26 aprile 2013

Via Ruggero 7/1 di Giovanna Maria Simone

Lo strano condominio di via Ruggero 7/1
VIA RUGGERO 7/1 (avventure nel condominio) di Giovanna Maria Simone è Il libro vincitore della 2° edizione del Concorso Letterario “Fa-volando”.
Una storia piena di storie.
Un’avventura vissuta tra un appartamento e l’altro di un condominio di città in cui vivono persone e animali molto particolari.
La scoperta di tanti mondi diversi nello stesso condominio.
La curiosità, fa passare il piccolo protagonista da un appartamento all’altro, un piccolo grande viaggio fatto non solo di fantasia e di scoperte esilaranti, ma soprattutto dalla voglia di crescere ed imparare sempre cose nuove e, vivendo nuove esperienze.
Una scrittura fluida, una storia semplice e coinvolgente che parla direttamente al cuore, Giovanna Maria Simone è riuscita a tessere un mosaico simpatico e accattivante, un’opera deliziosa e preziosa per non dire illuminante per veicolare sentimenti e valori che sembrano non più di moda: affetto, amicizia, solidarietà, e fratellanza.
Nelle migliori librerie o direttamente dal sito www.albusedizioni.it

19 aprile 2013

Tributo ad Alda Merini

TRIBUTO AD ALDA MERINI
 
Al Lucignolo Café di Brugherio, gestito da Antonio e Maria, spesso si assiste a incontri culturali interessanti e che fanno crescere dentro. Ritrovo di poeti e scrittori, di pittori e fotografi, è un vero piccolo eden di incontri piacevoli.
Giovedì 18 aprile 2013 ero anche io presente all’incontro tributo ad Alda Merini.
   Si è parlato poco di poesia, ma si è detto molto della donna, della persona, della sua straordinaria stravaganza.
   A parlarci di Alda, Aldo Colonnello, direttore artistico del teatro Villa Clerici, gallerista, amico della Poetessa e Vice Presidente del comitato “Pro Nobel Alda Merini”.
   Prima di cominciare, il dr. Colonnello ci ha sorpreso con la frase: «Dietro a tutto quello che verrà detto stasera, c’è la regia di Alda, un atto d’amore».
   Dopodiché è un susseguirsi di ricordi, di aneddoti, di… Alda. Lui l’ha conosciuta nel 2003, l’aveva contattata per partecipare a una serata in teatro. La Merini aveva accettato, ma, purtroppo, non poté andare all’incontro perché ricoverata in ospedale. Dopo circa un mese la richiamò e, dice, fu come se fossero stati amici da anni e non fosse passato del tempo fra il loro primo incontro e quell’attimo.
   Alda, per quei pochi che ancora non lo sapessero, fu internata in manicomio e, tra uscite e entrate, vi restò per quattordici anni. Lei ricordava di aver subito 46 elettroshock. Ma la grandezza del personaggio è che non si fece mai abbattere dal dolore, dal male fattole; lei risorse amando la vita e le persone. Spesso diceva che le persone più trasparenti e più belle le aveva conosciute proprio fra i malati coercitivi.
   Ricordiamo Alda sempre con una sigaretta accesa fra le dita… Colonnello ci svela che, mentre si trovava internata, la sigaretta costituiva il premio che veniva dato ai malati. Ecco spiegato quel gesto, quel gratificarsi, riuscendo addirittura a fumare in luoghi dove è assolutamente proibito, come in un ospedale o sul palco di un teatro!
   Sorprende come riuscisse a scrivere le sue poesie. Per lei non era un momento di fatica artistica; mentre parlava d’altro, magari di un argomento banale, i suoi occhi era come se vedessero un altro mondo. Quasi ci fosse una regia occulta che la guidasse e allora lei dettava le sue poesie. Spesso chiamava Aldo anche sette, otto volte al giorno e, senza giri di parole, gli intimava: «Scrivi!»
   Nella sua borsa portava sempre con sé il rossetto, perché lei ci teneva a essere in ordine. Ed era lo stesso rossetto col quale scriveva i numeri di telefono sul muro dietro la testata del letto. Un giaciglio che faceva anche da poltrona col quale ricevere gli ospiti, sdraiata come una Cleopatra di altri tempi.
   Alda era una persona comunicativa, quasi un pifferaio magico al femminile che sapeva parlare a tutte le generazioni.
   Dispensava consigli, lei che aveva subito l’alienazione della personalità in manicomio, dove si viveva in modo promiscuo. Ma che fuori, rivendicava la propria femminilità e la sua identità.
   Generosa, al punto da donare, estraendo i soldi dal reggiseno, circa cinquecento euro a una ragazza dell’Equador che viveva facendo i mestieri. Una sconosciuta. Perché lei amava la gente.
   Certo, aveva come tutti, le proprie simpatie e antipatie, andava molto a pelle. E questo a qualcuno dà fastidio. Io ritengo che avesse tutto il sacrosanto diritto di scegliere. Perché, il suo disagio le aveva concesso di essere una persona libera, più di quanto riusciamo a esserlo noi, imbrigliati nel galateo del “questo non si fa”.
   Aveva molti amici e li amava in modo particolare, quasi gelosa di loro, tanto da fare in modo che fra loro non si conoscessero. Colonnello pensa che questo atto fosse anche un gesto di protezione, per non far nascere nessun tipo di competitività.
   Non ottenne il nobel, anche se fu candidata. Alda diceva che non le importava, che il suo nobel erano gli amici.
   Di lei ha lasciato i meravigliosi testi che dicono tutto della sua vita: un’esistenza dove c’è stato tutto e tanto. Un’antitesi di sentimenti in una sola persona. Quattro figlie, la sua fede, la serenità, i forti sentimenti nei quali non si risparmiava. La maledizione e la necessità di dover parlare di quei quattordici anni che le avevano segnato la vita irrimediabilmente, ma che le appartenevano in modo assoluto.
   Il giorno prima della sua morte, ha voluto fumare ancora una volta una sigaretta. E questa immagine ci racconta molto di lei, ci lascia la sua figura così come l’abbiamo sempre vista.
   Personalmente, nel 2006, ho avuto il grande onore di essere inclusa, con lei, in un’antologia che raccoglieva i quaranta migliori poeti lombardi. Ricordo che durante la serata non feci che aspettare il suo arrivo, per poterla conoscere di persona. Purtroppo, non venne, perché indisposta. Mi resta una poesia stampata vicino alla mia, che ritengo di una forza inesprimibile. Il testo è intitolato “Fogli bianchi”.
   A duecento metri dalla sua abitazione sui navigli milanesi, in Via Magolfa, è stata aperta la casa museo di Alda Merini. Dove verrà a breve esposto anche il muro, il suo muro, con i numeri e i tanti disegni.
   Leggere le parole che ci ha lasciato è fare un viaggio straordinario nella vita di una persona che, di sé, ha dato a piene mani il suo essere. Per alcuni era solo una persona misera, una barbona, una tizia stravagante. Sono una minoranza, cuori piccoli che non sanno riconoscere l’altro al di là dell’apparenza. Alda Merini era per gli ultimi, mai ultima, ma che sapeva cosa significasse esserlo.
  
© Miriam Ballerini
  

 

15 aprile 2013

Il dramma del soggetto moderno in cartesio e in Kant


IL DRAMMA DEL SOGGETTO MODERNO IN CARTESIO E IN KANT
In un’intensa e suggestiva riflessione del Prof. Costantino Esposito

 
La considerazione del professore Esposito, in una magistrale lezione, tenutasi al Liceo di Marsico, il 9 di aprile, parte da ciò che significa filosofia, di quello che è il suo ruolo e la sua funzione. La filosofia è la possibilità di capire come stanno le cose: è un porre i problemi e le domande giuste. La filosofia non è cercare di dare le risposte giuste, ma di fare le domande giuste. Il domandare è tale che non ci si può fermare, ogni generazione ha il compito di porsi degli interrogativi. L’uomo non può esimersi da questo compito nemmeno nella cosiddetta epoca della post-modernità, che considera chiusa la filosofia dell’età moderna e che considera definitivamente superato il problema della verità posto nella medesima modernità. Ma è davvero finita la filosofia moderna? O essa offre ancora spunti per l’uomo dell’età post-moderna? La filosofia moderna nasce da una crisi. Il problema della soggettività moderna nasce da un dramma. Tale è il dramma del filosofo considerato da tutti il padre del moderno soggettivismo e del razionalismo: Cartesio. Cartesio muove dalla considerazione secondo la quale tutti gli esseri umani sono dotati di ciò che egli definisce la bona mens, ossia la ragione naturale. Ma allora perché in filosofia non c’è nemmeno un problema sul quale tutti siano d’accordo? Se tutti abbiamo la medesima ragione perché non diamo le stesse risposte ai problemi? Per Cartesio il problema sta nel metodo, cioè nel modo con cui utilizziamo la ragione. Tutti abbiamo la ragione, ma non tutti sappiamo utilizzarla al meglio. Lo stesso Cartesio afferma di sentirsi del tutto insoddisfatto della formazione ricevuta, nonostante egli abbia studiato nel più famoso collegio gesuita della sua epoca, quello di La Flèche. Egli, allora, decide di compiere dei viaggi per “scoprire il gran libro del mondo”, mosso da un “desiderio estremo di distinguere il vero dal falso”. La molla che spinge Cartesio è proprio questo grande desiderio di verità che egli sentiva non essere stato soddisfatto  dalla formazione ricevuta. In questo Cartesio ricorda Agostino, anche se con prospettive diverse: Agostino è un grande teologo che vuole, cerca e trova la verità in Dio. La grande avventura dell’uomo comincia da questa domanda, da questo grande desiderio. Il desiderio del vero è estremo perché sta dentro ogni desiderio, è il desiderio che ci fa capire in cosa consista l’intelligenza umana. Questo desiderio nasce nel momento in cui ci si ritrova soli con sé, come fa Cartesio nelle sue Meditazioni metafisiche, il quale chiuso nella stanza con la sua stufa, scrive di essersi liberato da tutte le preoccupazioni quotidiane e di esser rimasto solo con se stesso. È come se il filosofo, chiuso nelle sue riflessioni e sgombrata la mente da qualsiasi pensiero, si trovasse in una sorta di ovatta, di spazio ovattato, sospendendo il giudizio e l’assenso su ogni cosa. Questo atteggiamento veniva definito dagli stoici e dagli scettici antichi come epochè. La filosofia moderna nasce da un’avventura drammatica di un uomo solo, nasce da questo atto solipsistico che compie un essere umano in solitudine. Il dramma del soggetto moderno consiste proprio in questo continuo tendere alla ricerca. Cartesio continua il suo percorso: non posso fidarmi nemmeno dei sensi e la verità, quindi, non è nella conoscenza sensibile. Se i sensi mi hanno ingannato a volte (come quando, per esempio, ho la febbre e il dolce mi sembra amaro o quando il bastone passa in un contenitore trasparente di acqua e pare che sia spezzato) vuol dire che non posso fidarmi di essi. Questa è una scelta che Cartesio fa. E il mio corpo? Posso essere sicuro del mio corpo? Se stessi sognando o dormendo? Se il mondo fosse tutto un’illusione, un sogno, un inganno? L’ipotesi di ritenere tutta la realtà una grande scena dietro cui non c’è nulla, di pensare che il mondo è solo un sogno è un’ipotesi che ci avvicina al nichilismo. La riflessione cartesiana ci ricorda ciò che diceva Shakespeare nell’opera La tempesta: “noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”. Cartesio traduce filosoficamente questa stessa inquietudine shakespeariana. Il filosofo francese considera poi la conoscenza matematica che sembra essere la più certa ed indubitabile di tutte. 2+3=5 è vero sempre. Ma a questo punto Cartesio avanza l’ipotesi del genio maligno o del Dio ingannatore che lo porterà alla consapevolezza di esistere come res cogitans: cogito ergo sum. Ego sum. Ego existo. Questa frase è vera tutte le volte che la pronuncio. È come se Cartesio sfidasse Dio: ingannami pure! Se mi inganni vuol dire che io esisto. E ciò è la base, il punto archimedeo da cui partire. Abbiamo detto che la moderna soggettività nasce da un dramma e il dramma ha un primo aspetto che ci dice che la realtà è muta, afona, non mi parla più, non mi dice più il suo significato. Nelle epoche precedenti la realtà rimandava ad altro, per esempio, al miracolo dell’Essere, ad una causa ultima delle cose. Ora, per Cartesio non è più così, la realtà non ha più un significato e perciò vuole trovare nell’Io e dentro l’Io quella verità che non è più possibile riconoscere nella realtà. La prospettiva della modernità parte dall’Io per capire la realtà e non viceversa. Ma l’esistenza della res cogitans risolve definitivamente il problema? L’esistenza della sostanza pensante è una soluzione ancora limitata che non mi dice nulla su cosa sia la realtà del mondo. A questo punto c’è bisogno di dimostrare l’esistenza di Dio il quale è garante della mia conoscenza. Il Dio di Cartesio è considerato come un problema filosofico (il Dio dei filosofi, come dirà Pascal); solo ammettendo l’esistenza di Dio, di Dio che è buono e non mi inganna, posso ammettere la realtà. Il primo aspetto del dramma dell’uomo moderno è, dunque, questo: la realtà è insignificante ed incerta. A questo primo aspetto del dramma si collega un secondo aspetto: come dimostro Dio? L’Io umano dimostra che Dio esiste, che Dio c’è perché in me c’è l’idea dell’ infinito (come se Dio fosse una sorta di proiezione dei limiti umani, un po’ come sosteneva Feuerbach). Noi concepiamo noi stessi come esseri finiti perché abbiamo l’idea dell’infinito. La percezione dell’infinito, cioè di Dio, precede quella del finito. Partiamo dall’infinito per arrivare al finito. Cartesio si serve di Dio per dimostrare l’esistenza del mondo esterno e della realtà delle cose. Ma Cartesio arriva a dimostrare Dio partendo da un atto di solitudine. Egli è un pensatore solipsistico che, cercando e scavando dentro sé, trova qualcosa che è più grande di sé: questo è il dramma! E il duplice aspetto del dramma ha un senso negativo ed uno positivo: quello negativo è riconducibile ad un primo aspetto secondo cui la realtà non mi parla più, non mi dice più nulla sul suo significato; invece, l’aspetto positivo del dramma è quello per cui, puntando su me stesso e sul mio pensiero mi rendo conto dell’idea dell’infinito che è stata messa in me, ma che non è semplicemente chiusa nella mia mente, ma mi dice qualcosa d’altro. Per questo l’idea dell’infinito è come se fosse una traccia, una cicatrice. È la traccia di Dio su di me, la sua cicatrice. Kant nella sua Critica della ragion Pura (1781) parte dalla medesima esigenza di Cartesio, in quanto afferma che la ragione umana vuole conoscere tutto, vuole conoscere l’incondizionato ma, rispetto al filosofo francese, ritiene che la ragione non riesce in questo arduo compito, perché può conoscere solo ciò di cui ha esperienza sensibile. La ragione umana cade in una sorta di aporia, è un problema che non trova soluzione perché la ragione umana non conosce tutto quanto vorrebbe conoscere. Secondo Kant, anche se non possiamo conoscere tutto, possiamo continuare a pensare alle questioni che vogliamo conoscere; non posso conoscere Dio perché non ne ho un’esperienza sensibile così come non posso conoscere l’anima e il mondo (Kant parla di idea di anima, di mondo e di Dio) ma posso continuare a pensare a queste tre questioni, a queste tre idee. Le posso pensare in quanto è come se la ragione umana si allargasse fino ad inglobare tutto. Anche per Kant vi è un desiderio estremo (come per Cartesio) di afferrare tutto: questo è un desiderio ed una domanda irrinunciabile. Se togliamo questa domanda togliamo tutto. Questa domanda è la stoffa della ragione. Anche se non possiamo conoscere tutta la realtà perché la realtà sfugge sempre alla nostra presa (aspetto negativo del dramma), non possiamo rinunciare a questo desiderio di conoscerla pienamente. Vi è una scrittrice straordinaria, Virginia Woolf, la quale ci aiuta a capire il problema della modernità, nei suoi Moments of being (Momenti di essere), in cui parla di una realtà che sembra essere un non-essere, come se vivessimo in un’ovatta senza senso e senza contorni. La realtà ovattata ci rivela il non-senso delle cose, il vuoto. Solo in questi momenti in cui cogliamo il non-senso delle cose si apre uno squarcio che fa riemergere il tutto da cui nasce un’idea, una filosofia: dietro l’ovatta si cela un disegno. Il mondo intero è un’opera d’arte, la poesia diventa realtà e la penna una sua traccia. Anche in questo caso, Virginia Woolf, da scrittrice e poetessa qual è, fa riferimento al grande problema filosofico posto nella modernità ma che è sempre presente, del senso della realtà e del suo significato. Il significato che diamo alla realtà è la possibilità di vedere le cose che sono. Come quando un adolescente vive in modo passivo e disinteressato tutta la sua realtà e poi un giorno si innamora: all’improvviso, la stessa realtà in cui viveva prima assume un altro significato e anche le cose che per lui prima erano scontate o noiose acquistano un altro senso perché in fondo la filosofia è questo: la possibilità di capire come stanno le cose e la possibilità di strappare il segreto alla realtà.

Costantino Esposito, nasce a Bari nel 1955. È Professore ordinario di Storia della filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari. I suoi principali orizzonti di ricerca filosofica e scientifica si stagliano tra il pensiero di Heidegger, la filosofia di Kant e la metafisica di Suarez. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “Il fenomeno dell’essere. Fenomenologia e ontologia in Heidegger” (1984); “Heidegger. Storia e fenomenologia del possibile” (1992); “Filosofia moderna” (insieme a S. Poggi) (2006). Dal 2000 dirige con P. Porro la rivista internazionale “Quaestio”. Coordina con altri autori presso le Edizioni di Pagina una collana di Letture di Filosofia.
Paola Gaeta

10 aprile 2013

Un bel film: "Piede di Dio" di Luigi Sardello

 
Ho visto questo film del tutto occasionalmente sabato scorso pomeriggio in TV. Anche se non sono affatto un appassionato di cinematografia sono rimasto colpito dai diversi livelli di lettura che possono essere estratti dalla trama e dalla sceneggiatura, davvero notevole.
In prima lettura è un film per tutti con una trama banale: un "talent scout della serie A" incontra un bambino prodigio, figlio di una ragazza madre, ruolo quest'ultimo interpretato dalla stupenda Rosaria Russo. Le presunte doti del bimbo siciliano si riveleranno però fatali sia per la carriera che per per le finanze del protagonista.
Bel film anche ad una lettura più filosofica, con un percorso nella sofferenza umana che porta Michele prima a distruggersi psicologicamente per poi in fine rimanere "letteralmente in mutande".
 

08 aprile 2013

L'euro e la crisi di Cipro

 


Il destino della moneta unica priva di un comune quadro economico, fiscale e di bilancio- Le responsabilità politiche di Bruxelles e il ruolo della Bce nella vigilanza bancaria.

 
di ANTONIO LAURENZANO

“La bancarotta di Cipro e la sua uscita dall’euro, con imprevedibili conseguenze per l’Eurozona, è stata fortunatamente evitata. Ma abbiamo corso seri rischi….” Ha così commentato sulle colonne del Sole 24 ore l’economista Alberto Quadrio Curzio la crisi cipriota e il relativo salvataggio dell’Ue. Procedere a un indiscriminato prelievo forzoso su tutti i depositi presso le banche di Nicosia avrebbe generato una fuga dei capitali dai Paesi traballanti, ponendo le basi di una sfiducia che alla lunga avrebbe potuto dissanguare l’Europa. Un effetto domino disastroso. Una crisi che ha messo impietosamente a nudo i limiti strutturali del sistema monetario europeo privo di un comune quadro economico, fiscale e di bilancio. Un sistema all’interno del quale la crisi del debito sovrano si salda pericolosamente con quella degli istituti di credito che ne detengono i titoli. Tarda a concretizzarsi la nuova governance rafforzata dell’euro, il rilancio della sua coesione e credibilità. Resta inspiegabile come Cipro, noto Paese off-shore da sempre, porto di approdo di capitali di provenienza illegale, sia stato ammesso il 1° gennaio 2008 alla Eurozona senza un preventivo monitoraggio dei suoi asset finanziari. Il caos cipriota sconta cioè l’inefficienza e i ritardi di una seria politica economica europea: per finanziare un’economia minuscola (0,2% del Pil totale) l’Europa brucia la sicurezza delle sue garanzie sui depositi bancari, la certezza del diritto , tradisce la fiducia dei suoi risparmiatori, sacrifica la libera circolazione dei movimenti di capitali ma non trova ancora la forza di mettere fuori legge dal mercato unico la concorrenza nella corsa al risparmio altrui attraverso i differenziali di tassazione e rendimenti! Misteri di Bruxelles… Incompetenza al potere, improvvisazione diffusa! Politici disattenti e tecnici … allo sbaraglio stanno trasformando l’Europa in una “trappola mortale”. La colpa evidentemente non è dell’idea di Europa e di chi con tenacia l’ha perseguita. La costruzione europea resta un progetto straordinario, di rilevante portata storica per il futuro del Vecchio Continente. Non è in discussione l’integrazione politica dell’Europa, ma come essa debba essere realizzata per tacitare un becero antieuropeismo. A livello europeo è stata da tempo imboccata la strada sbagliata, quella di un metodo intergovernativo inefficace.   Dalla “trappola” si esce spingendo in avanti la costruzione dell’Europa sul piano finanziario e fiscale, nella prospettiva dell’unità politica. In una Unione con adeguata capacità fiscale, il livello sovranazionale ha le risorse per stimolare le economie degli Stati membri soffocate dalle misure di austerità che essi devono adottare per contenere i propri debiti. In un’Unione politicamente integrata le decisioni sono dell’Unione, non degli Stati più forti al suo interno (Germania avvisata!). La crisi di Cipro, con il rischio di una deriva monetaria, ha dimostrato quanto sia necessaria un’unione bancaria con la supervisione da parte della Bce di Francoforte e con un meccanismo accentrato di risoluzione delle crisi. Una maggiore integrazione finanziaria è essenziale per rendere più forte l’Europa e più stabile l’euro, soprattutto ora che la frammentazione dei mercati sta portando a una divergenza nei costi di raccolta delle banche.  La vigilanza unica, sotto l’egida della Bce, può aiutare a risolvere due problemi di fondo: spezzare il legame perverso fra debito sovrano e crisi delle banche (sarà il Fondo salva-Stati a ricapitalizzare direttamente gli Istituti in difficoltà) e rimuovere l’ipoteca della politica sulla supervisione delle banche (MPS docet!). Ma il disegno di un’unione bancaria è tuttora ostaggio degli interessi nazionali che lascia la moneta unica in balia degli speculatori e dei mercati, con buona pace di chi sulle debolezze e sui dissesti finanziari altrui rafforza la propria leadership economica e politica in Europa.

06 aprile 2013

Frammenti latini: "I cento occhi di Argo" in Ovidio Nasone

 
 
Manda la tua versione in italiano, la pubblichiamo !
 
 
Coniugis adventum praesenserat inque nitentem     610
Inachidos vultus mutaverat ille iuvencam
(bos quoque formosa est): speciem Saturnia vaccae,
quamquam invita, probat nec non, et cuius et unde
quove sit armento, veri quasi nescia quaerit;
Iuppiter e terra genitam mentitur, ut auctor     615
desinat inquiri: petit hanc Saturnia munus.
quid faciat? crudele suos addicere amores,
non dare suspectum est: pudor est, qui suadeat illinc,
hinc dissuadet amor. victus pudor esset amore,
sed, leve si munus sociae generisque torique     620
vacca negaretur, poterat non vacca videri.
paelice donata non protinus exuit omnem
diva metum timuitque Iovem et fuit anxia furti,
donec Arestoridae servandam tradidit Argo.
Centum luminibus cinctum caput Argus abebat,     625
inde suis vicibus capiebant bina quietem,
cetera servabant atque in statione manebant.
constiterat quocumque modo, spectabat ad Io:
ante oculos Io, quamvis aversus, abebat.
luce sinit pasci, cum sol tellure sub alta est,      630
claudit et indigno circumdat vincula collo.
frondibus arboreis et amara pascitur herba
proque toro terrae non semper gramen habenti
incubat infelix limosaque flumina potat;
 
(Ovidio, Metamorfosi, Libro I)
 
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Foto tratta da un annuncio Ebay

03 aprile 2013

Giovanna d'Arco


Eroina e bandiera di Francia, vittima di un fatale rogo di stato, che sugella il suo dramma

 
Giovanna D’Arco nasce a Domrémy il 6 gennaio del 1412. Da bambina pascolava le greggi lungo le sponde della Mosa. Delle voci misteriose spesso risuonano nel suo nobile e giovane cuore. La invitano a muoversi, a parlare, affinché Orleans fosse liberata dagli inglesi, lo straniero cacciato dal suolo francese e che il Delfino venisse incoronato. La Francia, durante la lunga e sanguinosa Guerra dei Cento Anni, più volte corre il rischio di essere cancellata dal numero delle nazioni europee e di diventare una colonia inglese. Enrico VI d’Inghilterra è già stato proclamato re di Francia. Carlo, il Delfino, non aveva che Orleans e qualche altra città.  Dopo aver prudentemente ascoltato i consigli di sagge persone che avevano preso a cuore le sue visioni, Giovanna si fa coraggio e si presenta al Delfino, gli dichiara che egli è il legittimo sovrano di Francia e che è giunta l’ora di agire. Prende subito posto nell’esercito come guerriera, indossa l’armatura militare e si cinge di una spada. Sale a cavallo, agitando una candida bandiera dai gigli d’oro, si pone in testa alle truppe, comunicando loro una fortissima onda di ardore e di entusiasmo. Libera Orleans e mette in fuga l’avversario. È il 7 maggio del 1429. Poi viene espugnata Reims. La città apre festante le porte all’eroica giovane. La Pulzella d’Orleans vi entra trionfalmente tra schiere di soldati in delirio e tra i cittadini che acclamano alla salvatrice. Il Delfino viene accompagnato nella cattedrale, dove è proclamato ed incoronato re di Francia, col nome di Carolo VII, il 17 luglio del 1429. Il compito di Giovanna d’Arco non è finito. Mira alla cacciata degli Inglesi dalla Francia. Appena fatta l’incoronazione, grida: «A Parigi! A Parigi!». Ma il suo richiamo non trova eco nel cuore del re, che subito viene raggirato da cortigiani fedifraghi. Vani sono i suoi tentativi di convincerlo a prendere il nemico in fuga dalla Senna alla Manica. Giovanna è ferita presso Compiègne, è fatta prigioniera dai Borgognoni, alleati degli Inglesi. Il vescovo di Beauvois, Chauchon, compera Giovanna dai Borgognoni per una cospicua somma di danaro sonante e la fa condurre incatenata a Rouen, tra il tripudio dei nemici. Carlo VII non se ne importa. La Sorbona dichiara «menzognere e suggerite da Satana» le rivelazioni di Giovanna d’Arco e lei «causa di offesa a Dio, di ferite alla fede, di disonore alla Chiesa». Si apre il processo che poi la condurrà al rogo. Così ci descrive il suo olocausto il Monsabré nel Panegirico dell’8 maggio 1877: la campana della torre ha suonato le ore nove. Il Mercato vecchio di Rouen si popola di una folla agitata, che vuol vedere un’ultima volta la giovane bella e santa condannata. Vi sono là 800 uomini armati per custodire quell’agnello, tanto l’Inglese ha paura del pentimento e della pietà. Giovanna è in piedi presso il suo rogo. Un cartello insolente la calunnia ancora. Chiamano mentitrice colei che fu sempre la sincerità medesima; pericolosa colei che ha salvato la Francia; indovina e superstiziosa colei che aveva orrore delle magie e delle pratiche tenebrose; bestemmiatrice e presuntuosa colei che si rimetteva in tutto al giudizio di Dio; millantatrice colei che rinviava umilmente al cielo gli omaggi del popolo; crudele colei che non ha colpito alcuno; dissoluta colei la cui bellezza casta ispirava il rispetto e l’amore alla virtù; apostata, scismatica ed eretica colei che si è rimessa al giudizio della chiesa e del papa; scomunicata colei a cui poco prima si era dato il corpo del Salvatore. O menzogne dell’iniquità! Giudici perversi: voi vorreste ancora una debolezza ed un’abiura per coprire il vostro delitto? l’attendete invano! Ascoltate e guardate: Giovanna invia un ricordo alla patria. Giovanna benedice il suo re. Giovanna afferma la sua missione divina. Giovanna prega per la sua anima. Giovanna perdona i suoi nemici ed i suoi carnefici. Giovanna copre di baci e di lacrime la croce del suo Salvatore. Giovanna invoca Dio, gli angeli e i santi. Giovanna piange sulla sua città disonorata, dove è per lasciare la vita.  «Rouen, Rouen,» dice «ahimè! Io ho una grande paura che tu non soffra per la mia morte!». È l’ultimo grido del suo dolore e della sua carità. Il fuoco sale verso di lei e la tocca, ma ella non è più in terra. Le gesta della Pulzella d’Orleans sono state cantate e musicate eternamente dagli artisti, tra cui gli italiani Verdi, Andreozzi, Carafa, Pacini; l’inglese Balfe; i tedeschi Romberg, Langert, Resnicek; i francesi Mermet, Poisot, Duprez e Gounod. È un’immensa sinfonia di nazioni che si innalza verso il radioso ideale personificato dall’eroina di Orleans: Bella in arcione, eretta la persona/ su la vittoria sorridendo passa/ fra l’acclamante popolo Giovanna. Il papa Benedetto XV l’ha innalzata agli onori degli altari. L’anniversario della shoah di Giovanna d’Arco è il 30 maggio, quando la Francia compie il pellegrinaggio nazionale a Rouen.

Vincenzo Capodiferro

01 aprile 2013

Piccolo viaggio nella letteratura italiana: commento al Canto II dell'Inferno




Il canto delle tre donne

Dante si ferma perché timoroso del viaggio: Virgilio gli spiega che il percorso a lui assegnato è voluto da tre donne benedette: la Vergine, Lucia e Beatrice.

 

Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.

[1-6 Eravamo verso sera e l'oscurità distoglieva gli esseri animati dalle loro attività; ma io ero solo – dice Dante – e mi accingevo ad affrontare le difficoltà che sia il cammino accidentato, sia la pietà (per ciò che avrei visto e secondo quanto mi ricordo) avrebbero posto lungo la mia strada.]


O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: "Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’è possente,
prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.

[7-12 Io chiedo aiuto – continua l'Alighieri – alle muse, alle mie più alte capacità, e alla mia memoria che prese nota di quello che vidi, la quale di seguito mostrerà ciò di cui è capace. Poeta che mi guidi – dice volgendosi a Virgilio – giudica se la mia virtù è all'altezza del compito, prima che io compia un così gravoso passo. ]


Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale
non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto:
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero.

[13-24 Tu – dice Dante a Virgilio – hai raccontato (nell'Eneide) di Enea, che con il proprio corpo ed i propri sensi scese agli inferi. Certo si spiega facilmente ad un uomo d'intelletto la benevolenza che Dio ebbe nei suoi confronti, pensando all'impresa da lui compiuta, per la quale la grande Roma ed il suo impero lo hanno eletto padre fondatore e collocato nel cielo empireo: senza contare che Roma e l'impero divennero poi un luogo santo, dove siede il successore di Pietro. ]


Per quest’andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch’è principio a la via di salvazione.

[25-30 Nella discesa di cui parli - continua Dante rivolto a Virgilio - Enea venne a sapere cose che furono causa della sua vittoria e della dignità papale per Roma. Nello stesso luogo andò poi Paolo di Tarso (lo Vas d'elezione), per essere d'aiuto a quella fede (cattolica) che è principio e strada di salvezza.]


Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono".
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec’ïo ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la ’mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.

[31-42 Ma io perché devo andare all'Inferno? – chiede Dante a Virgilio – chi lo ordina? Io non sono Enea e neppure san Paolo; nessuno può pensare che io ne sia degno, ho paura che se mi abbandono a questa impresa, essa risulterà scellerata. Tu che sei saggio cerca di comprendermi. A questo punto, come colui che si pente di aver parlato e per sopraggiunti nuovi pensieri si distoglie dall'intenzione avuta, così io (è sempre Dante a condurre l'azione) mi comportai in quel luogo buio, perché rimuginando mi resi conto che l'impresa che consideravo ardua era in realtà impossibile.]


"S’i’ ho ben la parola tua intesa",
rispuose del magnanimo quell’ombra,
"l’anima tua è da viltade offesa;
la qual molte fïate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand’ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch’io venni e quel ch’io ’ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.

[43-51 Se ho ben capito cosa intendi – qui è Virgilio che parla a Dante – la tua volontà mi appare pusillanime, come spesso accade agli uomini che si ritraggono da un'onorata impresa, dopo aver scambiato un'ombra per un reale pericolo. Al fine di distoglierti dai tuoi timori, ti dirò perché io venni da te la prima volta che seppi della tua dolorosa condizione.]


Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto ’l mondo lontana,
l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ ha mestieri al suo campare,
l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.
I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui".

[52-74 Io ero fra le anime del Limbo – dice Virgilio - quando una donna tanto beata quanto bella mi chiamò ed io la ascoltai. Aveva gli occhi più lucenti di una stella e il suo volto era soave e cortese quando con voce angelica mi disse: “Oh grande poeta mantovano, la cui fama ancora dura nel mondo e durerà in eterno (qui è Beatrice che parla), il mio amico (Dante), e non si tratta di un amico qualunque, si trova in una landa desolata ed il suo cammino è impedito a tal punto che rischia di tornare indietro dalla paura; temo anzi che lui si sia già smarrito, secondo quanto mi hanno detto, e che il mio soccorso sia tardivo. Ti chiedo di muoverti – Beatrice dice a Virgilio -, porta con te la tua eloquenza e ciò che può essere utile alla sua (di Dante) salvezza, in modo da aiutarlo affinché io ne sia consolata. Sono io Beatrice che te lo chiedo, vengo dal luogo nel quale desidero ora tornare e sono qui venuta per amore. Quando sarò ancora dinanzi a Dio, gli parlerò spesso e bene di te.”]


Tacette allora, e poi comincia’ io:
"O donna di virtù sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c’ ha minor li cerchi sui,
tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.

[75-81 Allora Beatrice tacque (dice Virgilio) e parlai io: “Oh donna, così piena di virtù grazie alla quale la specie umana si eleva sopra il cielo della Luna, sono così contento di ricevere il tuo comando che ubbidire mi par fin troppo tardi; non ti resta che chiedere senza esitare.]


Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l’ampio loco ove tornar tu ardi".
"Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
"perch’i’ non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
c' hanno potenza di fare altrui male;
de l'altre no, ché non son paurose.

[82-90 Ma spiegami (chiede Virgilio a Beatrice) la ragione per la quale non temi di scendere qui all'Inferno provenendo dal luogo molto più ampio che ti ospita e nel quale intendi tornare. Visto che vuoi sapere le cose con precisione (risponde Beatrice) ti dirò brevemente perché non ho paura di questo posto: si devono infatti temere solamente quelle cose che possono fare male agli altri, le altre no, non devono far paura.]


I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo 'mpedimento ov'io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando -.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
che mi sedea con l’antica Rachele.

[91-102 Io per volontà di Dio (continua Beatrice che parla a Virgilio) sono fatta in modo che la miseria di questo luogo non mi colpisce, né il fuoco che lo arde mi tormenta. E' stata la Vergine Maria che, rammaricata per l'impedimento di Dante respinto dalle fiere, ha blandito il duro giudizio divino su di lui. Fu Lei ad avvisare santa Lucia che il suo devoto (Dante) aveva bisogno ed a raccomandarglielo. Lucia, incapace di crudeltà, allora si mosse e venne al luogo dove mi trovavo (continua a parlare Beatrice), seduta vicino alla grande Rachele (la moglie di Giacobbe).]


Disse: - Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che ’l combatte
su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? -.
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com’io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch’onora te e quei ch’udito l’ hanno".

[103-114 Allora Beatrice racconta che Lucia le chiese:“Perché tu, autentica lode di Dio, non soccorri colui che ti amò tanto (Dante) e che grazie a te uscì dalla schiera degli uomini comuni? Non ti muove a pietà il suo pianto, non vedi la morte che lui combatte lungo la fiumana degli eventi funesti?”. Al mondo non ci sono persone facili a fare il proprio bene e a rifuggire il proprio danno (dice Beatrice a Virgilio riferendosi al mondo celeste) e quindi io, dopo aver ascoltato Lucia, scesi dal mio posto tra i beati e venni qui fidandomi di te Virgilio, della tua poesia, che onora te come coloro che l'hanno udita e compresa.]


Poscia che m’ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più presto.
E venni a te così com’ella volse:
d’inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque: che è? perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e ’l mio parlar tanto ben ti promette?".

[115-126 Dopo che Beatrice mi ebbe detto questo – dice Virgilio rivolto a Dante – ella distolse i suoi occhi lucenti dal mio sguardo, in modo che io potessi muovermi al più presto. E così io venni da te come lei volle, togliendoti allo sguardo della lupa che ti aveva impedito di salire al monte per la via più breve. Dunque cos'hai? perché esiti e tanta viltà rimane nel tuo cuore, dopo aver saputo che tre donne benedette si curano di te in cielo e che le mie parole così calorosamente ti rassicurano? ]


Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec’io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch’i’ cominciai come persona franca:
"Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch’ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!
Tu m’ hai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
ch’i’ son tornato nel primo proposto.
Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro".
Così li dissi; e poi che mosso fue,
intrai per lo cammino alto e silvestro.

[127-142 Come i fiorellini che il gelo notturno ha chinato e chiuso si drizzano e si aprono quando il sole del mattino li illumina, così io – dice Dante – rinvigorii la mia tempra appannata e mi sentii il cuore talmente rigenerato da dire con franchezza: “Che donna pietosa colei che mi soccorse! E che grande uomo sei tu Virgilio che subito ubbidisti credendo al suo racconto! Con le tue parole hai talmente ben disposto il mio cuore che ora sono nuovamente disposto a seguirti. Vai dunque, poiché abbiamo lo stesso desiderio, mio duca, signore e maestro”. Così io (Dante) gli dissi, e dopo che si fu mosso lo seguii lungo il cammino che entrava nel bosco.]





Il canto secondo dell'Inferno di Dante spiega il primo, nel senso che qui sono descritte le ragioni per le quali Virgilio è apparso a dissuadere Dante dall'affrontare la lupa. Il pretesto per la spiegazione, fornita da Virgilio medesimo, è dato dall'esitazione del grande autore/attore del poema, il quale si chiede il perché del suo viaggio. La spiegazione è in cielo, dove nientemeno che la Vergine Maria ha blandito il giudizio divino, evidentemente severo nei confronti del fiorentino.

E' interessante sul piano filosofico la posizione della Vergine, che non solo riveste il suo ruolo naturale di mediatrice tra l'uomo ed il divino, in quanto donna, assieme agli altri due personaggi femminili, santa Lucia e Beatrice, bensì assurge al ruolo di divinità suprema, di Madre, cara quindi tanto al mondo cristiano, quanto a quello pagano. Ella non modifica il giudizio di Dio, ma lo 'frange' (vv. 96), cioè lo spezza, anche se io direi piuttosto lo circuisce, lo arrotonda, lo rende recuperabile, proprio alla stregua di una madre che asseconda, ma ammorbidisce il giudizio troppo severo del figlio.

Sempre di filosofia parliamo, ma anche di storia della letteratura, con i versi 109 e 110, dove le parole di Beatrice fanno di lei uno 'specchio': il lettore si renderà conto che per noi comuni mortali il suo ragionamento non regge, ma ella è creatura del cielo e qui da noi prende quindi la forma di un oggetto che ci restituisce un messaggio ribaltato, affine al comportamento di una lente o comunque di una luce mediata. Beatrice ha qui qualcosa della futura Miranda di Shakespeare.

Sul versante religioso va invece notata la circostanza per la quale, secondo Dante, la salvezza viene dal Cielo: non ci si può cioè salvare da soli; ragionamento questo sul quale sommariamente concordo, sebbene permanga il dubbio sulla natura del cielo, poiché nessuno sa se esso sia dentro o fuori di noi ed è molto complicato, oltre che rischioso, cercare di uscire dalla questione con un ragionamento più o meno complesso. Quel che si può dire, secondo me, è che per salvarsi ci vuole una scintilla che viene da un posto 'nuovo', sconosciuto alla nostra coscienza o magari dimenticato, che ci emancipa.

Temer si dee...” (vv. 88-90) è il passaggio poeticamente più intenso, di un bel senso compiuto che induce a riflessione, ma che è anche aiutato molto dalla bellezza intrinseca di questa terzina, la migliore del canto.

Proprio a proposito di bellezza, o meglio di bruttezza poetica, possono interessare le questioni di datazione proposte da Ernesto Trucchi, che fanno riferimento al linguaggio di questo e più in generale dei primi canti infernali. Il Trucchi non è l'unico a sostenere che la lingua un po' forzata e dalla rima non fluida porterebbe ad attribuire questi ultimi al Dante giovane, a quello cioè degli anni della “Vita Nuova” o poco dopo, diversamente dalla tradizione che vorrebbe una commedia tutta scritta a partire dal primo Trecento. Sostenitori di questa tesi, nei secoli, sono anche stati i commentatori che hanno dato al vv. 24 un valore cronologico preciso, parafrasando cioè “maggior Piero” come “il Papa, il più importante”, in contraddizione con la evidentemente ancora non sviluppata “teoria dei due soli”, la quale metteva papato ed impero sullo stesso piano e che fu compiutamente illustrata da Dante nella “Monarchia”, opera della piena maturità.

Io personalmente credo, senza aver approfondito troppo, che tesi come quella del Trucchi abbiano per lo più un valore speculativo, poiché un lavoro lungo come la Commedia è certamente stato rivisto molte e molte volte da Dante prima di essere trascritto nei volumi che sono giunti sino ai giorni nostri; senza dimenticare poi che la Commedia è stata per Dante un viaggio reale dentro le proprie conoscenze, le quali saranno state migliorate lungo il viaggio medesimo; nessuna sorpresa dunque se, in un percorso verso Dio, lo scrittore migliora lungo la strada. Strano assai sarebbe se così non fosse.



Antonio di Biase



Bibliografia:

  • Inferno – Canto II e commenti, da pag. 300 a 303 de “La letteratura”, Vol 1, Baldi Giusso Razetti Zaccaria , Paravia, 2006
  • Inferno”, a cura di U. Bosco e G. Reggio - Le Monnier – 1987
  • Inferno”, BUR Superclassici, 1995, collocazione C.II.7103 della biblioteca di Varese.
  • L'ottimo commento della Divina Commedia”, Forni 1995, coll. FU.933.1 Bibl. Varese.
  • Esposizione della Divina Commedia”, Ernesto Trucchi, coll. C.IV.8319 Bibl. Varese (libro con dedica al Duce).
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