28 luglio 2007

Dominus vobiscum

di Antonio V. Gelormini

“Et cum spiritu tuo”. Era la corale risposta di un’assemblea di fedeli, che il latino non l’aveva mai studiato, ma che interagendo col celebrante faceva propri i passaggi significativi della messa. Acquisendo un patrimonio di espressioni e di vocaboli preziosi, anche fuori dal contesto prettamente liturgico.

La disponibilità al recupero di un fascino del rito, promulgato da Giovanni XXIII nel 1962, quale aggiornamento di quello risalente a San Pio V e al Concilio di Trento, non va ascritto come una prova del tradizionalismo di Joseph Ratzinger. Al contrario, favorendo la libertà della scelta, il Papa intende evitare al massimo le controversie. Nel momento stesso che alleggerisce molte delle problematiche poco significative, che affliggono la Chiesa, dà prova, ancora una volta, di lucidità, saggezza e moderna elasticità mentale.

Dal prossimo 14 settembre, festa dell’esaltazione della Santa Croce, secondo il Motu proprio di Benedetto XVI: “Summorum Pontificum”, ci sarà una sorta di liberalizzazione nel modo di celebrare la Santa Messa. Sia quella scaturita dal Concilio Vaticano II, secondo il messale di Paolo VI in idioma locale, che quella cosiddetta tridentina, in latino e aggiornata nel 1962, sono considerate forme diverse dello stesso rito romano. In pratica, le facce di una stessa medaglia.

Abolite le dispense vescovili e quelle della Santa Sede. Per le celebrazioni cicliche e permanenti saranno le stesse parrocchie ad organizzarsi per un’armoniosa attività pastorale, per favorire l’unità della Chiesa. La celebrazione, ove richiesta, potrà avvenire nei giorni feriali e una sola volta la domenica e nei giorni festivi. Data la difficoltà della lingua, sarà consentito che le letture (epistole e Vangelo) avvengano in lingua locale.

Il documento papale, inoltre, prevede l’estensione dell’utilizzo del vecchio messale anche per battesimi, matrimoni, cresime, unzione degli infermi e celebrazione delle esequie. E qui bisognerà che i parroci stiano molto attenti, per evitare che il ricorso alla deroga sia generato da inconsistenti motivi di tendenza e di mera scenografia.

L’occasione sarà propizia, anche solo per la necessaria familiarità, a un riavvicinamento alla lingua madre, alquanto sconosciuta alle nuove generazioni. Per quelle un po’ più anziane sarà anche un ritorno ad antiche musicalità della parola, come l’Oremus, il Kyrie eleison, il Christe eleison, l’Orate fratres e, all’esortazione finale dell’Ite missa est, alla risposta decisamente più liberatoria: “Deo gratias”.
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gelormini@katamail.com)
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25 luglio 2007

I racconti di Versailles – 9 – di Bruna Alasia

MARIA ANTONIETTA LA DIVA
Racconto nono

Parigi, Porta della Conferenza, 8 giugno 1773, ore 11.30: la prima carrozza, proveniente dalla strada di Versailles, sollevò grida di giubilo quando apparve. Un fremito scosse Brissac, governatore della città, Michodière, comandante della gendarmeria, Sartine, responsabile dell’ordine pubblico. L’orchestra iniziò ad accordare gli strumenti. Fu detto ai trombettieri di squillare. Nello stesso istante il cannone degli Invalidi sparò un colpo di saluto, così dall’Hotel de Ville, così dalla Bastiglia. Man mano le salve tuonavano, una nube di fumo offuscò il cielo terso. Lucide e nere, con il giglio dei borboni in oro, trainate da eleganti puledri, sei vetture entrarono in piazza. Dalla folla il mormorio sfociò in applauso e i parigini si spinsero verso il corteo ricacciati indietro dalla guardia a cavallo.
- Non puoi stare qui! – urlò un gendarme a una venditrice ambulante.
- Non sto vendendo niente!
- Fa lo stesso, vai via!
La donna, con in spalla una brocca di stagno, si allontanò rimanendo a guardare. Slungò il collo tra la marea di teste e vide il maresciallo Brissac genuflettersi e porgere al delfino le chiavi della città, poi Michodière pronunciare un discorso tra applausi e fischi. Infine Maria Antonietta, la sola di cui fosse curiosa.
- Brutta non lo è… vero? – chiese a una vicina
- Bellissima, direi!
Esaminavano la diciassettenne bionda, proporzionata, sorridente e un po’ slavata, che l’illusione ottica della regalità promuoveva a diva.
- Altezza, fateci un bambino! – osò una pescivendola, sommersa da schiamazzi e risate perché tutti erano al corrente delle difficoltà sessuali del futuro re. Poi tra la folla circolarono fogli con canzoni per la “gioiosa entrata” e un gruppo le intonò spronando la venditrice a cantare.
- Non sono capace – si sottrasse lei cercando un varco.
Si chiamava Caroline Chevrier, vedova di Jean-Baptiste morto nella calca di Rue Royale, sprofondato nei lavori in corso la notte del 30 maggio 1770, quando Parigi assisteva ai fuochi d’artificio per le nozze dei delfini. Di suo marito, negli archivi, si conservano queste annotazioni: Jean-Baptiste Chevrier 21 anni/ attrezzista teatrale di Chorier via Galand/ riconosciuto da suo padre/ abiti. veste. calzoni. stoffa di cotone/ spada blu e grigia/bottoni in riga/basco di lana nero/camicia a collo di basino/1 vecchio fazzoletto con le iniziali/1 collare di cane e un guinzaglio/un bastone di canna.
Sposati e con due bambini, lei e Jean Baptiste si avviavano a una vita rispettabile e agiata ma la morte del marito l’aveva gettata sul lastrico. L’ obolo dei Delfini era svanito subito e per sopravvivere si era inventata un lavoro: vendeva alle pasticcerie dolci fatti in casa e, in occasioni come quella, brioches, caffellatte a due soldi la tazza, tisane medicamentose. La Francia pre-rivoluzionaria, poverissima rispetto a oggi, non conosceva però le grandi carestie e il modo di sbarcare il lunario, faticosamente, si rimediava. Andava crescendo semmai un’insoddisfazione diffusa per l’ inferiorità sociale e la percezione che qualcosa di sbagliato ci fosse in chi vantava una superiorità divina. Caroline Chevrier, che frequentava per lavoro i caffè intellettuali, aveva orecchiato gli enciclopedisti e sentito predicare l’ uguaglianza: non ci aveva capito molto, né aveva letto niente essendo analfabeta, ma qualcosa si era sedimentato in lei e senza accorgersene, tornando a vendere, pensò che dei Delfini non le importava scoprendosi poco riconoscente per la loro elemosina.
***
L’ingresso a Parigi dei futuri sovrani avrebbe dovuto verificarsi dopo le nozze ma l’avvenimento era stato rinviato per il lutto degli oltre 130 morti durante i fuochi d’artificio. Inoltre le signore zie e Luigi XV, gelosi che i nipoti fossero applauditi mentre a loro non accadeva più, erano stati lieti di negare il permesso. Maria Antonietta, ansiosa di vedere la città, avrebbe voluto visitarla in incognito e già sognava di passeggiare a cavallo per i boulevards quando zia Adelaide si era intromessa per accompagnarla con la dama di corte. In casi come quello, il cerimoniale voleva che la Delfina escludesse la propria dama, cosa non facile essendo figlia di “madame l’Etiquette”: Anne Claude Laurence contessa di Noailles, gran maestra della casa e sacerdotessa dell’etichetta, creò tante difficoltà che l’idea fu presto abbandonata.
Quel momento era adesso arrivato: Luigi e Maria Antonietta guardavano sorpresi e inorgogliti migliaia di persone festanti che sovrastavano l’orchestra al grido di “Viva il Delfino! Viva la Delfina!”. Non ricordavano una folla così in vita loro: facce sorridenti, emaciate, sdentate, paffute, sfregiate dal vaiolo, con cappelli, parrucche, bandane, donne, uomini, vecchi, bambini, tumultuavano intorno alla carrozza mentre lasciavano Porta della Conferenza in direzione del Lungosenna Conti. Dopo aver assistito alla messa nella cattedrale di Notre Dame, essersi fermati a Sainte-Geneviève davanti alla Patrona di Parigi, raggiunsero il Collège Louis le Grand, dove avevano studiato anche Diderot e Voltaire. Furono accolti con un saluto aulico e forbito. Il rettore, davanti alla platea universitaria, elogiò l’attività didattica e gli allievi. Il volto di un promettente quindicenne lo ispirò a sottolineare:
- Ecco un futuro avvocato per il regno di sua maestà.
Era un provinciale di Arras, occhi grandi, accesi, sotto un’ aureola di capelli crespi, si inchinò profondamente:
- Maximilien de Robespierre… per servirvi… - e resse il loro sguardo senza tradire emozioni.
Più tardi l’affollatissimo pranzo in pubblico alle Tuileries, dove Maria Antonietta e Luigi si spinsero a passeggiare per i giardini, accerchiati da scalmanati e supplicanti che impedirono di muoversi per tre quarti d’ora. Le guardie si videro costrette ad avanzare con la frusta e la spada.
- Assolutamente no! – gridò Luigi, sentendosi qualcuno per la prima volta e questa mitezza fece il miracolo perché non ci furono, come d’abitudine, né morti né feriti.
Sulla terrazza che dominava il raduno, il governatore Brissac esclamò:
- Madame, senza pregiudizio per Monsignore, qui avete duecentomila innamorati!
Mai si era vista una valanga di persone così sterminata e appassionata inneggiare una regina futura. Tornarono a Versailles frastornati e a lungo ripensarono a quel giorno. Dal suo castello fuori dalla realtà, lontana dai problemi veri, il 14 luglio, Maria Antonietta scrisse in una lettera alla madre: Non dimenticherò mai quanto accaduto martedì scorso. Abbiamo fatto il nostro ingresso a Parigi. Riguardo agli onori, abbiamo ricevuto il meglio che si possa immaginare. Ma non è questo, benché importante, ciò che più mi ha colpita, bensì la tenerezza e l’affetto di questo povero popolo che, malgrado le tasse di cui è gravato, vedendoci si è fatto trasportare da una grande gioia.
***
- Vostra maestà è molto amato dai Parigini, visto come ci hanno festeggiato! - la Delfina guardò compiaciuta Luigi XV che alzò le sopracciglia soddisfatto.
- Il merito è vostro…
- Solo vostro sire… - insistette per evitare l’ invidia e ottenere il permesso di tornare nella capitale – vostro nipote ha risposto a tutte le domande con abilità, ha fatto un figurone…
Il re acconsentì e chiese che fossero le zie ad accompagnarla in incognito. Les mesdames dal canto loro, come quasi tutti i cortigiani, furono felici di ingraziarsi la promessa sovrana. Il trionfo di Parigi aveva trasformato per incanto la vita di Maria Antonietta: ora si sentiva accettata, aveva meno nostalgia della sua terra, e suo marito, che non la invidiava ma approfittava della sua luce riflessa, le porgeva orgoglioso il braccio all’Opera, alla Commedia francese, al Teatro italiano, dove veniva accolta come una diva. Giovanissima e piena di energie, affogava le frustrazioni sessuali e la paura del futuro, ridendo, ballando, abbandonandosi a compere frivole tra le bancarelle alla fiera di Sant’Ovidio sull’immensa piazza Luigi XV, oggi piazza della Concordia.
Quando nel novembre del 1773 Carlo Filippo, conte di Artois, sposò Maria Teresa di Savoia, sorella della contessa di Provenza - come lei bruttissima, magra, con un naso esageratamente lungo ma piccolissima di statura - la Delfina non accolse l’evento con timore bensì, sapendo che la famiglia Capet non era molto prolifica, solidarizzò con la nuova cognata. Fra le tre coppie si instaurò una grande intimità e, all’infuori dei giorni in cui i pasti erano in pubblico, pranzavano e cenavano insieme negli appartamenti della contessa di Provenza.
Una sera Maria Antonietta tagliava un petto di pollo, il suo piatto preferito:
- Sarebbe bene invitare con noi le signore zie…
- Non si usa… - fece eco il conte di Artois
- Chiedete a Madame l’Etiquette se si può fare – suggerì Provenza con la bocca piena.
Tutti scoppiarono a ridere.
- Decido io il da farsi – sbuffò la Delfina - Le zie ceneranno con noi.
- Zia Adelaide è seccata perché si gioca nei vostri appartamenti, non più nei suoi – s’intromise la contessa di Provenza.
- Se il gioco deve riunirsi dalla prima dama non è colpa mia…
- Invitiamo le zie a vedere le commedie? – azzardò la contessa di Artois.
- Siete impazzita? Nessuno deve sapere che recitiamo!
C’era in quel periodo una compagnia teatrale formata dalla Delfina, i due fratelli di Luigi Augusto, le loro mogli e il fidato bibliotecario Campan con suo figlio. Con gran divertimento e in segreto interpretavano le migliori commedie del teatro francese: svago introdotto da madame Pompadour che il re e le sue figlie riprovavano. Unico spettatore il futuro Luigi XVI. Per non essere scoperti avevano scelto una sala dell’ammezzato dove nessuno entrava e il palcoscenico, che si poteva smontare, veniva nascosto in un armadio. I signori Campan erano stati coinvolti per ampliare e perfezionare il repertorio: il padre, oltre a recitare, faceva il regista. Bellissimi i costumi, storicamente fedeli. Attore bravissimo il grasso Provenza, bravo il conte di Artois, Maria Antonietta se la cavava, le cognate assolutamente no.
Un giorno fu messa in scena l’operetta comica di Lesage “Crispino rivale del suo padrone”, imperniata sul personaggio del servo che cerca fortuna raggirando il signore innamorato. Crispino era l’anziano signor Campan; il padrone, il bel conte di Artois; la donna amata dal signore, Maria Antonietta. Luigi Augusto rideva per le battute, per le papere, per l’allegra confusione, per il piacere di scoprire graziosa l’arciduchessa austriaca che aveva dovuto sposare per forza e alla quale, malgrado l’impotenza sessuale, si stava ora affezionando.
- Geniale! – applaudì fino ad arrossare i palmi bianchi e grassocci.
Finita la recita la Delfina scese dal palcoscenico e apostrofò il signor Campan:
- Ho dimenticato l’occorrente per struccarmi, andate a prenderlo senza farvi vedere...
Con l’abito di scena e ancora truccato, Campan imboccò una scala nascosta che conduceva direttamente agli appartamenti reali. Salendo gli parve di udire un rumore, si fermò dietro la porta. Un valletto aprì di colpo e trovandosi davanti la maschera di Crispino cadde riverso per lo spavento:
- Aiuto!
L’altro si chinò:
- Sono io, non mi riconoscete? Giurate che non direte a nessuno quello che avete visto…
- Signor Campan cosa…
- Giurate…
- Lo giuro…
Ma quando tornò dalla Delfina e le raccontò l’ accaduto Campan si sentì rispondere:
- Mio Dio questo gioco è diventato troppo pericoloso, non possiamo correre il rischio di essere scoperti.
E da quel momento la compagnia si sciolse.
***
L’Opera royal, inaugurata il giorno delle sue nozze, affascinava Maria Antonietta: ne adorava i balli e spesso ci si recava in incognito solo per il piacere di incontrare facce nuove. Il 30 gennaio 1774, notte di carnevale, Luigi Augusto con la Delfina, il conte di Provenza con sua moglie e Artois con la sua, entrarono nel foyer protetti dal domino e dalle maschere. Odore di cipria, di crema, profumi di Grasse, mesdames e messieurs occhieggianti da schermi di pizzo. Risate, fruscio di paniers, candele, nicchie d’ombra. Che deliziosa atmosfera! pensò Antonietta presa da una gran voglia di ballare e divertirsi fino all’alba, felice di non dar nell’occhio. Riconoscendo anzi, in un angolo, alcuni barrysti confabulare, si sistemò lo scialle sul capo avvicinandosi per captarne furtivamente i discorsi.
- Niccolò Piccinni è un musicista insuperabile – sentì dire – Gluck non riuscirà a convincere l’Opera a presentare Ifigenia in Aulide…
- Dicono che sia raccomandato dalla Delfina perché è stato il suo insegnante di clavicembalo!
- Madame du Barry non permetterà l’affronto! Soprattutto dopo il rifiuto dei diamanti…
- Li ha rifiutati?! E il re?
- La vecchiaia è una brutta malattia…
Temendo di svelarsi si allontanò veloce: aveva udito quanto bastava e fremette di sdegno. Giusto rifiutare i diamanti della du Barry! Credeva di potere comprare una futura regina? E si sentì rafforzata nel battersi perché Gluck presentasse in quel teatro il suo lavoro ispirato alla tragedia di Racine. Voleva bene a Gluck e sua madre lo caldeggiava: avrebbe convinto il direttore.
Raggiunse il piano superiore. Era l’una passata ormai, si guardò intorno: gli altri dov’erano? Una voce melodiosa alle spalle:
- Tutta sola?
Si voltò e arrossendo lo osservò attraverso la maschera: giovane, biondo, lineamenti nordici, slanciato, elegante, bellissimo. Che emozione…
- Tutta sola ? – ripeté lo sconosciuto
- E voi?
- Anch’io… Vi divertite?
- Certo…
- Di dove siete?
- E voi?
- Sono svedese…
- Un paese dove non sono stata.
- Io sono stato in Germania, Svizzera, Italia… prima di raggiungere la Francia.
Si chiamava Axel Fersen, diciotto anni, come Antonietta. Conte, erede della famiglia più ricca del suo paese. In quel periodo era in viaggio per l’ Europa accompagnato dal tutore.
- Da quanto siete a Parigi?
- Da un mese… sono stato anche a Versailles…
- Davvero? – divenne insinuante e curiosa – raccontatemi…
- Mi ha ricevuto la madre di mademoiselle di Lorraine…
- Che ve ne pare di sua figlia?
- Carina ma non come dicono – rispose Fersen ignaro dello scompiglio nel quale mademoiselle aveva gettato la corte durante un ballo.
- E di Maria Antonietta cosa vi è sembrato? – fece turbata.
- Non saprei…
- Come non sapete?!
- Non l’ho avvicinata… il giorno di Capodanno sono andato al castello in ritardo perché faceva molto freddo e avevo ordinato una pelliccia che non arrivava…
- Capisco…. vi piace la musica?
- Certamente.
- E Gluck?
- Non lo conosco ma mi hanno detto che è un ottimo compositore.
“Adorabile”, pensò Maria Antonietta.
Conversarono fino alle tre, isolati e assorti, senza accorgersi dell’ora tarda. Glielo ricordarono alcuni nobili che, riconosciuta la Delfina, le si strinsero intorno.
- Altezza reale vi stavamo cercando…
Mentre una piccola folla la trascinava via, Fersen capì con stupore che aveva parlato con la prima diva di Francia. Imbarazzato sorrise, separandosi come chiedevano le circostanze. “Sua altezza, chi l’avrebbe detto! Stavamo bene…” pensò mentre si allontanava.
Anche lei era stata colpita dall’affascinante straniero, ma dopo un attimo già pensava ad altro. Non poteva sapere che in futuro quel giovane avrebbe avuto un ruolo essenziale nel suo destino di donna.

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22 luglio 2007

Von Stauffenberg e l'attentato a Hitler

di Augusto da San Buono

"E' ora che si faccia qualcosa. Ma colui che oserà agire deve rendersi conto che entrerà probabilmente nella storia tedesca con il marchio del traditore. Se tuttavia rinuncerà ad agire, si ritroverà ad essere un traditore davanti alla propria coscienza"
(Col. Claus Schenk von Stauffenberg)

In quell'estate del 1944, a mezzogiorno e quarantadue minuti del 20 luglio, il colonnello Claus von Stauffenberg avrebbe forse potuto dare una svolta alla seconda guerra mondiale, un diverso futuro immediato per le sorti della Germania, salvare qualche milione di vite umane, riscattare l'onore della sua patria. Intanto i soldati tedeschi, in piena disfatta, sognavano, ignari, più che mai Lala Anderson, la voce roca e dolente di Lilli Marlen che si diffondeva nell'etere, quella canzone che era un inno all'amore in tempo di guerra; Lilli timida ed erotica insieme, voce di inconsueta dolcezza, languida, nostalgica, tenera.


"Vor del kaserme/ vor dem grossren Tor/ standeine Lanterne/ und stehet sie noch davor..." (Davanti alla caserma/ davanti al grande portone/ c'è una lanterna/ e sta ancora lì/ e io anche staserasono qui/ sempre ad aspettar... )


Goebbels l'aveva fatto proibire quella canzone molle, malinconica e femminile, non consona allo spirito marziale dei soldati tedeschi, ma tutti, al tramonto, ogni sera si siedono per terra, in silenzio, e attendono Lei, il sospiro d'amore di Lillì Marlen, che si leva nell'etere. Anche Claus l'ascolta, guarda i suoi soldati e pensa che moriranno tutti se non si farà qualcosa al più presto, nessuno di essi rivedrà la propria Lilli Marlen. Scrive alla moglie: "Cara, devo fare qualcosa per salvare la Germania. Anche se il tentativo fosse destinato al fallimento, lo si deve compiere. La cosa importante è dimostrare al mondo e alla storia che il movimento di resistenza tedesco è esistito e che ha osato passare all'azione, a costo della vita". Parlava dell'operazione "Walchiria", che, come sappiamo, fallì. Com'erano falliti tanti altri tentavi di uccidere Hitler, come fallì la parvenza di una resistenza al nazismo, che qualcuno sostiene non esserci mai stata. Ma che altri dicono che ci fu ma ebbe un carattere totalmente diverso da quella dei paesi occupati dalla Wehrmacht. Non fu resistenza come guerra patriottica, guerra di classe, guerra civile, ma resistenza di carattere speculativo e altamente ideale, civile. Ad esempio Marlene Dietrich, l'Angelo Azzurro, la diva tedesca, che prese la cittadinanza americana e partecipò, poi, attivamente agli spettacoli di intrattenimento delle truppe americane. E poi Thomas Mann, il più grande scrittore tedesco di quel tempo, che visse in esilio, per non parlare di Albert Einstein, Adorno, Poppere, Cassirer, Schumpeter. Un esodo che privò la Germania dei suoi intelletti migliori. Ma ancheall'interno della Germania c'erano stati diversi movimenti di resistenza ad Hitler e al nazismo, a cominciare dai complotti di rivolta di una frangia dell'esercito tedesco, sia nel 1938 che nel 1939. C'erano gli adepti del Circolo di Kreisau che facevano capo al conte Helmut von Moltke, che volevano una profonda riforma morale del paese. E poi c'erano giovani ufficiali della Wehrmacht idealisti romantici, radunati attorno al conte von Stauffenberg, von Tresckow e Olbricht, che vedevano nell'azione immediata dell'uccisione di Hitler, l'unico vero obiettivo che avrebbe consentito al popolo tedesco di riscattarsi agli occhi del mondo e della storia.


Si trattava di un èlite della società tedesca, mancavano gli strati sociali numericamente più ampi, non c'era la sinistra e la classe operaia che mai avrebbe accettato di colloraborare con la nobiltà prussiana per abbattere Hitler, ma non c'era neanche la borghesia, non c'era la classe imprenditoriale e il popolo tedesco, nella sua generalità, sembrava narcotizzato dal nazismo, paralizzato, soggiogato da Hitler. Dirà con molta saggezza e verità il pastore protestante Martin Niemoller: "Quando i nazisti presero i comunisti, non ho aperto bocca: non ero mica comunista io. Quando presero i cattolici non ho protestato: non ero mica cattolico io. Quando rinchiusero gli ebrei non ho protestato: non era mica ebreo io. Quando hanno preso me, non c'era più nessuno che potesse protestare. "Oltre a quell'élite di cui parlavamo, ci furono anche gruppi di studenti e intellettuali di alcune Università tedesche che tentarono di opporsi al nazismo. Il più famoso è rimasto il il gruppo della "Rosa Bianca", fondato dai fratelli Hans e Sophie Scholl, dell'università di Monaco. I giovani studenti svolsero una intensa attività sotterranea propagandistica ispirata a ideali etico religiosi tra il maggio del 1942 e il febbraio del 1943. Ma il movimento ebbe vita breve. Scoperti dalla Polizia, tutti i componenti del gruppo furono arrestati e decapitati nello stesso anno 1943. Ma torniamo alla mattina del 20 luglio 1944 e al più determinato dei congiurati del complotto per eliminare Hitler, che aveva assunto la denominazione "Walchiria", al conte Von Staunffeberg, raffinato intellettuale, ma anche valoroso militare. Claus aveva compiuto trentasette anni proprio il giorno della sua promozione a colonnello, e la nomina a capo di stato maggiore dell'Erasathzeer, l'esercito territoriale di riserva che era destinato, nei disegni degli oppositori del regime, a svolgere un ruolo importante in un eventuale colpo di stato. Discendeva da una nobile famiglia di eroi ed egli stesso aveva dimostrato di essere un valoroso combattente, battendosi con onore sia in Francia che in Polonia e infine in Russia. Alla patria aveva sacrificato un occhio, (anche se fu un incidente: la sua auto era andata a finire su una mina ed era saltata in aria causando la morte dell'autista e di un altro soldato. Lui se l'era cavata con la perdita di un occhio e molte altre ferite). Nei paesi dell'Urss Stauffenberg cominciò a dubitare di Hitler e del suo regime, a causa delle efferatezze delle SS ai danni delle popolazioni, torture davvero disumane e spesso immotivate, cosa indegne dell'uomo. Con la menomazione (aveva anche difficoltà a muoversi con la gamba sinistra e il braccio destro era praticamente immobilizzato, anche la mano era priva di due dita) la moglie Frida pensò che potesse lasciare il servizio e tornare a casa. Ma lui - proprio perchè aveva maturato la convinzione della necessità di sopprimere Hitler - fece di tutto per tornare in servizio, fino ad ottenere l'incarico che desiderava, che gli consentiva di avvicinare indisturbato Hitler.


Quel giorno era stato ammesso alla presenza del Fuhrer. Portava con se' la borsa e dentro la bomba (aveva imparato ad azionarle, le bombe, nonostante le sole tre dita della mano). Entrò nella ben protetta casamatta delle riunione, Lagebaracke, e azionò il congegno che avrebbe fatto esplodere la bomba entro dieci minuti. Nel prendere posto di fronte a Hitler, fece scivolare la borsa sotto il tavolodelle conferenze spingendola avanti con un piede. Dopo qualche minuto uscì disinvoltamente dalla sala, mentre il generale Keitel lo rincorreva per dirgli che di lì a poco sarebbe spettato a lui prendere la parola. Ma proprio in quel momento si verificò l'immane deflagrazione. Erano le 12, 42.... Era certissimo che per Hitler non ci sarebbe stato scampo... S'allontanò e con un altro congiurato cominciò a tagliare le comunicazioni telefoniche tra Rastenburg e l'esterno, subito dopo aver annunciato che l'Operazione Walchiria aveva avuto successo... Come sappiamo, le cose andarono diversamente. Hitler uscì praticamente illeso dalla baracca (pare che casualmente, non volendo , con un calcio qualcuno avesse allontanato la borsa di Von Stauffenberg , o forse Hitler s'allontanò dal posto in cui si trovava, tra l'altro la baracca si mostrò davvero fragile e non favorì l'azione di compressione della bomba). Ma sentiamo la testimonianza di un sopravvissuto: "Ci fu una grande fiammata e una nube di fumo si alzò dalla baracca dove si tenevano, presente il Fuhrer, le quotidiane riunioni dello Stato Maggiore tedesco (quando avviene lo scoppio la riunione era iniziata da pochi minuti). Sentii subito i lamenti dei feriti (alcuni erano stati proiettati fuori dalle finestre aperte) e le invocazioni di aiuto; altri giacevano ormai senza vita. E Hitler dov'era, che fine aveva fatto? Era rimasto ferito ma in maniera molto lieve. Era sotto shock (la sua prima reazione fu: "I miei calzoninuovi...!"), ma a parte il viso annerito, i capelli arruffati e i calzoni a brandelli e qualche escoriazione, era del tutto incolume al punto che qualche ora dopo, alle 16, ricevette la visita di Mussolini. Non ci volle molto a classificare l'episodio come un attentato alla vita di Hitler: si trattava ora di smascherare l'autore, o gli autori, che non potevano essere lontani, anzi dovevano essere sicuramente ricercati tra coloro che avevano partecipato alla riunione. A parte i morti, mancava all'appello un giovane colonnello, il conte Claus Schenk von Stauffenberg (che in un primo tempo venne creduto tra i feriti ricoverati in ospedale) ed è su di lui che si appuntarono i primi sospetti degli investigatori, che era uscito dalla stanza dove si teneva la riunione qualche minuto prima dello scoppio. I sospetti ben presto, dopo la testimonianza di alcuni ufficiali e soldati delle SS di guardia a Rastenburg, divennero certezza: l'attentatore non poteva essere che lui, che fu impiccato assieme a tutti i cospiratori. «Voglio che siano impiccati, appesi come bestiame a ganci da macello», aveva ordinato Hitler. E tra i congiurati c'erano nomi illustri, c'era anche il generale Rommel, la volpe del deserto. Ma - ci si chiede - sarebbe servito veramente a qualcosa sopprimere Hitler per dare un altro "volto" alla Germania, che - secondo alcuni - ha la "vergogna" di non aver avuto una vera sua "resistenza", resistenza che, ad esempio, ha salvato la faccia alla nostra Italia che certamente non si era distinta durante la guerra? Ad esempio Gunther Grass disse:"Se noi tedeschi avessimo avuto anche una parvenza di resistenza, ci vergogneremmo un po' meno di quel tristo periodo della storia".


Con la morte di Hitler ci sarebbe stato un po' di riscatto per il popolo tedesco? "Non so - risponde Cinzia da Boston - se ci siano paesi "riscattati". Lo dubito. Emerson nel suo saggio sulla politica diceva "every actual country is corrupt", ogni paese reale e' corrotto. Una specie di peccato originale nazionale, come quello individuale. E poi chi dice che la Germania non abbia avuto una resistenza? E' tutto da vedere, io credo che l'abbia avuta una resistenza. Qualita' o quantita'? Va' da se' che un "esercito irregolare" come quello della Resistenza per sua natura non sia quantificabile. E che per "riscattarsi", i suoi numeri e la sua importanza militare lieviti nel tempo, con molti coscritti e volontari post-bellum. E se ci fosse stato solo Stauffenberg in Germania come Resistente (e non e' vero, abbiamo visto che ce ne sono stati molti altri, anche se sempre una ristretta èlite), per me anche quella sarebbe stata una vera Resistenza. Ancora una volta Adolf Hitler era uscito indenne e miracolato dall'appuntamento con la morte. Anche stavolta, come scrisse alla sua amante Eva Braun, attribuì il fallimento dell'attentato alla provvidenza, e considerò la sua salvezza come il chiaro segno di un destino che avrebbe consentito al grande reich millenario, di ribaltare la drammatica situazione militare e di ottenere la tanto sperata vittoria; il fuhrer infatti, memore dei miracolosi episodi che anche in passato, gli avevano consentito, incredibilmente, di sopravvivere, si considerava come un predestinato, investito di una missione da compiere e per questo invulnerabile ad ogni tentativo di soppressione. A mezzanotte dello stesso giorno 20 luglio 1944 , - scrive Umberto Stefani -nel cortile del Ministero della Guerra furono fucilati Stauffenberg e altri congiurati. Altri si suicidarono o furono invitati a farlo, come Rimmel. Goerdeler e Tresckow furono arrestati e impiccati. La vendetta fu estesa anche ai familiari della sparuta pattuglia di oppositori.


Così si consumò l'atto finale dell'ultima congiura contro il dittatore nazista. E le vittime principali del fallimento, oltre ai personaggi direttamente interessati, furono ancora una volta i popoli coinvolti nel conflitto. Soprattutto quello tedesco. La sopravvivenza di Hitler costò la vita a più di quattro milioni e mezzo di tedeschi negliultimi nove mesi di guerra". Se la resistenza interna al nazismo può definirsi inconcludente e confusa nei suoi propositi, sul piano morale - dice Stifani - sono d'accordo con Cinzia da Boston, per me è valsa quanto un successo. Il sangue versato dai giovani studenti della Rosa Bianca, da Stauffenberg e dai cospiratori radunati attorni a lui servì a dimostrare, più del processo di Norimberga, imposto dalle potenze vincitrici ad una Germania sconfitta, che un barlume di coscienza civile era pronto a rinascere sulle ceneri del Terzo Reich. In realtà l'evolversi degli eventi ha dimostrato come l'azione di Stauffenberg e degli altri attentatori ebbe soltanto l'effetto di prolungare la straziante agonia del popolo tedesco e di regalare ad un fuhrer ormai spento e malato, la macabra gioia di un'agghiacciate repressione e di un'ascia di sangue che contraddistinse il nazional-socialismo, ancora più crudelmente, nelle drammatiche fasi della sua progressiva distruzione.
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10 luglio 2007

"Hannibal, le origini del male" di Thomas Harris

HANNIBAL LECTER
LE ORIGINI DEL MALE di Thomas Harris
© 2007 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. Milano Pag. 281


E', questo, il quinto libro della serie dedicata allo psichiatra cannibale Hannibal Lecter, nato dalla penna di Thomas Harris. Personaggio eclettico, affascinante, mostruoso eppure, a suo modo, attraente.
L’ultimo libro della serie va a ritroso a ripescare quello che mai si è detto nei romanzi che lo hanno preceduto: perché Hannibal uccide?
In questo romanzo Harris ripercorre le origini del mostro, prima che divenisse tale, presentandoci il piccolo Hannibal, figlio di una famiglia lituana che durante la seconda guerra mondiale è costretta a fuggire e a nascondersi.
Hannibal ha una sorellina, Misha, e proprio loro due, resteranno i soli superstiti.
Un gruppo di collaborazionisti distrugge tutto quello che trova sul suo cammino, derubando e uccidendo.
Dopo aver fatto man bassa delle preziose opere d’arte contenute nel castello dei Lecter, arriva anche al nascondiglio della famiglia. Qui, dopo aver ucciso gli adulti, catturano Hannibal e Misha e … uccidono la piccolina per mangiarsela.
Hannibal rimane segnato da questa terribile esperienza e per anni, dopo essere stato ritrovato e ospitato nel proprio castello divenuto ora un orfanotrofio, non parla e passa notti tremende nelle quali gli incubi lo costringono a vedere e rivedere la sua sorellina portata via nelle braccia di quegli orchi.
Dopo qualche tempo uno zio e la moglie, una giapponese affascinante, lo adottano, portandolo via dall’orfanotrofio.
Hannibal cresce, diventa uno studente di medicina, con uno scopo nella vita: vendicare la morte di Misha.
Dà la caccia ai volti che si sono stampati nella sua memoria e li ritrova, nonostante questi abbiano cambiato identità.
Uno a uno li uccide con freddezza e calcolo.
Lady Murasaki, la matrigna, è a conoscenza dei suoi delitti, così come l’ispettore Popil che cerca invano di incastrarlo.
A mio parere, al di là della forte motivazione che Harris ha inserito nel contesto, trovando un perché originale, mancano comunque delle cause psicologiche convincenti. Si parla tanto del periodo, di quadri, di anatomia, ma si pecca di un vero e proprio viaggio nell’animo di Hannibal, della sua trasformazione. Mancano le emozioni.
Anche la narrazione risulta scadente in confronto ai libri che lo hanno preceduto. Forse spinto dalla frequente domanda del perché Hannibal sia così, Harris ha voluto dare voce a questa richiesta non penetrando più di tanto nel suo personaggio.
Se poi si vuole essere ancora più pignoli, mancano proprio le basi che reggano la psicopatia del serial killer; si è cercata una spiegazione che facesse molta scena, ma che con la psichiatria ha ben poco da fare, qui si tratta solo di vendetta.
Manca, inoltre, la sfida tra l’ispettore e Hannibal, non c’è azione.
Preferibile è ricordare il personaggio Lecter adulto, lo psichiatra misterioso, molto più attraente quando non si sapeva il perché.
© Miriam Ballerini
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07 luglio 2007

Link consigliati – babyloncafe.eu
servizio di Bruna Alasia

Una redazione di creativi, una fata morganaBABYLONCAFE.EU, MERAVIGLIA ON LINEPoesia, narrativa, fumetti, web art, esperanto e altro ancora
In una notte di novembre del 2006, mentre a Roma cadevano certi goccioloni, un gruppo di giovani discuteva in un pub della possibilità di creare un luogo permanente dove dibattere di letteratura e arte, in tante lingue compreso l’esperanto, attraverso le potenzialità insondate di internet. Ognuno aveva esperienza in campo editoriale per aver scritto articoli, pubblicato a proprie spese, lavorato con case editrici in Italia e all’estero. Il nome venne fuori all’unanimità, bellissimo e significativo: “Babylon café”, dalla celebre torre di Babele costruita per arrivare a Dio. L’episodio della Genesi, secondo cui l’Altissimo portò scompiglio tra gli uomini facendoli parlare lingue diverse, letto come spiegazione mitologica delle differenze: Babele non era peccato e l’arte può abbattere barriere, contribuendo alla tolleranza.
Il sito è in rete da febbraio. La grafica è splendida: digitate
http://www.babyloncafe.eu/ e poi ditemi se un colorista come Delacroix non sarebbe saltato sulla sedia all’apparire della pagina vivida su sfondo scuro! Babylon ha una scenografia nata dalla bacchetta magica di una fata Morgana, nome vero della webmistress, romana e laureanda in scienza della comunicazione.
Scorrendo si possono leggere tutti i più importanti giornali: dai grandi quotidiani come il Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, a quelli di informazione finanziaria e sportiva, ai telegiornali Rai e Mediaset. Per arrivare a un menu ricco con autori in vetrina, opere di narrativa, noir & fantasy, esperanto, fumetti, web art, novità e concorsi, servizi letterari, etimologici e un mensile nato dall’ ingegno della direttrice Maria Elena Cristiano, coadiuvata dalla redazione e dai collaboratori: il “Babylon magazine”. Web-zine che collega e amplia il dibattito fra i frequentatori del caffè e il mondo, con eventi culturali, recensioni di libri, spettacoli, arte, pagine raffinate di interesse psicologico e scientifico. Dulcis in fundo le vignette di Lucek: “Non si deve gettar discredito sugli esponenti politici italiani… riescono a farlo benissimo da soli”.
Maria Elena Cristiano, deus ex machina, ha trent’anni, laureata in medicina è avviata a diventare psichiatra. Professione interessante per una scrittrice di fantasy, che da molti anni scrive storie del mistero su riviste italiane e americane. Maria Elena ha anche pubblicato “Immortali”, racconto noir di 221 pagine, sotto lo pseudonimo di Vampire. Nel sito si dedica agli autori dello stesso genere.
Davide Zingone, docente di inglese, cura l’ esperanto perché “ portatore di quegli ideali di uguaglianza e rispetto purtroppo calpestati” e una sezione dedicata al fumetto con disegnatori di alto livello professionale.
Lorena Baldi e Francesco Manco seguono la narrativa italiana, Esteban Rodriguez quella straniera, Rita di Salvo la poesia, Emanuele de Luca la web-art che, nel cinematografico Babylon, ha una cornice perfetta. Davide Zingone e Fabio di Maio offrono altresì servizi di traduzione, editing e correzione di bozze. Etymon Logos è il nome d’arte del curatore della rubrica di etimologia.
Coloro i quali pensano che in internet ci sia tanto ma di nessun valore, presto saranno smentiti.
Riassume bene Davide Zingone: “Tra i milioni di elettroni che circolano a velocità folle lungo il grande Web le case editrici potrebbero pescare molti piccoli gioielli, se solo si prendessero la briga di cercare con attenzione… Vedrei con favore la nascita di un mega portale che inglobasse il meglio delle proposte in rete, con un’attenta selezione basata sulla qualità. Che potrebbe diventare un serbatoio ed un riferimento per l’editoria cartacea… Quanto alle riviste on line credo che ce ne siano alcune molto ben fatte e piuttosto interessanti, che poco hanno da invidiare ai magazine patinati disponibili in edicola. Non è un caso che parecchie testate abbiano approntato, accanto alle versioni stampate, anche quelle telematiche”.
Alla fine del 2006 il Time uscì con una copertina che rappresentava una tastiera, un monitor, una finestra e la scritta: “Voi che controllate l’era dell’informazione, il mondo è vostro”. Si rivolgeva agli internauti, protagonisti di una rivoluzione non-violenta generata dalla forza della comunicazione, dichiarandoli “uomo dell’anno” con queste motivazioni: “Per aver preso le redini dei media globali, per aver fondato e aver dato forma alla nuova democrazia digitale, per aver lavorato gratis e aver battuto i professionisti allo stesso gioco”. Ora gli “uomini dell’anno”, soprattutto se internauti di cultura, hanno una sfida darwiniana, selettiva, olimpionica e imprescindibile: la qualità. Riusciranno i nostri eroi?
Babylon café può con fiducia cimentarsi.

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Rev. 31-01-13 - AdB

06 luglio 2007

Fiat 500, star tra due millenni

di Antonio V. Gelormini

Il suo arrivo, sulle strade di un’Italia che si apprestava a vivere il boom economico dei famosi anni ’60, fu come l’irrompere sul parterre di Sanremo, all’epoca di Nilla Pizzi, Luciano Taioli e Gino Latilla, della carica entusiasta e rivoluzionaria di Domenico Modugno. Ed è stato ancora la voce dell’italiano più cantato nel mondo a salutare, a Torino, il ritorno atteso della Nuova 500.

Certo la 500 non poteva “Volare”, ma tra un mix di passato, ricordi e futuro è proprio da uno dei paesi più moderni, la Nuova Zelanda, che ci viene rimandato il legame senza tempo tra due amori tipicamente italiani, come il cantante di Polignano a Mare e l’auto cult diventata un’icona. La “Bambina”, la chiamarono laggiù. Ispirando tenerezza e simpatia che la resero popolare, poi, fino in Australia.

Le note di “Ciao ciao bambina”, il motivo che la lanciò nel paese dei kiwi, l’hanno salutata nel fantasmagorico scenario preparato sulle rive del Po, per un evento volto a sottolineare la rinascita di un modello, di un’azienda e di una città. Ma che vuole essere anche paradigma di speranza per l’intero Paese.

Note a cui hanno fatto eco le canzoni che l’hanno accompagnata attraverso generazioni e stili di vita. “Romantica” di Tony Dallara o “Andavo a cento all’ora” di Gianni Morandi. “Abbronzantissima” di Edoardo Vianello o “Nessuno mi può giudicare” di Caterina Caselli. In una marcia di avvicinamento che passava dal “Cin Cin 500” di Enrico Ruggeri ai “500 sogni per una sola 500” di Eugenio Finardi.

Fino ad arrivare alle sofisticate scelte musicali, che hanno sottolineato, più recentemente, la rivoluzione Fiat. Fatta di tenacia, impegno, modernità e mentalità vincente. Prerogative inconcepibili senza umiltà, dedizione, formazione e cultura. Manifesti sonori ed ideali come “Meravigliosa creatura” di Gianna Nannini, “Un senso” di Vasco Rossi, “Somewhere over the rainbow” nella versione dell’hawaiano Israel Kamakawiwo’ole e della raffinata “Back to Life” di Giovanni Allevi, che enfatizzerà lo spot pubblicitario della Nuova 500 (l’autore delle musiche anche di quello magnifico della BMW).

Uno spot voluto, suggerito e coordinato dall’uomo simbolo della nuova Fiat, Sergio Marchionne. Il racconto di un orgoglio italiano, lungo 50 anni, attraverso figure esempio come Falcone, Borsellino, Ciampi, Valentino Rossi e Giorgio Gaber. L’entusiasmo italiano per una vittoria tutta racchiusa in quel braccio sollevato al cielo dal mito dei ragazzi su due ruote.

La Nuova 500 è stata presentata sul Po. Il nome più piccolo per il fiume più grande. La macchina più piccola per i progetti più ambiziosi. La sintesi di un contrasto, che indica un grande futuro per l’azienda un tempo piccola, nel panorama mondiale dell’auto e che, già oggi, vale più della somma di General Motors e di Ford.

Con effetto slow motion il “Cinquino” in 50 anni resta sempre e comunque la 500. Un nome che non sarebbe piaciuto a Massimo Troisi, la cui celeberrima raccomandazione indicava nei nomi brevi il segreto del buon carattere ed dell’agile prontezza. Sergio Marchionne vede la Nuova 500 come “l’iPod” di una Fiat intesa come la Apple dell’auto. Decisamente è sulla buona strada.

(gelormini@katamail.com)

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02 luglio 2007

Film – Terapia Roosevelt – la recensione di Bruna Alasia

TERAPIA ROOSEVELT
Regia di Vittorio Muscia.
Con Giampiero Ingrassia, Barbara Tabita, Antonio Salines, Gianfranco Barra, Raffaele Pisu, Mario Maranzana, Adriana Russo, Ruta Marina, Mirko Bruno, Adriano Giraldi.


Commedia intelligente, ironica e divertente, “Terapia Roosevelt”, italianissimo film d’esordio, riecheggia in alcune scene surreali le atmosfere del grande Bunuel, trasmettendo un messaggio di contenuto: niente panico, nessuno è inferiore.
Lo fa attraverso una storia gustosa nella quale ci si può identificare: Sandro, un giornalista televisivo, non riesce a vincere la propria timidezza ed evita per questo di apparire in video. Un giorno il suo direttore gli chiede di sostituire un collega e di intervistare in diretta un uomo politico importante. Annientato dall’ansia Sandro si rivolge ad un eccentrico psicoterapeuta che cercherà di aiutarlo usando il metodo dell’ex Presidente USA Theodore Roosevelt, che consiste nell’immaginare il proprio interlocutore seduto su un water, nell’atto di espletare le funzioni naturali: cosa che rende ciascuno uguale agli altri e ne fa dimenticare la sovrastruttura pubblica, paludata, istituzionale, apparentemente superiore e illusoria.
Altri trucchi comportamentali, quali quello della “spallata” - essere catapultati su un palcoscenico e dover parlare in pubblico – saranno adottati dallo psicoterapeuta mentre per Sandro si fa sempre più gradito e stimolante l’incoraggiamento della collega Susanna. Ma vincere la timidezza aiuta in amore? La risposta la troverà chi va a vedere questo film gradevole e poetico.
La scuola italiana di psicoanimazione ha elaborato, iniziativa unica nel suo genere, il questionario “Facciamo luce sulla timidezza” da compilare anonimo all’uscita delle sale. I dati raccolti dall’indagine su scala nazionale confluiranno in un libro sulla timidezza, di prossima pubblicazione.
Se si chiede a Vittorio Muscia il perché di un film su un aspetto psicologico così complesso e non spendibile come carta vincente, il regista risponde: “In questa nostra epoca di debordante appeal catodico, in cui l’apparire è divenuto più importante dell’essere, il risultato è che molti vogliono essere protagonisti a tutti i costi, sia nella gioia, sia nel dolore, senza alcun pudore. A mio avviso, invece, un po’ di riservatezza e un po’ di timidezza potrebbero rendere questa nostra vita meno volgare. Spero che, con questo film, le persone timide riescano a vedere in questa loro intima emozione una fonte di ricchezza, una risorsa interiore che rappresenta l’eleganza della loro anima”.

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01 luglio 2007

Giorgio Caproni. Corpo a corpo con Dio.

di Augusto da San Buono
La prima volta che vidi Giorgio Caproni fu circa vent’anni fa, a Roma (“enfasi e orina… Non è il mio ambiente, manca il paesaggio industriale a me tanto caro, manca il porto, mancano le navi”), in via Vitellia, strada che costeggia le mura di Villa Pamphili. Il poeta livornese (“Livorno è l’infanzia e Annina, mia madre… Quando lei passava, Livorno odorava d’aria e di barche”), ma lungamente vissuto a Genova (“Genova sono io, ogni pietra di Genova è legata alla mia storia d’uomo”) era un vecchietto, alto, magrissimo, dal viso affilato, severo, sofferente, più che ieratico, che camminava incerto, come smarrito, trascinandosi dietro l’ombra della disperazione e dell’esilio (“Hanno bruciato tutto./La chiesa. La scuola./Il Municipio. Tutto. /Anche l’erba”).
 
Io non sapevo chi fosse. Fu mia zia Rina, che faceva la portiera al “Casermone”, - antico agglomerato di case di due piani, ex caserma al tempo risorgimentale della Repubblica Romana, nonché “stalla di Garibaldi”, che aveva conosciuto la mia infanzia - che mi disse che quel vecchio era il “maestro”, e che tutti i giorni faceva quella passeggiata, da solo, in cerca di chissà che cosa (“Ricordo una chiesa antica,/romita, / nell’ora in cui l’aria s’arancia / e si scheggia ogni voce / sotto l’arcata del cielo//… Hanno rubato Dio. /Il cielo è vuoto). E – continuò mia zia - non si sa a che pensi. Sembra un fantasma, uno scheletro, ridotto a pelle e ossa, com’è; uno di quelli che hanno perduto la bussola e girano a vuoto, su se stessi. Ma bisogna pur capirlo. Da quando è morta la moglie, la povera Signora Rina (si chiamava come me), non ci sta più con la testa (“ Di questo sono certo: io/ son giunto alla disperazione/ calma, senza sgomento”…S’ha un bel dire./ ma di tutto uno può scordarsi./fuorché di morire”) .


La zia Rina lo conosceva bene, perché in diverse occasioni era stata a casa loro, in viale dei Quattro Venti, a fare le iniezioni alla povera signora Caproni, e tuttora ogni tanto vi si recava nel caso il maestro avesse bisogno di qualcosa. Sai, non ha più memoria…( “Tutti riceviamo un dono ./Poi non ricordiamo più/ né da chi né che sia/ Soltanto, ne conserviamo / - pungente e senza condono – la spina della nostalgia.”).

Dissi a mia zia che Caproni era considerato il maggior poeta italiano vivente, e che sarebbe stato un vero onore per me poter salutare l’autore del “Passaggio di Enea” (“Amore mio, nei vapori d’un bar/ all’alba, amore mio che inverno/ lungo e che brividi attenderti!”), Enea che dopo la guerra e l’incendio, va in cerca di una mai trovata nuova terra dove fondare la mai fondata città, “quell’Enea che simboleggia un po’ il destino della mia generazione fallita”, dirà il poeta delle “Stanze della funicolare (“La mia città dagli amori in salita, /Genova mia di mare tutta scale/ e, su dal porto, risucchi di vita”) e del “Seme del piangere (“Come scendeva fina/ e giovane le scale Annina!/ Mordendosi la catenina / d’oro, usciva via/ lasciando nel buio una scia/ di cipria che non finiva”), raccolte poetiche che avevano ottenuto il premio Viareggio per la poesia sia nel 1952 che nel 1959, per non parlare del “Il Muro della Terra” dal tocco schubertiano, con impennate di violino (“Ho studiato il violino per vari anni, mi ha esercitato alla pazienza e alla quotidiana scoperta dei miei e degli altrui sentimenti”), sprofondate di violoncello, con sfumature di un goticismo hoffmaniano (“Portami con te lontano/ lontano…/ nel tuo futuro”) dove l’unica certezza è quella della vita e della morte.
“Oggi come oggi sento che tutte le strutture (le istituzioni) non reggono più, oggi non viviamo più in un mondo geometricamente perfetto, anche se pieno d’orrende ingiustizie, come all’età di Pericle… Oggi dobbiamo rifare tutto da capo, oserei dire Dio stesso, se questa non fosse, per credenti o miscredenti, una boutade. La mancanza di una certezza, più che mia, mi sembra di un’epoca. Come non ricordare il “Franco Cacciatore”, che insegue la propria ombra e cerca di ucciderla, il libro più spettrale – dice Citati – che sia apparso nella letteratura italiana, un libretto d’opera che nasconde in se la propria musica. Tutto vi è chiuso, serrato, geometrico. (“Sedetti fuori dell’osteria,/ al limite della foresta./ Aspettai invano. Ore e ore/ Nessuna predace in cresta/ apparve della Malinconia/ Aspettai ancora. Altre ore:/ Pensai, in straziata allegria , / al colpo fulminante/ del franco cacciatore” ), o il “Congedo del viaggiatore cerimonioso” (“…No, non è questo il mio paese. Qua – fra tanta gente che viene e tanta gente che va – io sono lontano e solo (straniero) come l’angelo in chiesa dove non c’è Dio), o del suo ultimo libro, che avevo acquistato recentemente da Bono, sul corso, a Gallipoli, “Il conte di Kevenhuller” (“L’AVVISO del Conte fu accolto/ quasi con frenesia./ Il sangue dà sempre allegria/ L’assassinio è esultanza/ Uccidere, un passo di danza/ che sfiora la liturgia”).
Ma tutte queste citazioni, mia zia Rina non battè neppure un ciglio. Rimase incerta dubbiosa, sospetta, assai perplessa. In fondo – disse - si tratta di un maestro elementare in pensione, poverino, che stenta pure a campare, è vestito male, ha le scarpe rotte, ha bisogno di continue assistenza e cure. Non mi sembra il caso di esagerare con la poesia (“Ah poesia, poesia,/ Tristissima copia/ di parole, e fuga/ dell’anima mia”), che in fondo è un perditempo per chi non ha nulla di meglio di fare…
La cara zia Rina non poteva avere nessun altro tipo di considerazione che non fosse di puro compatimento e umana pietà per quell’uomo anziano, abbandonato, triste, malinconico, sofferente, spaesato, che camminava incerto e disperato lungo il muro della Villa Pamphili su cui tante volte, da bambini, io e mio fratello Alberto, c’eravamo arrampicati e avevamo scavalcato, per vedere cosa c’era al di là (“Batte profondo un tamburo/ Sono arrivato al muro/ che vien detto futuro?); quest’uomo “estraneo”, che viveva in permanente esilio. Esiliato dallo spazio (la sua città d’amore, Genova, che aveva dovuto abbandonare per sempre), esiliato dal tempo passato (Annina, la madre, sarta, ricamatrice abilissima, suonatrice di chitarra, con la sua bicicletta azzurra, che faceva scandalo a Livorno; Annina Picchi che amava i canti e i balli, ed era piena di vitalità, una delle figure più importanti della poesia del Novecento), esiliato dalla vita ( quel continuo viaggio nel sogno, nella notte, nella morte, in un livido, delicato delirio romantico; un viaggiatore ironico, lieto, disperato e fraterno, “che sa d’aver più conoscenze ormai di là che di qua”), uno che si sente simile all’ultima rondine in attesa di trasformarsi in pipistrello (“L’ora era tra l’ultima rondine e la nottola“), che se ne va in giro nell’Erebo e nel Purgatorio con un dolore immedicabile e quieto, con una solitudine ormai definitiva. (“E quando sarò così solo da non aver più nemmeno me stesso per compagnia staccherò dal muro la lanterna, un’alba, e dirò addio al vuoto”), un uomo gettato nel vuoto mondo senza nessun orientamento.
La zia Rina, per tutta risposta, mi gelò. Mi disse che il maestro non voleva vedere nessuno, che la gente lo spaventava, aveva timore di incontrare pure il garzone del lattaio. Allora mi ritrassi, ma la pregai di consegnargli un mio libro, “L’isola e il leone”, con una dedica tutta speciale “al più grande poeta italiano vivente”. Non so se la mia povera zia (morì qualche anno dopo) consegnò quel libro, comunque non ebbi alcuna risposta da Caproni, né avrei potuto onestamente averla. Era già uno spettro, un ectoplasma, un fantasma pieno di silenzi, che camminava nel vuoto in cerca di un Dio che “non s’è nascosto. Dio s’è suicidato”. E tuttavia continuava ad invocarlo: “Mio Dio, anche se non esisti, / perché non ci assisti?”. Continuava a pregarlo:“Signore, anche se non ci sei, / egualmente proteggi/ e assisti me e i miei”, con la sua amabilità ironica. Ora se ne sarebbe andato in un vuoto Paradiso (“Me ne vado dove, / da tempo, già se ne è andato Dio”) dove s’udivano “fucilate d’amore /nel brivido del fogliame/ mosso dal soffio delle ore…”.
“Il bisogno di Dio – dirà – non è mio, è dell’umanità, è soprattutto il bisogno di un poco di giustizia, di un poco di luce, di un poco di anima in tanta massa condizionata dai potenti mezzi di diffusione (e di educazione alla rovescia) oggi esistenti, dove le parole sono “stracci” o “frecce di sole”, dove per risolvere la questione della vita basta “il sesso e la partita./ Resta (miseria d’una sorte) /da risolver la morte”.
“All’origine dei miei versi c’è la giovinezza e il gusto quasi fisico della vita, ombreggiato da un vivo senso della labilità delle cose, della loro fuggevolezza: coup de cloche, come dicono i francesi, o continuo avvertimento della presenza, in tutto, della morte… La mia poesia è un’allegoria della vita con tutto quanto ha di sgomentante la vita stessa, la guerra ingiusta, la guerra fascista, che ha gravato su tutta la giovinezza, fino alla maturità, della mia generazione e credo che questa continua condanna della guerra si senta nella mia poesia, che è così poco autobiografica, come invece alcuni lettori frettolosi, incapaci di leggere a fondo, l’hanno qualificata”.
In realtà, Caproni è disperato per la iniqua inutilità della storia (“fa freddo nella storia”), è disperato per il sentimento dell’assenza di Dio, un Dio esiliato, che significa esilio dell’uomo da Dio, cioè da ogni cosa e da ogni luogo. Ma le sue parole, benché siano terribilmente disperate, non possono mai essere vuote, anzi, ci insegnano a vedere – come disse Bo – per trasparenza il fondo buio della nostra anima”. La sua è una lotta senza quartiere, un corpo a corpo con Dio . Egli vuole capire, afferrare, intendere Dio, con tutte le forze protese della sua pura mente geometrica, di colui che ha abitato profondamente il regno del Vuoto, che ha una lunga abitudine al buio, alla desolazione, alla terra bruciata, alla guerra, al massacro, alla morte. (Ha combattuto sul fronte delle Alpi Marittime e poi in Veneto, è stato partigiano nella Val di Trebbia ). E’ un uomo da luoghi di frontiera, da terra di nessuno, da osterie solitarie, da cacciatori sconosciuti, dove tutto è solitudine, addio, viaggio, fuga. Esilio.
Rividi Giorgio Caproni un anno dopo l’incontro, da lontano, (da ombra a ombra) in via Vitellia, a Roma: - “Non è vero che io non ami Roma. Questa città ha tante cose stupende, anche se mi sa un poco di Medio Oriente, forse per il clima, forse perché è la città santa, che induce ad aspettarsi, in certi tramonti al Granicolo, a due passi da casa mia, di veder apparire fra le palme i cammelli. Ma in nessuna altra città del mondo, credo che si possa godere la libertà che si gode a Roma” - sugli schermi della Tv, credo che il programma fosse “Domenica in”, e conduceva Mino Damato, il celebre giornalista assetato di scoop, che aveva fatto la “prova del fuoco”, nel senso che aveva camminato a piedi nudi sui carboni ardenti, come fanno i fachiri e i saltimbanchi.
“La mia sfiducia – aveva detto Caproni – non è sfiducia assoluta nell’uomo, ma nella società così com’è andata conformandosi. La religione e le ideologie scricchiolano e si conservano in piedi o con la forza o per ipocrisia. Davvero un uomo d’oggi, soltanto perché viaggia tanto più comodamente e rapidamente, perché conosce gli antibiotici e il computer, perché ha una macchina, perché viaggia nello spazio, perché ha l’acqua corrente in abbondanza in casa, l’aria condizionata, ecc.,ecc., è più civile , è più felice d’un greco antico, d’un pigmeo ecc., e magari addirittura d’uno schiavo romano ben trattato dal padrone perché costoso?”
Uomo schivo, estremamente ritroso, Caproni fu convinto ad accettare l’invito dagli amici intellettuali, Falqui, Luzi, Spaziani, Bertolucci, e si lasciò trasportare da Damato che lo presentò, ovviamente, come uno scoop: Ecco a voi, siori e siori, il più grande dei poeti viventi, Giorgio Caproni, in predicato, quest’anno, di vincere il Nobel per la letteratura. Lui se ne stava seduto, sempre magrissimo, sempre smarrito, sempre in esilio, accartocciato su se stesso, con una camicia bianca troppo grande, i capelli grigi troppo corti, da militare o carcerato, il viso troppo scavato, simile ad un cranio nudo, sofferente, timido, impacciato, fuori posto, fuori luogo. Sembrava un povero vecchio proletario amante disperato della libertà, imprigionato in uno studio televisivo. Sembrava capitato lì per caso e probabilmente gli stessi inservienti l’avrebbero cacciato, se non fosse intervenuto il grande Mino Damato, che intuì rapidamente che forse non era uno scoop averlo chiamato (i poeti non fanno audience) e così lo tenne a bagnomaria per un paio d’ore, prima di intervistarlo. Dopo balletti, trine e odori di lillà, canzonette e schetches vari finalmente toccò al grande maestro della poesia, che era diventato una imbarazzante pratica da evadere. Un paio di domande, le più viete possibili ( Che significa poesia, che significa essere poeti, poeti si diventa o si nasce.?) e via a casa, grazie maestro. Ad majora.
Le risposte di Caproni furono il massimo della concisione. (Poesia significa in primo luogo libertà; il poeta è un minatore, o un subacqueo che va giù nelle viscere dell’io e, miracolosamente, torna alla superficie col “tu” e col “noi”; essere poeti non è un mestiere, io non mi sono mai definito tale, è una qualità quasi fisiologica). Era stufo, stanco di essere torturato in quello studio pieno di luci, di voci, di odori strani (Portatemi via, per favore, portatemi a casa mia, alla scrivania. “Mia mano, fatti piuma:/ fatti vela; e leggera/ muovendoti sulla tastiera / sii cauta…// sii arguta e attenta: pia / Sii magra e sii poesia / se vuoi essere vita”). Non aveva voluto soggiungere che “Poesia significa libertà, ma anche disobbedienza di fronte a ogni forma di sopraffazione o di annullamento della persona; di fronte a ogni forma di irregimentazione o, peggio, di massificazione. Che la poesia è un traffico con l’inconscio e non è lucidità raziocinante, esposizione. E che le sensazioni oscure sono per il poeta le più interessanti, a condizione che le renda chiare: “se percorre la notte – diceva Proust – lo faccia come l’Angelo delle tenebre, portandovi luce”. Ma la luce a Caproni – scrive Beccaria – viene anzitutto dalla linea esistenziale della sua lirica, che partecipa direttamente l’esperienza del suo vivere, comunica la parola fraterna, non ingolfata nei labirinti del manierismo, nell’esasperazione della tecnica, nel feticismo del significante”. La sua poesia è estrema. Vive in una misteriosa armonia tra scheggia e poema, tra l’apocalisse e il nulla. “Poesia che è musica e che si è fatta – scrive Raboni - via via più difficile, irta, amara, dissonante, di una gestualità spoglia, malinconica, slogata, rastremata, nell’essenziale, per l’atroce violenza metafisica della morte di Dio (“Sta forse nel suo non essere/ l’immensità di Dio? Non ha saputo resistere/ al suo non esistere?”), dell’esilio dell’uomo dal luogo di tutti i luoghi, della sua cacciata irrimediabile da ogni possibile paradiso. (“Dio esiste soltanto nell’atto di chi lo prega: un atto, in fondo, di disperazione e negazione”).
“Di questa cacciata la poesia di Caproni si è fatta in modo via via più limpido, esclusivo e potente, cronaca e commemorazione. Da un certo punto in poi Caproni non ha fatto altro che congedarsi dalla terra e dalla speranza, come se davvero fosse venuto per lui, poeta-viaggiatore, utente effimero e appassionato della vita, il momento di chiedere l’alt. Ma in realtà quel congedo ha avuto inizio con l’inizio stesso della sua poesia e non avrà mai fine”.
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Rev. 06-02-13 AdB

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