03 maggio 2017

Giorni felici di Miriam Ballerini


GIORNI FELICI

Da qualche settimana, sul canale Paramount Channel sta andando in onda la serie “Happy Days”, che significa giorni felici.
La seguivo quando ero ancora una bambina e, rivederla ora che sono adulta, non mi ha per niente delusa, anzi, mi ha spinto a fare delle riflessioni.
Purtroppo è di questi giorni la notizia della morte di una delle protagoniste, Erin Moran, mancata all’età di 56 anni, interpretava la piccola Joanie.
Per chi non l’avesse visto, questa serie ci giunse dall’America e fu trasmessa dal 1977 al 1987. È la storia della famiglia Cunningham, composta dal padre: Howard (Tom Bosley), la moglie Marion (Marion Ross), il figlio maggiore Richie (Ron Howard), la piccola Joanie (Erin Moran). A fare da cornice c’è l’inimitabile Fonzie (Henry Winkler), un meccanico al quale basta schioccare le dita per attrarre le ragazze. Quindi gli amici di sempre Ralph (Don Most) e Potsie  (Anson Williams).
Le vicende narrate dal telefilm si svolgono a Milwaukee.
Fu una serie che piaceva sia agli adolescenti che si riconoscevano nelle avventure dei protagonisti, che dai genitori, perché il telefilm mostrava l’esempio di una famiglia sana.
È proprio questo che ancora oggi mi colpisce e ha dato il via alle mie riflessioni: il cambiamento che c’è stato nelle famiglie da quegli anni a oggi.
Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia che assomiglia un poco a quella che ci propone Happy Days: con mamma che era a casa a badare a me e a mio fratello. Che, quando fummo un poco più grandicelli si diede da fare per aiutare papà nel mantenimento della famiglia. Casa era un luogo dove si era creato un nucleo caldo, dove si tornava felici e sereni. Dove si poteva parlare, discutere, avere consigli e buon esempio.
Le amicizie erano vere, a nessuno sarebbe venuto in mente di fare del male all’altro, di mettere in atto espressioni di bullismo; non c’era nessuna gara a chi aveva l’abito più bello  o il cellulare più costoso, perché eravamo tutti uguali. Più o meno le famiglie avevano tutte lo stesso tenore di vita. Ottenere un gioco in più era un momento di gioia e di soddisfazione e lo si godeva davvero, perché, magari, per ottenerlo c’era voluto tanto tempo.
Non bastava chiedere per avere, non funzionava così.
Datemi pure della nostalgica, ma rivedere questa serie è un po’ come tornare ai miei giorni felici.
Vedo intorno a me ancora molti esempi di famiglie che posseggono sani principi e che cercano di trasmetterli ai figli, quasi come fossero una sorta di sana malattia contagiosa. Ma, nel contempo, vedo anche l’assenza di persone che, formando una famiglia, divengano consapevoli che i figli non sono dei cosi ai quali dire sempre di sì, cercando di riempire le loro braccia di tutto ciò che è solo materiale di consumo e beni costosi.
I figli si educano, si deve far notare i loro sbagli, invece molti li scusano a prescindere, quasi per paura di doversi prendere la briga si spiegare cose fuori dalla loro portata.
L’altro aspetto è quello che troviamo riprodotto dall’atteggiamento di Fonzie: in un certo senso il diverso, quello che non ha alle spalle una buona famiglia. Guida la moto, passa da una ragazza all’altra, è forte, è l’incarnazione del bullo di allora. Un bullo che, però, non sottomette gli altri, non li denigra. Non si sente migliore e più forte degli altri perché li schiaccia. Nonostante la sua diversità viene accettato dalla famiglia per bene, che non ha remore e non ghettizza.
Visto con gli occhi di adesso mi pare davvero un’utopia tutto ciò che avviene sulle scene di Happy Days, eppure, c’è stato davvero un momento dove siamo stati così… già, allora: nei giorni felici.


© Miriam Ballerini

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