28 gennaio 2021

IL CASHBACK, LA NUOVA FRONTIERA DEL FISCO di Antonio Laurenzano


IL CASHBACK, LA NUOVA FRONTIERA DEL FISCO

di Antonio Laurenzano

Una scommessa da cinque miliardi. E’ la posta in palio prevista dalla Finanziaria 2020 per stanare l’evasione fiscale attraverso un maggiore utilizzo di pagamenti elettronici (“cashback”). Un premio in danaro a favore dei soggetti privati che effettuano acquisti di beni e servizi, compresi i pagamenti relativi ai rifornimenti di benzina, al bollo e all’assicurazione auto. Sono esclusi gli acquisti online, quelli destinati alle attività imprenditoriali/professionali, i pagamenti con domiciliazione bancaria, le ricariche telefoniche effettuate presso sportelli ATM.

Dopo la fase natalizia di rodaggio, la macchina del cosiddetto “rimborso di Stato” gira a pieno regime. Fino al 30 giugno 2022 è previsto un rimborso percentuale per ogni pagamento digitale pari al 10%, senza un importo minimo di spesa (un caffè vale come una lavatrice). La quantificazione del rimborso è determinata sul valore complessivo delle transazioni effettuate nel semestre, almeno cinquanta per un importo complessivo non superiore a € 1500. Sarà quindi possibile ottenere un rimborso massimo di € 150 per singolo semestre, fino a € 300 l’anno. Un rimborso speciale di € 1500 (“super cashback”) è previsto a favore dei primi 100 mila soggetti che totalizzano, in un semestre, il maggior numero di transazioni con la “moneta elettronica”. I rimborsi del cashback (esentasse) avverranno entro 60 giorni dalla fine del singolo semestre con accredito sul conto bancario/postale comunicato all’atto dell’iscrizione.

Nonostante la procedura complessa e macchinosa per aderire al cashback, gli iscritti al programma hanno superato quota 7,5 milioni. Gli esercenti abilitati, in possesso di dispositivi di accettazione dei pagamenti come il POS, sfiorano quota 12 milioni. Numeri importanti, lontani comunque dalle stime previsionali, di un’operazione per la quale il governo ha stanziato 4,75 miliardi di euro nel biennio 2021-2022, cui vanno aggiunti ulteriori risorse per la “lotteria degli scontrini”, al via dall’1 febbraio. Basteranno questi premi a convertire l’italica gente a un uso diffuso di carte di credito e di bancomat nella strategia di contrasto all’evasione fiscale? Molte le incognite per un buco annuale di 110 miliardi di euro con la forte incidenza dell’Iva di circa 35 miliardi (siamo i “primi” in Europa). A consuntivo andranno valutati i reali benefici in termini di maggiore gettito tributario e recupero di evasione per l’Erario. Una partita dal risultato incerto, legato a prassi consolidate.

In materia di lotta all’evasione, si studiano con interesse le azioni messe in campo in alcuni Paesi, il Portogallo in particolare, dove un meccanismo simile ha dato risultati molto positivi, riducendo in modo significativo il “tax gap” dell’Iva, la differenza fra imposta incassata e quella dovuta in un regime di perfetto adempimento. Il presupposto per ottenere buoni risultati certamente è stata la semplicità di accesso al sistema rispetto all’Italia che ha scelto una strada meno lineare con l’app IO, Spid/Carta d’identità elettronica e issuer convenzionati. Ma al di là dell’obiettivo di fondo legato alla emersione del sommerso, l’utilizzo dei pagamenti elettronici, secondo un recente studio di Bankitalia, nel precario contesto economico segnato dalla pandemia, supportando gli acquisti online, favorirebbe i consumi contenendo la caduta del Pil. “Un’economia con pagamenti molto digitalizzati è molto più resiliente a choc esterni di un’economia troppo basata sul contante.”

Sull’uso incentivato della moneta elettronica c’è comunque da registrare una lettera della Banca centrale europea con la quale vengono mossi rilievi critici al governo italiano per “aver privilegiato uno strumento di pagamento rispetto ad altri senza averne verificata preventivamente la legittimità a livello europeo.” Chiaro il principio della Bce in materia di moneta: ”Gli Stati dell’Eurozona non possono adottare politiche e regolamentazioni monetarie per perseguire altri fini interni.” Qualunque disincentivo o limitazione nazionale ai pagamenti in contanti deve essere conforme al diritto dell’Ue. Sulla ratio più strettamente fiscale del cashbak, la Bce ha censurato l’intervento monetario nazionale volto ad attuare politiche fiscali, in quanto “il monopolio della moneta è a livello Ue, non è nazionale”. Quindi l’esigenza di effettuare controlli fiscali attraverso transazioni monetarie elettroniche è inconciliabile con la regolamentazione monetaria dell’euro. In sintesi: l’evasione si può combattere senza ledere le prerogative monetarie della Bce. Ministro Gualtieri e… successori avvisati. La nuova frontiera del fisco italiano passa anche per Francoforte.


25 gennaio 2021

IL SALE E GLI ALBERI – La linea curva della deistituzionalizzazione - di Ernesto Venturini a cura di Miriam Ballerini

 


IL SALE E GLI ALBERI – La linea curva della deistituzionalizzazione - di Ernesto Venturini

Io ne ho viste di cose che voi umani non potete immaginarvi

© 2020 Negretto Editore

ISBN 978-88-95967-39-4

Pag. 249 € 15,00

Ernesto Venturini, insieme a Franco Basaglia, è stato protagonista della chiusura dei manicomi negli anni 80' – 90'. Dal 1991 al 2006 ha accompagnato come assessore dell'OMS, il processo di riforma della psichiatria brasiliana. Ha così raccolto il materiale utilizzato nelle conferenze, tratto dalla sua esperienza a Imola, Trieste, e Gorizia. Costruendo questo saggio che è un viaggio nella deistituzionalizzazione del manicomio.                                                 Avendo personalmente scritto di malattia mentale, capisco bene cosa ci voglia comunicare Venturini: basti guardare qualche vecchia foto che ritrae questi luoghi, per leggere tutto il dolore, la tortura, l'abbandono in essa contenuta. E basti vedere, ancora oggi, come reagiscono i cosiddetti “normali”, di fronte al disagio mentale; ma non solo, Venturini lo spiega bene, la società ha le stesse reazioni di disgusto e di rifiuto nei confronti di tutti i diversi: siano emigrati, barboni, vecchi … la lista è lunga e penosa.

Dice Basaglia: “A me non interessa, assolutamente, fare discorsi astratti sui bisogni e sulla sofferenza. M'interessa vedere, al contrario, in quale modo si organizzi questa sofferenza e la sua domanda, e vedere poi quale risposta si dia a questa domanda”.                             Venturini ne riporta più volte il pensiero e, spesso, si dimostra tanto onesto da criticare la psichiatria, quando questa non tenga conto dell'individuo, ma sia solo vuota retorica.

I racconti sono molteplici, atti a dimostrare come sia bastato aprirsi al mondo, in questo caso portando il manicomio fuori dalle sue mura, per far sì che la gente ne venisse coinvolta e collaborasse a questo progetto innovativo. Inoltre si dimostra come l'arte, il lavoro, il fare, serva a smuovere l'apatia (spesso indotta), in cui erano costretti i malati. Anche questo non vederli come malati, ma come persone, non da riabilitare, che già il termine parte da un presupposto negativo; ma da abilitare. Una parola che apre a un mondo di possibilità.

Venturini ci mostra alcune di queste persone e le loro abilità. Ad esempi Primo Vanni, che scriveva e ha anche pubblicato: “ Ho scritto la mia storia per insegnare agli altri come ho fatto ad ammalarmi … Chiedo perdono al Bondio se ho disturbato. E ringrazio quelli che mi hanno fatto del bene, e che il Bondio faccia la santa grazia che diventino boni anche quelli che mi hanno fatto del male e che mi restituiscano le robe che mi hanno fregato”.

Ci viene dimostrato come sia importante che abitino, vivano, in una casa; perché la casa è un rifugio, non una prigione come lo era il manicomio.

Interessante, poi, il perché del titolo: “Il sale e gli alberi”. Basaglia, quando parlava del manicomio diventava intransigente e diceva: “Dobbiamo comportarci con il manicomio come si comportavano gli antichi Romani con gli avversari particolarmente tenaci. Quando conquistavano una città nemica, la distruggevano, aravano il terreno e, poi, vi gettavano sopra il sale, per impedire la crescita di ogni nuova pianta”.

Questo saggio offre una visione ampia sulla malattia mentale, sulla ghettizzazione di cui è vittima, da sempre. Ma anche sulle opportunità che si possono offrire a delle persone che hanno dei problemi, ma che non sono il loro problema.

Non poteva mancare la poesia che Alda Merini scrisse a Basaglia e che chiude:

ma la cosa più inaudita, credi,

è stato quando abbiamo scoperto

che non eravamo mai stati malati.


© Miriam Ballerini

fonte: "Il sale e gli alberi" di Ernesto Venturini: il manicomio fuori dalle sue mura - OUBLIETTE MAGAZINE

James Ellroy – L.A. Confidential - a cura di Marcello Sgarbi

 


James Ellroy –
L.A. Confidential - (Mondadori)


Collana: Narrativa Contemporanea

Pagine: 546

Formato: Brossura

ISBN: 9788804685289


Come sanno bene gli appassionati del genere, il giallo comprende due categorie principali: il filone deduttivo, a cui si può ascrivere per elezione Edgar Allan Poe, antesignano del romanzo d’indagine con la figura dell’ispettore Auguste Dupin. E poi una serie di autori che, solo per citare i più celebri, vanno da Arthur Conan Doyle ad Agatha Christie, da Georges Simenon a Rex Stout, da Gilbert Keith Chesterton a S. S. Van Dine. Il secondo filone, diversificatosi fino a comprendere il noir e il thriller, deriva dall’hard boiledil cosiddetto giallo moderno o “d’azione”, i cui capostipiti possono essere considerati Raymond Chandler e Dashiell Hammett.

È nell’ambito del noir, o meglio ancor del noir metropolitano, che si colloca l’autore protagonista di questa recensione. Un autentico maestro, soprattutto nel condurre intrecci narrativi complessi e nello stesso tempo precisi e dettagliati. È il caso di questo romanzo, scritto nel 1991, da cui nel 1997 è stato tratto un film diretto da Curtis Hanson e interpretato, fra gli altri, da Guy Pearce, Russell Crowe, Kevin Spacey e Kim Basinger.

Malgrado la sua candidatura all’Oscar, devo dire che non l’ho ancora visto e non so nemmeno se lo farò. Le mie ragioni si rifanno a un altro famoso remake dedicato allo stesso autore: Black Dahlia, tratto da Dalia nera e uscito nelle sale nel 2006, che aveva come regista nientemeno che Brian de Palma. Dopo la proiezione mi era rimasto un retrogusto di delusione.

E se Gli intoccabili è tutt’oggi nella mia top ten, potete ben capire che cosa voglia dirvi. Sì, è noto, è una vecchia diatriba quella che vuole il libro sempre superiore alla trasposizione, un po’ come soffrono di sudditanza le cover rispetto ai dischi originali. Fatte le (rare) debite eccezioni, è comunque vero anche per me.

Qui, in una Los Angeles dove l’”angelo caduto” della città assomiglia a Lucifero, va in scena una storia senza possibilità di redenzione. Ed Exley, Bud White e Jack Vincennes sono i tre agenti intorno ai quali ruota un gomitolo marcio, una vicenda che annoda i suoi fili al crimine seriale, alla prostituzione e alla pornografia. E i primi a esserne coinvolti sono proprio quelli che dovrebbero debellare il sistema di corruzione, dal procuratore distrettuale al capo della polizia.

È significativo notare come, in questo e in altri suoi noir (penso, per esempio, a White Jazz o a Le strade dell’innocenza), sia evidente il vissuto personale dell’autore, uno dei tanti disperati a cui la lettura ha letteralmente salvato la vita. Con un passato dolorosissimo alle spalle (l’omicidio della madre, rimasto insoluto e avvenuto quando aveva solo dieci anni) si trascina in una giovinezza randagia fatta di carne in scatola rubata, vino, droga e abitazione coatta in uno scatolone, come un homeless. E letture: naturalmente, crime stories.

Il suo romanzo “di formazione” – è lui stesso ad averlo dichiarato in un’intervista – è Il campo di cipolle, di Joseph Wambaugh, basato su una storia realmente accaduta. Povero in canna, pur di leggerlo il nostro autore vende il proprio plasma alla banca del sangue losangelina. Non basta, e per averne una copia tutta sua arriva a trafugarla in una libreria della città.

I protagonisti del noir di Wambaugh sono – guarda caso – due poliziotti, che incrociano i loro destini con quelli di due balordi in libertà vigilata. La realtà, come si sa, spesso supera la fantasia. E così sono proprio due agenti di turno a interrompere la lettura del nostro autore, che da quel momento entra – come ha testimoniato – nel “giro di giostra” tra la libreria, il tribunale e il carcere.

È molto probabile che nascano da lì i prototipi dei rappresentanti della legge protagonisti di quasi tutti i suoi romanzi, tra i quali questo.

Con uno stile secco e tagliente, simile al Thomas Harris di Drago Rosso, ci fa capire che al di là del crimine non ce n’è per nessuno.

Vivamente consigliato a chi pensa ancora che la giustizia sia uguale per tutti.

(c) Marcello Sgarbi

22 gennaio 2021

100 anni di storia italiana a cura di Angelo Ivan Leone


 100 anni di storia italiana


La storia di questo ultimo secolo italiano visto nell'ottica del Partito comunista italiano. Il PCI, insomma, quella sorta di Moloch e, allo stesso tempo, stanza di compensazione per frenare le mai sopite spinte rivoluzionarie italiane. Il PCI, il partito Chiesa e la casa famiglia di una nuova identità più forte e più coesa che superasse la plurimillenaria identità cattolica. Il PCI, di cui parlava Pasolini che ne fu pure espulso per via della sua omosessualità: "Come di un Paese giusto in un Paese corrotto". Il PCI di Armando Cossutta che prendeva i rubli dall'URSS. Il PCI duro come una falange macedone di Palmiro Togliatti, Pietro Secchia e Luigi Longo. Il PCI trionfante nel viso dolce di Enrico Berlinguer. Il PCI della decadenza di Natta e dello scioglimento con Occhetto. Ed, infine, il PCI degli eredi, quasi mai degni della storia del Partito. Da D'Alema a Veltroni, da Fassino a Bersani. Classe dirigente e unico salvagente per rimanere in Europa. Il PCI dei semplici militanti, dei nonni, dei padri con i pugni chiusi e gli occhi aperti verso il futuro. Il PCI di Giorgio Gaber in qualcuno era comunista. Il PCI, semplicemente: 100 anni di storia italiana.

(c) Angelo Ivan Leone

21 gennaio 2021

“Nel tempo sospeso” - Esposizione d’arte a cura di Marco Salvario

 

Nel tempo sospeso” - Esposizione d’arte

Salon d’Arte Endola – Via Isonzo 56, Torino

19 dicembre 2020 – 23 gennaio 2021

A cura di Marco Salvario


Questa volta la mia curiosità mi ha portato fuori dai miei soliti itinerari torinesi, facendomi raggiungere il vivace quartiere di Borgo San Paolo e percorrere via Monginevro fino a incrociare via Isonzo; lì mi ha accolto l’ambiente elegante del Salon d’Arte Endola con le pareti dipinte in delicati colori pastello. La mostra “Nel tempo sospeso”, realizzata in collaborazione con l’associazione Orizzonti Contemporanei, presentava le opere, selezionate con attenzione, di una quarantina di artisti.

“Nel tempo sospeso” è un titolo che ben si riferisce ai mesi che stiamo vivendo, nei quali l’arte si è fermata, soffre e, nonostante tante false parole, viene posta in secondo piano rispetto alle altre problematiche della pandemia. Se solo un centesimo delle discussioni e dei tempi spesi per consentire al calcio di continuare ad andare avanti fosse stato destinato alle mostre e alla cultura!

In questo periodo in cui le scuole non riescono a garantire un’attività continuativa, potrebbe essere proposto agli studenti di girare da soli o in piccoli gruppi per mostre e gallerie, scegliendo un’opera antica o moderna da analizzare e sponsorizzare presso i propri compagni; così, forse, l’arte non sembrerebbe loro così lontana e inutile. La nostra anima, che ha bisogno ora più che in passato di poesia, di musica e di colori, va educata al gusto delle arti, perché se i nostri giovani avranno la capacità di amare la bellezza, saranno cittadini migliori e più rispettosi del mondo e della società in cui vivono.



L’esposizione mi ha colpito nel suo insieme per i colori, colori dei quadri e colori del raffinato allestimento, dove fiori in bottiglia, originali soprammobili, un pianoforte, le raffinate vetrate e le già citate pareti color pastello, creavano un’atmosfera di un’eleganza che ho molto apprezzata, sospesa tra presente e futuro, tra salotto della nonna e boheme.

Mi è difficile in tale contesto andare a estrapolare le opere dei singoli artisti, tutte valide e di qualità; le citazioni che seguono non sono quindi una scala di valori o di preferenze, ma solo lo spunto per rapide considerazioni.



Laura Lepore – “Viaggio da Mosca a Sanpietroburgo”

Sogno, realtà, allegoria e fantasia: stiamo condividendo il respiro dei mondi d’ingenua felicità creati da Chagall. Laura Lepore è un’apprezzata scenografa e, ammirando il suo lavoro, si capisce perché; inoltre scrive e illustra fiabe per bambini, ma sa prendere per mano anche gli adulti in un percorso che è fuga, liberazione e gioia.

Anastasia Yanchuk – “La sconosciuta pensierosa”

Anastasia Yanchuk è moscovita di nascita ma residente in Italia. La sua opera è viva e intrigante, fa pensare agli arcani dei tarocchi, ai figli dei fiori, ai riti vudù, all’arte peruviana; una miscela di colori e contrasti, di simboli e suggestioni. Al visitatore che si sofferma, si aprono infiniti percorsi interpretativi. Giudico quest’opera uno di quei rari quadri specchio, in cui all’interno si può vedere riflesso e analizzare il proprio io.

Rita Carrodano – “Ed è subito sera …”

Sulla tela di questa pittrice ligure risplende la bellezza del mare, del sole, delle nuvole e dei panorami della sua terra. Una donna sola cammina e sembra danzare sul bagnasciuga. Una magia di luci, di riflessi, dove è la natura a dare spettacolo, mentre la figura umana è fragile, prigioniera, eppure partecipa armoniosa alla realtà che la circonda.

La poesia diventa arte quando l’uomo vive nel creato, condividendone il respiro e senza imporre la propria scellerata violenza.



Silvia Perrone – “Doropangea”

L’opera presentata credo sia l’ultima, per il momento!, della brava artista torinese. Sullo sfondo c’è il mondo, così grande e al tempo stesso piccolo, così conosciuto e pieno di misteri, così piegato alla nostra volontà eppure fuori controllo. La sua dorata bellezza ci sfida.

In primo piano, di profilo, una ragazza assorta, senza colore, gli occhi bassi e socchiusi, le labbra sensuali, le spalle e le braccia nude. Nei miti del passato era il titano Atlante a dovere reggere sulle spalle il mondo, oggi il futuro è nelle mani della generazione dei ragazzi del nuovo millennio, sperando che il pianeta che consegniamo loro, non sia ormai irrimediabilmente condannato.

Mauro Azzarita, Rita Carlini – “Inverno”

Interessante il parallelo con l’opera precedente. Lo sfondo è un bosco spoglio, la terra è coperta di neve e ghiaccio, il sole è velato da nuvole e nebbia. In primo piano una ragazza bionda di profilo, gli occhi chiusi, la testa inclinata verso il basso, la pelle pallida, la spalla nuda. L’inverno dove siamo trasportati, non è solo l’inverno come stagione, freddo, silenzioso, malinconico, ma diventa personificazione di un inverno dell’anima, dei sentimenti, sospensione della vita. Un inverno da cui tutti aspettiamo il momento di riemergere.

Michele Vasino – “Aspettando l’estate”

Poesia e semplicità nelle opere di un artista arrivato alla pittura dopo una lunga attività come imprenditore tessile, lavoro in cui il suo gusto nella scelta dei colori e dei disegni si è manifestato e perfezionato.

Gli ombrelloni aperti, le sdraio, le sedie, le ombre sulla sabbia: tutto crea un senso di attesa, impazienza, un bisogno e una certezza di ritorno alla vita. Sì, tutto è pronto, basta attendere il momento giusto e si ripartirà con la consapevolezza che quanto in passato ritenevamo ci fosse dovuto, è, invece, un dono prezioso.



Albino Caramazza – “Passione latina”

Molti artisti sperimentano materiali diversi da quelli classici per le proprie opere, in particolare l’agrigentino Albino Caramazza da molti anni realizza collage, utilizzando bustine dello zucchero. I suoi lavori, spesso ispirati a grandi quadri del passato, perfezionati dalla lunga pratica, dimostrano eccezionale perizia e grande capacità di suggestione.

Paula Ciobanu Mariut – “Agonismo e passione”

Questa pittrice di origini romene usa una tecnica molto interessante per dare vita e singolarità alla sua opera. Le linee della ballerina, sia quelle del corpo sia quelle del vestito di cui si coglie la leggera trasparenza, si disegnano fluide e armoniose. L’opacità dei colori, la geometria del pavimento, la sfocatura dello sfondo oltre i vetri, rendono al mio sguardo questo quadro uno dei più interessanti della mostra.

Sylvia Matera – “Joaquin Phoenix”

Artista appartenente alla corrente dell’iperrealismo, nata a Parigi da famiglia italiana, capace di affrontare i propri soggetti con stili molto diversi, Sylvia Matera dimostra un’attenzione e una capacità costruttiva davvero rare. Al ritratto di Joaquin Phoenix, attore americano più volte candidato all’oscar, si sovrappone il profilo di una gallina. La testa dell’animale combacia con l’arcata sopraccigliare dell’uomo e i due occhi destri coincidono esattamente, come una vivace maschera di carnevale.

Una strizzata d’occhio all’Arcimboldo.




Tiziana Franzin – “Tramonto rosso”

L’unione di tre pannelli sfasati dallo spessore del loro bordo, regala alla composizione un livello di profondità, che si aggiunge alla densità viva dei colori. L’autrice lavora come ceramista e nel (poco) tempo libero coltiva la propria passione per l’arte; nonostante questo, la sua opera è una creazione matura e convincente, che riesce a catturare l’attenzione.

Virgilio Giorza – “Eduardo De Filippo”

Confesso di non amare molto i ritratti, sempre troppo vicini alla caricatura, di personaggi famosi. È un genere troppo sfruttato, che non ha come obiettivo il descrivere veramente il soggetto ma solo l’esaltarne, non sempre a proposito, difetti e vizi. Faccio volentieri un’eccezione per Virgilio Giorza, che ha saputo catturare la tensione sofferta del grande attore e autore napoletano con un tratto rispettoso e leggero, solo accennando con più forza lo sguardo delicatamente divergente.

Fernanda Sacco – “Onde rosse”

Fernanda Sacco è conosciuta come ottima paesaggista in grado di cogliere il respiro della natura, scopro però che non disdegna neanche tematiche astratte, realizzando opere come “Onde rosse”. Più che un effetto di onde, la mia sensazione, quasi una vertigine, è quella dello sciogliersi pastoso della materia dall’alto verso il basso, un dissolversi della realtà nella fantasia, delle nostre certezze in un caos senza forma. Curioso come l’opera sia un tutt’uno con la cornice, che è avvolta completamente nel movimento del colore.


18 gennaio 2021

Gillaume Musso – Perché l’amore qualche volta ha paura a cura di Marcello Sgarbi

 


Gillaume Musso –
Perché l’amore qualche volta ha paura

(Sperling & Kupfer)


Pagine: 324

ISBN: 9788820048198


Avvincente e insolito, questo romanzo è costruito su un triangolo classico ma per niente scontato. Lui è Martin, studente appassionato d’arte e suo malgrado futuro poliziotto. Lei è Gabrielle, ragazza irrequieta e ribelle. L’altro è Archibald, un Arsenio Lupin dei giorni nostri, un ladro gentiluomo che trafuga quadri famosi dai più importanti musei. Martin e Gabrielle, ventenni o poco più, vivono un’intensa quanto breve stagione d’amore. E proprio la paura di rischiare non permette a Gabrielle di continuare la loro relazione. I due si lasciano, ma dopo quindici anni sarà Archie, il padre che Gabrielle non ha mai conosciuto, a fare incrociare di nuovo i loro destini. Martin, diventato un intraprendente ispettore di polizia, gli darà la caccia fino a San Francisco dove, per uno strano gioco della sorte, vive Gabrielle. In quel teatro si affrontano e si scontrano l’amore, il dolore, il rimpianto e la speranza, fino ad un epilogo drammatico che offre al lettore una riflessione sulla vita e sulla morte. Poi è happy end, ma a caro prezzo.


Inforcò gli occhiali per osservare meglio l’immagine. Aveva già visto decine di foto  di Martin, ma quella era diversa. Quel volto gliene ricordava un altro. Era il volto di un uomo disarmato, che non temeva di esserlo. Il volto di un uomo che guardava il sorriso tenero di una donna. Il volto di un uomo che amava per la prima volta nella vita.

Qualcosa accadde tra loro. Non era né seduzione né desiderio, ma qualcosa che aveva la forza dell’evidenza. Archibald avviò il motore e la quattro cilindri rombò. Aveva ingranato la prima quando Gabrielle lo raggiunse di corsa e si arrampicò dietro, in sella. Lui la sentì cingergli la vita e posargli la testa sulla spalla. Allora accelerò e la moto si confuse con il sole del tramonto.

Per un pezzo, con gli uomini, aveva detto molti no, poi aveva cominciato a dire molti sì. Perché quando non si ha fiducia in se stessi, finire per dire di sì a qualcuno può significare rifiutarsi ancor più che gli si fosse detto di no.

Si era ripromessa di non rivivere mai più una situazione del genere, ma invecchiando capiva che, se si poteva sempre venire a patti con i propri rimorsi, era più difficile venire a patti con i propri rimpianti.


© Marcello Sgarbi



STORIA DI EMMA C. E ALTRE POESIE di Fabio Scotto a cura di Vincenzo Capodiferro

 

STORIA DI EMMA C. E ALTRE POESIE

Una strepitosa antologia di Fabio Scotto, che riprende forti tematiche legate alla vita


. “Storia di Emma C. e altre poesie” è una raccolta poetica di Fabio Scotto, edita da puntoacapo, Pasturana 2020. Fabio Scotto nasce a La Spezia nel 1959 e vive a Varese. Ha pubblicato varie raccolte, tra cui Il grido viola (1988); Il bosco di Velate (1991); La dolce ferita (1999); con Passigli ha pubblicato Genetliaco (2000); L’intoccabile (2004); Bocca segreta (2008); La Grecia è morta e altre poesie (2013); In amore (2016); con Magenta: La nudità del vestito (2017); A riva (2019). Molti suoi lavori sono stati tradotti in varie lingue ed hanno riscosso riconoscimenti. Ha tradotto tanti autori classici, come Hugo, Apollinaire e Bonneffoy, di cui ha curato L’opera poetica (Mondadori 2010). Critico letterario e saggista ha curato vari studi, tra cui con Donzelli: La voce spezzata (2012); Il senso del suono (2013); con Rosenberg & Sellier: Le corps écrivant (2019). È professore ordinario di letteratura francese all’Università di Bergamo. «Due solitudini, quella dell’autore e quella del lettore, che si confrontano, dialogano, a volte confliggono, e che proprio nella solitudine della pagina maturano pensieri vasti,» scrive Giancarlo Pontiggia a principio di questa opera, che raccoglie vari scritti del Nostro, tanto da presentarsi come vera antologia, cioè scelta di perle. Infatti c’è “Storia di Emma C.”, un drammatico monologo per voce sola, che si ispira alla storia drammatica di Emma, ragazza romana abusata dal padre alcolizzato; “Diario di Ciutadella”: un diario nel segno dell’isola amata, di un padre riabbracciato dalla lontananza degli anni; “Trittico lericino”: e ancora il mare, ma ora quello dell’infanzia e degli avi; “Movenze”, “Flamenco”: una ghirlanda di componimenti erotici di accesa tonalità ellenistica; “Nostos”: la lenta, fatale rassegna dei luoghi in cui ogni ritorno è una discesa alla madre. Il testo raccoglie scritti editi e inediti e rappresenta uno scrigno della poetica di Fabio Scotto. Lo stile di Fabio Scotto è realista, quasi quasi scorgente paesaggi pasoliniani, di degrado e di orizzonti periferici, ai margini della socialità umana, ove risiedono da un lato i superman, di nietzschiana evocazione e dall’altro i subman, cioè gli inetti neo-sveviani, nelle attualissime costellazioni familistiche della società liquida baumaniana odierna. Inutile, a proposito rammentare, o meglio rammendare Aristotile: chi non vive in compagnia è o una belva, o un Dio, cioè o un ladro, o una spia. Agli idilli leopardiani egli sostituisce abilmente idilli pasoliniani: ma sono quadretti collegati alla nostalgia classicista. Questa nostalgia purtroppo rimane disillusa. Non c’è qui il poeta romantico che ancora rimane legato al cordone ombelicale del classicismo. Qui c’è un classicismo di riflesso, di frontiera, che scorge beltà nelle tragedie umane.

È il caso di Emma: «Tu, il primo che vidi dal buio/ dei visceri di mia madre/ il primo giorno/ tornarmi dentro ad appestarmi il sangue/ col tuo nero delirio di bestia infoiata/ Tua figlia violentata come una sgualdrina qualsiasi/ perché è bella? Perché hai bevuto? / Perché fa caldo?». Ci sono le violente sferzate che rammemorano il pungolo marziale, cioè bellico, ma anche di Marziale. Manca la punteggiatura, con sbalzi neofuturisti, ma anche neoveristi: sono annotati solo i puntini interrogativi. La poesia è domanda, spesso senza risposta. La poesia non deve rassicurare, ma lasciare perplessi i lettori, come annota ancora Pontiggia: «La poesia esige lettori speciali, consapevoli di esserlo.... A questi lettori si rivolge questa collana, il cui nome evoca il mito dello scudo caduto dal cielo e custodito dai sacerdoti Salii. Numa ne fece fare undici simili, perché la ninfa Egeria gli aveva predetto che dalla conservazione dell’ancile dipendeva quello dell’intera comunità. Anche la poesia va custodita, e in qualche modo celata…». Emma è una vinta verghiana, non manzoniana, eppure è pur essa un’eroina. La verità ama celarsi, l’antica Aletheia, che incantò Parmenide, ma che fece impazzire Heidegger.

Il “Diario di Ciutadella” è, come annota il Nostro, «un tentativo di riaprire un dialogo con mio padre, alternando versi e prosa poetica attraverso la rivisitazione di un luogo insulare ispanico a entrambi caro…». Anche questo esprime il dramma della civiltà moderna in conflitto con la figura paterna, una figura sconfessata, alienata, spesso bistrattata, soprattutto dalla generazione postbellica, che richiama la “società senza padri” degli psychologist amerindi: «La vita è un hangar dal quale spicchiamo voli senza senso. Il senso, se c’è, padre, sta nel volo, non nella meta, né nel consenso (maestra fa da sempre, in tal senso, l’Itaca di Kavafis). Qui getto un pugno di sabbia argillosa dell’ocra del tuo giovane tempo sulle ceneri di cui tu ora sei compreso». La vita è un esistenzialistico assurdo, un naufragio, un nubifragio inaspettato che ti travolge, un indiscusso esserci per morire. Il senso… è il volo. Spiccare il volo. Ma anche questo volo spesso si frantuma in un precipitarsi di Icaro. L’esistenza è un Dedalo, un labirinto di cui dobbiamo scorgere insospettati significati, di cui la poesia - oggi purtroppo - rimane solo da significante ed il poeta - non più vate dai tempi di D’Annunzio, ancora sognatore - hodie è l’insignificante. E qui si presenta un’altra pittura: il viaggio dantesco di Ulisse. L’uomo è un Ulisse dantesco. Ulisse è il nessuno che viaggia nel niente. Siamo al nichilismo. Eppure il non-senso esprime già un senso. Il senso non ci deve essere del tutto, altrimenti dipende sempre dalla metafisica trapassata e stra-futura. In tal senso Bauman ancora parlava di retrotopia, come inverso di utopia.

In “Trittico Lericino”, protagonista è il mare: «Qui son nato/ nel Golfo dei poeti/ dove ogni hôtel/ si chiama Byron o Shelley/ Li rivedo nuotare/ verso Portovenere/ avvolti dalle onde/ E la Venere che invoco ogni mattina/ ancora tarda/ ancora non risponde…». Il mare è mare: indica apertura, instabilità, liquidità. Si parla tanto oggi di società liquida, amore liquido, grazie a Bauman. Il mare è sempre contrapposto alla terra. La terra indica chiusura, stabilità. Ricordiamo a proposito la contrapposizione in Heidegger tra terra e mondo. Ricordiamo la fedeltà alla terra di Nietzsche. Solo chi nasce sulle rive del mare può capire a fondo questa contrapposizione. Il mare è bene e male, è calma e tempesta, è “Sturm und drang”, è romanticismo. Quella Venere ricorda un tema classico. Ricorda: Zacinto mia, che te specchi nell'onde/ del greco mar da cui vergine nacque/ Venere, e fea quelle isole feconde. Così passiamo al tema dell’Eros: un eros che in Scotto è trapassato, trasfigurato. L’amore non è più il tema princeps della poetica, che dagli antichi lirici al Dolce Stile e poi alla modernità aveva per sempre quasi pietrificato un sentimento, che in verità è talmente labile, cangevole, eracliteo, che è difficile da ingabbiare. È un Dioniso nietzschiano.

In fine il tema del ritorno alla madre è emblematico di un’epopea neo-freudiana, che riconosce solo nella donna-madre, non nella donna-angelo, né nella donna-demone, una tipizzazione della femminilità. L’uomo postmoderno non può riconoscere questo ombelicale aggancio alla nostalgia della madre, che la poesia esprime bene: «Sanctus Excelsus, Jesus Nazarenus/ (c’è un dio in ogni folle)». Questa è La Sagrada Familia: opera d’arte e/o compagine sacra. Sarebbe meglio esprimere: Dio è un folle, un folle d’amore. La madre indica l’origine, l’essenza dell’esistenza stessa, la causa dell’actus essendi, il grembo-nido amoroso post-pascoliano stra-simbolista.

Io vorrei concludere con questo bell’invito che Fabio rivolge ai poeti, che non oso più commentare, ma che per la sua bellezza e profondità deve lasciarci frastornati:


Ai poeti


Quando avrete finito di scornarvi,

di disputarvi i premi a vicenda,

ricordatevi della botte di Diogene…


Vincenzo Capodiferro

16 gennaio 2021

UN SILENZIO ASSORDANTE di Angelo Ivan Leone

 


UN SILENZIO ASSORDANTE di Angelo Ivan Leone

In questa settimana da brividi, e non solo metereologicamente, per il nostro Paese, la grande stampa dimentica di svolgere il suo dovere e viene meno alla sua funzione e ragione sociale, ossia quella di informare.

Siamo tutti d'accordo che la crisi, la pandemia e tutto quello che ne deriva meritano la prima pagina, ma una parola sul più grande processo di mafia, dopo il maxi di Falcone e Borsellino negli anni Ottanta la vogliamo spendere?

Bene, se non lo fanno loro, lo facciamo noi, con i nostri modestissimi mezzi e il nostro massimo impegno.

Si tratta della più grande operazione contro il crimine organizzato mai condotta in Italia dopo il maxiprocesso di Palermo contro Cosa Nostra, istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Gli imputati sono 325 e dovranno rispondere di circa 400 capi d’accusa, dall’associazione mafiosa alla detenzione di armi, dall’usura al narcotraffico. È un processo non solo all'organizzazione mafiosa più forte del mondo: la 'Ndrangheta, ma anche alla politica corrotta e alla massoneria deviata.

L'accusa è incarnata nella persona di Nicola Gratteri, un uomo cui affiderei di buon grado, non solo la conduzione di un processo, ma quella dell'intero Paese. E credo che siano svariati milioni gli italiani che pensano questo, specie nel Meridione d'Italia.

Se lo ricordino bene i nostri politici.

11 gennaio 2021

IL DIRITTO ALLA GIOIA a cura di Roberto Bertazzoni

 

IL DIRITTO ALLA GIOIA a cura di Roberto Bertazzoni



A volte è molto difficile trovare il lato positivo delle cose. Davanti a una situazione problematica, un imprevisto, un dolore o una delusione, è forte la tentazione di vedere il “bicchiere mezzo vuoto”.                                                                                                                             Ci si lascia sopraffare dal pessimismo e dalla rassegnazione; come bombe sotterranee fluiscono pensieri negativi che fanno terra bruciata delle nostre speranze. Generano fatalismo e disperazione, mentre ci si annebbia la vista impedendo la ricerca di insospettabili ragioni di gioia, magari nascoste nel laboratorio interiore di ognuno di noi. D'altra parte “toccare il fondo” è un'esperienza che, prima o poi, ogni uomo si ritrova a dover vivere.                                 È successo anche a me.                                                                                                                             Può essere un fallimento professionale, la fine di una relazione amorosa, mancanze ingiustificabili; un grave errore commesso, oppure un periodo di disorientamento esistenziale in cui, l'amarezza delle opportunità mancate, le delusioni vissute e l'incertezza del futuro, ci appaiono montagne insormontabili in grado, spesso, di generare momenti di profondo dolore e rimorso. Non è facile esprimere questa sensazione di essere imprigionati nel fondo di un pozzo buio, senza alcuna via d'uscita; così come accettare e comprendere come si sia potuti scivolare così in basso. D'improvviso tutto è intriso di questo significato nel quale sembrano vani e inutili tutti gli sforzi fatti per costruire un progetto di vita, o per raggiungere un obbiettivo.                                                                                                                                                 Anche gli sbagli commessi nel nostro percorso che, se capiti e onestamente ammessi, potrebbero divenire esperienze utili e decisive per farci cambiare veramente vengono, in quest'ottica, considerati soltanto per la loro accezione negativa. Capita che ci si abbandoni all'inevitabile tentazione di lasciarsi andare, di sprofondare nell'oblio sordo e impalpabile. Sentiamo forte l'impulso di ripiegarci su noi stessi e sul nostro dolore, anziché tirarlo fuori e aprirci alla vita, rischiando di perdere un dono prezioso che, tutti noi, dobbiamo rispettare. Parlo della dimensione della speranza che, trasformandosi, diventa intenzione, decisione e sfida. La sfida contro noi stessi e i nostri fantasmi interiori. Tutto ciò richiede coraggio e capacità di abbattere spessi muri eretti in difesa delle nostre più recondite paure.     Proprio quando ci sembra di non avere più nulla da perdere, e il buio più nero ci avvolge, ecco che la nostalgia della luce ci prende e si fa strada dentro di noi, scuotendoci dal nostro torpore.                                                                                                                                                     Questo senza perdere di vista gli errori commessi che, facendo parte della nostra vita, ci danno la consapevolezza che nessun cammino è privo di cadute e smarrimenti; che ogni fallimento, se rielaborato, può diventare un'opportunità di crescita e maturazione. Un'occasione per riflettere sul percorso compiuto e imprimere una nuova direzione al nostro progetto di vita, cercando, finalmente, la strada giusta sul nostro sentiero. Magari scopriremo di avere impensate risorse e riusciremo a conoscere più in profondità, a guardare in faccia, le nostre paure e amarci di più, accettando anche la nostra povertà e le debolezze. Capiremo che è necessario puntare lo sguardo oltre le nuvole, per riuscire a vedere il cielo stellato che si nasconde dietro la tempesta.                                                                                                                    Solo allora, guidati e sorretti da una nuova consapevolezza, potremo dire di avere compiuto un passo decisivo sulla strada del nostro personale, piccolo e sacrosanto diritto alla gioia.

George Orwell – 1984 – a cura di Marcello Sgarbi

 


George Orwell –
1984 (Mondadori)


Collana: Oscar moderni 

Formato: Tascabile

Pagine: 321

EAN: 9788804668237


Dopo avere letto questo classico della letteratura, l’occhio del Grande Fratello televisivo, trasmissione in onda dal 2000 (sic!) vi sembrerà irridente e irritante, suonerà alle vostre orecchie come un titolo a dir poco inadeguato. Perché la narrazione disegna uno scenario senz’altro avveniristico, ma non così tanto lontano dalla realtà. I protagonisti, Winston Smith (forse per volontà dello stesso autore anonimo fin dal cognome, l’equivalente di un qualsiasi signor Rossi) e la compagna Julia, incarnano sia l’impossibilità di esistere con la loro dignità di persone, sia il progressivo annichilimento del genere umano. The Big Brother, che tradotto letteralmente significa il fratello maggiore”, con feroce ironia rappresenta il controllo totale sulla mente e sulle azioni di ogni individuo. In un anelito di speranza, Winston e Julia cercano di conquistare la normalità a cui tutti quanti aspirano, ma vengono schiacciati, umiliati e straziati dal Partito, rappresentazione del potere in quanto tale.

Mentre pagina dopo pagina veniamo trascinati nella loro tragica commedia umana, una delle cose che ci sconvolge è sapere che nel corso della storia i regimi totalitari (il nazismo con Hitler e gli aberranti esperimenti del dottor Mengele, lo stalinismo con le “purghe” e lo spettro del gulag, l’impero cinese con le atroci torture dei laogai) hanno perpetrato qualcosa di molto simile a ciò che accade ai protagonisti. Allora, dopo avere terminato la lettura, dovremmo avere una ragione in più per gridare al mondo che la forza del bene vince anche la più abietta perversione del male. Anche se il destino di Winston e Julia, alla fine perdenti e consegnati con rassegnazione alla volontà di chi li soverchia, sembrerebbe dirci il contrario.

Quando ci sentiamo stanchi della vita, per apprezzarne la bellezza dovremmo scorrere qualche capitolo di questo inquietante e insieme stupendo romanzo.

Prese il libro di storia per bambini e guardò il ritratto del Grande Fratello che campeggiava sul frontespizio. I suoi occhi lo fissarono, ipnotici. Era come se una qualche forza immensa vi schiacciasse, qualcosa che vi penetrava nel cranio e vi martellava il cervello, inculcandovi la paura di avere opinioni personali e quasi persuadendovi a negare l’evidenza di quanto vi trasmettevano i sensi. Un bel giorno il Partito avrebbe proclamato che due più due fa cinque, e voi avreste dovuto crederci. Era inevitabile che prima o poi succedesse, era nella logica stessa delle premesse su cui si basava il Partito. La visione del mondo che lo informava negava, tacitamente, non solo la validità dell’esperienza, ma l’esistenza stessa della realtà esterna. Il senso comune costituiva l’eresia delle eresie.

Ma la cosa terribile non era tanto il fatto che vi avrebbero uccisi se l’aveste pensata diversamente, ma che potevano aver ragione loro. In fin dei conti, come facciamo a sapere che due più due fa quattro? O che la forza di gravità esiste davvero? O che il passato è immutabile?  Che cosa succede, se il passato e il mondo esterno esistono solo nella vostra mente e la vostra mente è sotto controllo?

Una volta, pensò Winston, un uomo guardava il corpo di una ragazza, lo desiderava, e questo era tutto; ora non vi era spazio né per il puro amore né per la pura lussuria. Non esistevano emozioni allo stato puro, perché tutto si mescolava alla paura e all’odio. Il loro amplesso era stato una battaglia, l’orgasmo una vittoria. Era un colpo inferto al Partito. Era un atto politico.


© Marcello Sgarbi

09 gennaio 2021

Da appunti brevi su Cremona 1 di Gian Carlo Storti

 Da appunti brevi su Cremona 1 di Gian Carlo Storti


Percorso 3 La città Rinascimentale

Il complesso abbaziale di San Sigismondo costituisce, dopo il Duomo, l’edificio religioso più importante della città. Già convento dei Vallombrosani passò ai Gerolomini a partire dal 1463, per volontà di Bianca Maria Visconti che lo fece erigere per commemorare il luogo dove erano avvenute le sue nozze con Francesco Sforza. Ad un sobrio esterno corrisponde all’interno una delle più armoniose decorazioni del Rinascimento lombardo che vide gli interventi di C. Boccaccino, dei tre fratelli Campi e di Bernardino Campi, mentre una porta intagliata (1536) immette nell’elegante chiostro. Altro gioiello del Rinascimento cremonese è la chiesa di Santa Margherita, voluta dal vescovo umanista M. G. Vida che affidò il progetto a Giulio Campi, autore, con il fratello Antonio, dell’unitaria decorazione interna, mentre nella chiesa di San Pietro al Po, riedificata nel 1573, già importante monastero, come segnalano i due chiostri rinascimentali, si conserva nei transetti un intervento ad affresco di Antonio Campi (1579) che si accompagna alla restante decorazione di esuberante gusto tardo-manierista. Più complesse sono, le vicende della chiesa di Sant’Abbondio, già monastero benedettino, ristrutturata dagli Umiliati nel XV secolo per passare nel 1579 ai Teatini; oltre allo splendido chiostro bramantesco, degne di segnalazione sono le decorazioni ad affresco di G. B. Trotti e O. Sammachini del sec. XVI, e l’annesso Santuario Lauretano, copia della Santa Casa di Loreto del 1624. Ad un altro capo della città sorge invece la chiesa di San Luca, con facciata in cotto del 1471 ed annesso Tempietto del Cristo Risorto, opera di B. de Lera del 1503, eretto come atto di ringraziamento per una scampata pestilenza. Cremona conserva anche molti palazzi nobiliari del rinascimento come, su corso Garibaldi a poca distanza dalla chiesa di San Luca, palazzo Raimondi, dell’umanista Eliseo Raimondi (1496), interamente rivestito di marmi bianchi e rosa, che ospita, oltre ad istituti scolastici come la Scuola di Liuteria e la facoltà di Musicologia, la Fondazione "W. Stauffer" attiva in campo musicale. Nell’imponente palazzo Affaitati, sito in via U. Dati ed edificato per l’omonima famiglia di banchieri tra il 1561 ed il 1570 da F. e G. Dattaro, hanno invece sede le due più importanti istituzioni culturali della città: il Museo Civico "Ala Ponzone", composto da varie sezioni fra cui spiccano la ricca Pinacoteca, il Museo Stradivariano, e la Biblioteca Statale con la Libreria Civica.

TESTO CRITICO SU “LE FAVOLE DELLA DITTATURA” DI LEONARDO SCIASCIA, A CURA DI MARIA MARCHESE


TESTO CRITICO SU “LE FAVOLE DELLA DITTATURA” DI LEONARDO SCIASCIA, A CURA DI MARIA MARCHESE


Leonardo Sciascia “Scrittore dalla breve frase e dal pensiero lungo” : così Leonardo Sciascia caratterizzava Luigi Pirandello. Sin da adolescente, egli fu vittima di un’indiscussa malía, promanata dall’autore di “Uno, nessuno e centomila” , che lo spinse, in seguito, a trovare un rimedio nei confronti della stessa fascinosa personalità, poiché sposava l’illogica realtà siciliana ad un inaccettabile relativismo filosofico. Vitaliano Brancati e il suo realismo divennero, quindi, il suo modello ideale. Il 21 settembre 1948, su uno spoglio di “Sicilia del Popolo” , compare una colonnina che riporta sei favole di Sciascia, il cui titolo è “Favole del dittatore” . Il 22 dicembre dello stesso anno, sul medesimo quotidiano, lo studente Sciascia realizza, per omaggiare Brancati, di cui ammira la lontananza da ogni totalitarismo, un intervento intitolato “Brancati e la dittatura” . Nel 1950 viene pubblicato presso l’editore Borsi, di Roma, “Le favole della dittatura” : l’iter riportato nelle righe precedenti è l’unico elemento che permette di individuare la figura del dittatore in Benito Mussolini e l’oggetto della dissertazione nel governo fascista. Il libro involve 27 brani, espressi attraverso la forma favolistica, ispirati a Esopo, Fedro e Lafontaine nonché agli Animali Parlanti dell’abate Gianbattista Casti. L’attualità della condizione dissertativa viene, invece, chiarita dalle due citazioni che, unitamente al titolo dell’opera, ne costituiscono l’incipit concettuale.
La prima, dalla “Fattoria degli animali” di Orwell (“Le creature di fuori posavano i loro occhi un po’ sul porco e un po’ sull’uomo, sull’uomo e poi sul porco e ancora sul porco e poi sull’uomo, ma ormai era impossibile distinguere l’uno dall’altro) , suggerisce l’innaturale efferatezza del regime stalinista; la seconda, di Leo Longanesi (“Gli storici futuri leggeranno giornali, libri, consulteranno documenti di ogni sorta, ma nessuno potrà comprendere quel che ci è accaduto. Come trasmettere alla posterità la faccia di F. quando è in uniforme e scende dalla sua automobile?”) , si riferisce alla boria del regime fascista. L’intellettuale siciliano esprime, nel testo, brevi scene allegoriche, che evidenziano la somiglianza, ad imis, di entrambe le forme di governo. Adotta, quindi, uno stile volutamente arcaico per sottolineare un comportamento retrivo nonché l’immutabilità degli atteggiamenti dittatoriali, nel corso dei secoli. Ne “Le favole della dittatura” , Leonardo Sciascia sembra raddolcire, attraverso un linguaggio usualmente rivolto al fanciullo, l’assunzione di un’amara compressa. Sotto la dolce pozione letteraria è celato, infatti, un fluire carsico, il cui adombrato eloquio destabilizza e graffia coscienza e stati d’animo. La brevità formale dei passi e la loro laconicità abbracciano esperienze esistenziali prive di una conclusione morale, che indovano l’individuo nel disincanto; mentre l’ossimoro tra competenza letteraria fanciullesca e denuncia sociale destabilizza il lettore, piombandolo nella sfera dell’incertezza. Invero accolgono, addentro, il procedere di una dimensione riflessiva che necessita di un acuto approccio attentivo: passo dopo passo, attraverso l’elaborazione del turbamento, il lettore viene coinvolto entro le soglie del pensiero precipuo, benché disilluso.
L’autore vi imprime la propria ribellione verso il regime dittatoriale e ogni forma di sottomissione perpetrata nei confronti del debole: in esse, lo scrittore dischiude un inconfessato limbo, lontano da utopia e speranza. Egli avvicenda gli animali e, talvolta, l’uomo, mediante una mano semplice e, nel contempo, salace, ironica e altresì sottile, giostrando brevi traslati simbolici assolti, in taluni casi, dai respiri del silenzio, in altri, dal mormorìo emanato dall’incognita. Riporto, qui di seguito, alcuni degli immaginari reali, dipinti dallo scrittore, perché il lettore possa meglio orientarsi nei confronti del contesto che ho fin ora descritto. So quel che pensiSuperior stabat lupus: e l’agnello lo vide nello specchio torbido dell’acqua. Lasciò di bere, e stette a fissare quella terribile immagine specchiata. “Questa volta non ho tempo da perdere “ , disse il lupo: “Ed ho contro di te un argomento ben più valido dell’antico: so quel che pensi e non provarti a negarlo” . E d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo. (L. Sciascia) Da Fedro, schiavo liberato , che ben conobbe i meccanismi dei rapporti di oppressione e asservimento, Leonardo Sciascia adotta la favola “Lupus et agnus” , esacerbando il dictat proclamato dal lupo che, oggi, torna con una ragione, a suo dire, indiscussa: la regola del gioco è unica e prevede che le norme di quest’ultimo vengano realizzate e modificate dal più forte, a proprio piacimento.

La prima perla, che si dirime entro le cerchia di un perpetuo e mesto dogma, diviene l’inizio di uno sconfessato rosario, che procede, poi, in una sequela vivace e animata di irrisolte preci. Ma è soltanto un asino Cercando col muso tra i resti di un carro di carnevale, l’asino scoprì una enorme testa di leone: vi infilò dentro la sua e, mezzo accecato da quella testa di cartapesta che intorno alla sua si muoveva come un cappello in cima a un bastone, uscì per i campi tagliando di gioia. Galoppando, entrò in mezzo a un gregge tranquillo, arruffandolo di spavento e di confusione. Subito però il castrato più anziano capì di che si trattava. “Sei il signore di tutti noi” belò; “disponi di noi come vuoi” . L’asino accettò l’omaggio con altissimo raglio. E un agnellino osservò allora al castrato: “Ma è soltanto un asino” . E il castrato: “Stupido, lo so bene che è un asino. Bisogna però trattarlo come un leone, se non vuoi che i suoi calci ti piovano sulla schiena. Quando il padrone verrà a riprenderlo, sapremo come chiamarlo” . Un secondo stralcio, questo, dove convivono altri atteggiamenti stigmatizzati dall’autore: in esso si concretano il servilismo, il trasformismo e l’adulazione da parte degli intellettuali. L’uomo in divisaGuardando l’uomo in divisa, chiuso e rigido dentro tanto splendore, la scimmia pensò: “in fondo la mia condizione non è triste: mangio bene, faccio la mia ginnastica, la gente che si affolla intorno a questa gabbia mi diverte. Ma vorrei tanto avere un vestito come il suo” . Un ultimo esempio, quello sopra citato, che sottolinea la distanza tra la classe dominante e quella subordinata. Pier Paolo Pasolini, che analizzò lucidamente “Le favole della dittatura” , in Libertà d’Italia del 9 Marzo 1951 intravide, nell’uomo in divisa, la figura di Galeazzo Ciano o Achille Storace.

Ho illustrato l’opera di un Sciascia minore, la cui risultanza tessutale si celebra entro le pareti del pensiero scomodo: poteva essere apprezzato ma non amato, poiché la sua intransigenza metteva in luce, agli occhi degli italiani, evidenze che preferivano ignorare. Per enfatizzare le ideologie trattate sin ora, rammemoro alcuni versi tratti da “Ninna nanna della guerra” , composta nell’Ottobre del 1914, da Trilussa: anch’essi vertono su una formula rivolta all’universo infantile per addivenire ad una denuncia sociale. …

Fa la ninna cocco bello

E riuniti fra de loro Finché dura sto macello:

senza l’ombra d’un rimorso,

fa la ninna, ché domani ce faranno un ber discorso

rivedremo li sovrani su la Pace e sul Lavoro che

se scambiano la stima pe quer popolo cojone

boni amichi come prima risparmiato dar cannone!

So cuggini e fra parenti

Nun se fanno comprimenti:

torneranno poi cordiali li rapporti personali Utopia e mondo dell’infanzia divengono, invece, oggi forieri di speranza e cambiamento. Il 17 Novembre 2020, Francesco Tonucci, psicologo del Cnr, vignettista e ricercatore di fama internazionale, viene insignito del titolo “Senior fellow”, nell’ambito dell’Ashoka Changemaker Summit. Il professor Tonucci ama definirsi un “bambinologo” e il suo progetto, in qualità di changemaker, prevede un totale ribaltamento dell’attuale status quo. .Egli sostiene che la città debba essere giocabile: solo un nucleo predisposto in maniera tale che i bambini possano uscire liberi, operare scelte e esperire se stessi può considerarsi democratico. Un luogo pericoloso come, del resto, un luogo riservato non rappresentano una suolo costruttivo: crescere un essere umano nella paura farà di quest’ultimo un individuo fragilissimo. La città di Salò, sul lago di Garda, costituisce un virtuoso e concreto esempio di questa mutazione sociale che, attualmente, trova riscontro non solo in diverse regioni italiane ma altresì in Spagna e in America Latina. Dalla consapevolezza di adulti e bambini può pervenire, quindi, l’atteso cambiamento.

Maria Marchese

 

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