22 maggio 2017

Recensione de "Il nonno" di Marco Passeri a cura di Vincenzo Capodiferro

IL NONNO
Romanzo squisitamente autobiografico e introspettivo di Marco Passeri

Marco Passeri è nato a Milano nel 1964. Ha pubblicato con l’editore Bietti, oltre a “Il contratto di affitto” (2011), “I quindici” (2013). “Il nonno” esce sempre con l’editore Bietti di Milano nel 2016. Questo romanzo autobiografico ed introspettivo rivela «l’alchimia dell’incontro tra due generazioni, in un silenzioso passaggio di testimonio che ripete, di volta in volta, il prodigio di una crescita». Come scrive Umberto Lucarelli nella prefazione: «I genitori portano “l’io narrante” dal nonno all’età di sei anni e lo lasciano lì in una domenica sera di fine agosto o di inizio settembre. Il nonno si occupa del bambino, gli compra la cartella e lo accompagna a scuola in prima elementare. È un tipo stravagante il nonno, legge il Corriere della Sera, si veste bene, è loquace con le cameriere …. Il nonno è padre e madre a un tempo, fratello e amico …. Ogni autore deve qualcosa ad un altro autore, uno scritto a un altro scritto. Il nonno di Marco Passeri deve qualcosa al nonno di Thomas Bernhard». Il ragazzo sta dal nonno dall’età di sei anni fino alla fine della leva militare. È un periodo lungo ed intenso. Ma ciò che si intravede trasparendo in questo romanzo auto-bio-grafico è l’affascinante e misteriosa cornice degli anni Settanta, come sottolinea sempre il Lucarelli: «Dopo la pubblicazione de Il contratto d’affitto e I quindici l’autore torna a parlarci degli anni settanta, che qui sono più una cornice, sono sullo sfondo». La “settantanità” costituisce un groviglio di anni forieri di grande abbaglio ed arroventato fulgore … anni di inaudita libertà esistenziale … anni di lotte e di passioni mai vinte … anni in cui i giovani erano protagonisti, vivevano di politica, di ideali. Era una generazione di sanguigni, non una di flemmatici come i giovani d’oggi. È difficile dimenticare quegli anni. Umberto Lucarelli lo sa benissimo, perché nelle sue opere si riflette lo stesso senso. Il giovane Marco viene affidato al nonno dai suoi genitori non si sa perché e per tutto quel tempo! Marco non lo chiama mai per nome. Compare sempre questa figura del “nonno”, quasi come un archetipo junghiano. Lo descrive come un uomo «indaffaratissimo»: «telefonava in continuazione. Ogni tanto usciva e chiamava la vicina di casa a farmi compagnia. Non ricordo il suo volto né la sua voce». Attenzione a quel “non ricordo”: è un tema ricorrente in tutto “Il nonno”. Il linguaggio è veramente singolare, infantile, ripetitivo, impersona la figura del ragazzo. Abbiamo degli esempi: «Credo fosse il Venerdì Santo, il venerdì che precede la Pasqua, dell’anno in cui frequentavo la quarta elementare, poteva essere Venerdì Santo, il venerdì che precede la Pasqua, dell’anno in cui frequentavo la quarta elementare, etc.». «Credo avessimo appena iniziato a giocare, avevamo appena iniziato a giocare, non aveva ancora segnato nessuno, non si era verificato ancora nessun episodio significativo». Il racconto si staglia in un contesto psicologico fondato su residui mnestici ed aggregati percettivi. Proprio in questo lavorio di anamnesi narrativa emergono i ricordi storici, come ad esempio il rapimento Moro: «Forse ci aveva detto che un’organizzazione armata aveva rapito uno statista del partito che governava il paese da trent’anni …». E poi spesso si ripete l’espressione: «credo di ricordare». Con questo linguaggio introspettivo, analitico, il giovane Marco si confronta in un decennio e più con la figura emblematica del nonno anonimo. Il nonno rappresenta la voce della coscienza superegotica. Nel processo edipico questa forte coscienza morale è data dalle figure genitoriali. Nel romanzo del Passeri, invece, prevale questa unica figura centrale. È inutile segnalare, tra l’altro, la grande attualità che si mette in gioco. Oggi più che mai i nonni presiedono alla crescita dei nipoti. Oggi che le famiglie sono sfasciate, forse più che mai le figure dei nonni costituiscono i fondamenti della personalità più che quelle dei genitori. Se Freud risorgesse oggi si metterebbe mani ai capelli! Anche perché se spesso tra generazioni si consuma conflittualità, tra generazioni di generazioni, invece, è facile segnarsi quell’”alchimia” di cui dicevamo. Il nonno segue la crescita di Marco, anche nei momenti più difficili, come quando il giovane viene espulso dalla scuola, allorché lo porta a mangiare fuori ed esprime un «commento favorevole a riguardo». Ciò avviene perché anche il nonno è un ribelle come lui: è un “sessantottino” nato. La cosa commovente è che questa figura emblematica dell’austero vate ricompare alla fine del racconto, quando il giovane “reduce” dall’esperienza militare cerca il nonno: «Dov’è il nonno, credo di averle chiesto, dov’è, credo di averle ripetuto, dov’è, dovevo averle chiesto ancora e ancora,» rivolgendosi all’infermiera, «dov’è, dov’è, dov’è …». E poi … i nonni muoiono e l’effetto traumatico è strabiliante: «Non ricordo, ma credo di essere rimasto in quella posizione, con la fronte appoggiata alla scrivania del nonno, al buio, per giorni e giorni. Credo di ricordare che il nonno non fosse tornato più, mai più». Il trauma della perdita è anche alla base della rimozione. Come in Svevo – facendo riferimento in particolare a “La coscienza di Zeno” – “Il nonno” raffigura un racconto psicologico. La trama dominante è restituita dall’esplorazione dell’inconscio. Tutto il discorso si decompone in un dialogo ellittico del “bambino” – il “fanciullino” pascoliano ed anche nietzschiano – ed il nonno. Il ricordo si perde lontano in un paesaggio quasi leopardiano “vago ed indefinito” che si perde nella prospettiva maestosa del tempo degli anni settanta, la “settantanità”, dal 1968 circa al 1977, un decennio di Rivoluzione vera. Da allora non si respira più quest’aria. Eppure siamo figli del Sessantotto, pur senza volerlo. Milano vide in questo particolare frangente un periodo intenso, forte. Il giovane Marco riflette questa aria che si respirava. La coscienza individuale emerge nella relazione con l’avo e questa si intreccia nel contesto superconscio dei mitici anni Settanta. La rimembranza della fanciullezza tende la mano tesa a quella della vecchiaia: le due età che si collimano. La prima e la terza età sono molto simili: si vive l’emarginazione dall’”adulterità” dell’età adulta adultera. C’è una forte denuncia del mondo degli adulti. C’è il dramma dell’abbandono che trova la sua presa nell’abbraccio del nonno. È un romanzo certamente che fa riflettere molto. La narrativa del Passeri è fortemente simbolica, psicostorica, ontogenetica e filogenetica.


Vincenzo Capodiferro

Presentazione libro a Muggiò (MB)


16 maggio 2017

MACRON E LA RIFORMA DELL’ EUROZONA di Antonio Laurenzano

MACRON E LA RIFORMA DELL’ EUROZONA

di Antonio Laurenzano


Il mondo e l’Europa hanno bisogno di una Francia forte, rilanceremo l’Unione europea”. Con questa solenne dichiarazione si è insediato all’Eliseo Emmanuel Macron. A Parigi lanciata la sfida per salvare l’Europa e dissolvere il diffuso disagio sociale, causa di un antieuropeismo alimentato da spinte nazionaliste. Costruire cioè un’Europa credibile sul piano socio-politico e competitiva su quello economico, un obiettivo ambizioso condizionato da una diversa architettura istituzionale e dal modello di crescita che si vuole sviluppare. E Macron intende rafforzare l’Europa intervenendo sull’Eurozona con la proposta di un bilancio comune e un ministro delle Finanze europeo, nell’ottica di una Unione non più sbilanciata nei rapporti di forza interni, meno esposta al rischio di altre scissioni, sulla scia di Brexit.
La recente intervista rilasciata a Repubblica dal Ministro delle Finanze tedesco Wolfang Schauble, in sintonia con il neo presidente francese rivela con chiarezza la visione di prospettiva sul futuro dell’area euro. La priorità dell’Eurozona, secondo Schauble, è quella di raggiungere “una convergenza adeguata delle politiche economiche e finanziarie”, realizzando nei Paesi in difficoltà le riforme necessarie e migliorando la competitività. Per promuovere un tale salto di qualità e garantire un equilibrato sviluppo economico all’interno dell’Unione, la strada da percorrere è quella che porta alla istituzione di un ministro europeo con possibilità di intervento diretto sui bilanci nazionali, preludio alla unione bancaria e a quella fiscale. Chiaro sul punto il ministro tedesco: “Prima di mettere i rischi in comune, dobbiamo ridurli”. Come dire: non è la Germania con il suo massiccio surplus commerciale a essere forte ma sono gli altri Stati membri dell’Unione che devono rafforzarsi per uscire dalla lunga crisi economica e finanziaria.
In Francia e nei Paesi del Mediterraneo la crescita è troppo bassa, la disoccupazione è alta e quella giovanile è drammatica, con valori che oscillano fra il 24% della Francia e il 50% della Grecia. Questi sono Paesi nei quali le riforme implementate non sono sufficienti nel contesto di una debole crescita complessiva. Riforme che non riescono a contrastare la delocalizzazione di posti di lavoro causate dalla globalizzazione e a frenare l’espulsione dal mondo del lavoro e l’emarginazione sociale di “nuovi poveri” con i loro sentimenti anti-establishment. La soluzione ai problemi delle economie europee richiede riforme radicali che incoraggino modelli di crescita più vigorosi e più inclusivi, sia a livello nazionale che europeo. In particolare, i Paesi devono ridurre le rigidità strutturali che scoraggiano gli investimenti e ostacolano la crescita e mirare a ridurre i costi unitari del lavoro rispetto alla produttività nella prospettiva della convergenza di tali costi sul piano comunitario. Creando una solida base competitiva e attrattiva si potrà vincere la difficile sfida sui mercati esteri e dare ai cittadini europei la speranza di un lavoro e di una vita migliore.
Al Presidente Macron il compito di riformare l’Eurozona per salvare l’Europa, restituendo alle istituzioni comunitarie la centralità sulla scena mondiale. A Parigi è stato ben compreso che l’eccesso di regole e imposizioni comunitarie polverizza il consenso dei cittadini, sempre più lontani da Bruxelles e dalla sua governance tecnocratica. “La mia convinzione, ha dichiarato Macron, è che la vera sovranità passi per l’Europa: sul rilancio economico, sulla protezione commerciale, sulla sicurezza e la difesa, sulla rivoluzione digitale. Un progetto comune con i principali partner per rivedere le regole europee contro il dumping con un controllo degli investimenti stranieri nei settori strategici della nostra economia, riforma del lavoro, fondo di sostegno alle imprese”. Una rifondazione del progetto europeo! E’ questa la strada tracciata a Parigi per rilanciare l’Unione europea e le sue storiche aspirazioni. Un’opportunità da non perdere per evitare l’azzeramento del processo di integrazione politica.
(www.antoniolaurenzano.it)


15 maggio 2017

“COME IMPRONTE NELLA NEVE”di Miriam Ballerini a cura di Vincenzo Capodiferro


COME IMPRONTE NELLA NEVE”
Un romanzo bellissimo, una voce verista che diventa denuncia sociale della condizione degli ultimi

Il 6 maggio 2017 è stato presentato l’ultimo romanzo di Miriam Ballerini, “Come impronte nella neve” editrice Kimerik, Patti aprile 2017, presso la sala consiliare del Comune di Appiano Gentile. «Cosa sarà, allora, questo libro? Un romanzo sulla violenza? Sulla ricostruzione? Sulla speranza?» - introduce l’autrice - «Forse un libro sull’amore. Fra uomini e donne, fra compagni di avventura, rivolto alla natura, verso se stessi. Ecco! Amare se stessi, questo il primo passo da compiere, per sfuggire alla violenza, per imprimere il peso del primo mattone per ricostruirsi; per riuscire ad amare gli altri». Miriam Ballerini scrive dall’età di dodici anni. Nel 2002 ha pubblicato il suo primo romanzo. Ha ricevuto vari riconoscimenti. Tra le sue opere ricordiamo: “Il giardino dei maggiolini” (2002); “Dietro il sorriso del clown” (2003); “La casa degli specchi” (2004); “Bassa marea” (2005); “Fiori di serra” (2008); “L’ultimo petalo” (2011); “Diario di una ragazza del sud” (2015). «Il taxi si lasciò alle spalle la città e la pioggia. La radio accesa starnazzava le notizie del giorno, nelle quali non mancavano i vari attentati dinamitardi da pare dell’Isis. Solo il mese prima avevano terrorizzato Parigi, uccidendo innumerevoli persone innocenti. Il tassista indicò la radio con un dito: «Questi non sono uomini, sono bestie». Zeljka sorrise amara: «Già»». La protagonista di questo nuovo romanzo è proprio Zeljka, una ragazza inerme, la quale si trova a fare i conti con il fenomeno sociale dell’immigrazione, del razzismo, della fobia sociale inversa, cioè rivolta all’altro, visto sempre come alieno. Come sottolinea una nota sull’arte della Ballerini: «Non vi troverete storie di grandi uomini, ma vite di persone normali; anche di chi è sotto la soglia della normalità». Miriam trova ispirazione nella storia degli ultimi, degli emarginati, dei carcerati, delle donne indifese. Anche in questo caso «inevitabile è stata l’associazione con le storie di donne maltrattate, stuprate, uccise, che troppo spesso riempiono i nostri telegiornali». In questo senso la storia di Zeljka si ricollega a quella di un “Diario di una ragazza del sud”. Protagonista è sempre una donna indifesa, inerme, che deve far fronte alla violenza, anche se poi tutta la trama non si conclude necessariamente in femminicidio. La narrativa della Ballerini si ricollega in qualche modo al filone del naturalismo francese e del verismo italiano: è una narrativa legata al “fatto”, è una narrativa sociale, attenta alle infime classi. Si inquadra in un tipo di letteratura realista, quasi socialisteggiante, come quella delle avanguardie. «Aveva saputo dell’arrivo di Zeljka, tutto il piccolo paese lombardo parlava di lei, raccontavano di quanto fosse magra e storpia. Aspettavano d’incontrarla per ricavarne chissà quale succulento pettegolezzo. «Zeljka». «Sarà mica una “mussulnera”?». Da quando c’erano stati gli attentati di Parigi, sua madre aveva coniato un termine tutto suo per definire chi era di un’altra religione». Emerge sempre una figura, che chiamiamo il “normale”. Freud direbbe che c’è continuità tra “normale” ed “anormale”. Ma qui emerge ancora un’altra figura, quella del “sub-normale”. Questa si pone tra la figura del superuomo, o nietzschiano “oltreuomo”, “ al di là del bene e del male” e quella del sottuomo, o l’inetto, “al di qua del bene e del male”. Questa figura del subnormale può essere ricollegata in parte all’inetto sveviano, ma anche ai “vinti” verghiani, manzoniani e pirandelliani. E perché no? Anche ai fanciullini pascoliani. Questa è una nota caratteristica della poetica balleriniana. Tutti i soggetti della letteratura sono figure particolari che emergono e di solito c’è l’attenzione dell’intellettuale per quegli elementi trascurati, emarginati, quali sono stati Zeno, Renzo e Lucia, Mattia Pascal e tanti altri. Tale era il compito, ad esempio, dei letterati “populisti” russi, i “narodniki”, dei nichilisti. La storia di Zeljka, la protagonista del romanzo - non è horror, giallo o nero o rosa -, ma si iscrive in questa mentalità svelante. La letteratura ha a che fare con la verità, la dice anche in maniera figurata, ma la dice: e la verità spesso fa male! Se non emerge una vittima di femminicidio, si ha un altro femminicidio, fatto non di spargimenti di sangue, di morti, ma di mortificazioni continue, di abbattimenti psicologici. La denuncia sociale diviene molto più sottile: il razzismo, il femminicidio si consuma nella quotidianità, diviene martirio sociale. Nelle relazione tra la protagonista ed il suo partner si consuma una violenza molto più violenta di una morte cruenta. È una continua offesa, una continua demonizzazione: una stregoneria senza roghi. Eppure «d’improvviso ci si trova in un campo innevato, dove tutte le strade ed i segnali a noi noti sono invisibili al nostro occhio. Eppure, basta compiere un passo per lasciare un’orma nuova,» continua la nota sull’arte balleriniana. Come profeta Miriam: «Non deve sempre finir male. Alla tv sentiamo tante, troppe storie di donne uccise da chi asseriva di amarle. Ma ci sono altre soluzioni, altre vie. Con questo romanzo ho voluto dimostrare che la vita, finché c’è respiro, è ricca di scelte, di opzioni. Inevitabilmente s’inciampa: si cade, ci si fa male, ma finché il cuore batte ed i polmoni stantuffano nel petto, c’è sempre un nuovo passo da camminare». La vita è come un immenso campo di neve. Chiunque passa lascia le sue impronte. Queste durano un po’, poi cambiano, vengono coperte. Sempre possiamo cambiare, anche se c’è comunque il “male di vivere”: «era il rivo strozzato che gorgoglia/ era l'incartocciarsi della foglia/ riarsa, era il cavallo stramazzato». Prima c’erano le ideologie, adesso c’è la liquidità baumaniana. Eppure anche in questa liquidità si creano sempre nuovi scogli. Riemergono i razzismi, i nazionalismi, i paraventi degli “scontri tra civiltà”, delle “guerre di religione”. Il nuovo “spettro che s’aggira per l’Europa” non è il marxiano comunista, ma è il marziano extracomunitario, è questo nuovo extraterrestre. Alla fine anche Miriam fa prevalere Eros per risolvere i problemi sociali e non Thanatos: non c’è bisogno di guerra, di aggressività, c’è bisogno di pace, di amore per risolvere tutti i problemi ed … i nuovi problemi che la storia ci pone. I vinti vengono redenti nell’amore.


Vincenzo Capodiferro

Piccoli forse di Angela Caccia

I segnali della infinita possibilità della vita Un lungo tempo di lavoro, di gestazione e di volontà ha portato Angela Caccia alla vitalità profonda di versi come questi: (…) Il cielo brucia più /dell’inferno (…), (…) Ha piccoli passi /questa sera d’abissi (…), (…) Il giardino delle rose /piccola grammatica /per gente semplice (…), e altri che in questa raccolta – nel viaggio tra ritorni e sguardi ancora al largo – offrono e interpretano una tensione poetica finalmente più certa, più cosciente e meno agitata a raggiungere, per stratagemmi più che per virtù interna, i risultati attesi e desiderati. Intendo che la voce di Angela – per chi la segue da tempo – appare qui più certa, quasi in apparente contrasto con la sospensione suggerita dal titolo della raccolta. Si tratta esattamente di una forza che la poesia, intesa come sguardo inquieto e mai vago al mondo e alla propria vita, oppone alla ipotetica serie dei piccoli forse come pure sospensione dubitosa, facendola diventare la quiete delle accettate possibilità. Ci sono due modi infatti di leggere i piccoli forse che la vita propone. Si possono leggere come tarme, come elementi di negazione e di sfaldamento del tessuto vitale – insomma, piccoli tumori, anticipi di morte – e sono i forse che paralizzano, i dubbi che solo arrestano il cammino. Oppure – ed è il caso di questo libro – come segnali della infinita possibilità della vita, come segni della sua vastità e varietà, rispetto ai quali il cammino personale individua, se fedele al cuore, un personale destino, dove non a caso la metafora del porto domina. Un porto fatto di mani che si ritrovano, di figure dormienti ammirate, di terrazzi da cui guardare la propria terra e non soltanto i propri sogni. Il destino è il tema, quasi come guida musicale e non solo come oggetto di riflessione, di questi versi. Non c’è forse un Ulisse che appare anche come personaggio tra le pagine, ma che è innanzitutto figura interiore alla voce poetante? Il destino, per Angela Caccia, è sempre questione dalla risonanza psicologica forte e complessa. È il termine di discussione della sua poesia perché lo è della vita. Una vita fatta di accettazione di scarti rispetto a destini imposti e autoimposti. Rispetto al destino, i piccoli forse sono mine che fanno esplodere altri possibili con altre possibilità. ~ 12 ~ Angela Caccia, Piccoli forse Credo che il tema del ritorno, flesso in molti modi, sia il tirante magnetico di questo libro. Seguiamo la voce della poetessa condurci in diversi territori e livelli della esistenza. La sua è voce che cerca anche l’attrito, le parole scostanti. Sa che la poesia non sta solo nel bel verso. Caccia ci consegna una voce matura, mai rinunciando del tutto ai suoi scarti, agli umori di una sua scrittura scabra a volte, e pastosa, una voce intenzionata a colpire. Non sempre va a segno, ma ormai anche Angela ha imparato che in poesia non conta l’effetto ma l’affetto. Ovvero il chiarirsi dell’affetto, quel che gli antichi chiamavano afficio, legame con il mondo, persone e cose, alla luce di un destino.

 Davide Rondoni

09 maggio 2017

FESTA DELL’EUROPA FRA PAURE E SPERANZE di Antonio Laurenzano

                                     

 FESTA DELL’EUROPA FRA PAURE E SPERANZE                         
 di Antonio Laurenzano

Parigi 9 Maggio 1950: Robert Schuman legge alla stampa, convocata al Quay d’Orsay, sede del Ministero degli Esteri, questa dichiarazione: “La pace mondiale non potrebbe essere salvaguardata senza iniziative all’altezza dei pericoli che ci minacciano. Mettendo insieme talune produzioni base saranno realizzate le prime fondamenta di una Federazione europea”. L’invito di Schuman si concretizzò con la istituzione della CECA, Comunità economica del carbone e dell’acciaio tra Francia, Germania, Italia e Paesi del Benelux per gestire in accordo queste due materie prime. Vinti e vincitori della seconda guerra mondiale uniti attraverso la cooperazione economica per  un comune percorso di pace e di progresso. L’alba di una nuova Europa. Simbolicamente, la CECA rappresenta  infatti il primo mattone nella costruzione della “comune casa europea” a cui hanno fatto seguito i Trattati Roma e quello di Maastricht. Nel ricordo di quello storico evento, il 9 maggio di ogni anno, nei 27 Stati dell’Unione europea si festeggia la “Giornata dell’Europa”.
Ma nell’attuale contesto comunitario sempre più segnato da un crescente euroscetticismo è  difficile  immaginare il futuro politico-istituzionale dell’Unione europea. L’Europa non fa più sognare. Il “modello europeo” è da tempo avvolto in una fitta cortina di incertezze e contraddizioni, acuite dalla crisi finanziaria ed economica. Un modello che alimenta inquietudini, crea insicurezze, genera paure. Un’Europa intergovernativa, spesso litigiosa, senza una identità politica e priva di un governo capace di rispondere con politiche adeguate alle attese e ai bisogni dei cittadini. Un’opera incompiuta: l’architettura europea è rimasta a metà, con una moneta unica e una politica monetaria nell’eurozona a cui non corrisponde una unione bancaria, fiscale e soprattutto una unione politica. Manca un patto fondante in forza del quale lo stare insieme, il decidere insieme, l’agire insieme siano un autentico collante per poter parlare al mondo intero con una sola voce. Un’Europa che ha smarrito l’originario spirito unitario dei Padri fondatori con le sue spinte federaliste soppiantato da pulsioni nazionaliste. Un antieuropeismo alimentato dalla sordità dell’establishment al diffuso disagio sociale. E Brexit ne è la conferma! I governi nazionali appaiono divisi, intenti solo a difendere anacronistiche rendite di posizione o a inseguire disegni egemonici.
E se l’Europa non avanza, retrocede! Si sta miseramente sgretolando il tasso di unità che ha tenuto finora in vita le tante diversità dell’ Unione. Ma pur incompiuta, l’Europa ha assicurato decenni di pace, ha distribuito stabilità economica e monetaria a imprese e cittadini, libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali, tassi d’interesse ridotti, scambi culturali. Per superare ogni squilibrio socio-economico e  trovare la via  di un futuro sostenibile e innovativo non basta l’unità delle monete e delle banche centrali. Deve nascere un’Europa dei cittadini che nutra dei suoi valori un progetto forte e condiviso, i valori della solidarietà, della sussidiarietà, del dialogo, dell’integrazione tra etnie, religioni e culture diverse. Ma una solida costruzione europea implica l’unità politica: l’Europa unita deve fondarsi  su istituzioni dotate di una legittimità democratica nell’ambito di una Unione federale costituita per la gestione condivisa delle politiche di comune interesse strategico (difesa, sicurezza, migrazioni), separate da quelle nazionali.
Nel mondo globale non c’è alternativa all’Europa! Rafforzare e consolidare l’Ue oggi è una ineludibile necessità di sopravvivenza per il Vecchio Continente. Un’Europa però che deve trovare il coraggio e l’utopia delle origini, che deve uscire dalle ombre dei compromessi intergovernativi per dare una prospettiva credibile alla integrazione politica attorno alla quale catturare il consenso popolare. Ci attendono grandi sfide come la crisi finanziaria ed economica,  i cambiamenti climatici, l’insicurezza energetica, il terrorismo internazionale, i flussi migratori, le pandemie. Un futuro verso il quale l’Europa non può presentarsi divisa e distratta da anacronistici interessi di bottega, farciti di un populismo becero e di un anti-europeismo che legge la storia con la lente annebbiata dello Stato-nazione. Una deriva politica inaccettabile che azzererebbe oltre sessant’anni di vita comunitaria e che porterebbe indietro nel tempo le lancette della storia, nel segno di pericolosi rigurgiti.
Il futuro dell’Unione dipenderà dall’europeismo illuminato della leadership europea, dalla sua capacità di far crescere nelle giovani generazioni una coscienza autenticamente europea e affermare sulla scena mondiale la centralità dell’Europa nei processi di sviluppo e di pace. Il resto è nichilismo storico e politico!

                                                                      

03 maggio 2017

Giorni felici di Miriam Ballerini


GIORNI FELICI

Da qualche settimana, sul canale Paramount Channel sta andando in onda la serie “Happy Days”, che significa giorni felici.
La seguivo quando ero ancora una bambina e, rivederla ora che sono adulta, non mi ha per niente delusa, anzi, mi ha spinto a fare delle riflessioni.
Purtroppo è di questi giorni la notizia della morte di una delle protagoniste, Erin Moran, mancata all’età di 56 anni, interpretava la piccola Joanie.
Per chi non l’avesse visto, questa serie ci giunse dall’America e fu trasmessa dal 1977 al 1987. È la storia della famiglia Cunningham, composta dal padre: Howard (Tom Bosley), la moglie Marion (Marion Ross), il figlio maggiore Richie (Ron Howard), la piccola Joanie (Erin Moran). A fare da cornice c’è l’inimitabile Fonzie (Henry Winkler), un meccanico al quale basta schioccare le dita per attrarre le ragazze. Quindi gli amici di sempre Ralph (Don Most) e Potsie  (Anson Williams).
Le vicende narrate dal telefilm si svolgono a Milwaukee.
Fu una serie che piaceva sia agli adolescenti che si riconoscevano nelle avventure dei protagonisti, che dai genitori, perché il telefilm mostrava l’esempio di una famiglia sana.
È proprio questo che ancora oggi mi colpisce e ha dato il via alle mie riflessioni: il cambiamento che c’è stato nelle famiglie da quegli anni a oggi.
Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia che assomiglia un poco a quella che ci propone Happy Days: con mamma che era a casa a badare a me e a mio fratello. Che, quando fummo un poco più grandicelli si diede da fare per aiutare papà nel mantenimento della famiglia. Casa era un luogo dove si era creato un nucleo caldo, dove si tornava felici e sereni. Dove si poteva parlare, discutere, avere consigli e buon esempio.
Le amicizie erano vere, a nessuno sarebbe venuto in mente di fare del male all’altro, di mettere in atto espressioni di bullismo; non c’era nessuna gara a chi aveva l’abito più bello  o il cellulare più costoso, perché eravamo tutti uguali. Più o meno le famiglie avevano tutte lo stesso tenore di vita. Ottenere un gioco in più era un momento di gioia e di soddisfazione e lo si godeva davvero, perché, magari, per ottenerlo c’era voluto tanto tempo.
Non bastava chiedere per avere, non funzionava così.
Datemi pure della nostalgica, ma rivedere questa serie è un po’ come tornare ai miei giorni felici.
Vedo intorno a me ancora molti esempi di famiglie che posseggono sani principi e che cercano di trasmetterli ai figli, quasi come fossero una sorta di sana malattia contagiosa. Ma, nel contempo, vedo anche l’assenza di persone che, formando una famiglia, divengano consapevoli che i figli non sono dei cosi ai quali dire sempre di sì, cercando di riempire le loro braccia di tutto ciò che è solo materiale di consumo e beni costosi.
I figli si educano, si deve far notare i loro sbagli, invece molti li scusano a prescindere, quasi per paura di doversi prendere la briga si spiegare cose fuori dalla loro portata.
L’altro aspetto è quello che troviamo riprodotto dall’atteggiamento di Fonzie: in un certo senso il diverso, quello che non ha alle spalle una buona famiglia. Guida la moto, passa da una ragazza all’altra, è forte, è l’incarnazione del bullo di allora. Un bullo che, però, non sottomette gli altri, non li denigra. Non si sente migliore e più forte degli altri perché li schiaccia. Nonostante la sua diversità viene accettato dalla famiglia per bene, che non ha remore e non ghettizza.
Visto con gli occhi di adesso mi pare davvero un’utopia tutto ciò che avviene sulle scene di Happy Days, eppure, c’è stato davvero un momento dove siamo stati così… già, allora: nei giorni felici.


© Miriam Ballerini

Recensione di "La neve è altrove" di Giovanna Iorio a cura di Vincenzo Capodiferro

LA NEVE È ALTROVE
Una raccolta unica di poesie, tradotta in sei lingue di Giovanna Iorio

Giovanna Iorio vive a Roma. Ha pubblicato diverse raccolte di poesie, tra le quali si segnalano: Haiku dell’Inquietudine (Fusibilia 2016) e Frammenti di un profilo (Pellicano 2015). È presente in molte antologie e radiodrammi. Collabora con Roma&Roma, DiarioRomano ed Erodoto108. La Neve è altrove, edita da Fara, Rimini 2017, è un’opera polifunzionale. Ha diversi coautori, perché la traduzione è una specie di creazione: Alexej Klijatov, Charlie Hann, Zingonia Zingone, Anna Jolanta Lagoda, Anna Maria Curci, Grazia Calanna. È tradotta in sei lingue e le traduzioni seguono l’una accanto all’altra, inframmezzate da bellissime foto artistiche di cristalli di neve. È proprio questa fattispecie che rende l’opera di Giovanna Iorio unica nel suo genere. È un’opera scritta a diverse mani, interpretata da diversi autori nello stesso quadro d’insieme. Leggiamo dall’introduzione di Marco Sonzogni: «”Ad Auschwitz c’era la neve”: così comincia Canzone di un bambino nel vento di Francesco Guccini. La strofa iniziale di questo celebre testo si conclude con un’affermazione ripetuta due volte: “ e adesso sono nel vento” in quel bosco di betulle, in quell’altrove di morte, “tante persone” canta Guccini, sono state tradotte in “un solo grande silenzio”. Per contrappasso o piuttosto proprio per alibi (è questa, del resto, la parola che in latino significa altrove), ho subito pensato a questa canzone leggendo i versi che Giovanna Iorio ha raccolto con il titolo La neve è altrove». L’essere “altrove” rimanda ad una trascendenza dell’essere: “tutte le cose portano scritto più in là”, rimava Eugenio Montale. L’essere è trascendente. Tutta la realtà è proiettata altrove, in un contesto metafisico che la circonda: «La neve è altrove/ a noi parla il grigio del cielo/ da qualche parte le volpi attraversano/ pagine bianche – Oh, voi che affondate/ le zampe in questo silenzio/ tornate». Il libro inizia con una forte citazione di Keplero: «Non è che io sappia quanto Voi amiate il Nulla (…). Così mi è facile presumere che un regalo vi sarà tanto più gradito quanto più esso sarà prossimo al Nulla. Qualunque sia l’oggetto che vi aggradi come evocazione del Nulla, bisogna che esso sia di tenue importanza, di piccola misura, di prezzo minimo, e che non sia granché durevole, cioè che sia quasi Nulla. . nella natura , queste cose abbondano e una scelta si impone». La struttura del reale è il nulla. La materia è un’architettura fantastica, come la neve, sottilissima, fatta di esili segmenti sospesi nel vuoto. Siamo sospesi nel vuoto, siamo impastati di nulla. Da questo punto di vista significativo è il saggio La neve e il nulla, di Stefano Iannone, posto in appendice al testo della Iorio. Vi si analizza la struttura molecolare del fiocco di neve. Questo ultimo saggio è correlato naturalmente alla citazione iniziale di Keplero sul Nulla. Ma il nulla materiale ci rimanda ad un altro nulla, quello esistenziale: nulla esiste, ripeteva Gorgia da Leontini: «Vedi, a me non importa l’eternità. È noiosa./ Tutto in fondo si ripete all’infinito. Io amo/ le cose che finiscono soprattutto se posso/ sentirne il suono …». E torna il tema forte del nichilismo col nietzschiano eterno ritorno. «Sono soli persino gli alberi/ nei boschi …», e ancora: «Questo nulla che ho dentro/ somiglia a un fiore …», «Ho aperto la finestra e la stanza/ si è riempita di bianco …». La neve tinge tutto di bianco, crea una visione monocolore, avvicina al deserto, al silenzio, all’infinito, al mistero, a quel mistero intangibile del “nulla eterno”. E proprio questa raccolta si riannoda a quella foscoliana “Sera”: «e quando dal nevoso aere inquïete/ tenebre e lunghe all’universo meni». È un opera che fa riflettere e ci offre uno spunto di ricerca di vita intenso e dirompente. La poesia deve far pensare, non può lasciarci intatti, ma deve renderci perplessi. Se è questo ciò che ci aspettiamo dai versi, lo possiamo trovare certamente leggendo queste perle di Giovanna Iorio.


Vincenzo Capodiferro

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