Giorni felici di Miriam Ballerini
GIORNI FELICI
Da qualche settimana, sul canale Paramount Channel sta
andando in onda la serie “Happy Days”, che significa giorni felici.
La seguivo quando ero ancora una
bambina e, rivederla ora che sono adulta, non mi ha per niente delusa, anzi, mi
ha spinto a fare delle riflessioni.
Purtroppo è di questi giorni la
notizia della morte di una delle protagoniste, Erin Moran, mancata all’età di
56 anni, interpretava la piccola Joanie.
Per chi non l’avesse visto, questa serie
ci giunse dall’America e fu trasmessa dal 1977 al 1987. È la storia della famiglia Cunningham, composta dal padre:
Howard (Tom Bosley), la moglie Marion (Marion Ross), il figlio maggiore Richie
(Ron Howard), la piccola Joanie (Erin Moran). A fare da cornice c’è l’inimitabile
Fonzie (Henry Winkler), un meccanico al quale basta schioccare le dita per
attrarre le ragazze. Quindi gli amici di sempre Ralph (Don Most) e Potsie (Anson Williams).
Le vicende narrate dal telefilm si
svolgono a Milwaukee.
Fu una serie che piaceva sia agli
adolescenti che si riconoscevano nelle avventure dei protagonisti, che dai
genitori, perché il telefilm mostrava l’esempio di una famiglia sana.
È proprio
questo che ancora oggi mi colpisce e ha dato il via alle mie riflessioni: il
cambiamento che c’è stato nelle famiglie da quegli anni a oggi.
Ho avuto la fortuna di crescere in una
famiglia che assomiglia un poco a quella che ci propone Happy Days: con mamma
che era a casa a badare a me e a mio fratello. Che, quando fummo un poco più
grandicelli si diede da fare per aiutare papà nel mantenimento della famiglia.
Casa era un luogo dove si era creato un nucleo caldo, dove si tornava felici e
sereni. Dove si poteva parlare, discutere, avere consigli e buon esempio.
Le amicizie erano vere, a nessuno
sarebbe venuto in mente di fare del male all’altro, di mettere in atto
espressioni di bullismo; non c’era nessuna gara a chi aveva l’abito più
bello o il cellulare più costoso,
perché eravamo tutti uguali. Più o meno le famiglie avevano tutte lo stesso
tenore di vita. Ottenere un gioco in più era un momento di gioia e di
soddisfazione e lo si godeva davvero, perché, magari, per ottenerlo c’era
voluto tanto tempo.
Non bastava chiedere per avere, non
funzionava così.
Datemi pure della nostalgica, ma rivedere
questa serie è un po’ come tornare ai miei giorni felici.
Vedo intorno a me ancora molti esempi di
famiglie che posseggono sani principi e che cercano di trasmetterli ai figli,
quasi come fossero una sorta di sana malattia contagiosa. Ma, nel contempo,
vedo anche l’assenza di persone che, formando una famiglia, divengano
consapevoli che i figli non sono dei cosi ai quali dire sempre di sì, cercando
di riempire le loro braccia di tutto ciò che è solo materiale di consumo e beni
costosi.
I figli si educano, si deve far notare i
loro sbagli, invece molti li scusano a prescindere, quasi per paura di doversi
prendere la briga si spiegare cose fuori dalla loro portata.
L’altro aspetto è quello che troviamo
riprodotto dall’atteggiamento di Fonzie: in un certo senso il diverso, quello
che non ha alle spalle una buona famiglia. Guida la moto, passa da una ragazza
all’altra, è forte, è l’incarnazione del bullo di allora. Un bullo che, però,
non sottomette gli altri, non li denigra. Non si sente migliore e più forte
degli altri perché li schiaccia. Nonostante la sua diversità viene accettato
dalla famiglia per bene, che non ha remore e non ghettizza.
Visto con gli occhi di adesso mi pare
davvero un’utopia tutto ciò che avviene sulle scene di Happy Days, eppure, c’è
stato davvero un momento dove siamo stati così… già, allora: nei giorni felici.
© Miriam Ballerini
Commenti
Posta un commento
I commenti sono moderati e controllati quotidianamente.
Tutte le opinioni sono benvenute. E' gradita la pacatezza.