27 novembre 2007

Daniele Paladini: un eroe salentino

di Augusto da San Buono

E' morto per difendere un ponte, il “suo” ponte che aveva smontato , aggiustato, ridipinto, rimesso a nuovo, era un mese che ci lavorava a quel vecchio ponte abbandonato dai sovietici , a Paghman, un villaggio dell’Afghanistan , a soli 15 chilometri dalla capitale, Kabul , quel ponte che si doveva inaugurare proprio quel giorno dinanzi alla popolazione e alle autorità locali.

«Non era uno che si tirava indietro» , dirà lo zio Giovanni Stefanizzi, “ e non lo ha fatto neanche vicino a quel maledetto ponte”.

Ma un ponte non è mai maledetto, è qualcosa che unisce, affratella, accomuna, anche quando le sponde opposte da ricongiungere sono infinite e infinitamente lontane. E’ un’opera architettonica dal lungo corpo composito, cemento, legno, metallo, con una sua anima. E questo lui lo sapeva bene , perché su quel ponte c’era la sua anima , il suo “genio” di “pontiere” straordinario, uno che sapeva costruire ponti come archi di pace , ma col rischio costante e consapevole della vita perché da sempre c’è chi i ponti li distrugge , li vuole far crollare , da sempre i pontieri del genio militare muoiono negli incidenti di cantiere perché gli elementi dei ponti sono grossi, pesanti e definitivi, basta un errore o il cedimento di un elemento e si muore. Una vita , la sua , irripetibile , devastata , spenta da un kamikaze, una bomba umana frutto dell’odio , ma anche della miseria . Si è spento così il Maresciallo Capo Daniele Paladini uno che amava con umile grata e diuturna passione la vita che gli era stata data , uno dal sorriso buono , e pieno di meraviglia , un costruttore di ponti , che solo poche ore prima aveva detto alla moglie , alla figlioletta e alla madre , State tranquille , qui è tutto tranquillo, rischiate più voi col traffico sulle strade , e poi ho pochi giorni ancora da restare , per le feste sarò con voi , e faremo meraviglie , perché solo la meraviglia ci potrà salvare . Invece è venuto prima, dentro una bara ricoperta dal tricolore , è morto nella sua stagione più bella, a soli trentacinque anni, questo nostro soldato.

Il mondo è pieno di soldati. Ma i soldati veri, quelli sono pochi. E Daniele Paladini era un soldato vero, “un soldato eccezionale”, dice il Colonnello Di Fonzo, comandante del contingente di Kabul . Nel senso buono, positivo del termine, che implica disciplina , lealtà, fierezza, spirito di sacrificio , orgoglio, amor di patria , termine caduto in disuso, anzi quasi sbeffeggiato, ma che in lui aveva ancora un alto significato. Daniele era tutte queste cose , e per capirlo basta guardarlo in faccia , guardate quella sua faccia pulita , intensa , bella , faccia salentina alla Don Tonino Bello , all’ Aldo De Donno, per restare ai nostri tempi , metà santo e metà guerriero, con un sorriso luminoso, un sorriso pieno di meraviglia , un sorriso buono. E poi lo sguardo profondo , che era un incendio azzurro. C’era tutto in quello sguardo , il passato e l’avvenire , il cielo e il mare della sua terra d’origine , Lecce, il Salento. E la storia di quell’antico popolo abitava dentro di lui, i messapi , domatori di cavalli, ma anche quieti pastori, ceramisti, contadini, pescatori , poeti. E guerrieri , anche, ma per necessità, per difendere la propria famiglia, la propria gente, la propria terra. Lui è morto per difendere un ponte, il 24 novembre 2007 , il giorno stesso in cui gli italiani riconsegnavano quel ponte , da lui rimesso a nuovo, alla popolazione martoriata di Kabul.… Era lì in attesa delle autorità, della folla dei civili, degli altri soldati , quando ha notato il terrorista che cominciava ad avvicinarsi lungo il greto del fiume , nascondendosi grazie ad una fila di alberi . “L’obiettivo del terrorista erano proprio i civili , ed i soldati della Nato. Daniele gli è andato incontro , gli ha intimato l’altolà, ma quello non si è fermato , ha fatto un passo ancora e si è fatto saltare in aria» , dice il comandante di Italfor. E insieme a lui altri nove morti civili, tra cui tre bambini e tre soldati feriti italiani. La strage è avvenuta alle 9.52 locali , le ore 6.22 in Italia, quando la moglie, la figlioletta e la madre venivano svegliate di soprassalto.

Daniele non era un eroe per caso , come è stato scritto su qualche giornale, e neppure un eroe normale, come dicono le Istituzioni , a partire dal premier e dal Presidente della Repubblica, per il quale sono tutti eroi in nostri soldati in missione di pace. Ma non è così. Daniele era un eroe per vocazione, oserei dire per destino, fatalità, o ancora di più, per un’idea stessa di eroismo che ci formiamo nella mente e che viene da lontano , dall’antica Grecia di Omero insieme alla musica e alla poesia, al canto caldo che fanno i cieli rossi dei tramonti pieni di solitudine e malinconia. Era, insomma, un eroe umile, un eroe salentino, pienamente cosciente di quel che faceva e dei rischi che correva, a cui non poteva e non voleva sottrarsi.

Alla radio, in macchina, quando ho appreso la notizia, che un soldato italiano era morto in Afghanistan nel tentativo di bloccare un kamikaze, il nulla si è fatto angoscia , e il vecchio cuore ha cominciato a battere all’impazzata. Ancora prima di conoscere il nome della vittima , io sapevo che si trattava di un salentino, ma di quelli buoni ( ahimè , purtroppo ce n’è anche di cattivi, altrimenti la regione non sarebbe com’è) , che io conosco e so che sono straordinari, unici, irripetibili, uomini che sanno fare bene le cose che non esistono , ovvero le missioni di pace con tutto lo strascico di imperante retorica. Non esistono, ma sono capaci di inventarle quelle cose , al di là dell’opportunismo politico , o del bieco cinismo affaristico , con la fantasia e soprattutto con la fede, sono uomini capaci di credere in ciò che fanno e lo fanno bene, con passione, con amore , con grande senso del dovere e di umanità solidarietà. Era un uomo gentile , con un cuore dolce, che faceva il soldato , uno dei tanti salentini che per affermarsi devono emigrare al nord, Seregno , o Novi Ligure , devono combattere, rischiando la vita dove c’è maggior pericolo , in Kosovo, o in Afghnistan , uomini che muoiono giovani, com’è nel loro destino, lasciando nel lutto una famiglia , una città, una regione, una nazione, l’ umanità stessa , sempre in cerca di nuovi costruttori.

Dice il Generale Fabio Mini, ex comandante delle forze Nato in Kosovo, che Daniele Paladini è morto da Eroe perché si è sacrificato coscientemente salvando altre persone e combattendo corpo a corpo con un nemico armato.”Per tutto questo l'esercito e l'Italia sono orgogliosi di lui e dei suoi compagni. Ma Paladini – aggiunge Mini - è morto anche da Soldato Nuovo: da soldato che ha adottato un modus operandi selettivo, che è in grado di osservare l'ambiente, di capire l'avversario e che sceglie coscientemente d'intervenire sul singolo piuttosto che sparare nel mucchio. E per questo la morte di Paladini è ancora più dolorosa e amara. Un Eroe è sempre una persona eccezionale e il vuoto che lascia è incolmabile, ma perdere in Afghanistan un Soldato Nuovo che agisce come un Uomo tra uomini è una vera tragedia. Per tutti.”

Il Salento vomita morti, diceva Carmelo Bene, e si riferiva non solo ai martiri di Otranto , dimenticati dalla storia dell’Italia ufficiale, ma a tutti quelli che considerava i martiri di oggi, appunto il forte contingente di salentini che s’era arruolato nella polizia, nei carabinieri, nelle forze armate , salentini che ora si ritrovano ovunque , in terra, nel mare e per i cieli, fratelli di sangue , carne da macello, ma anche costruttori di meraviglie e di pace.

Il maresciallo Paladini non è la risposta a chi si chiede “ che cosa ci stiamo a fare in Afghanistan?”, come scrive Vittorio E. Parisi sull’ “Avvenire”. No, è morto solo per difendere un ponte; era il suo dovere, la sua vocazione, il suo destino, su quel ponte ha visto per primo, ha intuito per primo ( altrimenti non sarebbe morto) quel che stava accadendo, ed è andato incontro a quell’attimo definitivo, che è di coraggio , di desiderio, di verità, forse di gloria.

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26 novembre 2007

I racconti di Versailles – 11 – di Bruna Alasia
L’ALLEGRA QUARANTENA
Racconto undicesimo
Il giorno seguente la morte di Luigi XV una piccola imbarcazione risaliva la Senna diretta al castello di Choisy, per consegnare spezie, piante, frutta esotica e semi di ananas coltivato nelle sue serre dai tempi del re Sole. Era una chiatta che riforniva le dimore aristocratiche della mercanzia più rara, tortuosamente arrivata anche attraverso navi negriere che da Nantes e Bordeaux facevano scalo in Nuova Guinea per scambiare fucili, polvere da sparo e acquavite con uomini di pelle nera da rivendere nelle Antille, soprattutto a Santo Domingo, dove la nobiltà francese aveva bisogno di schiavi per le proprie colonie. Un gabbiano la seguiva nella speranza di cibo e quando, dopo aver scaricato, lo lasciò a digiuno, sfrecciò gridando stizzito oltre i giardini, dove un sole primaverile splendeva su gelsomini, violacciocche e lillà, al cui profumo quella mattina si era svegliata la corte in fuga dal vaiolo.
Al tavolo del nonno, i gomiti poggiati sul ripiano di marmo, il futuro sovrano stava pensando cosa scrivere al segretario di stato, il duca di La Vrillière, che prima di lasciare Versailles lo aveva scocciato con richieste circa i nuovi incarichi, sui quali non aveva idea. Unica cosa ormai assodata, che avrebbe regnato nella tradizione dei suoi avi col nome di Luigi, il sedicesimo.
Quand’era in dubbio Luigi XVI rimuginava, per questo prima di decidersi a vergare con grafia tondeggiante temporeggiò come un gatto. Finalmente intinse la penna d’oca:
Luigi XVI al Duca di La Vrillère
Choisy 11 maggio 1774
Signore, nel doloroso momento nel quale ieri ci siamo trovati, non ho potuto dare ordini riguardo Madame la Contessa du Barry. E’ necessario, poiché è a conoscenza di troppe cose, che sia rinchiusa il più presto possibile. Mandategli una lettera col mio sigillo affinché vada in un convento di provincia e ordinategli che non veda nessuno. Lascio a voi la scelta del luogo e dell’appannaggio (perché viva onestamente) che gli do in considerazione della memoria di mio nonno.
Chiuse con la ceralacca e sentendo un tramestio si volse verso la porta. Furono annunciate la regina e la contessa di Artois che entrando si inchinarono. Abbandonate le carte, Luigi andò loro incontro: poco credibile nei nuovi panni lo osservarono divertite.
- Non avete ancora smesso di ridere? – domandò Luigi infastidito.
Il giorno prima infatti, dopo essere partiti da Versailles la cognata savoiarda, che parlava male francese, aveva storpiato una parola rendendola indecente e la comitiva dei parenti si era sbellicata fino alle lacrime dimenticando il morto.
- Maestà siamo venute a chiedervi se volete che si predisponga per il grand couvert – disse Maria Antonietta
- Non ci penso nemmeno!
- Sono d’accordo con voi – asserì la contessa di Artois – allora ci vediamo da mia sorella come al solito… o preferite pranzare al Petit Choisy?
- Il Petit Choisy no, domani arrivano le mesdames tantes…
- Non dovevano andare al Trianon? Se ci attaccano il vaiolo? – chiese allarmata la regina
- In attesa di essere vaccinate staranno nel padiglione del parco.
Maria Antonietta, che sperava nel ritorno del ministro che aveva trattato il suo matrimonio, quel Choiseaul esiliato da Luigi XV, sapendolo inviso alle zie, sbuffò:
- Cosa vengono a fare?
- Non lo so madame… - il re deviò il discorso - ho appena scritto una lettera per far rinchiudere la Du Barry…
- Benissimo…
Lei pensò che era già qualcosa e, presa sotto braccio la cognata, uscì dallo studio con la sensazione che diventar regina volesse dire realizzare finalmente tutti i desideri.
***
Il Petit Choisy l’aveva fatto costruire nel giardino vent’anni prima il Beneamato, nello stile galante e intimo che amava. Il 12 maggio 1774 suo nipote andò a incontrarvi le signore zie, appena arrivate da Versailles per una riunione importante: si doveva decidere chi designare come primo consigliere. A parte l’ inesperienza, l’ ignoranza e l’insicurezza, la scelta era resa difficoltosa dal fatto che ministri e segretari erano in quarantena e non potevano essere consultati. Poche le cose chiare a Luigi XVI fino a quel momento: lui non sarebbe stato un libertino quale il predecessore e per niente al mondo avrebbe dato incarichi, come la moglie chiedeva, al duca di Choiseaul. Figuriamoci: maman Marsan e La Vauguyon, bambinaia e tutore, insinuavano addirittura che avesse avvelenato suo padre! Non dubitava di lui a tal punto, però Choiseaul aveva capeggiato l’opposizione parlamentare: privilegiati, beneficiati di titoli nobiliari, che invece di essere riconoscenti arrivavano a voler modificare di testa propria gli editti e le ordinanze del re, tanto che Luigi XV doveva imporre la propria volontà attraverso il letto di giustizia, stratagemma che trasformava i decreti regi in legge dello stato. “Il potere del sovrano è assoluto…”, sbuffò, “mio nonno ha fatto bene a cacciar via quel parlamento… ”.
Fece ingresso con la scorta e grande fragore di tacchi. Le figlie di Luigi XV gli andarono incontro.
- Siete solo? – madame Adelaide si guardò intorno circospetta
- Solo…
- Andiamo a tavola – suggerì Vittoria.
Il seguito si fermò sulla soglia. Le vetrate della sala davano sul giardino lussureggiante, la gran maestra batté le mani e apparvero quattro dame, sei ufficiali della bocca e due valletti: servitù minima per un pranzo segreto. Poi, a poco a poco, affiorò cigolando dal piano inferiore la “tavola volante”, deliziosa idea dell’ingegner Guerin, rotonda, con al centro una composizione di fiori, imbandita per quattro dei dodici posti. Quando si fermò, si accomodarono. Arrivarono vassoi d’argento sui quali pesci di Senna e uccelli di bosco profumavamo di bacche. Vittoria, iniziando la preghiera, alleggerì la colpa per l’ appetito sproporzionato anche nel lutto. Si buttarono sul cibo.
Madame Adelaide parlò per prima:
- Avete già in mente qualcuno maestà?
- Non chiamatemi maestà – disse Luigi succhiando un osso di pernice – anche i miei fratelli non devono farlo…
- E come volete essere chiamato?
- Signore…. monsieur…
- Ma non è mai successo! – esclamò preoccupata Sofia
- Non sarà pericoloso? – chiese Vittoria con la bocca piena – C’è chi potrebbe non capire, ne va della vostra autorità…
- Volete distinguervi come Luigi il buono? – Adelaide aveva l’aria di saperla lunga.
- Preferirei il saggio o il severo.
- Ma a chi pensate per il vostro consiglio?
Luigi la guardò.
- Non ho la più pallida idea.
- Vi serve un consigliere non tra quelli in carica, che abbia esperienza e sia fidato – si raccomandò Adelaide – che aiuti la vostra formazione politica e continui ciò che ha iniziato il re defunto… uno che vi segua dall’esterno…
All’improvviso lui scostò il solitaire dal collo e frugò nel frac traendone una cassettina che depose sul tavolo. Les mesdames si avvicinarono. Tolto il sigillo, ne uscì una pergamena.
- Cos’è? - sussurrò Adelaide
La srotolò. L’ansia delle donne era palpabile, guardandole negli occhi disse grave:
- E’ il testamento politico di mio padre, me lo ha consegnato il vescovo di Verdun che era suo amico… c’è una lista di persone che raccomanda…
- Fate vedere! – disse quasi strappandogliela dalle mani Adelaide e prese a leggere, scandendo bene le parole, a voce alta:
- Il signor di Maurepas “perché ha conservato il suo legame con i principi veri della politica, che madame de Pompadour ha misconosciuto e tradito…
Fatti altri nomi, si aprì una discussione controversa.
Luigi ricordava che La Vauguyon tesseva gli elogi di Jean Frédéric Phélypeaux conte di Maurepas e, per quanto stimasse poco il tutore, il suo giudizio pesava ancora. La Vauguyon gli aveva detto che a soli quindici anni Maurepas era succeduto al padre come segretario di stato del Beneamato. Poi della marina e delle colonie, dove si era adoperato per migliorare i porti e aveva soppresso, da uomo illuminato, l’arma delle galere fatta di schiavi e prigionieri. Sospettato di aver scritto una canzoncina contro la favorita pro tempore, madame de Pompadour, Maurepas era stato esiliato da Versailles nel 1749. “Sono passati venticinque anni”, pensò, “ma se questa è la volontà di mio padre…”. E le zie sembravano d’accordo.
Stanco, desideroso di chiudere il discorso e azzerare l’ansia con una soluzione, disse infine:
- Scriverò a Maurepas perché ci raggiunga subito, fate sellare il cavallo più veloce…
Così fu scelto il consigliere del sovrano, qualcuno disse il mentore: stesso carattere indeciso del re, gli rimase accanto sette anni, fino a che visse. Nipote del cancelliere di Luigi XIV, esperto di misteri e intrighi, di un potere succhiato con il latte, l’anziano aristocratico sembrava l’ esponente di un’età dorata e il più adatto a dividere il fardello della corona. Col senno di poi invece, si afferma che se Luigi XVI non lo avesse disgraziatamente scelto, la sua esistenza non avrebbe imboccato la china fatale. Tuttavia una sola persona non ha influenza su avvenimenti complessi e per la storia i “se” non contano.
***
Provando acuta nostalgia della caccia, vietata per lutto, nella foresta di Sénart, Luigi non vedeva l’ora di concludere la quarantena malgrado le passeggiate piacevoli con Maria Antonietta nei giardini di Choisy o lungo la terrazza dominante il fiume. Ma un nuovo avvenimento lo distrasse: il vaiolo aveva colpito anche le signore zie, pur se in forma benigna, e ciò obbligò la corte a rimettersi in fuga verso il castelletto di La Muette ai margini del bois de Boulogne.
Il “petit La Muette”, vissuto come un piéd a terre, in realtà aveva centinaia di logge, affiancate da padiglioni e dipendenze, ed era stato della regina Margot. Fattolo ristrutturare, Luigi XV vi aveva voluto un passaggio nel bosco di Boulogne per raggiungere la Senna da cui ammirare Bellevue, dimora della Pompadour. A soli otto chilometri dal centro di Parigi, La Muette era il luogo ideale per la cerimonia delle condoglianze delle dame presentate a corte e di molti altri, che oggi chiameremmo “vip”.
Le signore accorsero tutte, dalle più giovani alle più vecchie, dalle fidate a chi remava contro, ricercate, ingioiellate, sofisticate e vanitose, sfilarono rigorosamente in nero, porgendo un volto mesto, dilungandosi in salamelecchi. Con perle nei capelli, in sontuoso abito da lutto, Maria Antonietta attorniata da prime donne, al centro del salone come una divinità, da ore inclinava la testa, appena il busto, faceva cenno con le sopracciglia, rispondeva con parole graziose, ripeteva frasi di circostanza o rimaneva muta, in enigmatico sorriso, a seconda del rango delle mesdames e dell’opportunità. La fila delle contrite aumentava. Il tempo non passava. Doleva la stanchezza.
- Le più sincere condoglianze maestà…
- Dio ve ne renda merito…
- Volevo anche segnalarvi mio figlio, valoroso ufficiale dell’esercito…
La regina fingeva di ascoltare, annuiva con il capo, prometteva senza sapere cosa. Aveva bisogno di una pausa. Guardava le centinaia in attesa. Sbuffava. A un tratto le parve che la marchesa di Clermont-Tonnere, obbligata a stare in piedi dietro di lei, fosse scomparsa. Un attimo di incertezza. La cercò con gli occhi. Si sentì tirare la gonna e guardò in basso: la vide seduta per terra al riparo degli enormi paniers.
- Non ce la faccio più, mi fanno male i piedi…
Maria Antonietta scoppiò in una risata che mimetizzò con il ventaglio.
- Che barba… mi siederei volentieri anch’io…
Lo scambio di risatine, gli incomprensibili ammiccamenti, non sfuggirono alle signore più anziane, più altolocate e più arcigne.
- La regina si sta prendendo gioco di noi – sibilò una
- Ci tratta male perché siamo vecchie… come non l’avessimo mai avuta…
- Non metterò più piede a corte, che beffarda!
E l’indomani qualcuno inventò una canzonetta sarcastica, quasi un avvertimento, che passò di bocca in bocca:
Reginetta di vent’anni,
insolente e forestiera,
da rispetto e non far danni
o ripassi la frontiera!
***
A La Muette però si trascorrevano gli ultimi giorni di una quarantena felice. Il re aveva disdetto il servizio degli “ufficiali della bocca”, fastidiosa etichetta a scapito di comodità e privacy, inaugurando la dolce abitudine di pasteggiare nelle stanze della regina, senza cerimoniale. A Luigi piaceva star solo con lei, erano ormai in confidenza, sebbene non ancora fisica. Fiero della moglie che tutti definivano bella come una dea. Fiero di poterla esibire, passeggiando per i giardini del castello senza scorta, a chi veniva ad ammirarli e applaudirli. Non conoscevano la canzonetta irriverente e, anche se lo avessero saputo, non avrebbe incrinato la loro fiducia.
Quel giorno a pranzo furono serviti da un solo cameriere che tagliò il filetto, servì il puré, versò il vino e si eclissò come avevano chiesto. La finestra spalancata lasciava entrare il sole e l’aria boschiva. Maria Antonietta indossava una semplice veste da camera ampia, scura, ricamata e aveva i capelli sciolti.
- Siete molto graziosa madame – disse Luigi – il lutto vi si addice…
- Grazie monsieur… - sorrise portando il cucchiaio alle labbra ma subito si batté la tempia – mi avete fatto venire in mente una cosa….
Si alzò dirigendosi alla consolle su cui poggiava un portagioie, lo aprì, ne trasse un astuccio, tornò a sedersi e lo consegnò al marito. Lui lo esaminò curioso: era una tabacchiera nera in oro e pelle di zigrino, su un lato, incastonata come un cammeo, l’ immagine di Maria Antonietta e la scritta “La consolazione nel dolore”. In francese la parola chagrin traduce sia dolore che zigrino.
- Bellissimo gioco di parole… perfetto per il lutto… - commentò il re
- Me l’ha portata la principessa di Lamballe, ha detto che ha fatto la fortuna di chi l’ha messa in commercio…
- Il popolo vi ama, siete davvero la sua consolazione… - la guardò come un innamorato timido.
Compiaciuta Maria Antonietta bevve un sorso.
- Come va con Maurepas?
- Non me ne parlate… vuole che scelga il ministro degli esteri e dell’economia tra persone vicine al vecchio parlamento…
- Quello soppresso dal nonno?
- Esattamente…
- Per riflettere e prendere tempo potreste sempre farvi vaccinare…
- Una buona scusa….– Luigi si asciugò la bocca col tovagliolo - non sarà pericoloso? E’ proprio vaiolo quello che inoculano…
- I medici dicono che la novità stia facendo miracoli…
- Mmh… - lui allungò la mano verso il Borgogna, fermando il valletto, e ne versò un dito alla consorte – con Maurepas ho convenuto di tagliare il diritto alla cintura e quello alla successione…
Il diritto alla cintura, in riferimento alla borsa attaccata alla cintura della regina, era una tassa sui vini che serviva a mantenere i suoi dipendenti. Il diritto alla lieta successione una gabella che si pagava per ogni ascesa al trono.
- Farà una gran bella impressione e vi ameranno – convenne Maria Antonietta – ma i nostri soldi?
- Dopo si vedrà…
Così, il 30 maggio 1774 Luigi XVI fece rinuncia con un editto a ventiquattro milioni di luigi.
La notizia si propagò in un baleno tra la gente che, piena di speranza, uscì dalle case signorili, dalle topaie, dagli abbaini, dai vicoli sporchi e malfamati, dai caffè, dai mercati puzzolenti, dalle bettole, dalle bische, dai teatri, dalle fabbriche, dai postriboli, dalle grotte e dalle risorte “corti dei miracoli” .
Parigi corse al castello di La Muette inneggiando al nuovo corso:
- Viva il re! Viva la Regina! Lunga vita al re! Lunga vita alla regina!
Luigi e Maria Antonietta commossi e stupiti si affacciarono alla finestra per salutare una folla in luna di miele, che acclamava alimentata dal “passaparola”, dalle menzogne, dai rumori, dalle consorterie, dai fogli clandestini e dalle discussioni illuminate. Un fenomeno nuovo capace di critica: la pubblica opinione, la cui potenza, tutt’altro che effimera, anche i signori delle moderne democrazie temono e manipolano.

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24 novembre 2007

In ricordo di Maurice Bejart

di Paolo Franzato
Ho avuto l'onore di essere allievo di Maurice Bejart nel 1996 quando fui scelto alla selezione riservata a professionisti provenienti da varie parti d'Europa per il Workshop di Danza Contemporanea condotto dal grande Coreografo presso il Teatro Comunale di Ferrara. Questo prestigioso teatro (un tempio per la cultura della Danza in Italia) era gia' stato occasione per me di speciali incontri essendo stato selezionato due anni prima per gli Stage di specializzazione in TeatroDanza con Carolyn Carlson e con Susanne Linke.
L'incontro con Bejart ha portato con se' tutta l'emozione dell'avvicinarsi ad un celebre Maestro, ad un pezzo della Storia non solo della Danza ma dell'intero Spettacolo contemporaneo. La sua lezione, come quella di tutti i Grandi Maestri che ho conosciuto, era permeata da una particolare severita' e precisione accurata nell'esecuzione della tecnica, come anche del comportamento scenico. Considerata la radice neoclassica dei suoi balletti, fu per me sorprendente vivere questo apprendistato attraverso il training e la tecnica corporea con una attenzione particolare alla respirazione e alla scioltezza del tronco, in una maniera assai distante dalla tecnica di base classica accademica. E sopra di tutti noi il suo sguardo deciso, scrupoloso, scultoreo.
E con Bejart ci lascia un altro Protagonista della Cultura teatrale, a poca distanza dalla morte di un altro grande Maestro francese quale Marcel Marceau.
Arrivederci Maestri.
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15 novembre 2007

Due ore all'alba


Ma seguimi oramai, che 'l gir mi piace;
ché i Pesci guizzan su per l'orizzonta,
e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace,
e 'l balzo via là oltra si dismonta».

(Inf. XI - 112, 115)

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- Servizio di Bruna Alasia

VILLERUPT 30, EX EQUO MARENGO E MORONI VINCONO “L’AMILCAR”

Il trentesimo festival del film italiano di Villerupt che tra retrospettiva, panorama e concorso, ha presentato in complesso circa settanta opere, nella competizione ufficiale ha proposto ben 19 film inediti o in anteprima al pubblico proveniente da Lorena, Belgio e Lussemburgo. Oltre quarantatremila spettatori anche nel 2007 confermano la manifestazione come la nostra più importante oltralpe.
I premi a Villerupt si chiamano idiomaticamente “Amilcar” - da Amilcare Zanoni, nome dello scultore di origine italiana che ha forgiato la statuetta - come si dice “Leoni” a Venezia o “Palmares” a Cannes.
Quest’anno vincono il prestigioso Amilcar della giuria internazionale ex aequo “Notturno bus” di Davide Marengo e “Le ferie di Licu” di Vittorio Moroni.
Amilcar del pubblico a “Non pensarci” di Gianni Zanasi; Amilcar della giuria giovane a “IL 7 e l’8” di Picone, Ficarra e Avellino; Amilcar della stampa a “Saturno contro” di Ferzan Ozpetek
Tra le novità assolute, non solo per il mercato francese, a Villerupt è stato presentato in anteprima mondiale “Goodbye mister Zeus” di Carlo Sarti.
Particolare successo hanno riscosso Alessandro D’Alatri, che ha accompagnato a Villerupt il suo “Commedia sexy”, e Violante Placido, presente con Fabio Troiano, entrambi protagonisti del film di Massimo Cappelli “Il giorno più bello” . Violante Placido debuttava in quei giorni sugli schermi televisivi nella riduzione francese del noto sceneggiato “Guerra e pace”.

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12 novembre 2007

L'amante del Duce: Claretta Petacci


di Augusto da San Buono


1.Una nube profumata
Tutto ebbe inizio in aprile , con le ginestre e le valeriane selvatiche che fiorivano come in un giardino sul ciglio della via del mare, che da Roma conduce ad Ostia. Era il 24 aprile 1932 e Claretta aveva vent’anni , con la testa piena di riccioli e fatui sogni d’amore . Seguiva , fin da bambina , sui giornali , le imprese gloriose , l’irresistibile escalation del duce, il suo mito, il suo eroe , di cui conservava , come una reliquia , una foto-simbolo : ritto , le mani sui fianchi , la testa alta , il mascellone volitivo . E quella mattina avvenne come nel film “La rosa purpurea del Cairo” di Woody Allen. Il mito uscì dalla pellicola della fantasia , e divenne realtà, per mostrarsi in carne e ossa alla sua vestale , alla sua romantica adoratrice. Erano entrambi lì , sulla via del mare , su quella strada invasa dalla ginestra bianca , delicata e vaga , che a ciuffi , reclinata, quasi dormiente sull’asfalto sembrava una nube profumata posata in terra.

2. Lei non doveva essere uccisa.
E tutto finì in aprile , su una mulattiera di Giulino Mezzegra , nel comasco, fra due tronchi divisi a fionda di pinastri giovani, incastrata nella pietra grigia , all’ombra di allori e ricurvi aghi bruciati , e rametti, e teste di foglie tagliate , e ingiallite. Finì con una sventagliata di mitra , i corpi dei due amanti caddero senza emettere un grido. Era il 28 aprile 1945 , e Claretta aveva trentatrè anni , l’età del dramma , della tragedia, della passione, delle grandi imprese , l’età di Gesù Cristo sulla croce, e Claretta ci finì , in croce, ma a testa in giù , presso una stazione di rifornimento di benzina, a piazzale Loreto, città di Milano, “roba da macelleria messicana”, disse Ferruccio Parri. E anche Sandro Pertini, capo storico dei partigiani , ammetterà che “lei no, non doveva essere uccisa, poiché la sua unica colpa era quella di aver amato un uomo.”

Ma senza quella morte , Claretta sarebbe stata solo una delle tanti amanti del focoso duce ( dalla “pasionaria” russa Angelica Balabanoff, “brutta, buona e sincera” , all’anarchica e stravagante Leda Rafanelli , di sangue musulmano; dall’intellettuale e raffinata ebrea Margherita Sarfatti. “bella , avara e scaltra” alla giunonica trentina Ida Dalser , “l’austriaca”, che gli diede un figlio , Benito Albino, da lui riconosciuto) , senza voler considerare tutte le altre donne con cui aveva avuto rapporti sessuali ( pare che ne abbia possedute più di cinquecento).

3. La mia carne non mi permette di essere santo
Con quella morte Claretta riscattò sé stessa dalla banalità di amante clandestina, passatempo profumato, mantenuta , puttana del duce. Divenne un’eroina romantica che sacrifica tutto all’amore eterno in cambio della vita. Diede un senso ai lunghi pomeriggi trascorsi nell’appartamento “Cybo” di palazzo Venezia, destinato solo a lei, in attesa del fugace incontro con lui, ai duetti musicali , entrambi a sviolinare , oppure lui al violino e lei al pianoforte , in cui facevano scempio dei prediletti “ notturni” di Chopin . E poi le lunghe reiterate scene di gelosia di Claretta che innervosivano il Duce-Toro, perché è vero che la tradiva indefessamente, ma solo con il corpo : “La mia carne non mi permette di essere santo” . C’erano stati anche momenti di quiete spirituale in cui ascoltavano le romanze di Verdi Mascagni e Puccini , o leggevano i versi dei loro poeti preferiti, Petrarca e Leopardi ( il gobbo di Recanati era il prediletto del Duce , chi l’avrebbe mai detto?) . E alla fine Claretta gli recitava a memoria la poesia di Elizabeth Barrett Browning : “Ti amo , Ben, con la profondità , con la vastità e l’altezza che l’anima mia può attingere , quando mi sento smarrita oltre i confini dell’essere e della grazia ideale …T’amo con la passione che ponevo un tempo nelle pene e con la fede nella fanciullezza… T’amo col respiro , i sorrisi , le lacrime di tutta la mia vita …e se Dio vorrà t’amerò ancor di più dopo la morte…”

4. Il suo amore non era una buffonata.
“Senza quel finale di partita – dice Mauro Mazza, direttore del TG”, Claretta sarebbe stata una figura storicamente irrilevante , al centro , tutt’al più, di postumi gossip nei salotti romani post-fascisti , così simili peraltro a quelli fascistissimi, dove si discettava ammiccando sulle sue visite in side-car a Palazzo Venezia, o sulla nuova villa dei Petacci sulla Camilluccisa troppo lussuosa ( aveva trentadue stanze) per non essere oggetto di pettegolezzi velenosi. E invece no. Quella morte per amore , solo per amore , la fece ingombrante e d’improvviso così grande, costituendo una vergogna per la memorialistica resistenziale ricordare che , insieme al dittatore, fu assassinata una donna senza colpa alcuna”

Con quella morte, Claretta aveva dimostrato che il suon amore non era una buffonata e si era presa la rivincita sui gerarchi, che l’avevano sempre detestata , odiata , ritenendola un’intrigante e un’approfittatrice , una sorta di Pompadour in sedicesimo, corresponsabile di molte decisioni sballate del duce, mentre in realtà Mussolini non confidò mai nulla dei segreti di Stato alla propria amante , e le rarissime volte in cui lei intervenne in questioni politiche che non conosceva la zittiva bruscamente dicendole in modo assai poco elegante: “Clara, non dire coglionerie” . Ma secondo alcuni gerarchi e lo stesso Ciano , era Mussolini che era affetto da senescenza precoce, che si era rincoglionito , e la colpa era tutta del malefico influsso dell’amante e della famiglia Petacci in cui il fratello di Claretta, Marcello era un risaputo losco faccendiere. Dello stesso avviso furono alcuni capi partigiani , che la fecero condannare a morte ritenendola “responsabile quanto Mussolini , perché era stata la sua consigliera, aveva ispirato la sua politica per tutti questi anni”, parole di Valerio, alias Walter Audisio , il presunto “giustiziere“ dei due amanti.
In definitiva , quelli vissuti dai due amanti così stranamente assortiti , un dittatore e una sorta di fatua collegiale , tutta ciprie e ninnoli, furono tredici anni ridicoli e tragici , squallidi e romantici, teneri e grotteschi. In un’epoca di pragmatismo , in cui era stato bandito ogni dolce stile e men che meno l’amore ideale, l’amore romantico, fu, paradossalmente , lo stesso virile Negatore d’ogni gentilezza , che prendeva le donne brutalmente come i galli prendono le galline, senza nemmeno togliersi gli stivali, a farlo rifiorire e – di più - a riviverlo in prima persona. Vediamo come, riavvolgendo il nastro della loro storia.

5. “Duce, avete letto le mie poesie?”
Quando si trova sulla via del mare a bordo della limousine Lancia Asturia targata Vaticano, insieme alla madre Giuseppina, alla sorella minore Myriam e al fidanzato Riccardo Federici, quando vede sfrecciare l’Alfa Romeo rossa-Nuvolari del Duce, che è alla guida. “E’ il duce, il duce!” grida infantilmente, e sprona l’autista napoletano Coppola a inseguirla :“Corri , corri, Saverio”. Ma dopo pochi centinaia di metri l’autista rallenta : “Signurì, chillu è ‘o Duce”. Ma un’ora dopo, sulla rotonda di Ostia , a pochi metri dalla battigia , Claretta scorge nuovamente il Duce che , poggiato ad una vecchia balaustra irta di filo spinato, guarda il mare, il “suo” mare , con i canti, le correnti, le sirene , la gioia dell’onda di risacca che viene a lambirlo sulla spiaggia di gusci , radici, asterie, ossi di seppia, macerie.

Il cinquantenne Duce è all’apice della sua potenza e tutte le donne delirano per lui , sognano un incontro segreto con lui , ma Claretta se ne è innamorata assai precocemente , a soli otto anni , e fin da allora non aveva fatto che sommergerlo di carte, una marea di lettere, poesie, cartoline, biglietti postali , seguendone , passo su passo, sui giornali ,riviste , cinegiornali , la sua irresistibile ascesa. Claretta custodisce la foto del Duce come una reliquia e la bacia ogni sera prima di addormentarsi. “Nel figlio del fabbro – scrive Roberto Gervaso - tutto il popolo italiano non vedeva solo una ferma guida , ma un insonne demiurgo , un salvatore della Patria , un restauratore d’antiche virtù”.

Incurante della guardia del corpo, che la blocca , Claretta , insieme al fidanzato, tenta di avvicinarsi a Mussolini, che fa cenno di lasciarla passare: “ Scusate, Duce, se ci siamo permessi di disturbare, ma è tanta la gioia di vedervi che...” Poi , dopo i convenevoli, Claretta , fattasi più ardita gli dice: “Duce , recentemente vi ho inviato delle poesie. Le avete lette?”

Mussolini la guarda negli occhi , d’una malinconica luminosità andalusa, osserva le minuscole orecchie coperte da una selva di cirri bruni e capricciosi , la sua pelle chiara, diafana e lucente , le sottili dita , le unghia laccate , la magnifica dentatura , il naso soavemente affilato, i piedi quasi infantili ( portava scarpe numero trentatrè) , le gambe dritte, l’esile vita, il seno opulento , il suo più rilevante attributo anatomico, e poi – in una figurina così minuta e esile - quella strana voce roca , che si farà sempre più bassa, fino a divenire , col tempo, gutturale.

“Sì, mi sembra di averle lette, le vostre poesie , anche se adesso non le ricordo”, mente il Duce e subito dopo congeda i fidanzati.

Tutti e due, alla fine di quella giornata d’ aprile , non riusciranno a chiudere occhio. Se per Claretta era comprensibile, per il Duce assai meno.

6. Sì, l’amo questa bambina, e non mi vergogno di gridarlo.
Che cosa aveva trovato quell’uomo potente e temuto , che stava progettando la conquista dell’impero , in quella ragazza della borghesia romana ( era figlia del medico del Vaticano Francesco Saverio Petacci , e di Giuseppina Persichetti) per farlo innamorare come un ragazzino , uno studentello liceale. Insieme , vanno al castello di Gradara , entrano nella stanza di Paolo e Francesca dove sfogliano il “libro galeotto”, passeggiano nelle pinete mano nella mano come due fidanzatini , o si guardano lungamente negli occhi sulla spiaggia di Rimini , alla prima alba rosata , fra le barche e le reti dei pescatori , e lui declama: “Sì, l’amo questa bambina , l’amo , sì, e non mi vergogno di gridarlo…Ti Adoro, piccola Clara, sei la parte più bella della mia vita, sei la mia anima, sei la mia primavera , la mia giovinezza, e ho bisogno di te , ho bisogno del tuo amore fresco , buono, tempestoso , assoluto, prepotente , così come il mio è violento , prepotente, geloso …Ricorda Clara, quello che ti dice un uomo al tramonto della sua vita , nel declino dell’età , sono le frasi più profonde, più intense , io ti amo, e qualunque cosa accada, io ti amo , ti ho amato e ti amerò sempre . Sei l’unica donna che io , nella mia tumultuosa ,, difficile, tormentata vita , abbia veramente e profondamente amato. Sì, io ho amato e amo soltanto te, cara, cara piccola , donatami dal destino e che involontariamente io faccio tanto soffrire”

7. Quel quid che era l’amore
Lettere come questa, che il duce scrisse nei primi anni idilliaci , Claretta le conservò gelosamente , e forse ne fece fare anche delle copie, affidandole, nell’imminenza dell’inevitabile sfacelo , nelle mani sicure della sorella Miryam , che sarà la sua biografa più attendibile, essendo stata testimone di molte vicende dei due amanti, anche se , ovviamente , una biografa schierata. “Qual era il fascino segreto, quel “quid “ inspiegabile che possedeva Claretta e aveva attratto irresistibilmente, ineluttabilmente il duce ?” .

Claretta era una bella ragazza , ma non era certamente una miss , non era né colta (aveva fatto modesti studi) , né particolarmente intelligente, quantunque avesse una certa fantasia e una grazia in tutto ciò che faceva ( suonava l’arpa, il violino e il piano, scriveva sonetti, ballate, madrigali, componeva anche canzoni e romanze, aveva la passione per la pittura ), ma se teniamo conto che il duce aveva amato donne di grande personalità come la Balabanoff , e la Sarfatti che in quanto a cultura, stile e intelligenza, gli erano state maestre ( e la Sarfatti era anche bella) , al loro cospetto una come Claretta rimane una figuretta di secondo o terzo piano. Forse quel quid che aveva fatto innamorare il duce come uno scolaretto , fino a renderlo ridicolo ( chiese alla madre di Claretta il permesso di “amarla” , dopo che la ragazza , sposatasi con Federici, si era separata dal marito , ed era quindi di nuovo disponibile . E lui era all’apice della sua potenza e popolarità, e gli sarebbe bastato uno schiocco delle dita per avere ogni cosa) era legato al mistero stesso dell’amore, “ quell’imperscrutabile mistero cosmico che ammalia, esalta, incatena”. Ma non dobbiamo dimenticare – scrive Gervaso - che il duce era un uomo dell’ottocento, e del suo secolo aveva tutte le sfumature romantiche e sentimentali . Claretta, con la sua educazione ottocentesca , annullava il distacco, la differenza di età ( trent’anni) e di mentalità , donandogli quella sensazione magica che si prova quando ti sembra di essere tornato indietro negli anni. Ed ecco una lunga e vorticosa girandola di emozioni e di giovinezzam i lunghi week-end al Terminillo, con Mussolini che sciava da cane ma aveva una vitalità mostruosa, capace di fare chilometri e chilometri senza fermarsi , dice Myriam; e poi i picnic a Castelfusano , o sul mare di Ostia , le gite in motoscafo, le cavalcate sull’Appia, le partite a tennis. Claretta era costantemente in estasi, ma anche il duce.
Quanto durò quest’amore?

8. La gravidanza extrauterina di Claretta
Da parte di Claretta per sempre, oltre la morte, potremo dire, e lo dimostrò immolandosi per lui, che più volte aveva cercato di allontanarla e invitata a mettersi in salvo ,in Spagna, con la propria famiglia, ma lei no, si sentiva ancora la sua fiamma ardente ( anche se Mussolini dopo il 25 luglio era ridotto ormai a cenere) , la sua ispiratrice, la sua salvatrice, come annota nel suo diario: “ Mi sento come mandata da Dio per aiutarlo a difenderlo dalla gentaccia che ha attorno…Io gli sono necessaria perché egli è solo , e tutte l creature umane hanno bisogno di qualche persona che stia loro vicina e con la quale possano parlare, gioire , soffrire”.

Per il duce – annota Mazza nel suo profilo del Volume II “ Italiane” edito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 2004, e duramente contestato dalle parlamentari di Rifondazione comunista - fu amore vero, negli anni euforici del massimo fulgore per l’Italia mussoliniana , ma la fiamma esaltante durò solo alcuni anni. Pesarono, senza cancellare del tutto il sentimento, le voci sul fratello di lei, spregiudicato faccendiere, e condizionò il comportamento di Mussolini la reiterata richiesta della sua figlia amata, Edda: “Liberati di lei, ti scongiuro!”

Ma più di tutto furono gli eventi storici a scegliere per loro. Come per tutti.

Lo scenario internazionale che si fa inquieto, a partire dal 1938, la tragedia della guerra, la morte del prediletto figlio Bruno, assorbirono e avvilirono l’animo del duce, e tuttavia, nella fine d’agosto del 1940, in piena guerra, Miryam ricorda Mussolini alla Camilluccia, quando si prospettò un serio pericolo di vita per Claretta, incinta, a causa di una gravidanza extrauterina con minaccia di peritonite. Claretta aveva già perso il bambino frutto del loro amore. “ Non lo dimenticherò mai, se ne stava seduto in un angolo, immobile, con gli occhi sbarrati , che fissavano il vuoto. Non sentiva quello che gli si diceva, e non vedeva neppure mio padre e il professor Noccioli , che si avvicendavano nella stanza dell’ammalata. Sembrava un pezzo di marmo”.

“ Lo sai che quel giorno ho pregato per te .E’ stata una cosa strana , ad un certo punto mi sono sorpreso a ripetere Signore . non fatemela morire”.

E certo per uno che aveva sfidato Dio anni prima (“ Se Dio c’è lo sfido a fulminarmi entro due minuti” ) era strano davvero. Ma le stranezze e le contraddizioni non sarebbero finite lì. L’anno dopo fu lo stesso Pio XII a chiedere al “diletto figlio” d’interrompere quel rapporto che era ormai divenuto di dominio pubblico, e quindi scandaloso . E il duce stavolta obbedì. Il 20 maggio 1942 scrisse all’amante: “Clara, il sacrificio che chiedo al tuo amore , più che alla tua sensibilità e obbedienza, è grande; ma torno a ripeterti che è necessario per chiarire tutto e riportare persone e cose ed eventi in una tranquilla luce. Un giorno mi ringrazierai di ciò e sarai contenta di questa eclissi di un’abitudine che ti era cara” E si firma ATDB ( a te da Ben).

9. Gh’è el crapun

Ma la tragedia è ormai alle porte. Per lei l’umiliazione di essere cacciata dagli uscieri di Palazzo Venezia, per lui le tragiche disavventure belliche e il dramma del 25 luglio 1943, con il Gran Consiglio che lo sfiducia. E le parole di Claretta , come quelle di Calpurnia, che echeggiano dentro di lui: “ Ben, non andare, non ti fidare di loro , e guardati da Badoglio”.

E , in rapida sequenza , l’arresto, l’armistizio, la Repubblica di Salò. Anche per Claretta e la sua famiglia c’era stato l’arresto e la prigione nelle fetide celle di Novara. E infine ancora un ricongiungimento, a Salò, in cui il loro amore divenne strumento e quasi ostaggio di guerra. I tedeschi si servirono di Claretta per meglio e più da vicino controllare il duce, conoscerne le intenzioni, spiarne i pensieri, ma anche gli alleati fecero la stessa cosa. C’erano spie prezzolate che portavano la colazione a Claretta, a Villa Fiordaliso. Ma lei non sin prestò a nessun gioco, fu sola di Mussolini, fino all’ultimo istante. E quando i tedeschi lo vollero occultare , portandolo sul loro camion travestito da improbabile caporale tedesco per salvarlo dai partigiani (ma un partigiano lo riconobbe subito durante un ispezione: “Gh’è el crapun”) , Claretta inseguì il camion, lo rincorse, tentò di salirvi attaccandosi con entrambi le mani alla ribaltina posteriore , finchè il calcio del fucile di uno dei soldati le si abbattè sulle dita, obbligandola a mollare la presa. Ma seguitò a correre, barcollando a zig-zag, come colpita da un improvviso malore, e infine cadde a terra, come nella scena di “Roma città aperta” di Rossellini. Anticipò , e forse suggerì , la scena della Magnani, per stare vicino al suo Ben, che raggiungerà comunque il giorno dopo, grazie al partigiano Pedro, alias Pier Bellini delle Stelle , un giovane aristocratico toscano, che la ricorda così: “Era pallida, esausta . Sul viso, provato da mille sofferenze, umiliazioni, disinganni, si coglievano una tristezza immensa e un infinito smarrimento…Cambiai subito parere su di lei. Era una sventurata non un’avventuriera. Era solo una donna innamorata che voleva morire per il suo uomo. La mia vita,- mi disse , - non avrebbe nessuno scopo dopo la sua morte. Morirei ugualmente , solo con minor rapidità e con maggior dolore. Questa è la sola cosa che le chiedo: morire con lui. E lei non potrà negarmelo”.

10. L’ultima notte
Pedro la conduce presso una cascina sita tra il paesino di Azzano e la frazione Bonzanigo , di proprietà di contadini partigiani, i De Maria. Qui ritrova il suo Ben, disfatto, ormai simulacro di sé stesso. I due vengono alloggiati in una camera occupata da un enorme letto matrimoniale sulla cui testiera pende un’oleografia della Madonna di Pompei , e da due pesanti comodini, un paio di sedie, una cassapanca, un attaccapanni , una lampadina con piatto, un treppiedi con catino e una brocca per l’acqua . Lì trascorsero insieme , l’una accanto all’altra, l’ultima notte della loro esistenza, tra il 27 e il 28 aprile 1945.

Lei era pronta , forse più dello stesso Mussolini, al sacrificio estremo. Alla sorella Miryam aveva confidato: “ Mi odiano perché lui mi ama. Perché la mia vita è tutta per lui. Non lo abbandonerò mai, qualsiasi cosa avvenga…Fa sì che sia detta finalmente la verità su di me, su lui, sul nostro amore sublime, bellissimo, divino, oltre il tempo, oltre la vita”.

Non chiusero occhio per tutta la notte. Non si dissero una parola, né fecero un gesto. Stettero accanto l’uno all’altra, vestiti, immobili. Lei forse ricordò la sua prima visita a palazzo Venezia. Tutta la sala intorno a lui brillava - pavimento, mobili scuri, pareti - e si aveva per un attimo l'impressione che dovesse specchiarlo. Ma la figura di lui era grande, sola, unica, nella sala, in mezzo a quei riflessi che non avvenivano. Era lui che rispecchiava la sala , lui . il mito, l’eroe romantico dell’ottocento con la fastosità del novecento che avanza . Ora la sala pareva girargli intorno, come tutte le cose: Se si trovava in mezzo ad una folla, la folla gli rigurgitiva e bolliva intorno; se si trovava in mezzo a un popolo, il popolo gli faceva cerchio, si disponeva a piramide e lo accettava spontaneamente per vertice. Lui era il sole , e lei una farfalla fragilissima, colorata, profumata, che le girava intorno. Ma ecco che lui le si fa incontro, la guarda con quegli occhi neri fondi folli e deliranti.

“Stanotte non ho dormito, pensando a voi”

In tutta quell’orribile bufera che tutto aveva spazzato via del mito e dell’eroe sostituendolo con l’aguzzino e il sanguinario , era rimasta in lei quella dedizione intensa e sublime , che era l’amore per il suo Ben; a lui forse , dietro lo sguardo spento , era rimasta la tenerezza, l’affetto , la gratitudine per questa donna che gli si era immolata.

Dopo la mortale raffica di mitra, un partigiano strappò dal collo di Claretta un ciondolo d’oro. Dietro c’era scritto: “Clara, io sono te e tu sei me. Ben.” Claretta ci aveva sempre creduto, fino in fondo, oltre il tempo, oltre la vita.

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11 novembre 2007

"Canti Celtici" di Renzo Montagnoli


POESIA – la recensione di Bruna Alasia

CANTI CELTICI
Poesie di Renzo Montagnoli
Edizioni il Foglio E. 10

Ieri,
come oggi,
nulla è cambiato sotto lo stesso sole
a indovinar fra le stelle
il percorso di un futuro
con quell’unica meta
che sfugge a ogni logica.

Questi versi di Renzo Montagnoli a metà dei suoi “Cantici celtici” evocano e chiariscono il senso della sua lirica e la forza della poesia che nella fusione di storia, leggenda e musica, riesce a trasmettere e illuminare nessi misteriosi che trasfigurano e approfondiscono la realtà, la realtà di ciascuno, interiore e universale, prendendo a prestito la magia dell’antica favola epica per renderla più incisiva. Guerrieri sull’acqua, bambini e ninfe di territori forse gallesi o cornici, scozzesi, irlandesi, oppure semplicemente mantovani, emergono dalle nebbie di un mondo che è metafora del nostro passaggio, percorso che avanza nell’imperferzione, stenta a progredire ma dona ai posteri l’eredità della saggezza trascorsa. Con la melodia dei versi, che fanno sentire protettiva e calda una landa solitaria e nebbiosa, attraverso il sogno e la canzone, l’autore trova una possibilità di riscatto, nel recupero dell’insegnamento passato un’indicazione al futuro, una ragione nel ciclo misterioso della vita.
Aleggia sulla pagina di questi canti celtici il suono di una cetra invisibile, quella che scaturisce dalla filigrana della composizione serica, elegante, tenebrosa anche nei momenti di luce e semplice, come ogni poesia che sia degna di questo nome.
Renzo Montagnoli è un autore raffinato che mescola fantasia, realtà e atmosfere surreali per distillare l’essenza dell’anima umana.
Mantovano, laureato in economia e commercio, per lungo tempo dipendente di una azienda di credito si dedica ora alla scrittura di racconti e poesie che sono stati pubblicati con successo dal sito letterario “I sogni nel cassetto” e dalle riviste Isola Nera, Prospektiva, Writers Magazine Italia.
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10 novembre 2007

Dante, Firenze e Proserpina














«S'elli han quell'arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell'arte pesa.
(Inf. X - 77,81)

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08 novembre 2007

Ricordo di Enzo Biagi

di Giuseppe Adamoli
Il mio ricordo di Enzo Biagi è legato particolarmente alla Giornata dello Statuto della Regione Lombardia, 18 marzo 2003, e consegna nel grande Teatro Auditorium di Milano delle Medaglie d’oro al valore civile e del Sigillo Longobardo. Quest’ultimo riconoscimento in particolare viene assegnato a quei cittadini lombardi di nascita o d’adozione che si sono distinti, per generosità e ingegno e hanno portato nel mondo il nome della Lombardia. Fra i prescelti vi era Enzo Biagi, uno dei grandi protagonisti del giornalismo italiano del Novecento. L’onore di consegnargli il Sigillo longobardo spettò proprio a me, perché l’avevo proposto io, suscitando qualche contrasto nell’Ufficio di Presidenza di cui facevo parte insieme ad Attilio Fontana, che lo presiedeva.

Anch’io sento di essere debitore nei confronti di Enzo Biagi di scoperte e rivelazioni che furono importanti nella mia formazione umana e culturale.

Infatti tra i tanti libri scritti da lui ce n’è uno dimenticato ma per me, invece, indimenticabile, “Cardinali e comunisti” pubblicato da Rizzoli nel 1963. E’ il resoconto di un lungo viaggio nelle Repubbliche Popolari di confine con l’Europa occidentale consegnate dagli accordi di Yalta al dominio sovietico: Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia. Di quei mondi si sapeva poco o nulla. Tuttavia il processo di destalinizzazione, avviato da Kruscev , aveva sia pur timidamente aperto qualche varco nei loro regimi polizieschi. Avevo vent’anni e mi affacciavo agli impegni politici e sociali, ero curioso del mondo e in particolare di quel mondo dell’Est europeo che solo sette anni prima aveva conosciuto l’invasione dell’Ungheria da parte delle truppe di Mosca con un tragico bilancio di morti, di esecuzioni e di repressione. In quei paesi si fronteggiavano sostanzialmente gli uomini dello stato comunista e gli uomini della Chiesa cattolica, costretta al silenzio ma con un radicamento sociale indistruttibile. A Roma si apriva il Concilio Vaticano II.

Enzo Biagi avvicinò il cardinale di Varsavia Wyszynski e il premier della Polonia Gomulka; il primate d’Ungheria Mindszenty, esule nell’ambasciata americana di Budapest e il capo del governo Janos Kadar; l’arcivescovo di Praga monsignor Beran e il primo ministro Antonin Novotny. Raccontò le ragioni degli uni e degli altri, le asprezze e le crudeltà dei regimi ma anche qualche loro ragione. Collocò le loro vicende umane e istituzionali all’interno dei contesti sociali dei rispettivi paesi. Lo fece con quella sua inimitabile capacità di narrare personaggi, fatti e atmosfere, fedele a un principio cardine del suo giornalismo: essere testimoni e non giudici. Con la stessa lucidità e la stessa umanità qualche anno prima aveva raccontato nel “Crepuscolo degli dei” le inquietudini e i dubbi della Germania post nazista alle prese con un tumultuoso miracolo economico. Tutte letture che sarebbero di estremo interesse anche per i giovani d’oggi.

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07 novembre 2007

Un cappuccino con Enzo Biagi

di Antonio V. Gelormini

Il tempo per bere un cappuccino. Tanto durò il breve e casuale incontro con Enzo Biagi nello storico bar Taveggia, al centro di Milano oltre vent’anni fa. Ero venuto in città dalla Puglia, per promuovere tra gli emigrati del mio piccolo paese il periodico locale la Refola. Orgoglio editoriale minore di un gruppo di amici alle prese con la passione e l’amore per i fatti della propria terra.

Vi lascio immaginare la sorpresa nel vederlo entrare e dirigersi alla vetrinetta dei cornetti. I battiti cardiaci cominciarono a tambureggiare a ritmo di carica, per nulla al mondo avrei perso quella occasione. Nella mia cartella avevo alcune copie del giornale e con molto imbarazzo, frammisto a una buona dose di timore reverenziale, mi avvicinai chiedendo scusa per la sfacciataggine.

Mi presentai, riuscii a dirgli perché ero a Milano, a dargli due numeri del giornale e a chiedergli, se avesse avuto voglia e tempo per un’occhiata, di poter sperare in qualche prezioso consiglio. Ricordo ancora il garbo con cui li sfogliò rapidamente. Ne apprezzò la veste grafica e il disegno in copertina di Leon Marino, un artista locale insegnante all’Accademia di Brera. E poi mi disse, come se avesse avuto già modo di leggerne qualche pagina in precedenza: “Non perdetevi troppo nel battibecco politico. Raccontate con amore quel accade dalle vostre parti. Le storie dei vostri compaesani. E’ quello che chi è lontano si aspetta di leggere”. E ringraziandomi, con quel sorriso triste e bonario, si avvicinò al banco per il suo cappuccino.

(gelormini@katamail.com)

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01 novembre 2007

Dentro le mura



Ahi quanto mi parea pien di disdegno!

Venne a la porta e con una verghetta

l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno.

(Inf. IX - 88,90)


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"Infect@" di Dario Tonani

di Anna Anselmi
Nel ventre di una Milano multietnica, livida e cupa, popolata di uomini e cartoni animati, una nuova droga si sta propagando con effetti devastanti. La si assume per via retinica, provocando allucinazioni più reali della realtà. Un poliziotto, Lapo Montorsi, indaga, mentre un ex poliziotto, Cletus, a sua volta un drogato dei +toon, si trova nelle mani un tera disc, per riprendersi il quale c'è chi è disposto anche a uccidere. Nell'anno 2025 si scatena così una serrata corsa contro il tempo, due notti e un giorno, lungo meandri misteriosi e intricati, fino all'inaspettata rivelazione finale. E' il noir fantascientifico “Infect@” di Dario Tonani, pubblicato da “Urania” Mondadori. Dario Tonani, giornalista, autore di tre romanzi brevi (per Perseo Libri, Solfanelli e Ucronia) e di numerosi racconti, ha inaugurato un progetto, che dovrebbe articolarsi in una serie di racconti. Il primo è uscito su “Urania” di ottobre, il secondo sarà compreso nel libro “Gli occhi dell'Hydra” (edizioni Domino). Filo conduttore l'ambientazione metropolitana creata per “Infect@”, rilettura a tinte fosche della Milano di oggi, della quale nel libro si ritrovano, sia pur stralunati e immersi nello sfacelo totale, puntuali riferimenti topografici. “Infect@” è densa di citazioni dalla cultura pop: film come “Blade Runner” ("nell'onnipresenza della pioggia") e “Ghost Busters” (la gigantesca Betty Boop che ha un ruolo fondamentale nella vicenda), ma soprattutto i cartoni animati, dei quali il dj radiofonico Crash B., ogni due capitoli, racconta da par suo la storia. «Ho un figlio di 13 anni, Nicolò, che mi ha fatto fare una scorpacciata incredibile di cartoni animati,» spiega Dario Tonani, riguardo una delle idee principali del romanzo: l'interazione tra uomini e cartoon, alla “Chi ha incastrato Roger Rabbit?”. «A furia di assumerli, ho scoperto che mi piacevano. Mi sono documentato moltissimo sui classici, su come vengono realizzati, sui grandi disegnatori e sceneggiatori del passato». Grande appassionato di fantascienza, in particolare di Philip K. Dick, Tonani apprezza molto tra gli scrittori di oggi l'inglese Richard K. Morgan, affine a lui anche nel disegnare un futuro metropolitano angosciante e disperato.
(Post inserito su indicazione di Tabula Fati)
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ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano Addio al “Patto di stu...