31 marzo 2007

Francesco Petrarca

Il piu' europeo
dei poeti
di Augusto da San Buono

Per Giovanni Boccaccio, Francesco Petrarca non fu solo il poeta laureato, il vate europeo, conteso dai potenti, dittatore indiscusso del gusto letterario, lo splenetico poeta che vagava dall’Italia alla Francia, dalla Germania alla Spagna, dalle Fiandre alla Boemia, “nell’ingannevole speranza di fuggire da se stesso”, ma fu soprattutto l’unico vero amico della sua vita, a cui rimase fedele fino alla morte. Erano diversi in tutto, i due “geni” della letteratura italiana, il più giovane Boccaccio (aveva nove anni di meno) era emotivo, ingenuo, passionale, umile, con consuetudini semplici ed esperienze limitate; il Petrarca, invece, era il “Virgilio del Medioevo”, il poeta d’Europa, sicuro di sé, della propria fama e grandezza, ricco di amor proprio e orgoglio per il proprio genio letterario (disse che i Principi e i potenti del secolo avevano vissuto con lui e non viceversa). Ciò che li unì, li legò profondamente fino alla fine fu il profondo amore, la divorante passione per la letteratura, di cui non poterono fare a meno. Il regalo più grande, inestimabile, che il più giovane Boccaccio fece al grande maestro e amico fu un trattato di Sant’Agostino, e alcune opere di Cicerone e Varrone ricopiate da lui stesso. Regalare un libro, e soprattutto copiarlo, costituiva una delle massime prove di amicizia. Un libro allora costava un patrimonio. Ebbene, quando Petrarca fu prossimo ai settant’anni ed era pieno di affanni e di acciacchi (sarebbe morto nel 1374, giusto a quell’età), il piu' letterato dei letterati, l'uomo che visse per la letteratura e dichiarò “essere quella la vera vita”, confidò all’autore del Decamerone che era di "umili origini". Boccaccio lo ringraziò per la sincerità dimostrata, da vero amico, e contestualmente lo invitò – come aveva fatto lui ormai da tempo - a farsi da parte, a riposarsi, a godere dei frutti degli studi, e lasciare il posto ai giovani. Il vecchio Petrarca lo guardò a lungo, poi disse: "La fatica continua e l'applicazione sono l'alimento dell'animo mio. Quando comincero' a rallentare e a cercare riposo, tieni per certo che cessero' di vivere”. E poi aggiunse: ”Per me leggere e scrivere sono fatiche assai lievi, son dolce ristoro che conforta dalle fatiche piu' gravi e ne produce l'oblio. Non v'ha cosa che pesi men della penna, ne' piu' di quella diletti; gli altri piaceri svaniscono e dilettando fan male; la penna stretta fra le dita da' piacere, posata da' compiacimento, e torna utile non solo a chi scrive, ma ad altri ancora che son lontani e talvolta anche a quelli che nasceranno dopo mille anni.
In questa dichiarazione d'amore nei confronti dell'attivita' letteraria e' anche implicita l'orgogliosa consapevolezza della gloria che si puo' acquisire con le lettere, gloria che non solo perdura ai tempi nostri, ma addirittura celebra in lui, il poeta laureato, il piu' rappresentativo poeta europeo di tutti i tempi, il piu' "europeo" dei letterati, colui che incarna con la sua lirica la possibile salvezza, la redenzione dell'uomo, attraverso la poesia.
Non c'e' stato poeta italiano, dopo di lui, che non abbia attinto alla sua poesia: un albero maestro le cui fronde e la sua lunga ombra si e' proiettata in tutti i secoli, fin nel '900, non solo nel solco di poeti italiani come l'Ungaretti della Terra promessa, Sereni e, da ultimo, Zanzotto, ma anche poeti europei di grande portata come Rene' Char, Mandel'stam, Celan rendono omaggio al grande Petrarca: "Nella piaga chimerica di Valchiusa, l'ho guardato soffrire; era, benché prostrato, un'acqua verde laggiù, e poi anche una strada. Fiore ondulato d'un insonne segreto. Di che cosa soffri, tu, Petrarca? Dell'irreale intatto dentro il reale devastato?”.
Solo questo può testimoniare la poesia: dell'irreale intatto, della sua nuda forma, dentro il reale devastato. E c'erano stati poeti che quella devastazione avevano conosciuto, come Osip Mandel'stam, inviato nei campi di concentramento staliniani, o Paul Celan, che aveva visto morire i suoi genitori nei campi nazisti, e leggevano Petrarca ai compagni di deportazione: "E noi cantavamo Petrarca, con labbra invase dal giunco, Petrarca in orecchi di Tundra”.
Ma non il Petrarca dei manieristi, non il Petrarca cantore di Laura diviene voce del novecento poetico, ma quello del deserto immemoriale ove “I detriti del tempo, deposti dalla storia, attendono pensiero e redenzione”.
Scrive Paul Celan:
I cavalli selvatici urtano sonanati corni di mammutt/ Petrarca è di nuovo in vista nel vuoto galoppo del tempo mentre nelle polveri di morte dispaiono I plotoni dell' agire un'eco s'impiglia, si rapprende, è pensiero per sempre rattenuto: ”I' son già stanco di pensar sì come/ I miei pensier in voi stanchi non sono".
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25 marzo 2007

William Blake

WILLIAM BLAKE,
STRANIERO IN PARADISO

di Augusto da San Buono

William Blake, poeta, pittore e incisore inglese della fine Settecento, inizio Ottocento era convinto che l'individuo toccato dalla grazia potesse dirsi prosciolto da ogni vincolo della legge morale. Perché direttamente guidato dallo spirito. Quando uscirono i due volumi di Canti dell'innocenza e Canti dell'esperienza, una sorta di ballata popolare fusa con un simbolismo criptico, un impulso visionario e una dose di corrosiva critica sociale, si gridò al miracolo. Il disegnatore, l'incisore era stato toccato dalla grazia. Blake in effetti era un autodidatta che conosceva davvero bene due soli libri, Il paradiso perduto di Milton e la Bibbia di re Giacomo. E dal fiume di parole di questi libri era risalito alla sorgente, a quel luogo interno, alla verità, o a quello che lui credeva la verità. E la verità era che la gente, la società era malata di Egoismo (Self-hood), ovvero il grado più basso della condizione umana: l'inferno a cui puo' ridurci la ragione indifferente che calcola e che separa gli uomini dagli altri uomini.
Tutta l'opera di Blake contenuta nei libri profetici, che determinarono la sua fama, da Il matrimonio del cielo e dell'inferno a Il libro di Urizen, America, Milton, Gerusalemme, e Vala, o i quattro Zoas, è un appello a uscire dal labirinto di inganni in cui siamo imprigionati, in nome di ciò che siamo stati e ancora potremmo essere, ossia simili ad angeli, esseri divini, vicini a Dio. Per tornare nel paradiso perduto dobbiamo spogliarci di tutto, dobbiamo eliminare qualsiasi contesto o limite che impedisce alla mente umana di raggiungere il divino. Del resto nulla di ciò che appartiene al mondo creato ha veramente valore...
Grande poeta mistico e visionario, Blake offre la rappresentazione drammatica della falsità morale e della natura divina dell'energia e dell'immaginazione, la negatività delle ideologie meccanicistiche nate dall'industrialismo, l'unità mistica dell'universo. Blake era uno che amava stupire amici e lettori con i suoi straordinari reportage dagli abissi del cosmo. Presentò le sue visioni - poesie e incisioni - come se fossero davvero immediatamente apprensibili da tutti coloro che volessero affidarsi al linguaggio totalizzante dell'arte. Era in qualche modo contemporaneo di pensatori tedeschi che non aveva mai letto, di cui anticipò la diagnosi sui mali della cultura moderna, tutti riconducibili alla disgregazione della psiche e all'alienazione dell'individuo dalla propria vera identità. Nel Matrimonio del cielo con l'inferno - secondo Auden - Blake anticipò, col tono dell'oracolo, tutto quello che, un secolo più tardi, avrebbe esposto Sigmund Freud.
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La recensione di Bruna Alasia
Fino all’8 aprile al teatro Greco di Roma

Tel: 068607513

ANGELO NERO
Opera soul
di Rosario Galli e Renato Greco

Musiche di Davide Pistoni, coreografie di Maria Teresa dal Medico, Scenografia di Massimo Roth, costumi di Alessandra Saroli, regia di Renato Greco
Con la partecipazione straordinaria di Charlie Cannon e Michele Canfora

Quando il sipario si alza la suggestiva scenografia di reti metalliche, cancelli lucidi, lastre di vetro e una bianchissima colomba anch’essa in cella, ci trasporta nella prigione del mondo in un futuro prossimo, il 2045, dove la pena di morte viene eseguita introducendo i condannati in un tubo sul quale cala una pressa che li riduce a cubi di acciaio. Un giorno, in attesa dell’esecuzione, arriva un uomo dalla pelle nera: egli ha poteri straordinari di guaritore, parla di vivere o morire, si esprime con canzoni vibranti che toccano il cuore ed è innocente dell’odioso crimine del quale viene ingiustamente incolpato…
Teatro, danza e musica come strumento di comunicazione civile e parola dello spirito. Come iniziativa a sostegno di chi sul pianeta si batte per l’abolizione della pena di morte. Questo lo spettacolo voluto da Renato Greco e Rosario Galli che hanno deciso di dedicare “Angelo nero” alla campagna contro l’esecuzione capitale portata avanti dall’associazione “Nessuno tocchi Caino” e dal partito radicale, i quali hanno salutato lo spettacolo come “contributo importante perché le parole dell’arte e del teatro possono, in questa fase cruciale, dare più forza alla conquista di nuovi diritti umani e civili”.
Il pubblico ha sottoscritto la validità dell’impegno e la bellezza dell’opera soul con un applauso lunghissimo, soprattutto in chiusura, quando gli attori sono scesi fra le poltrone, hanno cantato in mezzo agli spettatori che, emozionati, han scandito e accompagnato le grandi voci, in particolare quella di Charlie Cannon , con un battimani a tempo che ha toccato il cuore.


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25 anni di poesia a Gallipoli

25 ANNI DI "UOMO E MARE"
LA POESIA A GALLIPOLI
di Augusto da San Buono

Venticinque anni di poesia, di uomo e di mare, ("Uomo libero sempre amerai il mare", aveva scritto Baudelaire che poi aveva soggiunto: "il poeta è l'intelligenza più alta, e la fantasia è la più scientifica di tutte le facoltà"). Venticinque anni di barche, tra il canneto dei pescatori e il porticciolo di San Giorgio della borghesia salentina, - alberi tinti d'azzurro, di snob e di vele-, di nuvole che urtano contro gli orizzonti, e di maestri d'ascia che tirano a secco le barche, le ginocchia contro i denti, rattrappiti come vecchi pianisti che con dieci dita tambureggiano sotto gli scalmi, lungo la carena, le loro teste che vacillano nei rollii della passione senile e brontolano a sera come gatti schiaffeggiati; sudori e fiori di catrame, la fatica e la magia d'un arte che annienta la realtà nel mistero e a sera vino o birra a go go, per la "ciucca" rituale, ed eccoli lì, riversi nel loro tugurio-sogno sputando pollini e moccio azzurro.
Venticinque anni di "Fontanelle", di Canneto, di banchine e i moli delporto che diventa "antico" quando ci fanno il "Barocco", fiato a fiato sulla banchina lido con i portolani e i pescatori che di notte risalgono spazi umidi e irreali in una sinfonia d'arabeschi, profumi e silenzi, ma anche fatiche, rabbie e silenzi, tracce di calore febbricitanti, bestemmie forti e preghiere, una vita che sfuma nella irrealtà dinanzi ad un mondo così scientificamente decifrato e tecnologizzato. Venticinque anni con l'antico mestiere dell'uomo-Adamo cacciato dal paradiso terrestre, Adamo con il sudore, la fatica, la puzza, la pena, la trasgressione, la preghiera e la speranza di un altro giorno che deve passare. ("a dda' passa' a nuttata") Il rapporto uomo-mare è stato visto da tutte le angolazioni possibili, nella molteplicità e nella profondità infinita. Eppure c'è ancora moltissimo da dire e da scrivere, soprattutto c'è moltissimo da fare, se vogliamo avere un futuro, futuro che probabilmente non riguarda questa associazione, ormai logora, asfittica, bolsa, che ha esaurito i suoi compiti, organizzando per troppi anni un concorso che si riferisce alla città di Gallipoli, ma di cui la città non ha mai sentito la necessità, né tantomeno l'Amministrazione Comunale, che non ha mai elargito un soldo bucato per questa manifestazione. Venticinque anni faticosi perché il poeta rimane sempre un principiante, come ha dichiarato il senatore a vita Mario Luzi, un principiante che deve continuamente ripartire da zero e cantare per gli uomini che percepiscono solo la musica e non le sue sofferenze. Venticinque anni fa.
Eravamo giovani e ignari e le poesie erano poche e brutte, però pervenivano da diversi latitudini, da Varese, da Venezia, da Torino, da Roma, dalle quali avevamo allertato dei colleghi e amici di amici. Non era poesia pura, ovviamente; anzi non era neppure un meccanismo letterario vero e proprio, nessuno di quei concorrenti balzani pensava di fare arte, ma volevano comunicare, volevano magari confessarsi, senzafalsità retoriche. Non ci crederete , ma fu una specie di inventario globale della realtà su scala minimale. Più che versi erano gridi, un concentrato della tensione storica e della contraddizione sociale; una specie di banca dati, furono quei versi, quelle pulsioni immediate di delirio contemporaneo; era uno spaccato del costume letterario, ma anche una sorta di operazione conoscitiva in cui si registrava il naufragio dell'individuale. L'uomo da solo non può vivere, impazzisce. Ma non sa stare neppure insiemeagli altri. Da qui nasce il dramma. Quei poeti non facevano che piangere e forse ne avevano ragione. Erano poeti della difesa del proprio "io "e dei propri valori spirituali da tutto ciò che minacciava e minaccia (l'imbarbarimento della lingua, la perdita della forma, l'omologazione, la massmediologia, la tecnologia esasperata e spietata, la completa spersonalizzazione) la sua fittizia inconsistenza... Anche le poesie di oggi sono gridi, ma forse il primo verso dell'uomo è stato un "ahi", un grido di dolore. L'ultimo dramma di Samuel Beckett,"Respiro", dura trentacinque secondi ed è un vagito, il vagito doloroso di un neonato, o l'urlo di Munch, il silenzio infinito e disperato dei deportati nel lager di Auschwitz. La poesia, è vero, non è morta, come diceva Brecht, resiste, si rigenera come il mare, è un grido di libertà (Uomo libero sempre amerai il mare) ma non può fare molto più che testimoniare. Certamente non produce effetti taumaturgici, nè - forse - adempie ad alcun fine preciso, che non sia quello dell'umana comprensione e della libertà dello spirito. La poesia è fatta d'amore? Sì, certamente , ma anche di sogni sporchi, di dubbi e di paura della morte.
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17 marzo 2007

La forma
dello sguardo
di A. di Biase

Nell’anno del ventennale, il Museo Cantonale d’Arte di Lugano ha inaugurato in questi giorni la stagione espositiva con una mostra fotografica su quella che viene definita “l’identità dell’immagine”, intitolata “La forma dello sguardo”, del produttore cinematografico e fotografo ticinese Luciano Rigolini.
L’artista di Tesserete si autodefinisce un collezionista di immagini ed è questo forse il tema centrale dell’esposizione. L’immagine – Rigolini lo ha sottolineato con enfasi nella sua presentazione-, non è il soggetto, ragione per cui non esiste l’immagine cruda in sé, ma solo la relazione tra il reale e chi coglie il reale.
Molto interessanti sono a questo proposito i 70 fotogrammi “rubati” raccolti nell’opera “Esercizio di stile”, che di Rigolini ha la composizione, il filo estetico e quello che potrebbe essere definito lo “scatto collettivo”, ma non la mano del fotografo. Non sono immagini sue, ma le ha trovate nella prediletta attività di collezionista e le ha reinterpretate, fatte proprie e costellate in un percorso chiuso. Il catalogo, edito da Mendrisio Academy Press, fa notare come dietro l’apparente banalità di questi fotogrammi, in parte scaricati da Internet e senza alcun valore artistico alla fonte, si celano gli archetipi del linguaggio modernista, come il “reticolo”, che è un tema ricorrente anche negli scatti di gusto pittorico che sono caratteristici della prima esperienza fotografica dell’artista ticinese, negli anni Novanta. Se, in altre parole, per Rigolini la lettura dell’immagine fotografica altro non è se non lo sviluppo di una propria sensibilità attraverso lo sguardo di un altro allora, ed è questa la provocazione, non è necessario che la foto sia propria.
Noi viviamo – insiste il protagonista della mostra che è stata realizzata con il contributo dello stato svizzero –, in un’epoca nella quale i sistemi digitali hanno ampiamente preso il largo per realizzare un prodotto facile, veloce ed economico, ma in questo modo si è completamente persa la percezione della stretta relazione esistente tra lo sguardo e la realtà, che non è mai oggettiva e richiede dunque una continua interpretazione. Non ci sono - ricorda il cineasta Kowalski nel catalogo, film autenticamente “su” un argomento, bensì ogni film, più ancora se muto o in lingua originale potremmo aggiungere noi, è l’autobiografia di chi lo guarda. Il tema, il soggetto, non sono altro che strumenti, utensili al servizio dello sguardo.
Le immagini al piano inferiore del museo sembrano fare come da preludio al passo successivo, ad un ulteriore salto di qualità che ha portato Rigolini all’esplorazione del micro e del macrocosmo. Ai piani alti si trovano infatti le rielaborazioni di immagini di minerali al microscopio, ma anche geometrie tratte da immagini di materiale biologico, lungi dall’essere state realizzate per finalità artistiche. Molto scenica anche la stampa in grande formato del pianeta Urano e dei suoi anelli, rielaborazioni nientemeno che di immagini NASA, in occasione del passaggio nella sonda Voyager 2 nel 1982. Di scientifico, naturalmente, non c’è assolutamente nulla, ma solo l’immagine nuda, che richiede il filtro dello sguardo e dell’esperienza. Suona quasi come una ulteriore provocazione il fatto che proprio queste ultime siano rielaborazioni al digitale, ma Rigolini non batte ciglio perchè, sembra suggerire, non si tratta di una pretesa di soggettivizzare l’immagine, non è un digitale comodo, è semplicemente la tecnica più adatta per quel tipo di arte.
Una sala intera è dedicata a “Scrittura di luce”, una sequenza di fasi lunari stampata con la tecnica dei pigmenti puri di carbone. Curiosi poi gli strumenti didattici messi a disposizione per spiegare la “stereografia” – una sala è dedicata a quest’ultima, ed i meccanismi attraverso i quali l’occhio ed il cervello umano ricostruiscono l’immagine impressa sulle retine.
Più di tutto a proposito del catalogo è piaciuto il saggio di Jean Perret, “Le cinéma du réel”, citato anche dal direttore del museo Marco Franciolli, dove si parla del rapporto dell’uomo con l’immagine e col vero e dove si scrive fra l’altro: “Esiste, nel profondo di ogni adulto, un bambino che dorme, ed è anche a lui che si rivolgono quei film a cui Luciano Rigolini tiene tanto. Questo bambino ha un bisogno vitale di credere che è vero. Vere le soggettività dei cineasti, le scritture, le scelte estetiche e narrative, i visi e i paesaggi che disegnano le immagini, veri anche quei momenti forti e particolari che si celano in ogni film come pietre preziose”.
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Musical – Il conte di Montecristo
Recensione di Bruna Alasia
IL CONTE DI MONTECRISTO
IL MUSICAL
Presto in tourné in tutta europa

Regia di Jocelyn
Autore e attore protagonista Robert Steiner, musiche e orchestrazioni Francesco Marchetti
e con Stefania Fratepietro, Laurent Ban, Chiara di Bari, Gianfranco Pino, Gaetano Scalone, Serafina Frassica

Il conte di Montecristo, capolavoro di Alessandro Dumas - innumerevoli volte tradotto sul grande e piccolo schermo, nonché sui palcoscenici teatrali - per la prima volta viene proposto come musical grazie all’ autore e attore Robert Steiner che in “Notre Dame de Paris” ha interpretato Frollo e che, oltre ad una carriera di primo piano nel campo della musica, si impegna in teatro, televisione, cinema, radio e doppiaggio. Le musiche e l’orchestrazione sono opera del compositore Francesco Marchetti, pluripremiato per colonne sonore cinematografiche e nel 2005 direttore del Festival di Sanremo. La regia è del noto conduttore televisivo Jocelyn che ha alle spalle una lunga e stimabile carriera teatrale avendo iniziato a soli diciassette anni come direttore di scena del “Theatre du Chatelet” di Parigi.
Lo spettacolo, dopo il successo ottenuto in settembre al teatro Tendastrisce di Roma, è stato riproposto in versione ampliata nella capitale all’Auditorium Conciliazione e ha strappato applausi prolungati, grazie a una possente rappresentazione che vede in scena più di sessanta persone tra interpreti, acrobati e coro. Jocelyn interpreta lo scrittore Dumas ed è suggestiva voce narrante che illumina l’intreccio e accompagna lo spettatore a meglio seguirne i risvolti. La musica possente trascina, bravissimi tutti gli interpreti che hanno alla spalle collaudate partecipazioni ai musical più famosi. Un evento unico non solo per essere il primo grandioso musical, ma anche per l’iniziativa, promossa dal Lightbubld Events, di avvicinare ad esso i non udenti attraverso la traduzione simultanea sul palcoscenico affidata ad una interprete.
Una rappresentazione che sarà in tourné per l’ Europa, di cui sentiremo parlare per la sensualità che emana. Intanto chi volesse calarsi nella sua atmosfera canora e scenografica può visitare il bellissimo sito
www.montecristomusical.com
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Pittura: l'informale poetico

Pittura
L'informale poetico
di Augusto da San Buono

Il rischio nella pittura in genere, e in quella astratta in particolare, è quello di vedere cose che l’artista non ha mai pensato. Prendiamo, ad esempio Paul Klee: chi sarà capace di interpretare quell’amalgama essenziale di tratti e di colori disegnati da una mano fragile guidata da un angelo? Dall’occhio tagliato di Bunuel, allo sguardo senza tempo di Dalì, all’occhio privo di pupilla di Modigliani, il mistero della visione non è di oggi, anzi se vogliamo si può risalire fino ad Omero, poeta cieco che canta in suoni immagini e parole il più grande poema mai raccontato.
L’occhio della pittura è “spirituale”, lo sguardo interiore . E chi abita quel luogo simbolico e mitico che è la pittura rende visibile l’invisibile, come diceva Klee.
Detto questo, uno ci può vedere quello che crede nelle opere pittoriche di Luisa Benemeglio, una deliziosa, elegante, attraente artista italiana cinquantenne che vive a Parigi ed espone alla Nouveatés Toast Gallery le sue grandi tele (mediamente 80x120), che si rifanno all’informalismo lirico di Klee, Kandiskj, Fautrier, De Stael, Poliakoff, ma anche al Casorati della metafisica del silenzio, al Tapies di “Tabula rasa”, o al primo Alberto Burri e all’ultimo Nino Della Notte dei “paesaggi immobili”. Possiamo vederci savane, deserti, lager e panni di bucato stesi ad asciugare, vie lattee, galassie spirali, incandescenze vulcaniche e lucchetti piemontesi, una bolla di sapone illuminata da un raggio di luce laser, resti fossili, macerie e irrealtà, silenzio, musica … o nient’altro che grandi macchie di colore prive di significato… E tuttavia in quei quadri, c’è fatica, lavoro oscuro, estasi e ricordi murati, nostalgia dell’infanzia, quand’era bambina e copiava i quadri di Klee, o vedeva fuori dalle finestre della sua casa, in via Donna Olimpia, a Roma, panni stesi ad asciugare e le baracche di legno della scuola elementare, o ascoltava le lunghe tiritere della nonna Vittoria, isole di luce e flashes irrelati di memorie che si allungano “come ombre troppo lunghe per il nostro breve corpo “. C’è in lei un’ attitudine, una vocazione a custodire la memoria, la fiamma sempre accesa del tempo, come un’antica sacerdotessa.
Dipingere per lei significa sentire la materia, la sua energia, la tensione e la fascinazione che è insita nell’attività creativa, ma anche liberare le sue angosce, i suoi momenti oscuri, liberare l’anima prigioniera, il corpo sottile celato e trattenuto nell’informe della materia. Un ‘esplorazione nelle possibilità espressive della materia e un viaggio nell’inconscio. Dipingere per lei è ritrovare il “silenzio primordiale” degli sfondi bianchi, l’energia del giallo, la forza del rosso e la profondità dei blu mentalis, o nel nulla che fa risuonare il nero dentro di noi, senza futuro e senza speranza. Significa entrare in rapporto con il cosmo, scoprirsi nella luna, nel sole e nell’orsa maggiore, o nel mare che dorme sulle tombe, o nelle quattro colombe lorchiane che volano verso l’alto e ritornano con ramoscelli rossi “portando ferite le loro quattro ombre”, meditare sopra gli occhi del vento, produrre sogni e incroci irreali, e polifonie cromatiche.
Colore, poesia, armonia, sono sensazioni, emozioni che si provano di fronte alle opere pittoriche di Luisa, che sono essenzialmente liriche con qualche richiamo al simbolismo.
Sono quadri pieni di musica ( tra l’arte astratta e la musica c’è sempre stata un’analogia fortissima. Kandinsky, con il “Suono giallo” tentò di realizzare l’opera d’arte totale, coinvolgendo poesia, musica, danza e pittura, ma l’opera non fu mai rappresentata. Shonberg realizzò diversi autoritratti intitolati “Visioni”), una musica che si rivela nel ritmo del disegno e negli equilibri tra le masse della composizione (Luisa usa la tecnica del collage, carta stropicciata, con colori acrilici e pastelli secchi e grassi su tela). Forse c’è, nelle sue opere, anche un aggancio, un riferimento criptico alla realtà dei nostri tempi (l’arte è sempre contemporanea e si fa cronaca del vissuto quotidiano) e allora ecco come spiegare quelle cifre numeriche quelle lettere, i brandelli di possibili oggetti, ma il legame con le cose e le persone non è più riconoscibile, se non per mezzo di allusioni emotive, frutto sottile di un’intensa ispirazone lirica. Il segno pittorico, strutturato seconda una logica orizzontale, varia a seconda degli stati d’animo, nella essenzialità delle forme geometriche, i colori intensi, puri, danno una grande senso di pace e tranquilittà, una profonda risonanza di sentimenti che si tramutano in emozioni e reti sonore per la speranza … Quando il suo animo si fa più doloroso e amaro, il colore assume tonalità tetre, terrose, prevalgono gli azzurri, i grigi e il beige, i violetti, perde la gioia di raccontare e la tela diventa silenziosa. Ci troviamo dinanzi ad un mondo freddo, sospeso e segreto, come in un invisibile vuoto, con un indefinito senso di colpa, di sottile angoscia, echi di liquida memoria, ancestrali essenze, solitudine desolante, dove la pausa, il non detto, il non rappresentato, acquista maggior valore dell’oggetto espresso. “Il dipinto – scrisse Kandinsky - per esistere non ha necessariamente bisogno di riferimenti reali, in quanto esso deve esprimere emozioni e sensazioni possibili solo attraverso la forma e colore, così da tradursi in musica viva”.
Ed è musica calda e passionale la tela rossa, dalle diverse gradazioni e sfumature, che lascia tracce di fazzoletti bianchi e una T, un bolero raveliano, mentre le tarsie biancorosa separate da una linea diritta e nera al centro e richiami di scritte cirilliche, evocano un sogno triste, una malinconia, una meditazione amara, un gioco di dita, un sipario autunnale. E nel quadro biancosporco con tracce ancestrali e una cifra, si leva un grido, una ferita nera orizzontale, un angelo nudo, triste, pallido ed evasivo, che raccoglie cappelli neri per le strade come in una poesia di Mallarmè.
E poi ci sono una serie di quadri chiari e “ aperti”, con fili colorati e segni dell’infanzia, danzatrici misteriose e clown liquidi. La composizione beige n. 2 dove il mondo, la vita sembrano incapsulate, intrappolate in qualcosa di duro, tetragono e trasparente, senza alcuna possibilità di entrare o uscire.
La sua esperienza è memoria di una realtà senza memoria, il ritorno un po’ matto alle sere di una volta con un vecchio frack sostenuto dal nulla, un velo nero e una grande sciarpa colorata, il capriccio di Hoffman, i lied di Schubert, o le canzoni di Modugno. Sentirsi scivolare verso una luce lontana mangiando altro buio. Entusiasmi attraversati da pensieri, da lampi teatrali, l’ambiguità insita nella rappresentazione artistica, nell’essere umano e nelle sue illusioni. L’Angelo sterminatore e l’affondamento di Mancaversa, la gioia fisica di toccare i ricordi, di ritrovare gli amici-fanasma e l’adorabile paura di annoiarsi. Le parole flautate di perfidie e ciprie divertite e velenose, il non esserci in arte più nulla da fare, le musiche di Schonberg, Richard Strass, Sibelius, Debussy e Ravel. Chi è più in grado di compiere, oggi questo atto di purezza, questa divinazione?
Siamo arrivati ad un crocicchio di sentenze e di scontri , al grido femminile miceneo, con labirinti e specchi mascherati, ritratti involontari, in cui si parla di sé senza accorgersene. Ogni pittore, ogni artista è un visionario e un fallito, pieno di dubbi e di ossessioni. Esiste un Klee mascagnano, ammirato anche di Iris, floreale e stracciona, con retroterra pieni di fallimenti e frustrazioni, ma i suoi quadri mostrano segni che difficilmente si perderanno nella moltitudine di altri segni. “Il loro significato si trova in un punto indefinito tra la memoria delle cose passate e la scrittura che ne tramanda la traccia”.
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12 marzo 2007

Benigno Roberto Mauriello
LA GUERRA
CIVILE SPAGNOLA

Nel 1936 scoppiò in Spagna una sanguinosa guerra civile che costò al paese un milione circa di morti tra i quali diecimila religiosi, oltre a terribili distruzioni materiali. La maggior parte della storiografia ha sempre considerato questa guerra come il primo scontro tra fascismo e antifascismo, preludio della seconda guerra mondiale, trascurando la peculiarità della storia della Spagna dove, fin dall’epoca delle invasioni napoleoniche, vi fu una profonda e talvolta violenta contrapposizione fra il tradizionalismo, rappresentato soprattutto dalla Chiesa, e le correnti di pensiero illuministiche che iniziarono a diffondersi a partire dal XVIII secolo.
La rivalutazione di documentazione comprovante la responsabilità della Massoneria spagnola in quei tragici eventi e spesso volutamente taciuta dalla storiografia ufficiale per opportunismo o altro, fa di questo saggio un libro che rompe con gli schemi acquisiti per offrire al lettore una più ampia comprensione dell’evento.
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Benigno Roberto Mauriello
LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA
Edizioni Solfanelli [ISBN-88-89756-18-7]
Pagg. 96 - € 10,00
www.edizionisolfanelli.it

edizionisolfanelli@yahoo.it
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08 marzo 2007

I racconti di Versailles – N.5 – di Bruna Alasia

UN RE TRA INCUDINE
E MARTELLO


Racconto quinto

Entrando in sala da gioco al castello di Fontainebleau dove la corte si era trasferita Mercy-Argenteau vide la Delfina alle prese con il cavagnol, una sorta di lotto del quale era appassionata. Maria Antonietta accorgendosi di lui gli fece ansiosamente cenno.

Avete delle nuove? – chiese quando l’ebbe raggiunta

Lasciate il gioco e seguitemi.

L’ambasciatore la condusse in una sala appartata, con esasperante lentezza frugò in una tasca interna dell’abito e trasse una busta che con solennità depose tra quelle mani infantili.

Gott sei dank! * - esclamò Maria Antonietta ed eccitata corse a sedersi su una poltroncina.

Il fidato Mercy le aveva portato una lettera dell’imperatrice madre: che gioia quelle parole, come scaldavano il cuore, prediche sagge! Geniale Mercy che riusciva a far recapitare la corrispondenza più riservata senza essere intercettato e in brevissimo tempo.

Appoggiato a uno stipite della porta il diplomatico osservava sua altezza. Claude Florimond, conte di Mercy-Argenteau, dopo il matrimonio tra Maria Antonietta e Luigi Augusto, era riuscito a mettere in piedi per l’imperatrice Maria Teresa un’organizzazione postale che aveva del miracoloso: in tempi di spie al soldo di chiunque i canali normali non permettevano segreti, lo stesso Luigi XV e i suoi ministri avevano seminato informatori in tutta Europa, ma i corrieri austriaci e ungheresi reclutati dall’ambasciatore sapevano astutamente eludere ogni controllo, così diventava possibile scriversi con confidenza e sincerità.

La delfina scorreva le parole materne del 2 dicembre 1770: “Andare a cavallo. Fate bene a pensare che a quindici anni non lo approverò mai. Le vostre zie lo hanno fatto a trenta…. Montare a cavallo guasta la carnagione, la vostra corporatura alla lunga ne risentirà… E’ pericoloso e cattivo se si portano in grembo dei bambini, cosa a cui siete chiamata, cosa da cui dipende la vostra felicità… Promettetemi che non andrete mai a caccia a cavallo…”

Lesse fino alla fine. Caccia a cavallo? Se ci aveva provato era per piacere al marito, per condividere con lui qualcosa. Da che si erano sposati Luigi cercava di far fuori il cinghiale due o tre volte a settimana, saputo che prima accadeva più di rado era rimasta senza parole. Erano così diversi: Maria Antonietta aveva orecchio per la musica, volentieri prendeva lezioni di clavicembalo, amava il canto, la danza, la recitazione al punto da fantasticare un palcoscenico solo per lei, si divertiva ai balli in maschera, portava parure e abiti sfarzosi, ma in quelle occasioni lui si annoiava e se non sbudellava qualche animale si rinchiudeva a leggere. Pericoloso cavalcare se si è incinte? Non rischiava certo di mettere al mondo eredi! Sospirò e piegò la lettera nascondendola nel corsetto.

Grazie.

L’ ambasciatore esitò.

Posso fare altro?

No, avete già fatto tanto...

Certo un figlio non poteva metterlo al mondo da sola, mica era colpa sua: perché toccava sempre alle donne essere ripudiate? Quell’ idea la dispose al cattivo umore: il gioco l’aveva stancata, meglio ritirarsi. Si rese conto che Luigi dormiva da troppi giorni sul lato opposto della reggia, la sistemazione della camera comunicante con la sua era interminabile come il maglione che sferruzzava per il nonno: come mai?

Non sarebbe stato facile quella notte prendere sonno, chiarirsi necessario. Ma attraversare il castello le metteva paura, i corridoi al buio, la galleria, apparivano spettrali: si sarebbe fatta accompagnare da madame Campan, così discreta.

Madame – le disse – portatemi da Monsignore il Delfino…

Madame Campan la guardò interrogativa.

Accompagnatemi ho detto…

Subito altezza!

Centinaia di stanze a Fontainebleau di cui molte disadorne e in ristrutturazione, i camini spenti in quel gelido inverno facevano apparire senza vita una parte del palazzo. Raccolse la mantella intorno al corpo mentre Madame Campan, preceduta dal guardiano con la torcia, chiedeva al valletto di annunciare l’arciduchessa a Monsignore. Maria Antonietta aveva freddo e soprattutto era in ansia: spronata dalla lettera della madre stava facendo forza a se stessa. Difficile problema per i suoi quindici anni, ma il regno da ereditare aveva otto secoli: doveva. Percependo tensioni misteriose per difesa andava all’attacco.

Il servitore fece passare. Luigi le venne incontro e con lo sguardo ordinò di essere lasciato solo. Sembrava sulle spine, accanto alla moglie la sua timidezza si accentuava.

Accomodatevi Madame, come mai a quest’ora? Credevo foste al gioco…

Volevo dirvi delle cose importanti.

Lui raschiò la gola. Antonietta esordì con calma disperata:

E voi? Come mai non venite a giocare? Cosa fate qui tutto il tempo?

Io? Io… - si confuse Luigi – sto studiando delle carte…

Carte di cosa?

Geografiche…

Geografiche?

- Non vi ho mai fatto vedere la Descrizione della foresta di Compiégne?

- L’avete fatta voi, lo so ma… io volevo sapere altro… come mai vi siete sistemato così lontano? – non c’era astio nella sua voce piuttosto un’afflizione che non poteva essere repressa - Siamo a Fontainebleau da settimane e la vostra camera, quella che comunica con la mia, è sempre sottosopra… ve ne state quaggiù e non mi degnate di una parola…

Aveva le lacrime agli occhi e il delfino la fece accomodare in poltrona:

Vi prego Madame… pensavo che stare separati ci facesse bene…

Bene? – allargò gli occhi smarrita

Certo, lo dice monsieur de La Vauguyon…

- Il vostro tutore dice questo?

Dice che i bambini nati da un padre troppo giovane sono di costituzione delicata e muoiono presto… dice che il padre stesso si espone al rischio di divenire un libertino…

Maria Antonietta sentì girare la testa, non sapeva se quelle argomentazioni avessero fondamento ma Mercy-Argenteau l’aveva messa in guardia dal tutore.

I bambini muoiono e voi diventate un depravato? – arrossì – mia madre dice tutto il contrario, dice che sono fonte di felicità… e mia madre é una persona che si preoccupa molto di voi e di me…

Non ne dubito – trasalì Luigi

Il tono della Delfina ora era sospettoso:

- Ma è La Vauguyon che si occupa della sistemazione delle stanze?

Si perché?

E non è strano che proprio la vostra non sia ancora pronta? Ne avete parlato a vostro nonno?

Per carità, no! Il re non deve entrarci in queste cose… vi prego!

Bisogna parlargli invece, bisogna sapere se La Vauguyon ha ragione… a me dicono il contrario….

***

I due sposini al centro di un enorme potere, di equilibri delicatissimi per la pace tra gli stati, di fortune economiche incalcolabili, erano pedine sullo scacchiere politico e la loro unione poteva influenzare positivamente o negativamente questo o quel partito: così sulla loro pelle per tornaconto personale venivano architettati i più impensati intrighi.

C’era ad esempio il duca di Choiseaul, artefice di quel matrimonio che consolidava l’alleanza tra Francia e Austria, che nel successo della relazione leggeva il proprio trionfo e la propria lungimiranza diplomatica. All’opposto il duca di La Vauguyon detestava tanto gli austriaci quanto gli choiseaulisti, i quali ricambiavano definendolo “furbo, cattivo e bacchettone”. L’ambasciatore Mercy-Argenteau aveva tentato di aprire gli occhi alla sua pupilla sulle brame del tutore quando La Vauguyon, divenuto primo gentiluomo di camera e sovrintendente della casa del Delfino, aveva piazzato intorno a sé solo persone di strettissima fiducia cercando di fare altrettanto con l’entourage dell’arciduchessa all’unico scopo di dominarla, tal quale succede oggi in tutti i luoghi di potere. Così la Vauguyon era riuscito a far ritirare all’abate Vermond, precettore di Maria Antonietta, il diritto di confessarla. Aveva poi cercato di metterle accanto come dama la propria nuora, cosa a cui la Delfina si era opposta e il suo infelice marito, combattuto tra il desiderio di piacere alla moglie e di non dispiacere al tutore, si era comportato da perfetto Ponzio Pilato. Dopo avere tentato invano di estendere la sua influenza su Maria Antonietta il duca di La Vauguyon accarezzava ora l’idea di un ridimensionamento dell’ austriaca, finanche di un ripudio, cosa che gli avrebbe dato un prestigio enorme e avrebbe decretato il suo trionfo sulle fazioni avverse.

I disastrosi consigli propinati da La Vauguyon per “educare” Luigi nascevano dunque, questa volta come altre, da una volontà manipolatoria dalla quale persino i re sono obbligati a difendersi.

***

Quando Maria Antonietta, con decisione e coraggio, riferì tutto a Luigi XV, il Beneamato si adirò: non ebbe dubbi che si trattasse di un intrigo, che ci fossero persone capaci di comprarsi la complicità dei muratori per ritardare i lavori e qualcuno mirasse a guadagnarci dal fallimento del matrimonio dei nipoti. Fece una sfuriata e, come per incanto, la ristrutturazione della camera terminò in una sola settimana. I due sposini presero così a dormire nello stesso letto, sebbene lui lo faceva solo per dovere e, dopo essersi piazzato accanto alla moglie, a volte scivolava nel sonno senza averle rivolto la parola. Maria Antonietta pur sentendosi a disagio, continuando a chiedersi cosa ci fosse che non andava in lei, era tuttavia contenta di essere riuscita a salvare a Fontainebleau almeno le apparenze.

Il giorno che tornarono a Versailles il Delfino tirò un sospiro di sollievo: poteva riprendere le solite abitudini, essere meno notato se stava solo, isolarsi a leggere in santa pace, ricominciare il lavoro con mastro Gamain, il fabbro specializzato in serrature e chiavi che gli stava insegnando il mestiere e nella cui officina aveva allestito un comparto tutto suo. Luigi ci aveva messo una forgia, un banco, due incudini, un’abbondanza di martelli, pinze e strumenti utili. Gli piaceva la bottega di Gamain con quell’ odore particolare di ferro, di fuoco, di ruggine, di limatura, la sua umidità e il calore, la duttilità dei metalli, il fornello che li arroventava.

Gamain sorvegliava il suo apprendista con severità.

Maestà che cavolo combinate?! - protestava di fronte all’imperizia e alla goffaggine del ragazzo - Questa è una chiave, una chiave… avete presente la differenza tra una chiave e una brioche? Stile ci vuole, il colpo esatto… state facendo un disastro!

Sua Altezza ricominciava diligente. Arroventare e fondere. Un colpo, due colpi. Con aria di compatimento Gamain gli toglieva l’attrezzo dalle mani per mostrargli quale fosse la vera classe.

Ecco vedete? Così si fa! Ora sta diventando una chiave… sennò è una focaccia…

L’allievo guardava, taceva e apprendeva.

Cristo! Avete capito come si fa o no? – insisteva burbero Gamain - Provate e metteteci attenzione!

Docile sua Maestà ricominciava. A Luigi piaceva forgiare: con le pinze deponeva il blocchetto incandescente sull’incudine e poi lo martellava, lo vedeva scintillare, gemere, spasimare tra le sue mani. C’era un rapporto erotico con quel lavoro, una sensualità che non riusciva a sfogarsi in altro modo, un’aggressività che si scaricata a colpi di fatica e sudore. Quando stremato andava a letto dormiva profondamente. E tutto ciò era la sua salvezza, la difesa inconscia da una depressione antica che il matrimonio aveva aggravato.

***

Il duca di La Vauguyon, dopo l’imbarazzante intermezzo di Fontainebleau, era in rotta con Luigi ma cercò di riguadagnare terreno presso Maria Antonietta che in fondo non lo odiava, semplicemente non si fidava di lui. Lei era gentile , formalmente disponibile e fingeva di ascoltarlo: nei fatti era rovinato perché quello che diceva non era più autorevole. Un pomeriggio, alla fine della lezione di clavicembalo della Delfina, La Vauguyon esclamò:

Maestà suonate in maniera incantevole… anche vostro marito dovrebbe applicarsi… ho cercato più volte di spronarlo ma senza risultato…

Luigi non è adatto a queste cose… sarei già contenta che volesse prendere qualche lezione di danza…

La Vauguyon, fatto tesoro del suo desiderio, si recò dal marito credendosi portatore di chissà quali opportunità:

La danza? Cosa volete che mi importi della danza! - ribatté Luigi infastidito - vi pregherei da oggi in poi di non mettere più bocca nei miei affari privati…

L ‘altro constatando la sua stella in discesa pensò che stava invecchiando.

Siete strano maestà – sibilò tuttavia livido – preferite le serrature e i catenacci... vi sembrano lavori degni di un re?

Non ricominciamo! E poi mio nonno, non amava cucinare? Non lavorava l’avorio, il legno di rosa, con mademoiselle Maubois?

La Vauguyon si sentì messo all’angolo e non osò replicare.

***

Il Gran Canale, bacino a forma di croce lungo un chilometro ai piedi della reggia, dove con il bel tempo si svolgevano feste solcate da gondole, negli inverni più rigidi ghiacciava: dall’alto e da lontano lo si ammirava dentro il parco come un vassoio lucido. La vegetazione, di un verde più cupo, grondava di neve che avvolgeva le statue.

Dopo una cavalcata Luigi, tornando verso il castello, ammirò quei boschi: gli davano un senso di vertiginosa libertà, quella che non aveva. E d’improvviso gli venne in mente La Vauguyon, quando gli faceva lezione con aria ispirata quasi fosse Socrate. Una conversazione nella quale squillavano i concetti di liberté, egalité: “La libertà è uno dei diritti degli uomini, il governo è stato stabilito per conservarla”. Ma gli sembravano vuote quelle frasi visto che il suo tutore aveva impiegato tutte le energie per limitare la libertà degli altri. Si arrestò, guardò una scultura della fontana di Latona: un contadino trasformato in ranocchia, il getto che schizzava dalla sua enorme bocca era ghiacciato e disegnava nell’aria una curva: “stalagmite ”, rifletté. Amava tutto quello che era natura, geografia, calcolo, misurazione. Quando La Vauguyon aveva assecondato questa sua inclinazione gli aveva voluto bene, ma solo allora. Se fosse stato possibile, pensava confusamente ora, avrebbe appreso un mestiere nel campo della cartografia o dell’ingegneria o delle scienze naturali, se diventare re non fosse stato il suo dovere. Rammentò che veniva condotto ogni mercoledì e sabato dal tutore e fu contento che quei tempi fossero finiti. Gli era arrivato all’orecchio come La Vauguyon avesse soprannominato lui e i fratelli con quattro effe: Borgogna “il fine”, Provenza “il falso”, Artois “il franco” e lui “il fiacco”. Dunque non lo stimava? Che andasse al diavolo!

Di colpo un ricordo solleticò la sua ilarità al punto che, vedendolo sorridere, uno scudiero chiese meravigliato:

Avete visto qualcosa Monsignore?

Ero soprappensiero…

Gli erano tornate in mente le Massime morali e politiche tratte da Telemaco sulla scienza del re e la felicità del popolo. Il romanzo Le avventure di Telemaco che Fenelon pubblicò a Parigi nel 1699 per istruire l’erede al trono del Re Sole, ispirato al viaggio di Telemaco nell’Odissea, oggi appare ingarbugliato e noioso ma allora presso l’intelligentia di corte era considerato un capolavoro pedagogico. Delle massime tratte dal Telemaco Luigi Augusto stampò 25 esemplari che con grande orgoglio corse a distribuire a tutta la famiglia e ai dignitari più importanti. Il testo conteneva una critica severa dei sovrani moralmente indegni che col cattivo esempio mettevano in pericolo la regalità, nella quale Luigi XV si era pienamente riconosciuto.

Presto chiamò a se il nipote.

Signor Delfino – sibilò quando il bambino gli fu di fronte – con questo tipo di lavori avete chiuso, toglietevi dai piedi!

La Vauguyon indirettamente, rifletté Luigi divertito, era riuscito a rompere le scatole persino a suo nonno!

***

Antoine Paul Jacques de Stuer, di Quelén e di Cassade, conte e poi duca di La Vauguyon, marchese di Saint-Mègrin, era nato nel 1706 a Tonneins, una cittadina adagiata su bastioni di roccia a picco sulla riva destra della Garonna. Il suo viaggio dalla provincia a Versailles era stato lungo settecento chilometri, la sua marcia verso il potere facilitata, oltre che dal caso, da un insieme di caratteristiche psicologiche che anche oggi servono al successo: benché si professasse religioso e appartenesse al partito dei devoti, dietro le apparenze era interessato, privo di scrupoli, determinato, forte, maligno, oltremodo adulatore, presuntuoso e furbo ma, di conseguenza, poco intelligente. Da qui, dopo una carriera nell’esercito, gli si spalancarono le porte ambite della corte. Ambiente a cui si sentiva destinato tanto da credere lui stesso alla favola che si era inventata: una parentela di sangue coi Borboni della quale si gloriava. Ma anche gli uomini di smisurata vanità non sfuggono alle leggi universali che rendono ciascuno esattamente uguale all’altro.

Quel giorno Luigi Augusto stava rientrando dalla caccia. Aveva fame e non vedeva l’ora di arrivare. Il bottino era ricco di selvaggina, pensava a quelle carni succulente. Si stupì quando al cancello vide la servitù gesticolare concitata nella sua direzione. Preoccupato accelerò il passo chiedendosi cosa fosse successo. Sulla porta smontò da cavallo. Maria Antoniettà gli andò incontro, gli prese la mano e disse:

Monsignore un attimo di ritardo e non avreste più fatto in tempo…

Per che cosa?

Gli hanno appena dato l’estrema unzione…

A chi?

Al duca di La Vauguyon…

Luigi rimase in silenzio. In cielo si sentì un corvo gracchiare.

Avete dimenticato quando origliava alle nostre porte? – chiese alla moglie

Ormai se ne sta andando… - ribatté lei turbata.

Luigi provò un senso di irrealtà e di vuoto, si sentì vacillare ma non fece un passo.

Andate da lui Monsignore – insisté Maria Antonietta.

A un tratto gli parve che le sue gambe avessero un moto di ribellione:

- Non voglio – rispose duro - fate preparare la cena.

E si allontanò, senza versare una sola lacrima, in direzione contraria.

Il giorno dopo Antoine Paul Jacques de Stuer, di Quelén e di Cassade, conte e poi duca di La Vauguyon, marchese di Saint-Mègrin, portò con se nella tomba quei titoli nobiliari che i maligni dicevano si fosse affibbiati da solo, avendo fatto parte dell’istituto che assegnava onorificenze e signorie: era il 4 febbraio 1772.

*Gott sei dank = Dio sia ringraziato!

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04 marzo 2007

Fabrizio Moro

FABRIZIO MORO,
LA RABBIA
DELLA POESIA
di Antonio V. GELORMINI


Ha bucato il video, ha conquistato attenzione, ha suscitato entusiasmo ed emozione.

Finalmente un esempio positivo. Finalmente qualcuno da stimare e indicare ai nostri ragazzi, con la consapevolezza di un segno non banale. Finalmente una rabbia che costruisce, non condanna e non denuncia, ma invita nientemeno che a “pensare”.

Un nome e un cognome che accendono ricordi diversi, impegnati e drammatici, e ti caricano una tremenda responsabilità. Fabrizio Moro, il fattorino cantante ed autore, vola radente. Si prende la sua rivincita a Sanremo, vince il Festival dei Giovani e il Premio della Critica. Un riscatto pulito di periferia. L’orgoglio vivo delle borgate romane. E Dio sa quanto ce ne sia bisogno di questi tempi.

“Non mi sento un autore o un cantante impegnato. Ho scritto questa canzone dopo aver visto un film che mi ha colpito. Ho voluto rendere omaggio alle tante persone per bene, che si sono o sono state sacrificate per la libertà e per la giustizia”.

Un concentrato di umiltà, che nella sua semplicità e nella sua autenticità, senza accorgersene, vola alto sulle ali della poesia. Non si riesce a definire altrimenti chi ci racconta: “Dedico questa vittoria a mio padre, perché è cinquant’anni che si sveglia alle 6 del mattino e i sogni non li ha mai finiti”.

Grazie Fabrizio, per quell’essere un trattino tra due generazioni.

(
gelormini@katamail.com)

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02 marzo 2007

Anton Cechov

ANTON CECHOV:
IN SCENA LA VITA

DI TUTTI I GIORNI
di Augusto da San Buono

Ripensavo, tempo fa, a quel monologo dello Zio Vania, quello di Sonia, con la sua malinconia così profonda, così amara, così dolorosa, così totale, da sfociare in tristezza, ma non in disperazione … in quella malinconia, infatti, c’è una fede, in fondo: “Servirà a qualcuno il nostro lavorare, -dice Sonia, - Noi siamo infelici, ma altri dopo di noi saranno felici, forse…”
E poi quel monologo recitato, per il film della Tatò, da un Mastroianni-Astrov, ormai malato di cancro, ormai all’ultimo stadio, ormai morente… ”Certo, bisogna essere dei barbari insensati per bruciare tanta bellezza, distruggere ciò che noi non siamo capaci di creare”. Si riferiva agli alberi, alle foreste della Russia, alle foreste del mondo, che l’uomo continua a distruggere con assoluta crudele avida stupidità …

Certo, mi dicevo, Cechov è uno dei più grandi autori teatrali di tutti i tempi, uno che ha spazzato via tutto il bagaglio altisonante del teatro ottocentesco, le sue convenzioni, i suoi miti, i suoi trucchi e lo ha fatto senza proclami, né colpi di grancassa; ha dato un colpo di spugna al vecchio teatro, con un gesto autenticamente rivoluzionario, portando la vita, la vita di tutti i giorni, direttamente sul palcoscenico. E lo ha fatto con un linguaggio semplice, essenziale, banale, un po’ come aveva fatto anche nei suoi racconti, in cui descrive gli “uomini superflui” del suo tempo, una sorta di minuzioso catalogo psicologico, morale e intellettuale della Russia e di un’epoca storica di trapasso, geniale cronaca della vita, impietosa nella sua verità, e insieme pervasa di pietà e dolore. Il teatro di Anton Cechov, “un allegro malinconico”, morto di tubercolosi, a soli 44 anni, una sera d’estate del 1904, a Badenweiler, Germania, dove s’era recato, con la moglie, l’attrice Olga Knipper, per tentare nuove cure, è la continuazione della sua narrativa ed è qui la sua forza innovativa che fa del Cechov drammaturgo uno dei pilastri del novecento, insieme a Pirandello, Ibsen e Shaw. C’è un episodio grottesco, subito dopo la sua morte, che sembrerebbe scritto da lui stesso. La sua salma proveniente dalla Germania su un vagone frigorifero, giunta alla stazione di Mosca, viene scambiata per quella di un Generale russo che era stato ucciso in Manciuria. Così, con grande sorpresa dei pochi amici che erano accorsi per renderle l’estremo saluto, alla salma di Cechov vengono resi i solenni onori militari dalle principali autorità cittadine, con tanto di trombe, fanfara e presenta-t-arm. Sembra proprio uno dei suoi primi raccontini che gli avevano fatto guadagnare i primi soldi e aiutare una famiglia troppo numerosa e di scarse risorse, quando aveva appena diciannove anni. Ma è anche – se vogliamo – l’esatto contrario di tutto ciò che era stato lo scrittore nella sua vita, spirito vivace e allegro, dotato di straordinario senso dell’humor, è vero, ma uomo riservato, schivo, modesto, alieno da ogni forma di ostentazione e di vanità, anzi addirittura a disagio per la sua fama di scrittore, in crisi spirituale e incapace di comunicare, come tutti i suoi personaggi. Il vero dramma dell’umanità – nelle opere dello scrittore russo - è quello dell’incomunicabilità, dell’isolamento senza speranza, dell’eterna mancanza di sintonia fra due esseri che si parlano. Il loro parlarsi non è che un monologo, quasi sempre inarticolato e rarefatto. (“Quando manca una vera vita si vive di miraggi”, dice lo zio Vania). E Cechov-Trigorin del “Gabbiano” vive di ideali mancati, che si allontanano sempre più nel momento in cui sembra che li raggiungi, miraggi, appunto. Cechov è uno scrittore che non si fa illusioni e gli stessi studi di medicina (fece il medico per brevissimo tempo, fino a quando si rese conto che con tutta la sua scienza non era riuscito a salvare una bellissima fanciulla di cui si era innamorato), lo avevano portato a considerare gli uomini come tanti ammalati verso i quali ogni giudizio andava sospeso perché prima di esprimere un giudizio bisognerebbe essere in grado di indicare loro una via di guarigione certa, infallibile. Cechov non aveva messaggi da comunicare agli uomini, egli sapeva fare solo una cosa: descrivere il lento monotono fluire della vita, senza preoccuparsi di trovarvi un senso qualsiasi. Ma quale senso poi? La vita, - dice Anton Cechov, - è quello che è e basta, ”feroce, rozza e implacabile nel suo conservatorismo”. Tutto quello che possiamo fare è ascoltarla dentro di noi, negli altri, nelle cose. Si esigono eroi, eroismo, ed eroismo che produca effetti scenici. Pure nella vita non ci si spara, non ci si impicca, non si dichiara il proprio amore e non si enunciano pensieri profondi tutti i giorni e a getto continuo. No, quasi sempre nella vita si mangia, si beve, si fa l’amore, si dicono delle sciocchezze. E tutto questo che si deve vedere sul palcoscenico… Bisogna lasciare la vita qual è, gli uomini quali sono, veri e non gonfi di retorica.
In realtà il teatro di Cechov è un teatro di atmosfere, essenzialmente lirico. La trama delle commedie è infatti ridotta quasi a nulla. Gli avvenimenti più spettacolari della vita dei personaggi accadono fuori della scena. All’azione vera e propria Cechov sostituisce la rappresentazione sommessa di una serie di stati d’animo, vuole rappresentare la vita nel suo lento fluire, non proclamare messaggi, dare soluzioni. Quello che gli interessa è la “struttura d’anima” dei suoi personaggi, il cui moto segreto, contrapposto all’apparente staticità, è fatto di un gioco tenue di intonazioni, ritmi, pause. Una battuta banale cela e rivela insieme lo strazio di un’esistenza naufragata e l’orrore si un universo svuotato, il tutto in un complesso gioco di tonalità di volta in volta liriche, ironiche, drammatiche, satiriche, prorompenti o soffocate.
Da “Il Gabbiano” (1896), la commedia più scopertamente autobiografica, in cui l’autore si rappresenta sia in Trigorin, il romanziere arrivato, che in Treplev, il drammaturgo rivoluzionario, in cui i temi sono l’arte e l’amore, ma anche l’impotenza spirituale e il dramma dell’adolescenza, la giovinezza disperata di Nina, appaiono inconciliabili coordinate dei protagonisti colti nelle minime vibrazioni dei loro animi; allo “Zio Vania” (1897), in cui è rappresentato mirabilmente il tema tipicamente cechoviano della vita che assiste indifferente a consumarsi della tragedia degli uomini, il dramma della vanità delle cose, della vanità delle passioni umani, dell’impossibilità dei personaggi a uscire dalla prigione del proprio destino. Per giungere alle “Tre sorelle”(1901), che vivono un’esistenza insensata, immerse nel tedio di una piccola città di provincia, con la rete dei loro ricordi fittizi e l’aspirazione illusoria ad una nuova vita, a cui fa seguito il disinganno e l’evento casuale drammatico. Infine il “Giardino dei ciliegi” (1903), un po’ la summa dell’arte drammatica di Cechov, in cui si narra la vicenda di una famiglia aristocratica che è costretta dai debiti a vendere il meraviglioso giardino che è il suo orgoglio. Invano i protagonisti della commedia cercano di impedire che la catastrofe si compia. Alla fine rinunciano a lottare e si allontanano, inseguiti dai rombi cupi dei colpi di scure che si abbattono sul giardino dei ciliegi, simbolo di irreparaibile decadenza, di un mondo aristocratico ed esangue che sta per scomparire e che verrà sostituito da una borghesia arrembante, rozza e vitale (Il giardino viene acquistato dall’ex servo Lopachin). Ma nell'opera non è difficile avvertire l'eco della pena di Checov, minato dalla tubercolosi, e prossimo alla morte.
L'opera si può fare in diversi modi , chiave verista, simbolista,metafisica, e c’è stato addirittura chi ha visto nel “giardino” dio stesso , uno e trino, ma forse la pièce – come scrisse Mejerchol allo stesso Cechov, è “astratta come una sinfonia di Ciajkowskij, e il regista deve afferrarla prima di tutto con l’udito, e ciò vale un po’ per tutto il suo teatro. E Cechov stesso, nella sua avversione al naturalismo e nella sua aspirazione all’essenzialità diceva: “La scena è arte, la scena riflette in sé la quintessenza della vita, sulla scena non bisogna portare nulla di superfluo”.
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ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

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