i giovani di adesso, forse nemmeno lo conoscono più.                             Per evitare che andasse perso un patrimonio culturale e linguistico, soprattutto dedicato alla vita agricola e del lavoro, hanno pensato di scrivere questo dizionario.                                                                         Certo, prevalentemente interessa i luoghi dove questo dialetto lo si parla o lo si è parlato; ma potrebbe essere anche di interesse a chi si dedica ai dialetti, alla storia, alle origini varie del nostro bel paese.        Prossimamente, probabilmente in estate, il volume verrà presentato a Pontremoli, ma per chi fosse interessato può direttamente parlarne con gli autori. Qui di seguito il recapito di uno di loro: Enrico Pinotti 347-9927283.

© Miriam Ballerini

15 aprile 2022

Alessia Mocci intervista Teresa Stringa: ecco la silloge poetica Pensieri

 


Alessia Mocci intervista Teresa Stringa: ecco la silloge poetica Pensieri


Quel tempo furioso/ mi vide distratta./ Il futuro era solo un profumo,/ e fremeva la vita/ che il mio sguardo/ non poteva fermare./ Poi arrivò lei/ impetuosa avversaria,/ schiacciava il volere/ e ogni azione fermò./ Così, dall’anima nuda/ ogni cosa riappare:/ tutti i miei ieri ritornano veri:/ sono inerme e sorpresa/ dello sbadato vissuto./ […]” – dalla lirica “Risveglio”

Pensieri” è una raccolta poetica edita nel 2021 dalla casa editrice Tomarchio Editore.

L’autrice, Teresa Stringa, è nata nel 1960 e fin da piccola, sia per dote innata sia per influsso degli amati genitori (il padre pittore e la madre amante della poesia e delle lettere), ha manifestato attitudini di estrema sensibilità nella scrittura in ogni sua forma. Apprezzare la bellezza divenne uno stile di vita che ha portato avanti nonostante gli studi tecnici.

Pensieri” è frutto di riflessioni sul buono della vita ma anche su quelle situazioni difficili a cui siamo chiamati a rispondere: una malattia improvvisa che ostacola il futuro immaginato, la morte di una persona amata che trafigge di dolore le giornate.

Il ricordo interviene per sanare la perdita come ringraziamento di ciò che si è potuto vivere. Così la poesia, come la memoria di un pomeriggio d’estate, elude spazio e tempo e trasporta tutti i suoi amanti altrove.

[…] Lo specchio di oggi/ ogni cosa rivela:/ i capelli di cenere/ e la bocca già triste./ Eppur mi stupisce/ l’improvviso risveglio/ sul finir della strada/ che a lungo/ m’ha visto sfilare” – dalla lirica “Risveglio”


A.M.: Cara Teresa sono lieta di poter presentare ai lettori di Oubliette Magazine la tua nuova pubblicazione intitolata “Pensieri”. Qual è il primo ricordo che hai della tua inclinazione verso la poesia?

Teresa Stringa: Alessia ti ringrazio e sono piacevolmente lusingata per questa intervista. Dunque, iniziamo. Fin da bambina ho respirato arte, mio padre Ugo è stato uno stimato pittore, un artista puro; mia madre Augusta amava la poesia, la leggeva e la scriveva, ma anche quando conversava esprimeva la sua dolce indole.

Già alla scuola elementare capirono che non avevo acquisito doti pittoriche ma, per non dispiacere papà, mi davano lo stesso la votazione minima! Avevo invece attitudine alla scrittura, la scoperta della poesia avvenne molto presto e la mamma mi abituò a “fermare” i versi, scrivendoli. Così, diceva, le emozioni diverranno immortali!


A.M.: Ci racconti come è nata l’idea di questa raccolta poetica?

Teresa Stringa: L’idea della raccolta poetica nasce dalla necessità di riassumere emozioni, appunto: “Pensieri, Subbugli, Coccole” in una unica pubblicazione che potesse rimanere nel tempo e nella memoria tangibile di chi mi vuole bene. Ho suddiviso la raccolta in tre settori poiché il Cielo ha voluto che, malgrado la malattia, io potessi cogliere consapevolmente sì le situazioni “ostiche” (Subbugli), ma anche il buono della vita (Pensieri e Coccole).


A.M.: Nella copertina del libro troviamo il dipinto “Sapore d’estate 1979” dell’artista Ugo Stringa. Vuoi condividere con noi un aneddoto riguardante il soggetto dell’opera?

Teresa Stringa: “Sapore d’estate” rappresenta per me l’emozione legata a un ricordo indelebile, che voglio condividere con voi.

Giugno era giunto alla fine, io mi ero inoltrata nel parco secolare nel quale era immersa la nostra grande e storica casa (nata nel 1200 come fortezza di difesa, e trasformata in villa dai conti Tadini nel 1500, per poi, dal 1800 passare di mano in mano a svariati proprietari, diventando, nel 1970, la dimora della nostra famiglia: papà pittore, mamma dolce e “titolista”, e noi figli, eccitati e curiosi), dopo aver raccolto succose e dolci ciliegie dall’albero dei duroni, ritornai verso lo scalone centrale posto a sud della casa. Mentre mi avvicinavo vidi papà e mamma chiacchierare serenamente, come erano soliti fare nei pomeriggi estivi. Li salutai, papà mi venne incontro e, con un sorriso che rapiva, prese dalle mie mani gelose tre ciliegie e poi, con una espressione di urgenza ispiratoria, sparì!

Noi eravamo abituate a queste sue “urgenze”, e a nessuno sarebbe mai venuto in mente di distoglierlo. Aspettammo un paio d’ore, quando tornò, appoggiò l’opera appena creata, su una sedia bianca, in ferro battuto, ce la mostrò (ero io con i duroni!) e disse: “Cosa ne dite eh, che sapore d’estate…!” Mamma annuì con un sorriso di approvazione e dolcemente gli disse che, secondo lei, dati i miei capelli-spaghetti, mancava qualcosa sulla testa. Papà capì subito, non disse nulla ma sparì di nuovo per raggiungere lo studio grande al piano superiore, che odorava di colori a olio e acquaragia. Non passò neanche mezz’ora che ricomparve: sulla mia testa, prima disadorna, aveva dipinto un adorabile cappellino rosso!


A.M.: La prima lirica che si incontra è intitolata “Meteora”: “L'Umanità?/ Una moltitudine di solitudini/ che brulicano nel mondo/ convulso e saturo./ Uno sciame fluente/ con un puntino/ luminoso, e un po’ ribelle,/ qua e là fuor di scia/ che talvolta lascia/ di sé/ una soave nota di gloria/ nell’immensità della Storia”. Perché hai deciso di iniziare con una domanda così rapida e complessa?

Teresa Stringa: Vedo l’intera Umanità, noi, come uno sciame caotico e velocissimo che non può e non vuole fermarsi. Ma talvolta, qualche talento artistico, scientifico… riesce a fermare l’incessante fluire, consegnando alla Storia, con la sua opera, un confortante sentore di eternità.


A.M.: La seconda parte “Subbugli” vede come incipit la lirica “Opulenta ingordigia” che recita: “C’è chi, in malafede/ carpisce la generosità/ dei buoni./ La grossa pancia piena/ non è mai sazia:/ arraffare, arraffare/ senza fine,/ parola d’ordine/ di occhi torvi e finti./ […]” Perché se i buoni sanno dell’esistenza di questa grossa pancia mai sazia continuano a compiere del bene?

Teresa Stringa: Il far del bene è una propensione individuale, essa si esprime “a prescindere”, a volte però chi lo riceve lo ingoia con ingordigia, pur sapendo di non meritarlo, ma non si sazia mai ed escogita strategie, a volte strategie balorde, per poter divorare il più possibile dalla sua vittima buona che, non per questo, perderà il vizio di far del bene, poiché lo ritiene un valore umano e morale, sempre e comunque arricchente.


A.M.: “Pensieri” termina con un “Discreto Commiato” grazie alla lirica “Viaggio Caduto” nella quale si legge: “Nella Farsa della vita/ ogni attore/ ricerca affannosamente,/ e un po' smarrito,/ il proprio ruolo./ Allorché lo trova:/ s'illude, si rode, s'allieta/ recita/ governato dall'incauta/ illusione di eternità./ […]” Perché il poeta è quell’attore che pur sapendo della farsa continua la ricerca verso l’eternità?

Teresa Stringa: Il Viaggio caduco è la vita stessa, essa ci racconta ogni tipo di emozione, e noi, soprattutto negli anni di massima energia, ci illudiamo che la farsa non avrà fine (l’eternità delle emozioni). Ma quando arriva l’imbrunire della vita, certe illusioni cambiano forma, la natura stessa ci indica quale sarà il percorso, trascinandoci verso un sipario che inevitabilmente si chiuderà.


A.M.: Recentemente “Pensieri” è stato inserito in alcuni contest letterari come premio ai vincitori ed alle vincitrici. Ti è piaciuta come esperienza?

Teresa Stringa: La recente esperienza del Contest letterario, ove ha trovato posto Pensieri, come premio ai/alle vincitori/vincitrici, mi ha consentito di condividere e assaporare molte emozioni e di entrare nell’intimo sensibile delle parole. Ritengo che ricevere in premio un volume di poesie, sia un buon omaggio alla poetica individuale, profonda e accurata.


A.M.: Come ti trovi con la casa editrice Tomarchio Editore? La consiglieresti?

Teresa Stringa: Nella casa editrice Tomarchio Editore ho trovato una accoglienza attenta e amichevole. L’attenzione alla persona, da parte tua e dell’editore Rosario Tomarchio, ha rafforzato la mia stima. Inoltre, competenza e serietà sono state presenza costante e ora irrinunciabili. La consiglio vivamente!


A.M.: Salutiamoci con una citazione…

Teresa Stringa: Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole. Ed è subito sera” (Salvatore Quasimodo)


A.M.: Teresa, ogni nostra conversazione mi procura nuove riflessioni sulle tematiche che spesso mi attraversano la mente. Concordo pienamente con quanto hai espresso sull’ingordigia di alcune persone che non vogliono (o non riescono ad) entrare a far parte di una società che tende al bene. Ti saluto citando l’ultima quartina della lirica “Cantato a piè delle Alpi” del poeta tedesco Friedrich Hölderlin: “Ma ama restare nella casa, chi in fedele/ Petto serba il divino, e libero voglio, finché mi sarà/ Concesso, voi tutte, o lingue del cielo!/ Intendere e cantare.”


Written by Alessia Mocci


Info

Acquista “Pensieri” di Teresa Stringa

https://www.tomarchioeditore.it/2021/08/04/pensieri-teresa-stringa/

Fonte

https://oubliettemagazine.com/2022/01/29/intervista-di-alessia-mocci-a-teresa-stringa-vi-presentiamo-la-raccolta-poetica-pensieri/


ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano Addio al “Patto di stu...