30 settembre 2007

Per il ricordo di Gaetano Salvemini

Nell’opuscolo che il quotidiano “L’Unità” – memore del cinquantesimo anniversario dalla morte - ha recentemente dedicato alla figura di Gaetano Salvemini, si ricorda volentieri quella che è passata alla storia come una non attitudine per la filosofia del grande pensatore pugliese. Bertrand Russell, di contro, sosteneva di non comprendere il pensiero di molti uomini di cultura italiani e dunque – diceva – Salvemini non deve essere colto perché invece il suo pensiero lo comprendo perfettamente.
Ci troviamo di fronte, in realtà, ad un personaggio molto difficilmente inquadrabile in una precisa corrente filosofica. Storico e pensatore libero il nostro rifuggiva quotidianamente dalle idee astratte; condivideva il bisogno di verità che è negli uomini, ma non intendeva la ricerca filosofica come un metodo per conseguire la pienezza intellettuale. Per lui anzi la filosofia era la “fabbrica del buio” e più ancora sembrava rifuggire dalle idee di quelli che – ieri come oggi – invece di cercare la verità si sono messi in testa - poveri noi che impresa! -, di costruirla pezzo per pezzo.
In gioventù aveva aderito al marxismo, ma se ne era poi progressivamente distaccato perché, pur considerando questa dottrina valida sul piano economico ed un filtro meraviglioso per svegliare le anime dei dormienti, pensava anche che chi ne abusa rimbecillisce. Rimase però sempre legato al movimento riformista e al congresso di Livorno del '21, pur senza prendere la tessera, si schierò da quella parte. Ritornò più tardi fra i compagni solo dopo il delitto Matteotti, quando gli parve che l’antifascismo fosse diventato un dovere. Poco dopo, temendo che la propria attività intellettuale potesse venire mutilata nell’Italia di Mussolini, lasciò la cattedra di Storia all’università di Firenze per essere accolto ad Harvard; né il viaggio o il cambiamento di vita lo impensierirono se si pensa che quest’uomo già da quasi vent’anni aveva perso la moglie ed i cinque figli, lui nella sua famiglia unico sopravvissuto al terremoto di Messina del 1908.
Nonostante sia rimasto lontano dal suo paese per venticinque anni, lasciando anche la cittadinanza poi ripresa col ritorno a Firenze, il patrimonio intellettuale e morale lasciatoci da Salvemini è notevole in quantità oltre che qualitativamente straordinario. Affascinato dall’avvento della Rivoluzione francese nella storia moderna, e grande interprete del Risorgimento, per Salvemini il più grande di tutti è stato Carlo Cattaneo. “Io mi sono arenato a quel mio autore, tutto ciò che ne esce fuori non lo capisco più”. Egli – ricorda Galante Garrone nelle “Lezioni di Salvemini” - è assolutamente agli antipodi di Mazzini. “Crede anche lui nel progresso. Ma per Cattaneo il progresso nasce meccanicamente dall’incontrarsi dei gruppi locali, in cui è in origine divisa l’umanità, e dal loro fondersi in organizzazioni sempre più vaste”. E’ una grande lezione di socialismo, non mistico e neppure scientifico; il socialismo di Salvemini è – ci permettiamo di aggiungere - in fondo l’unico autenticamente fattibile, perché nasce dalla realtà e dalla volontà. Il mio – scrive ancora Salvemini nel 1952 – era il socialismo degli ultimi, e non quello dei penultimi. I penultimi avevano qualche speranzella di salire nella scala, magari a spese degli ultimi; questi se la sbrigassero da sé.
Ma se proprio in fine volessimo ereditare una ed una sola cosa dal pensiero di questo straordinario eretico del secolo scorso, dovremmo prendere la sua definizione di cultura: “si può dire che la cultura consiste – sottolinea il filosofo di Molfetta - non tanto nel numero delle nozioni e nella massa dei materiali grezzi che in un dato momento ci troviamo ad avere immagazzinato nella memoria, quanto in quella raffinata educazione dello spirito, reso agile ad ogni lavoro, ricco di molteplici e sempre deste curiosità, in quella capacità d’imparar cose nuove, che abbiamo conquistata studiando le antiche. La cultura consiste nella forma stessa che noi, attraverso il lavoro dello spirito, riusciamo a dare allo spirito stesso”.
La cultura – continua il maestro –, come con un paradosso profondo è stata definita, è ciò che resta in noi dopo che abbiamo dimenticato tutto quello che avevamo imparato.
Bellissimo. Per Salvemini la cultura altro non è, si potrebbe concludere, se non una grande avventura.

(A. di Biase)
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27 settembre 2007


Iniziative del SNGCI a Venezia ‘64
LA TERRAZZA DEI GIORNALISTI CINEMATOGRAFICI
di Bruna Alasia

Premio Bianchi al re dei press-agent: Enrico Lucherini
Enrico Lucherini, re dei press-agents italiani in campo cinematografico, con la mostra di Venezia edizione 2007 condivide compleanno e professionalità condita di ironia e glamour. Al Lido critici e cronisti mormorano che gli addetti stampa dovrebbero imparare da lui quell’ affabilità senza distinzione di rango che ne ha decretato il successo.
Il sindacato dei giornalisti cinematografici, SNGCI, guidato dall’appassionato presidente Laura Delli Colli, quest’anno gli ha assegnato il Premio Pietro Bianchi, riconoscimento prestigioso da sempre andato alle personalità più significative del nostro cinema. Nella sala grande Grande del palazzo del cinema Enrico lo riceve commosso e divertito dalle autorevoli mani del direttore della mostra Müller, col sorriso saggio che distingue chi ha vissuto, mentre una platea di cinefili batte le mani. Antonello Sarno, giornalista, autore di suggestivi documentari, annuncia la proiezione di “Enrico LXXV: Lucherini a Venezia”, evento speciale sulla vita e i miracoli di questo re.
Sarno lo introduce così: “Avevo ricevuto da Müller l’incarico di realizzare un filmato sui 75 anni di Venezia, la cosa mi ha suggerito l’idea di abbinarlo a un altro compleanno, altrettanto meritevole di omaggio”. Scorrono sullo schermo immagini evocative di tre quarti di secolo, scoperte a casa di Enrico, nello studio Lucherini, negli archivi dell’Istituto luce, nelle teche RAI: prima bambino, poi figlio della lupa, poi con Florinda Bolkan, innalzata a rivale di Liz Taylor che, finita in ospedale per un misterioso piatto di fagioli, diventa suicida per amore: fantastico feuilleton alla conquista delle copertine. I critici ancora sorridono per il suo ribattezzare “Canina Canini” la Sandra Milo interprete di “Vanina Vanini” di Roberto Rossellini; “Mamma Roma” di Pier Paolo Pasolini diventa “Mamma coma”, citano l’ epigrafe al film su Truman Capote: “Meglio la morte a Venezia che la vita a Hollywood”.
Dissacrare vuol dire umanizzare, i saggi non si prendono sul serio: è il fascino di Enrico.
Ma Lucherini non è solo press-agent, è scrittore. Tra i suoi libri sul cinema ricordiamo quello insieme a Matteo Spinola, pubblicato da Mondadori, “C’era questo e c’era quello”. E’ autore cinematografico. Tullio Kezich di “Un sorriso, uno schiaffo, un bacio in bocca” un film del 1975 di Mario Morra e Enrico Lucherini, con Renato Pozzetto, scrive: “Nei favolosi anni cinquanta, come li definisce la pubblicità dei film, fiorì nel cinema italiano il cosiddetto neorealismo rosa. Sotto l’impatto delle invettive di Scelba contro il culturame e dei paterni consigli di Andreotti a De Sica perché concludesse i film con un raggio di sole, l’ecole italien perse tutta la grinta. In un clima di restaurazione borghese maturò la versione aggiornata dei telefoni bianchi (tipica la serie Pane, amore e fantasia) affiancata dai drammoni strappalacrime, dalle farse comicarole di timbro dialettale, dai film di canzonette. Più tardi, per buona misura, vennero anche i colossi stile antico. Il film di Morra e Lucherini, spiluzzicando negli archivi della Titanus, ci offre un mosaico del cinema di quel fosco periodo”.

Premio Guglielmo Biraghi a Elio Germano
Il SNGCI non premia solo la professionalità longeva, il Guglielmo Biraghi, consegnato insieme all’IMAE, è istituito per ricordare un critico che era straordinario talent-scout. Quest’anno è andato a Elio Germano, rivelatosi nel 2007 con le interpretazioni in “N-Io e Napoleone” di Paolo Virzì e “Mio fratello è figlio unico” di Daniele Luchetti, prova di maturità tale che ha convinto i giornalisti a designarlo vincitore unico.
Prima di Elio Germano avevano ricevuto, tra gli altri, il premio Jamie Bell, interprete di Billy Elliot, Silvio Muccino, Nicoletta Romanov, Riccardo Scamarcio, Cristina Capotondi.

Premio Filippo Sacchi a “La bottega Delli Colli”
Il premio Filippo Sacchi è un riconoscimento destinato alle migliori tesi di laurea sul cinema italiano, nate non solo nelle nostre università ma anche in quelle francesi. Quest’anno la menzione AIC – Associazione Italiana Cineoperatori – è andata al romano Daniele Colombera che ha titolato lo studio sul direttore della fotografia, scomparso nel 2005, con un accattivante “La bottega Delli Colli”. Tonino Delli Colli per oltre 60 anni ha lavorato con nomi del calibro di Paolini, Monicelli, Risi, Fellini, Benigni vincendo sei Nastri D’Argento e quattro David di Donatello. Al suo fianco il cugino Franco Delli Colli, divenuto anch’egli direttore della fotografia. Il testimone oggi passa a Laura, figlia di Franco, presidentessa del SNGCI, che al cinema dedica la vita. Citiamo un suo libro prezioso, divertente e raro: “Il gusto del cinema internazionale in 100 ricette”. Dice bene Colombera: si tratta di una vera “bottega” familiare. Ma i Bach non erano tutti musicisti?

Sequenze, un anno di cinema su “La nuova del sud”.
Tra i testi di nuova pubblicazione il sindacato dei giornalisti cinematografici ha presentato a Venezia ’64 “SEQUENZE Un anno di cinema su La nuova del sud” di Armando Lostaglio con una prefazione di Giancarlo Giannini e un intervento di Ermanno Olmi. L’editore Donato Macchia bene ne illumina lo spirito: “Per una attività editoriale del sud, di una piccola regione come la Basilicata, è fondamentale ampliare le proprie esperienze anche nella pubblicazione di testi specifici. (…) le recensioni cinematografiche di Armando Lostaglio (…) abbiamo ritenuto importante raccoglierle in una pubblicazione ad hoc (…) per riconoscere i meriti delle diverse potenzialità culturali che si spendono sul territorio (…) con quanti credono che l’evoluzione di una regione passi anche e soprattutto attraverso la cultura, la comunicazione e la divulgazione di prodotti qualitativamente validi”.
Armando Lostaglio , nato a Rionero in Vulture (Potenza), giornalista, critico cinematografico, vicepresidente del CINIT-Cineforum italiano. Nella sua città natale ha fondato il cineclub Vittorio De Sica e dal 1999 promuove il premio omonimo riservato alle scuole. Nel 2004 ha pubblicato “Rivolte”, libro sulle vicende delle scorie nucleari di Scansano. Nel 2006 ha collaborato al documentario “Mineurs” di Fulvio Wetzl sui nostri minatori in Belgio, girato nel distretto di Limburg e in 11 comuni della Basilicata, sorretto dalla colonna sonora di Adamo, anch’esso figlio di emigrati siciliani.

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19 settembre 2007

Teatro – Mario Fratti – servizio di Bruna Alasia

MARIO FRATTI ovvero IL NOSTRO TEATRO E' IN AMERICA


Mario Fratti quest’estate ha compiuto il suo ottantesimo compleanno, sfoggiato con invidiabile vitalità e buonumore. Festeggiato con un party nella capitale a casa dell’attrice-cantante Elena Bonelli ( che in settembre concluderà la tournée di “Roma” alla Carnegie Hall di New York) e a l’Aquila, sua città natia, le cui autorità gli hanno reso omaggio. Nei fatti scorrendo la biografia di questo ragazzo ottuagenario, di fronte alla mole delle sue opere teatrali, non si può non restare stupiti richiamando alla mente il celebre detto “nemo profeta in patria”!
Mario Fratti, scrittore, commediografo, drammaturgo, autore di musical, si è laureato a Venezia a Ca’ Foscari. A soli ventidue anni ha vinto il premio RAI con “Il nastro”, suo primo dramma sulle confessioni sotto tortura di alcuni partigiani, mai radiotrasmesso perché giudicato sovversivo. Dopo un periodo di scarsa fortuna, nel 1962 al festival di Spoleto ha presentato “Suicidio”, atto unico che piacque molto a Lee Strasberg, il quale lo volle dirigere all’Actor’s studios di New York dove riscosse grande successo, grazie a un ambiente teatrale all’avanguardia e a uno stile “frattiano”, privo di ridondanze e metafore tipiche del teatro europeo. Mario Fratti nel 1963 si è trasferito negli Stati Uniti iniziando a insegnare alla prestigiosa Columbia University di New York. Da quel momento l’ ascesa.
Oggi la sua produzione conta un’ottantina di opere che, tradotte in 20 lingue, sono rappresentate in 600 teatri dei cinque continenti, oltre a Europa e Stati Uniti, Russia, Brasile, Cina, Giappone, Canada, Australia. I riconoscimenti sono tantissimi, ne elenchiamo solo alcuni: il premio Selezione O’Neil, il Richard Roger, L’Outer Critics, l’Heritage and Culture, ha poi ricevuto otto Drama Desk Awards e ben sette Tony Awards, che sono per il teatro l’ equivalente dell’Oscar cinematografico.
Le opere principali, edite e rappresentate, seguono questo ordine cronologico: Il campanello (1958) , Suicidio (1962), La menzogna (1963) ,Il rifiuto (1965), La gabbia (1962), L'Accademia (1964), I Seduttori (1964), I frigoriferi (1964), Che Guevara (1970), L'ospite romano (1971) , La famiglia (1972), La vedova bianca (1972), Eleonora Duse (1972) , La vittima (1972), Mafia (1974), Chile 1973 (1974) , Six Passionate Women (1978) , Nine (1981), AIDS (1988) , Porno (1990) , Amanti (1991) , Candida e i suoi amici (2001) , Cecità (2004).
Il suo più grande successo è “Nine”, commedia ispirata a “8 e mezzo” di Federico Fellini, divenuta un musical d’enorme presa di pubblico e critica, con duemila repliche autentico fenomeno teatrale italiano negli States. Dal 1981 ad oggi “Nine” non ha conosciuto interruzioni, l’ultima versione, che ha come interprete Antonio Banderas, è rimasta per anni in cartellone a Brodway, al teatro Eugene o’Neil, ed ha vinto il Tony Awards.
“Qual è il segreto di tanto favore oltre oceano?” domando a questo simpaticissimo scrittore, seduto tra gli amici italiani pronti a brindare a un compleanno che accoglie con riconoscenza.
“Sta nelle opportunità che l’America offre – risponde - lì se una cosa piace al pubblico, se vendi , hai la strada spianata… non è come da noi…”
“Le sue opere negli States non sono giudicate sovversive?”
“Sarà per effetto dei biglietti staccati…”- ride
“In Italia le piace tornare?”
“Oh sì, ieri in un ristorante ho incontrato Fausto Bertinotti…”
Non nasconde le sue idee questo drammaturgo tenace. Sarà per la sua spontaneità che è riuscito a realizzare un sogno difficile, forse inimmaginabile?

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17 settembre 2007

"L'isola dei Talismani" di Rosa Aimoni

Rosa Aimoni *
L'ISOLA DEI TALISMANI

Presentazione di Maria Pia Nervegna

Tabula fati, Chieti 2007


Il romanzo di Rosa Aimoni, L’Isola dei Talismani, ha il merito di affrontare un argomento che richiede grande fermezza e determinazione, e sul quale è necessaria una forte autocritica nei confronti di tanti occidentali che intraprendono viaggi in paesi economicamente svantaggiati con il solo fine di trascorrervi un periodo di turismo sessuale. Il turismo sessuale ha origine in una assurda, inaccettabile e pregiudiziale concezione secondo la quale la donna — adulta, adolescente o bambina che sia — può essere utilizzata come oggetto di piacere e divertimento. Accade così che ci siano stranieri di diverse nazioni che comprano per alcuni giorni le ragazze, le utilizzano al solo scopo sessuale e, una volta soddisfatti, le restituiscono alla loro miseria. Ad essere coinvolte sono spesso anche minorenni, utilizzate e sfruttate nell’oltraggio di qualunque regola etica, con il sol fine del piacere personale.
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*Nata a Milano nel 1975, Rosa Aimoni è laureata in giurisprudenza. Attualmente lavora come consulente aziendale. L'Isola dei Talismani è il suo primo romanzo.
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15 settembre 2007

Addio a Luciano Pavarotti

di Augusto da San Buono
Addio, Big Luciano, questo è un giorno triste, mancherai al mondo, parola di Mirella Freni. Addio, Big Luciano, eri un genio, eppure ti comportavi come una persona semplicissima, con schiettezza e un meraviglioso spirito infantile, parola di Jovannotti. Addio, Big Luciano, sei stato il più grande tenore di tutti i tempi. Più grande di Caruso. Sei stato un grande uomo, la tua è una grande perdita, a livello planetario, parola di Toni Renis. Addio, Big Luciano, eri un gigante, un cantante irripetibile. Una voce strepitosa come la tua , Dio la regala una volta ogni cento anni, parola di Riccardo Muti.
C’erano tutti, ai tuoi funerali, Big Luciano, quell' 8 settembre così funesto per l’Italia: da “tutti a casa”, a “tutti a Modena”, presso il Duomo della tua città. C’erano politici, artisti e cantanti, - Prodi, Rutelli, Kofi Annan, Zeffirelli, la Fracci, Zucchero Bono e Morandi, tanto per farti qualche nome - ma non c’erano i rappresentanti della lirica, che non t’hanno mai amato, se escludiamo la tua amica di infanzia, “Nana” Freni, e quelli della maturità, Bocelli e la Kabaiwanska, che hanno cantato in chiesa, per te, per la tua anima, per l’ultimo saluto, per quello che sembrava un “compianto pubblico”, una sorta di beatificazione anticipata. C’era una folla strabocchevole (più di centomila persone provenienti da ogni parte del mondo) e una sorta di consesso planetario mass-mediologo: fotografi, giornalisti, cameraman delle televisioni internazionali.

Un concerto di voci ,canti e lacrime, di colori, luci e odori, e milioni di flashes, tant’è che l’arcivescovo Benito Cocchi da Predappio (dove tutti, o quasi, come sai bene , si chiamano Benito), si è sentito in dovere di sottolineare che erano le tue esequie e non ancora la beatificazione di un artista grandissimo che ha “onorato l’Italia in tutto il mondo” , ha detto Gio’ Napolitano nel suo telegramma; che “ha onorato il dono divino della musica”, ha detto Papa Ratzinger nel suo telefax; che “ha fatto grande la cultura italiana nel mondo”, ha concluso il tuo corregionale Mortadella Prodi, presente alla cerimonia.
C’erano persino le frecce tricolori , che conferivano quel tocco di spettacolo da parata fastosa e celebrativa , che certamente non ti sarà dispiaciuto, sospeso

com’eri sempre tra la lacrimuccia e il largo sorriso emiliano. Del resto come la tua voce , che era “bellissima , ferma, tutta illuminata , ricca di armonie , potente e corposa nel volume e di colore aureo, soltanto annebbiata – è la stilettata finale del Principe Quirino - alla fine di ogni capoverso musicale da una sorta di ansito , che poteva essere vissuto dall’ascoltatore come un fattore espressivo e drammatico”.
Non ti sarà dispiaciuta certamente neppure quella bara bianca, coperta da un coloratissimo cuscino di rose e girasoli che ricordavano tanto i tuoi giganteschi foulard , che facevano tanto kitsch, ( il kitsch ti ha sempre attratto irresistibilmente, e qualcuno dice che è stata la tua fortuna, il tuo colpo di genio, nell’ultimo scorcio della tua carriera, quando la voce era ormai rimasta al lumicino e in teatro erano più critiche che altro. Il Kitsch con i “tre tenori” e con le “nefaste contaminazioni stilistiche” (è sempre il Principe Quirino che parla), con la musica pop e rock dei Red Ronnie, gli Zucchero e i Bono, i Dalla e gli Sting.
Ma oggi, per l’Italia tutta, caro Big Luciano, tu sei il Garibaldi del terzo millennio, e sono molti i teatri, le città, i paesi , a contendersi i tuoi primi acuti: qui cantò Pavarotti, qui raccolse i suoi primi trionfi, qui ne fu intuita la grandezza canora. Una voce bellissima, unica, straordinaria, imparagonabile, se non vogliamo andare indietro nel tempo, al grande Caruso, pioniere della lirica italiana e della canzone napoletana nel mondo. Tutti i paesi d’Italia ti vogliono dedicare una piazza, un via, un monumento, come all’eroe dei due mondi, ma ci si dimentica che l’ultima tua apparizione ufficiale in un teatro italiano risale a ben quindici anni fa, alla Scala, e finì tra i fischi e le pernacchie, con un coro unanime che diceva che Pavarotti era finito. Era il 7 dicembre 1992, lo ricorderai, e si dava il Don Carlos di Verdi, diretto da Muti, regia di Zeffirelli. Fu un fiasco totale, Big Luciano. Ci fu fuoco in sala, pollice verso sancito dal loggione, critiche feroci, e anche velenose da parte dei melomani più illustri. Critiche che nessuno ha mai ritrattato. Ma oggi riascoltiamo tutti , con ammirazione, il disco che è uscito da quella recita tanto bistrattata e tutti diciamo in coro che non c’è stato al mondo cantante lirico più grande di te, neppure il grande Caruso. Siamo tanti, una folla planetaria, da New York a Pechino, a dire che Pavarotti era l’Opera, “e l’Opera non è una cosa che la puoi pensare o descrivere, puoi solo goderti il fatto di vivere in un pianeta dove esiste l’Opera, e dove è esistito Big Luciano. E devi ringraziare l’inventore del “registratore” per averci messo in condizione di avere la sua voce con noi per sempre”.

“Andate a riguardarvi in TV – dice un melomane loggionista amico mio, Angiolino Amendolagine, da Terlizzi - la pazza versione di “Serenata Rap/mattinata”, e fate attenzione al sorriso di Big Luciano. Non vi sembra un bambino? Aveva gli occhi di un bambino. E’ da stamattina che me la guardo e riguardo e non riesco a smettere di pensare a quanto è bella la musica, a quanto è bello giocare con lei, viverla fino in fondo, farsi accogliere nelle sue grandi braccia d’aria. In questo, il Pava è stato maestro grandissimo: ha insegnato a tutti noi che la vita e la musica parlano lo stesso linguaggio, e chi vuole ingabbiare la musica vuole ingabbiare la vita”.
Ma c’è anche – va detto per amore della verità - chi è controcorrente, c’è chi dice che Pavarotti è “il classico esempio di come quest'italietta provinciale e piccolo borghese abbisogni di creare un mito da esportare nel resto del mondo per darsi un tono. Pavarotti è una costruzione a tavolino. E' talmente evidente che continuarne a parlare significa uniformarsi all'ignoranza generale che in questi giorni è uscita in massa da tutte le case. Pavarotti è un tenore buono per le massaie”.
E poi ci sono i puristi della musica, come Principe, come Isotta, che parlano di Pavarotti come “un tenore di grazia, emulo di Tito Schipa, che è irraggiungibile”, e lo fanno con un tono ironico, quasi derisorio. Quelli che dicono che “possedeva un timbro delizioso e una splendida chiarezza di dizione”, ma aveva difetti di base, difetti gravi che non si potevano cancellare. Era un’analfabeta musicale, era a-ritmico per natura, e “non era possibile inculcargli, se non in modo vago, la nozione della durata delle note e dei rapporti di durata”. E – dicono – che sulla scena eri ridicolo, sempre frontale, sempre con la medesima espressione sul volto, non sapevi assolutamente muoverti nello spazio teatrale, Big Luciano. Del resto, con la mole che ti portavi dietro, era difficile che ti potessi granché muovere .

Chissà, forse è vero tutto ciò che dicono i puristi e i tuoi detrattori , caro Big Luciano. Ed è vero anche che l'Opera lirica non è il canto del muezzin (e tu tale ti sentivi, una sorta di muezzin della musica lirica), ma è altrettanto vero che tu avevi qualcosa che nessun altro possedeva in tal misura, il talento, il genio musicale, e il genio consiste proprio in questo, nel prescindere dalle regole, nel prescindere dalle consuetudini, dagli schemi, da tutto e tutti, imponendo la propria voce, la propria straripante personalità, la propria diversità, la grande passionalità, che è poi quella che ti ha consentito farti messaggero di un’arte capace di unire paesi di diversa razza, cultura e mentalità, capace di interpretare la musica lirica pura, alla sorgente, una musica senza confini, una musica che tu avevi nel sangue e nella testa, e che niente e nessuno può ingabbiare in schemi e reticoli. Da qui nacquero le tue adunate oceaniche nei cinque continenti, e il tuo diventare rapidamente una vera e propria icona della musica lirica, con i memorabili concerti in Hyde Park a Londra, al Central Park a New York, e all'ombra della Torre Eiffel a Parigi, davanti a 300.000 persone. E anche le famose esibizioni dei "Tre Tenori", con Plácido Domingo e José Carreras, che ebbero un successo incredibile di pubblico (le registrazioni e i video di questi concerti hanno superato largamente le vendite di Elvis Presley e dei Rolling Stones), con momenti toccanti e straordinari come l’esibizione del 17 Luglio 1994, a Los Angeles, davanti a Frank Sinatra e Gene Kelly, che furono omaggiati con “My Way” e “Singing in the rain” in versione tenorile.
Poi hai organizzato, nella tua Modena, i famosissimi concerti di beneficenza "Pavarotti&Friends", in cui ti sei impegnato a duettare con i migliori artisti della scena musicale pop italiana ed internazionale, da Lucio Dalla a Sting, da Patty Pravo a Jovannotti, da Zucchero a Bono.
Quelli della Lirica pensarono che tu fosse impazzito, e infatti sei sempre stato un pazzo, un pazzo da legare, come conferma la tua amica Mirella Freni… ”era matto come un cavallo, fin da ragazzo. Andava in lambretta e si fasciava la testa con un turbante da beduino. Era pazzo… pazzo per la vita”.
Egocentrico, infantile, pigro, taccagno, grasso, infedele, vanitoso, bulimico (armato di cucchiaio mangiava caviale sino alla nausea), despota, incurante del rispetto altrui: “Le sue amanti diventavano lavapiatti, lavandaie e cuoche, erano lì solo per servirlo”. Presuntuoso , credeva di sapere tutto, non solo di musica, ma anche di dentisti, farmacologia e prostata. Così ti ha descritto Herbert Breslin, il tuo ex agente. E tu non hai mai smentito, né mostrato alcun rancore verso di lui.
Ma anche se tutto ciò fosse vero che cosa toglie all’artista Pavarotti?
“Nulla, assolutamente nulla -. dice Zucchero - Lui aveva una grande vocazione a comunicare con le masse e ha usato la sua fama e il suo fascino e il suo talento per riunire intorno a se i più grandi artisti del pianeta per cause benefiche. Si è dato al pubblico con una generosità tale da rompere ogni barriera…”. E Muti aggiunge: “E stato una fontana generosissima di canto che col suo timbro irripetibile ha affascinato tutto il mondo”.
Per finire ti faccio sentire il commento di una tua allieva, divenuta famosissima, in Cina, il soprano Yao Hong:"Si può non capire nulla di musica, ma sicuramente si conosce Pavarotti, il simbolo non solo dell'Italia del ventesimo secolo ma della musica di tutto il mondo. La sua morte è una perdita per il mondo della lirica, oggi posso solo dire: addio, o sole mio".
Bello, vero Big Luciano? E perfino lo Spiegel, grande settimanale tedesco, che non è stato mai tenero con gli italiani, ha titolato in prima pagina: “E’ ammutolita la voce del secolo”, dimenticando forse di mettere quanto meno sul tuo stesso piano i Caruso, i Beniamino Gigli, i Di Stefano , e i Tito Schipa da Lecce, Italia.

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14 settembre 2007

"Io sono l'assassino" di Jess Walter

IO SONO L’ASSASSINO di Jess Walter
© 2004 Edizioni Piemme S.p.A.
ISBN 88-384-8769-3
Pag. 347 € 5,90


Il romanzo di Walter viene definito un thriller, il titolo stesso porta a ritenere che si tratti di un libro di quel genere.
Secondo il mio parere, invece, è un romanzo giallo usato come scusa per raccontare un’ interessante storia di vita.
Clark Mason viene fermato una notte dalla polizia di Spokane, dice di voler confessare un omicidio.
Alla centrale, i poliziotti pensano che si tratti di uno dei tanti matti che girano per le strade, ma Caroline, una detective, vede qualcosa in quel tipo strano, con una benda sull’occhio, quasi fosse un pirata d’altri tempi.
Clark vuole confessare e lei lo fa accomodare in una stanzetta con dei block notes e una penna.
A questo punto il lettore viene lasciato da solo con Clark, a leggere la sua storia che, riga per riga, si va scrivendo.
Un omicidio accaduto oggi, trova le sue origini in un passato tormentato, dove i protagonisti sono lo stesso Clark e Eli Boyle, un povero ragazzo handicappato e, per questo, oggetto della ferocia dei bulli.
A tratti si esce da quella stanzetta per indagare insieme a Caroline, la quale sta procedendo alla rovescia: non partendo da un cadavere per scoprire chi è l’assassino, ma viceversa.
Il libro è scritto in modo chiaro, dove anche le scene più crude sono esposte senza veli, schiette; ma non per questo viene tolta loro un’anima. Nonostante l’autore non nasconda la crudeltà dietro vani giri di parole, comunque il lettore viene pervaso dal senso di ingiustizia, dalla rabbia, dalla compassione che, di volta in volta, spiccano sulla carta.
Io sono l’assassino è un romanzo con una trama intensa, interessante, originale. Spesso sorprende con risvolti insospettati.
Ben condotto fino alla sua conclusione. Un finale in cui si torna al principio, con Clark seduto sullo stesso davanzale al dodicesimo piano dove lo aveva trovato la polizia, scambiandolo per un povero pazzo.
Al suo fianco, questa volta, c’è Caroline e la sua mano, pronta a compiere un atto di perdono: “Caroline appoggia il pollice contro la fronte di Clark. Non ricorda di preciso come si fa, ma traccia una piccola croce su quella fronte gelata. Un segno di assoluzione. Clark chiude gli occhi. “Credo che vivere in questo mondo sia già abbastanza” dice Caroline”.
© Miriam Ballerini
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13 settembre 2007

La morale e la religione

Quel che m'interessa è la pratica morale, e non la fede dogmatica di ciascuno. Beninteso che se un uomo onesto ritiene di dover appoggiare la sua pratica morale su una fede religiosa, io non lo crederò per questo meno intelligente di me. Ognuno nel proprio spirito e a modo proprio giustifica le proprie azioni. La vecchierella, che pregando innanzi alla immagine della Madonna trova conforto al suo dolore e un raggio di speranza, è altrettanto rispettabile quanto il filosofo che pesta l'acqua nel mortaio delle sue astrazioni.

(Da una lettera di Gaetano Salvemini a Giovanni Modugno - 1946)

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09 settembre 2007

"Non dire niente" di Maria Barresi

Maria Barresi
Non dire niente
Edizioni Solfanelli

Maria Barresi, giornalista e redattrice di Sestante - settimanale televisivo di Rai International -, è al suo primo romanzo, ma con le precedenti pubblicazioni ha già vinto il Premio Unione Stampa Cattolica Italiana, nonché due edizioni del premio Ilaria Alpi per il giornalismo televisivo. Caratterizzato da una trama molto fitta ed articolata, “Non dire niente”, l’ultimo lavoro della giovane scrittrice calabrese si presenta come un libro dalla forte impronta autobiografica, tutto teso però a far luce – per quanto sia possibile farlo con un romanzo – sul problema della violenza sessuale ed in particolare su quello della violenza domestica che – non solo nella terra di Pitagora dove il testo trova ambientazione – è piaga molto difficile da guarire, per via dei molteplici condizionamenti e sensi di colpa dei quali proprio le vittime si sentono investite.
Sullo sfondo di una storia d’amore fra un magistrato ed un’insegnante di periferia, si snoda una terribile vicenda ispirata all’autrice da una reale e recente vicenda giudiziaria. Il titolo del volume è calzante non tanto per gli aspetti diciamo così 'omertosi' che vanno a caratterizzarne la trama, ma proprio perchè il massimo lirismo del romanzo è riscontrabile nelle nitide e mute immagini che ritraggono Nicla, la protagonista alle prese con la propria quotidiana intimità di adolescente, ma tuttavia soffocata da un peso troppo più grande di lei. Si capisce che la vicenda ha colpito fortemente l’autrice, consentendole una rielaborazione molto lucida sia dei fatti che – ed è questo l’aspetto più interessante – della condizione interiore di Nicoletta. Il Bianco, il Nero, la sabbia e l’acqua finiscono dunque per diventare gli elementi su cui si basa la sottile psicologia che è attrice in tutto il romanzo.
“Non dire niente” è in fondo un libro dedicato, come si legge sul sito internet dell’autrice: “A chi crede che il non dire niente sia una cultura – ormai istituzionalizzata - ma sa pure che per dire tutto si è sempre in tempo. Noi abbiamo preferito dire tutto”.

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Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

08 settembre 2007

La mezzanotte


Or discendiamo omai a maggior pieta;

già ogne stella cade che saliva
quand'io mi mossi, e 'l troppo star si vieta».

(Inf. VII, 97-99)


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02 settembre 2007

Gadda secondo Aldo Vallone

di Augusto da San Buono
Sono andato alla Clinica “Villa Pia”, a Roma, per “accertamenti” (era rimasta l’unica con posti ancora disponibili), con due libri, che avevo già letto secoli prima. Uno era “I 60 racconti” di Dino Buzzati di cui in particolare m’interessava “Sette piani”, da cui era stato tratto il (brutto) film “Il fischio al naso” . Lo volevo rileggere forse per ragioni scaramantiche. Come si sa il protagonista sembra non avere assolutamente nulla, si reca in quella lussuosa clinica “Sette piani” per una pura formalità, una sciocchezzuola, ma ci rimane per sempre, scendendo di piano in piano, fino alla camera mortuaria. L’altro era il “Pasticciaccio” di Carlo Emilio Gadda. In questo caso non sembravano sussistere particolari motivi ( ma, come si vedrà, le scelte non sono mai a caso, obbediscono a qualcosa di sottile e inconscio), al di là del fatto che si tratta di un capolavoro della letteratura italiana, che mi rievocava, peraltro, diverse cose: gli anni dell’adolescenza, un film di Pietro Germi (appena discreto), e una piéce teatrale (pessima); ma, soprattutto, un lieto incontro di vent’anni prima con il professore Aldo Vallone, docente di Letteratura Italiana all’Università Federico II di Napoli, nella sua casa-biblioteca di Galatina (almeno trentamila volumi, di cui diecimila relativi al solo Dante, in tutte le salse e le lingue possibili).
Ero andato a trovarlo, in quell’estate del 1988, insieme all’avvocato Felice Leopizzi, che era grande amico di Vallone, e l’aveva invitato a tenere una conferenza all’ANMI di Gallipoli sull’attualità di Dante. Il professore aveva sul suo tavolino basso, da salotto, una copia della prima edizione in volume del “Pasticciaccio” (Garzanti, 1957) che stava rileggendo “per la centesima, o duecentesima volta”, come mi disse poi.
A me Gadda, il bulimico capace di bere diciotto uova di seguito, come testimoniano Ungaretti e Montale, sembrava assai distante da Dante, che lui stesso definisce un “grande pettegolo della storia”. Se mai era assimilabile, per certi aspetti, al malinconico Manzoni, o al nostalgico Cervantes...

Professore , perché Gadda , e perché proprio il “Pasticciaccio”?
“Perché in quel libro c’è la vita, tutta la vita. Il brutto e il bello. Il nobile e l’osceno. L’intelligenza e la stupidità. Il dissennato e il ragionevole. La furberia e il candore. Tutto ciò che rende inaffidabile l’esistenza, ma anche nutre il piacere di vivere. La vita è un groviglio, uno “gnommero”, un pasticciaccio, appunto, ma non necessariamente immangiabile. Finisce sempre male, in tragedia, ma non si deve dimenticare quale commedia sappia essere se la si guarda da un punto di vista opposto. Solo uno come Gadda, un nevrotico con la mania della cronaca nera, uno che è allo stesso tempo ingegnere, filosofo, moralista, saggista, e anche psicanalista, uno scrittore assolutamente unico nel panorama di questo ventesimo secolo, forse il più grande dei nostri, anche se oggi lo leggono due o trecento persone in tutto, poteva scrivere il “Pasticciaccio”.
Per farlo bisognava innanzi tutto essere nevrotici ossessivi, con tutte le fobie, i furori, le difficoltà a vivere con gli “altri” (è questo il “vero inferno”, sosteneva Gadda), con una angoscia e un disperazione che non hanno mai fine; bisognava avere, “chiusi dentro il ventre”, come il Gonzalo della “Cognizione del dolore”, “i sette peccati capitali”, bisognava avere una deriva malinconica e respirare liricamente il male di vivere, dopo essere stati magari romantici presi a calci nel sedere dal destino e dunque dalla realtà, come afferma lui stesso.
Ma cos’è la realtà? “Una scarica di mitra è realtà, mi va bene, certo. Ma io chiedo al romanzo che dietro questi due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto... Il fatto in sé non è che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia”.
Questo residuo fecale della storia, confesso, che ora mi turba un po’ e mi fa pensare molto alla mia situazione “colonica” personale, ma anche al primo Gadda, sottotenente degli Alpini, acceso interventista, che sperimenta lo sfacelo italico nel suo “Giornale di guerra e prigionia”. Il tenente Gadda che guarda intorno a sé ciò che rimane della guerra: la merda.
“Merde d’ogni qualità e consistenza, di tutte le dimensioni, forme, colori”, merde sparse nei dintorni immediate degli accampamenti: gialle, nere, cenere, scure, solide, ecc...”.
“Vede, - mi fa il professore Vallone -, per mentalità Gadda era più tedesco che italiano . Il pasticcio e il disordine lo annientavano. Dentro di lui c’erano ordine, esattezza, disciplina, geometria, ma anche Pasteur, Marco Polo, Livingstone, Stanley; c’erano Leibniz, Kant e Spinoza, ma anche il Belli, Dossi, Lucini, e il Parini, il Manzoni, il Porta, c’erano le aperture europee dei suoi interessi culturali, da Cervantese a Swift, da Proust a Gide. Celine, soprattutto. Ma direi anche Dickens e Dostoevskij. Poi Joyce, Svevo e la lezione di Freud sulla psiche umana, che Gadda studiò come scienza (“Uomini normali non ce ne sono: guardate alle radici e vedrete che pasticcio hanno in testa… La psicanalisi arriva alle radici dell’esistenza. Forse non le migliora, ma fa vedere cosa c’è sotto. Non è un bello spettacolo, ma questa è la vita”), quella del materialista Marx sull’interesse, e quella di Nietzsche sulla precarietà della verità. Il romanziere, per lui, era come investigatore, un uomo che fa il terzo grado ai personaggi per farli confessare, uno che mette in ordine lo “gnommero” caotico della realtà dell’esistenza, uno che sospetta il peggio in ogni evento e in ogni persona. Tanto a pensare il peggio – direbbe Andreotti – ci si azzecca quasi sempre. Ma poi, alla fine, l’ispettore Gadda-Ingravallo del “pasticciaccio” quasi si pente di aver scoperto la verità, la verità del cosiddetto uomo normale che è “un groppo o gomitolo, o groviglio o garbuglio di indecifrate nevrosi, talmente inscatolate le une dentro l’altre da dar coagulo finalmente d’un ciottolo, d’un cervello infrangibile: sasso-cervello o sasso idolo”.

Sì, d’accordo, professore, uomo di vasta cultura, grande, grandissimo letterato e maestro di lingua, ma c’è pure chi dice che Gadda non è un narratore, e tanto meno un romanziere. E c’è anche chi l’accusa di eccessi tecnicistici, di intellettualismo fastidioso, di arduo preziosismo manieristico.
Sono stupidaggini. Lui stesso rispose a questa accusa con una battuta, asserendo che il suo punto debole, per riuscire narratore, era quello di mancare di cupidità nel conoscere i fatti altrui, ovvero pettegolezzi. E per quanto riguarda la sua sovrana tecnica, ricordo che la Bibbia stessa non la ignora, e che comunque la tecnica non annulla la capacità magica dell’arte che crea e ricrea verità fondamentali. Gadda ha creato un suo modo di fare il romanzo, è un chirurgo che accosta e non sutura le parti, ma i suoi romanzi stanno bene in piedi, anche se non corrono spediti. Anzi fanno vortice come se fossero attratti dal profondo territorio oscuro dal quale Gadda ha inviato messaggi violenti e straripanti. Ogni pagina è un racconto, e i suoi romanzi sono racconti di racconti, somma che diventa moltiplicazione in una struttura centrifugata. Per questa sua prosa del molteplice, che affatica le meningi del lettore medio, oltrechè per le asperità della lingua e la proliferazione dei dettagli, è destinato a non diventare mai un narratore popolare, anche se lui ribatte che è una superstizione romantica il darci a credere che la lingua nasca o debba nascere soltanto dal popolo. “Nasce dal popolo come nasce anche dai cavalli, che con il loro verso ci hanno suggerito il verbo nitrire, e i cani guaiolare o uggiolare… La lingua, specchio del totale essere, o del totale pensiero, viene da una cospirazione di forze, intellettive o spontanee, razionali o istintive, che promanano da tutta la universa vita della società e dai talora urgenti e angosciosi moti e interessi della stessa società… Le parole debbono essere feconde, non quelle sterili dei dannunziani o di scrittori smidollati come sono quasi sempre i narratori corrivi che fanno mercato della loro scrittura”.
Il linguaggio di Gadda vitalizza tutto ciò che altrove agonizza, è vita, è storia, è religione, è arte, ci fa conoscere, ci fa capire ciò che siamo diventati. E’ un linguaggio senza pari nella letteratura moderna. E’ il narratore che ha messo su la più grande orchestra letteraria di scrittura del novecento, ha liricizzato le idee meno musicali, ha naturalizzato la cultura più artificiale, ha trasformato ogni materia in narrazione. Ha cambiato i connotati della nostra letteratura. Anzi, le dirò di più : se vogliamo capire questo nostro secolo caratterizzato politicamente dal comunismo e dal nazi-fascismo, se vogliamo capire il fenomeno sociale dell’avvento della masse a protagoniste folli, o la nevrosi che ha travolto le menti più fragili e insieme le più sensibili; se vogliamo capire il fenomeno che tuttora perdura della corruzione generale, dei ricchi e dei poveri, e di una dissennatezza che non ha risparmiato nessuno, non possiamo prescindere da Gadda e dalla lettura del “pasticciaccio”.

A me, onestamente, sembrava che il professore esagerasse, e Vallone se ne accorse. ”Quant’è che non legge, o rilegge Gadda? Provi a rileggerlo, e ancora rileggerlo, poi mi saprà dire… Gadda non scrisse mai per far soldi, ma per necessità. Ci fu un tempo che fece letteralmente la fame, era disperato. Aveva quasi sessant’anni, una laurea in ingegneria col massimo dei voti, ma non aveva lavoro, e neppure una lira in tasca. Le sue opere, pur apprezzate da una ristretta cerchia, non si vendevano neanche a regalarle. Ma a lui non interessava la fama, la notorietà, non ci teneva affatto. E quando arrivò, proprio con il “Pasticciaccio”, si può dire che gli fece passare la voglia di scrivere. Era enormemente infastidito dalle attenzioni, curiosità, autografi, ecc. che ora riceveva. In realtà lui aveva sempre riso dello sciocchezzaio della borghesia romana, o milanese, che parlava di lui come di uno scrittore barocco, o grottesco (lo stesso Moravia disse che le sue parole avevano la “gobba”), e di una sua lingua “macaronica”, licenziosa, se non oscena addirittura.

Già. Per non parlare delle sue proverbiali digressioni che fanno dimenticare il nucleo centrale della storia, come ad esempio il sogno del brigadiere Pestalozzi, l’ambiguo topaccio-topazio che fugge da tutte le parti in cerca della “topa”, in cui vorrebbe rientrare; l’importanza degli alluci nella pittura italiana, la gallina che scacazza, l’appuntato che scorreggia, il vecchio miserabile che muore nei suoi escrementi, e via di seguito, digressioni anche piene di odori, come si vede.

Giusto. Bene, perfetto. E’ quella la grandezza di Gadda, in cui la struttura è più potente dei contenuti. Non ci sono confini, viaggia all’infinito, viaggia nell’universo-vita, così un inconsapevole ligio brigadiere dei carabinieri sogna la massima trasgressione sociale, l’incesto, perché vorrebbe rientrare nel grembo materno, ma noi tutti vogliamo rientrare nel grembo materno, quando la vita ci ferisce, tutti vogliamo tornare all’epoca del prima della nascita. E poi un vecchio miserabile muore in rappresentanza d’ogni morte, che non ha nulla di eroico, è la morte e basta, urina, feci, sangue. Nell’ “Aldalgisa” Gadda aveva parlato del pensiero dell’esagono per indicare la geometria segreta e vincolante della sua originale narrazione. Nel pasticciaccio allarga i confini, perché vuole complicare il panorama complessivo, far confluire gli interrogativi come un fiume con mille diramazioni provenienti da tutti i livelli possibili ed ecco la necessità del molteplice, del pulviscolare, in questo giallo che è una grande metafora dell’esistenza. Le digressioni sono in realtà i dettagli del nostro vivere, quella digressione ti blocca su un dettaglio che sembra trascurabile, ma è essenziale; quell’altra ti spinge oltre, nel circolo vizioso della conoscenza orfana della verità. Insomma, quanto più sai, tanto più ignori, come diceva Socrate.

Per finire, Professore, che cosa fa veramente grande Carlo Emilio Gadda, in questa ridda infernale del “Pasticciaccio” che mi ricorda un po’ la peste manzoniana, in questi frammenti, torsi narrativi dell’esistere, in questi circoli che non si chiudono, in queste tragiche curvature dell’orizzonte, in questa magica acrobazia mentale sempre con il rischio di precipitare ad ogni parola come un equilibrista folle che cerca l’inafferrabile?
Vede, il “Pasticciaccio” ha parecchi livelli di conoscenza, è un po’ la summa della sua arte, trasmette luce, elettricità, illumina ogni particolare finché non brucia. E’il tentativo di strappare alla morte una lingua italiana marmorizzata, metallizzata, ossificata, resuscitare parole, suoni, musica. Ma è anche un gran bazar, lei ci può trovare di tutto, anche gli odori, o meglio le puzze e il fescennino, il grottesco e l’umorismo più spietato, un riso di alto livello ma sul crinale fra comico e tragico.
Come ha detto lei, è una peste manzoniana portata ai nostri giorni, un testo estremamente attuale che tira fuori ininterrottamente i bubboni di una società in decomposizione, una società senza più ideali; è una peste che non vedrà il miracolo della pioggia che lava i mali. Il nostro male è invisibile e incurabile. Quella del nostro secolo è una peste nella quale è impossibile salvare l’anima.
Ma è anche un romanzo paradossale, di amore e morte, tanto per intenderci. Il commissario Ingravallo è invaghito di Liliana, la vittima, che forse è lesbica, con tutte quelle “nipotine” a getto continuo che vanno e vengono nella sua casa in via Merulana. Al commendatore Angeloni piacciono i giovani garzoni che gli portano il prosciutto a domicilio. Ha mattutini sogni erotici incestuosi il brigadiere Pestalozzi, la Ines guida le indagini verso la soluzione del caso, a causa della gelosia, dell’amore tradito del proprio ganzo.
Ci sono tutti i modi d’amare, permessi e proibiti: omosessualità, necrofilia, onanismo e incesto. Per Gadda, che non si è mai capito di che tendenze fosse (non si sposò mai, nessuna indiscrezione è trapelata circa i suoi gusti sessuali), va bene tutto. Tutta la vicenda del pasticciaccio parte da quel corpo assassinato di Liliana, alla quale l’assassino ha sollevato le gonne sul petto per mostrarne il sesso nudo. Sembra di rivedere il quadro di Courbet: l’origine. E’ lì infatti l’origine di tutto, nascita, amore e morte. Romanticismo? No, l’esatto contrario, la celebrazione funerea del romanticismo.
Sì, è vero, Gadda è anche barocco. Scrive barocco, perché barocca è la vita quando è forte l’odore della morte e ancora più intenso è il desiderio di vivere, Gadda è spesso satirico, e pieno di rabbia e sdegno, scrive con ira, ogni pagina è liquida: sangue, lacrime, sudore, feci, urine e tutti gli altri umori, è un mare di parole salate dove quotidianamente noi ci bagniamo, ci sbracciamo, ristagniamo.

Su tutto, però, alla fine, c’è il riscatto di un pathos intenso e la sua profonda pietà per la intimità violata, pietà per questo immenso, smisurato, infinito angoscioso ridicolo spettacolo che è l’umanità stessa. Sì, ciascuno di noi è un povero pasticciaccio umano e ciò, forse, lo indurrebbe a “ripentirsi ,quasi”. Pentirsi di che? D’esser nato, o di aver scritto il Pasticciaccio? Il fatto è che Gadda lì finisce di scrivere, o quasi. Dopo quel romanzo incompiuto, non scriverà più nulla. O quasi. Ergo, senza letteratura, la vita è nulla, o quasi.

Gadda morirà a Roma diversi anni dopo , vivendo in disparte , e in perenne difesa dagli ammiratori e dai mass media. E non si capisce questa sua scelta definitiva di vivere e morire in una città che lui stesso aveva definito caotica, indisciplinata, di nessuna consistenza e solidarietà sociale, anche se era innamorato dei suoi monumenti, del suo cielo e dei sonetti del Belli. Ma Roma era barocca, era un “pasticciaccio”, appunto, che lui avrebbe pietosamente e ferocemente investigato fino alla morte, avvenuta il 21 maggio 1973.

Proprio ora che comincio a rileggere il Pasticciaccio, e subito m’imbatto in quel mezzo tonto di Ingravallo, nella sua parrucca da giungla nera, metà commissario e metà filosofo, che vive di silenzio e di sonno, e dice tra sé e sé: “Le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che di si voglia di un unico motivo: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti”, e man mano proseguo nella lettura, propria ora finalmente, capisco perché ho portato con me questo libro , in questa clinica un po’ antiquata e demodè, dove sto ormai da giorni e giorni e tutto si riduce a feci e sangue, sostanze ambivalenti, tragiche e grottesche, eroiche e ridicole, drammatiche e comiche della vita, anzi - direbbe il commissario Ingravallo-Gadda, - sono le due sostanze fondamentali di una vita, che per il resto è solo apparenza.
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