30 luglio 2018

“DI TAL BELLEZZA” Ecco le “sensazioni” poetiche, classiche e maestose, di Gianfranco Galante! a cura di Vincenzo Capodiferro


DI TAL BELLEZZA”
Ecco le “sensazioni” poetiche, classiche e maestose, di Gianfranco Galante!

Di tal bellezza. Sensazioni d’una quotidiana, disordinata, non cronologia” è una raccolta poetica di Gianfranco Galante, edita da Gian-Pi s.a.s., Varese 2017. Gianfranco Galante nasce a Varese nel 1964. Dopo una breve parentesi vissuta in Sicilia torna a Varese nel 1972. Si diploma nel 1982. Fin dall’adolescenza compone. Gestisce una cartoleria in città ormai da anni. Gianfranco è un cartolaio illuminato, e soprattutto: «Scrive di getto riportando sensazioni del vissuto di ieri, ma anche scrivendo di emozioni avvertite nel “sentire” del presente. Con una scrittura non propriamente attuale, ama riportare l’intimo dell’animo e fragilità umane con particolare sensibilità per le “mancanze affettive” del vivere quotidiano»: «Di tal bellezza/ che descriver non saprei,/ ma vederla con gli occhi miei/ parole persi,/ e i sensi miei!». Gianfranco ci riporta su di un sincero piano classicista, consolidato in forme poetiche antiche, ma sempre nuove, per la novità delle immagini e dei sentimenti. Potremmo dire: questa è poesia! Oggi l’arte spesso soffre di alienazioni astrattiste, come se il sentimento avesse raggiunto il culmine delle più alte sfere, o latebre cerebrali. Ma l’arte, come ci ricorda Croce, è la semplice espressione di un sentimento. L’arte è intuizione, non è concetto ed il poeta si fonde colla sua poesia. Il poeta è la poesia. Scrive Fabio Scotto: «La raccolta di liriche di Gianfranco Galante “Di tal bellezza” propone, fin dal titolo, una ricerca esplicitamente tributaria della “lezione classica”. Il verso, per lo più endecasillabo spezzato in settenari e quinari a rima alternata, scandisce metricamente una lezione lirica sul senso dell’esistere e sulla relazione amorosa, come sugli affetti, visti nel loro quotidiano e problematico porsi di presenze ed enigmi». La poesia nel Novecento, soprattutto Primo, aveva abbandonato i canoni metrici, per esprimere le forti e marcate calcature dei sentieri dell’anima. Ma il volgere dell’ultimo secolo del secondo millennio aveva visto il succedersi di due guerre mondiali, dei totalitarismi, della guerra fredda, degli stermini di massa! La poesia non era libera: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe …» ci ricorda Montale. C’era il Fascio: non si poteva parlare! Gianfranco invece ci riporta con un pindarico volo verso i lidi antichi. E qui ricordiamo la Trinacria: il triangolo che segna il vertice del Mediterraneo. Ci ripropone valori stilinovistici, con un guinizzelliano “cor gentil”. Il poeta qui diviene, per così dire il galantuomo, tanto per ricordare il Galante/galante. L’onestà e la gentilezza sono valori sempiterni, che in questa raccolta vengono diluiti nel mare della “società liquida” - tanto per usare un termine baumaniano - e come scogli si battono in questo succedersi più o meno aggressivo delle onde. E si esprime parimenti quel “male di vivere”, che è stato il baratro dove sono affondati i nostri poeti maggiori: un triangolo delle Bermuda che nulla ha a che vedere con la nostra amata “Trinacria”. Come in “Buio e silenzi”: «In questa notte/ nel silenzio del buio,/ avverto il buio/ dei tuoi silenzi;/ e tutto m’è frastuono». L’assonanza analogica tra buio e silenzio che si rincorrono come due serpenti attorcigliati in un caduceo si rompe nel frastuono di una “gettatezza” esistenzialeggiante. Come in “Passus vitae”: «Rifletto,/ in quest’angolo di vita,/ e mal vivo;/ non cercato,/ non desiderato./ e poetar/ d’un amor che non mi è vicino,/ m’è destino …». La poesia, il linguaggio primordiale con cui si esprime lo Spirito, ci avvicina alla poiesis, cioè alla divina creazione, ecco perché è destino. Dio è il primo Poeta, il creator del nulla e del tutto. Noi siamo imitatori di questo artista Assoluto. Non siamo noi che scegliamo la poesia, ma la Poesia che sceglie noi, e ci ispira. Le divine Muse sono messaggere dell’Eterno. Vedete “Vergogna d’essere umano”: «Vergogna/ d’essere umano,/ ch’ancor oggi/ schiavizza e vende … E un falso dio/ non dona amore;/ abbaglia le menti/ e assai fa rumore/ portando l’oblio/ all’ombra funesta/ d’un sol tintinnio». Ci ricorda l’”Uomo del mio tempo” di Quasimodo. E quel tintinnio vuoto ci ricorda anche Paolo: «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna». E per concludere facciamo un’altra riflessione. Prendiamo alcuni passaggi di “Strumento muto”: «Non t’odo/ muto strumento./ Strisci, graffi/ e segni lasci;/ e verghi come nulla fosse/ versi, frasi… Ti sento/ ma non t’odo,/ caotico/ strumento muto». Ecco qui avvertiamo il disagio del poeta/musico. La poesia è musica. La musica è il dono delle Muse, è la divina armonia che si fonde nella sezione aurea dell’Universo. Ricordate che i Pitagorici nelle estasi meditative riuscivano ad ascoltare il cammino degli astri. Non a caso il Galante dice di sé nella “Prefatio”: «Durate la stesura, di quando in quando, sono solito ascoltare musica, la quale è fonte, sia d’intimo piacere sublime, che d’ispirazione». Ed addirittura consiglia di leggere i brani con gli stessi fondi musicali con cui egli li ha composti “verbo manentis in charta”. Schopenhauer scriveva che la musica esprime con un linguaggio universale l’intima essenza del mondo. Eppure la poesia oggi risuona come uno strumento muto. Si esprime la forte incomunicabilità dell’arte. Ti sento/ ma non t’odo … sentiamo ma non udiamo, vediamo, ma non guardiamo, questo è il profondo disagio dell’uomo d’oggi, che comunica a due passi col cellulare, ma poi non sa più dialogare col suo prossimo. Immaginate un’orchestra di strumenti muti: siamo noi che dobbiamo ricostruire tutto. Non siamo più capaci di ascoltare, di vedere l’Essere che ci circonda onni-abbracciante. Il poeta che canta, il vate non è più riconosciuto, l’artista vive la solitudine/solipsismo, il richiudersi in se stesso, il ripiegarsi sempre di più nella medesimezza dell’io. Ecco perché si rifugia nell’astrattismo. Ma Gianfranco corre contro corrente: è un “fuori tempo”, come commenta Santi M., un giurisperito letterato conoscitore di “Di tal bellezza”. E così si chiude: «E quivi rimango sì tacito e solo,/ ancora cercando di nuove parole;/ che affiora da sole». Ecco il petrarchesco “Solo e pensoso”! E sopra vi è uno schizzo di un uomo che gira con una lanterna. Quell’uomo ci ricorda Diogene che cerca l’Uomo, o il nietzschiano Zarathustra che folle in un mercato annuncia la morte di Dio. Tra le altre opere di Gianfranco Galante ricordiamo: “Tante impressioni, pochi pensieri, troppe parole” (1980); “Volevo raccontare una storia da tanto tempo … adesso l’ho fatto!” (2014); “Esitante psicostasia” (2016); “Paesaggi d’estate” (2016, ried. 2018).
Vincenzo Capodiferro

IL PAPA’ DI MONTANELLI: PREZZOLINI a cura di Angelo Ivan Leone

IL PAPA’ DI MONTANELLI: PREZZOLINI
Tratto da:Onda Lucana® by Angelo Ivan Leone-Docente di storia e filosofia presso Miur
Parlare di Prezzolini è in parte parlare di Montanelli. Ora se considerate che forse non basterebbe una vita intera per spiegare tutti i meriti e le grandezze che ha avuto Indro Montanelli nel suo operato di giornalista, storico e saggista, immaginatevi quanto sia ancor più ardua l’impresa di chi voglia parlare del padre spirituale e ideale del grande Indro. Proprio per questo, vogliamo semplicemente concentrare l’attenzione dei nostri lettori su quello che sicuramente fu il servigio più grande reso da Prezzolini e proseguito in seguito da Montanelli nei confronti dell’intera cultura italiana. Questo regalo, se così vogliamo chiamarlo, fu il conseguimento di un risultato che dovrebbe essere l’ambizione di ogni intellettuale, ovvero sia riuscire a farsi intendere da tutti e far in questo modo avvicinare alla cultura la massa facendo quell’opera di apostolato culturale che sfocia nel ricoprire da parte dell’intellettuale il ruolo di coscienza collettiva della nazione.
Prezzolini Giuseppe, nato a Perugia nel 1882 e morto a Lugano nel 1982, con il suo secolo di vita vissuta in Italia da italiano innamorato del proprio Paese riuscì in quest’opera. Egli fu critico, saggista e giornalista e attento ai più diversi richiami culturali e ideologici del proprio tempo di cui fu voce, anzi “La Voce”. Così, infatti, si chiamava la sua rivista politico-culturale che successe alla sua esperienza da direttore della precedente rivista fiorentina chiamata: “Leonardo”. Dopo questa esperienza, Prezzolini si apprestò, assieme ad alcuni suoi redattori e collaboratori, a dar vita a un periodico, al cui nome si legò indissolubilmente quello suo. “La Voce” nasce nel dicembre 1908 e Prezzolini la dirige fino alla fine del 1914; sono presenti nella redazione del periodico liberali come Amendola, democratici come Salvemini, filosofi come Croce e Gentile, per citare solo alcuni dei grandi pensatori che vi parteciparono.
La rivista propose varie riforme che ancora oggi sono drammaticamente attuali in Italia: il decentramento amministrativo, la riforma del codice della famiglia, il divorzio, il suffragio universale maschile e, cosa per quei tempi scandalosa, aprì anche una discussione sulla possibilità di ampliare il diritto di voto alle donne, si interessò alla questione meridionale, e non poteva essere altrimenti con Salvemini, e all’irredentismo. “La Voce” inoltre volse la sua attenzione alla questione sessuale e al femminismo, alla scuola e alla psicologia, parlando per la prima volta di Freud, dicendo tutto questo nel 1908 e non nel ’68! Questi sono i suoi meriti ufficiali, ma ce ne sono altri che vanno oltre la pura letteratura, filosofia e politica e sono quelli di cui abbiamo parlato all’inizio di quest’articolo a cui forse va aggiunto un ulteriore merito, quello di aver saputo con il giornalismo svecchiare una lingua infarcita di arcaismi e preziosismi, rendendola più leggibile e accessibile, in un Paese diviso tra un’élite di arcadi e la stragrande maggioranza di analfabeti, cioè di schiavi di quegli arcadi.
Prezzolini non fu solo questo, ma anche lo scrittore di numerose opere fra le quali segnaliamo: “America in pantofole” (1950), “L’Italiano inutile” (1953), “L’Italia finisce, ecco quel che resta” (1958), “Dio è un rischio” (1969). A suggello del rapporto di eredità spirituale tra Prezzolini e Montanelli, vogliamo ricordare che l’ultimo articolo comparso sul “Giornale” di Montanelli, da lui fondato e diretto per 20 anni, finiva con la promessa del grande Indro di rifondare un giornale che non avesse “né padrini né padroni” e che si chiamò appunto “La Voce” in ricordo di quella di Prezzolini, maestro secondo Montanelli, soprattutto di “libertà e indipendenza”.

27 luglio 2018

MACULAE Una profonda raccolta di poesie di Capodiferro Egidio a cura di Vincenzo Capodiferro


MACULAE
Una profonda raccolta di poesie di Capodiferro Egidio, in cui si rivela il mistero dell’Uomo-Natura

Maculae” è una raccolta di poesie di Capodiferro Egidio, pubblicata da Iemme, Napoli 2018. L’opera consta in tre sezioni ed è inframezzata da schizzi, disegni e canovacci dell’autore. Egidio Capodiferro, di origine lucana, insegna nella scuola dell’infanzia e quando non è impegnato coi suoi meravigliosi alunni si dedica alla scrittura. Ha pubblicato romanzi, testi teatrali, raccolte di racconti e poesie. “Maculae” indica appunto le macchie d’inchiostro, che cadute sul foglio prendono corpo in svariate forme, di disegni, di schizzi e di versi … Vi si esprimono paesaggi luminosi e naturalistici, già propri della poetica del Capodiferro, e che si ricollegano a “Modulazioni sul verde”, Eracle 2017, come in “Cuore verde”: «Raggiunta l’antica boscaglia,/ m’inoltro calpestando boccoli di sole … Adesso io e te siamo soli:/ il cuore mio al tuo verde s’incaglia». Vi si nota quell’esperienza panica di fusione mistica con lo Spirito della Natura. Schelling esclamava: la Natura è lo Spirito visibile, lo Spirito è la Natura invisibile. Non mancano quei tocchi d’ironia, quasi surrealista, come in “Sole”: «(Dei pianeti sei l’abat-jour/ nell’universo buio)»; o in “Luce e tenebre”: «Mi ricorda il vello delle zebre …» e c’è il disegno di un uomo zebrato! Egidio riesce ad usare in maniera eccentrica il sottofondo simbolista per esprimere inverosimilmente i “paesaggi dell’anima”. Nelle altre sezioni poi il fluire dei versi da ermetico diviene più riflessivo, meditativo, fino a trasfigurarsi in esperimenti di prosa poetica. È come un fiume che all’inizio scorre dalle montagne più “rapido e violento” (proprio come il tempo, di cui diremo in seguito) e poi scendendo a valle, man mano rallenta in sinuose curve, fino a spargersi nel mare. La poesia dal Novecento in poi – come sappiamo – si è liberata dai canoni metrici, che conservava, anche fino a Leopardi, sebbene non lo schema delle rime. La poesia diviene espressione di uno stato esistenziale, diviene voce del profondo, quasi un effluvio di freudiane “libere associazioni”. Anche gli schizzi che sono inframezzati nel testo rispondono a questa profonda esigenza: essere espressione dei più reconditi meandri dell’anima. Sotto il “velo di Maya” – tanto per usare una figura schopenhaueriana – vi sono infiniti altri veli, tanti che mai s’arriva a quel fatidico “fondo dell’anima” che affascinò così i mistici del medioevo ed anche i Romantici. Il fondo dell’Anima è l’Assoluto interiore che si riflette nell’Assoluto esteriore che si estrania quasi nella Natura e si ricongiunge nel mistero. Questo è il profondo messaggio che la poesia del Capodiferro vuole esprimerci. Vediamo alcuni esempi: «Vieni,/ andremo per deserti sopra seni/ di sabbia, giocattolo del vento bambino;/ …». O ancora: «Vieni,/ andremo sopra rotaie di foglie,/ treni dentro il bosco più folto, caverna verde,/ a remare con le orecchie sul pentagramma …». O «Vieni, andremo nelle cave della gioia a rubare qualche spicciolo di felicità … ». O ascoltate ancora questo piccolo ricordo dannunziano: «Silenzio! E forse tacendo si ode un qualche sussurro/ del tempo dove io scorro!». Solo che quel dannunziano -Taci! - Odi! Odo! Qui racchiude non tanto un esperimento estetico, ma quasi mistico, riflessivo, religioso, misterico, per così dire. Il silenzio cosmico è lo sfondo ove auscultare le vibrazioni dell’Assoluto che si dispiegano nell’immenso mare della temporalità, in quel lapsus universale che possiamo esprimere forse con due drastiche parole eraclitee: Panta Rei! Tutto Scorre! e noi scorriamo insieme a questo immenso fiume che è il tempo. Noi siamo tempo. Il tempo non è qualcosa fuori di noi, anche se viene proiettato in un’estensione spazializzata. Ma come ci ricorda Bergson il tempo spazializzato non è il vero tempo, ma è quello agostiniano della durata e quello che esplode nelle estasi – uscite fuori di sé – del passato-presente-futuro, cioè memoria-intuizione-attesa. «Noi siamo gli ingredienti del tempo rapido e violento …». “Maculae” è uno scrigno di effusioni amorose e passionali, che rivelano l’ancestrale amplesso dell’Uomo con la grande Madre, la Natura vivente in noi, con noi e per noi.
Vincenzo Capodiferro

25 luglio 2018

MINUTE DI PASSAGGI DI TEMPO Paesaggi narrativi metatemporali di Italo Arcuri a cura di Vincenzo Capodiferro


MINUTE DI PASSAGGI DI TEMPO
Paesaggi narrativi metatemporali di Italo Arcuri

Minute di passaggi di tempo” è una raccolta di racconti di Italo Arcuri, edita da Emia, nel 2017. L’autore di Sant’Agata di Esaro, giornalista e scrittore impegnato nel sociale, ha già prodotto diverse opere, tra cui segnaliamo le più recenti: Ambrogio Donini e la storia delle idee (2016); Il Rifiuto. Riano, parole e immagini di una lotta di popolo (2016); Memme Bevilatte salvata da Teresa (2014); Il corpo di Matteotti (2013). “Minute” è un lavoro straordinario - a parte l’assonanza con “minuti”, per cui si ha la stessa radice etimologica che indica frammento, minimo - in cui l’autore ci offre dei paesaggi dell’anima, proiettati in un locus letterario a-spaziale e atemporale, o meglio metatemporale. “Passaggi di tempo” indica infatti uno sfondo di proiezione introspettiva diacronica, in cui la temporalità, con tutte le sue estasi - qui rammemoriamo il paesaggio heideggeriano che si perde nella “Radura”, nell’”Orizzonte” - si dispiega invece in una rappresentazione unitaria, in cui vengono riportate tutte le fratture, o le continuità temporali intensive, proprio come in un marcato paesaggio impressionista. Come gli impressionisti dipingevano en plein air non la realtà così come è, ma come viene percepita dall’occhio dell’artista, così fa Italo in questo esperimento narrativo, in cui vengono giustapposte esperienze passatiste e futuriste, verosimili e realistiche. Il tempo, come diceva Bergson, non è dato dalla semplice successione spazializzatrice matematica, ma dalla durata. È l’anima la misura del tempo, come asseriva il grande Stagirita. Il tempo è il vero vissuto coscienziale, l’erlebnis. Nel mondo dell’inconscio - come aveva intuito Freud - non vi è la dimensione temporale ordinaria, ma quella straordinaria, diacronica, metatemporale. La durata di Bergson ci rimanda direttamente a questo spazio-tempo dell’anima, che dai tempi di Agostino fino a Freud diviene il “Fondo dell’anima”, come lo descrivevano i Romantici, riprendendo un’accezione tipica dei mistici medievali. Poi vi sono intermezzi poetici significativi, come “Il mio papà”: «Dava del tu al legno,/ lavorando a testa bassa con riguardo/ Amava sua moglie con sentimento carico/ levigando affetto e premura …». Ma guardate ai racconti: la storia di Elsa, questa scrofa che viene uccisa nei ricordi dell’infanzia tra lo strazio dei bambini che le si erano affezionati, o la storia di Jamal, il migrante inghiottito da questo mare famelico, il Mediterraneo, o tanti altri! I racconti sono per la maggior parte drammatici. In questo esperimento si risente naturalmente l’indole tipica degli scrittori sudisti, tra le “sudate carte”. Come in leopardiani “idilli” che cominciano in gioia e finiscono in noia, o dolore i racconti di Italo trasudano un velato pessimismo verista, che sa di Verga e di Capuana, anche nelle proiezioni futuristiche, come in “Il sonno preservato”, storia di questa ragazza morente che richiede al giudice inglese di farsi ibernare, cioè eternare come un(a) “Galata morente”. Non vi è neppure l’illusione del “Velo di Maia” che a Schopenhauer concedeva veramente dei sollazzi dal dolore. Italo tocca varie tematiche forti, come il terremoto di Amatrice, il bullismo, le patologie, etc. E le tocca con lo stesso piglio storico-giornalistico. Italo fa il giornalista con se stesso. È bello questo esperimento di auto-giornalismo o auto-storicismo. D'altronde non dimentichiamo che giornale deriva da “giorno”, cioè riportare alla luce, all’attualità. Italo ritrae l’esperienza forte del dolore, di quel fantomatico “male di vivere” che ha accompagnato una folle folla di nostri letterati del Novecento. Ci soffermiamo soltanto in alcuni aspetti, che in particolare ci hanno colpito nella lettura di Minute. Innanzitutto “L’eredità di un difetto”: «C’è chi nel corso dell’esistenza eredita case, palazzi e soldi e chi invece riceve in lascito la sordità. Quando mi è stata diagnosticata l’otosclerosi ci sono rimasto male, …». Ecco che con stile libero, sciolto, efficace, chiaro l’artista si lamenta del proprio dolore, un dolore lancinante, ma un dolore altrettanto prezioso, noi diremmo, nel segno della Provvidenza: Beethoven era sordo … eppure! E Goya? Anche i difetti, le imperfezioni, seppure ereditarie sono tanto preziose nel complesso dell’economia olistica dell’universo. Sono queste piccole differenze che nella natura di tutte le cose avvalorano le varie essenze, anzi le imperfezioni provocano perfezioni maggiori. I più bassi, come Napoleone, Attila, Stalin, Mozart ed altri diventano alti, etc. Si ha una metamorfosi, che non è solo “complesso di inferiorità”, come se Adler avesse ridotto il mondo ad una congerie di impotenti: tutti afflitti dal complesso di impotenza, altro che “volontà di potenza”! Un altro aspetto su cui vogliamo fare una riflessione è dato da “Chi è del Sud”: «Chi è del Sud, di tutti i Sud del mondo … Chi è del Sud, di tutti i Sud del mondo, sa più di ogni altro cos’è l’affetto, l’attenzione e la presenza …». Anche qui l’autore rimarca la propria sudità, che è parallela a sordità, etc. Ma la sudità diviene l’essenza del mondo, il “Sale della Terra”, il sole, la solarità. È perché c’è quel male, che non è solo male morale, ma male fisico, anche metafisico, riprendendo Agostino, che il bene diviene così prezioso ed attento alle nostre esigenze. Il Bene precede il male e lo valorizza, lo impreziosisce per la redenzione sociale del debole, del vinto. La voce dei deboli così diviene forte, e quella dei vinti vincitrice. Il messaggio forte di tutti i pessimisti in verità ci dice il contrario: il male si trasfigura in bene. La Ginestra resiste sulle falde dello Sterminator Vesevo e se ne frega di tutta la languente social-catena degli afflitti. E coi suoi fiori ci deride. «Ecco, io sono più forte di voi, rammolliti!». La Natura provvede sempre a se stessa, supera ogni male e il tutto va avanti, sempre, sempre! L’essere del Sud è “per natura” un tale essere. L’approccio positivistico, o neopositivistico delle razze/classi/civiltà, chiamatele come volete, sempre in perenne lotta tra di loro, qui viene perennizzato in un “Sud di tutti i sud”. Chi è del sud è marchiato a vita, è come Rosso malpelo, o come la scrofa Elsa, destinata al macello, o al naufragio, non vi è nulla da fare. E il naufragar m’è dolce in questo mare, nel Mediterraneo: questa è la vita!

Vincenzo Capodiferro

24 luglio 2018

ANTICHE DEVOZIONI Una raccolta fervorosa di preghiere, inni sacri e raccomandazioni spirituali a cura di Vincenzo Capodiferro


ANTICHE DEVOZIONI
Una raccolta fervorosa di preghiere, inni sacri e raccomandazioni spirituali

Antiche devozioni” - edito da Cavinato Editore, 2018 - è una raccolta di preghiere, di inni sacri, di raccomandazioni spirituali, fervorini ed altri esercizi di pietà. Si tratta di un’antologia di diversi autori, accomunati dal senso della pietas christiana. Non dimentichiamo che esiste un Illuminismo cristiano che fa capo all’Illuminazione di Sant’Agostino, un’illuminazione un po’ diversa, ma simile a quella del Buddha. Simile perché quella cristiana parte dallo sforzo umano, tendente perennemente all’Homo Homini Deus e giunge all’incontro divino, del Signore che scende dall’alto, il tutto congiungentesi nel nexus crucis, la follia crucis da Erasmo a Kierkegaard. Il cammino è sempre bipolare, non unilaterale: è l’uomo e Dio che si muovono congiuntamente, l’uno verso l’altro, nell’infinito abbraccio d’amore, simboleggiato dalla Croce, incontro paradossale tra orizzontale-umano e verticale-divino. Non dimentichiamo poi che ci sono sempre gli Homo Homini Lupus ed i peggiori sono quelli travestiti da agnelli. L’Illuminismo cristiano a differenza dell’Illuminismo storico non fa capo solo alla luce della Dea Ragione, ma anche e soprattutto alla luce del Cuore. Feuerbach scriveva: L’uomo nella preghiera adora il suo stesso cuore. Ma non ha capito? Aveva proprio ragione! Perché è il cuore dove dimora Dio stesso: Noli exire! Redi in te ipsum. In interiore homini habitat Veritas. Tra questi scritti raccolti ricordiamone alcuni: le “Preghiere cristiane” di un’anonima devota trentina. È una donna di fede che prega col cuore. E questo è l’importante: la preghiera del cuore, che ci ricorda da lontano gli antichi Padri! Ricordare significa “memoria del cuore”. Se non si ha prima amato, non si può riportare alla memoria; ricordiamo ciò che abbiamo amato e ciò che abbiamo amato è indimenticabile, si sedimenta nel cuore, che è anche la sede di quel famigerato “Inconscio” o “Es” di freudiana memoria. La preghiera diventa sfogo dell’anima, non semplice gioco di parole: questo popolo mi onora colle labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Ecco il senso vero della pietas christiana. Questo pietismo cui anche il grande Kant fu educato, - prima che si ribellasse ad esso col razionalismo critico - non è vuoto devozionismo, ma vera devozione. Quando prende il sopravvento la ragione, il cuore viene soffocato dalle spine, dai roveti. È come il seme gettato tra le spine del mondo o in mezzo alla strada, che viene divorato dagli uccelli del bosco. Eppure Dio è un seminatore speciale! Quale seminatore va a buttare i semi in mezzo alle spine, o sulla strada, o ai bordi delle strade? Facciamo come Mussolini che faceva piantare il grano ai bordi delle ferrovie! Eppure Dio vuole sprecare il suo seme! Semina dappertutto. “Le parole sono semi” tanto più la Parola, il Logos. Apollo ha distrutto la preghiera dionisiaca, quella del cuore, tanto per usare una terminologia nietzschiana. Ecco perché “Dio è morto!”, perché è morto il cuore, il dionisiaco che c’è in noi e non amiamo più Dio, e di conseguenza non ci amiamo più veramente, perché, come sosteneva Barth: l’inoggettivabilità di Dio porta inevitabilmente all’insoggettivabilità dell’io. Poi un altro scritto da cui sono tratti i testi è “Orazioni secrete della Santa Messa” del 1796. Le preghiere sussurrate, quasi runiche (“Runa” significa sussurro, non è il caso di ricordare ”L’uomo che sussurrava ai cavalli” di Evans), si dovevano recitare in segreto, seguendo le varie parti della celebrazione e della liturgia della messa. A corredo vi sono delle raccomandazioni di un padre spirituale che si rifà alla scuola del grande San Francesco di Sales. E riprendendo questo Santo che paragonava la Religione a un grande campo pieno di fiori: noi abbiamo raccolto nel campo questo mazzetto, un’antologia, che significa appunto “raccolta di fiori”, per offrirla al “viandante sul mare di nebbia” dell’uomo d’oggi. E San Francesco cita nella Filotea l’esempio classico di Glicera, questa bellissima florivendola, che prendeva sempre gli stessi fiori li disponeva in modo diverso tanto da averne diversi mazzi e da incantare il pittore Parrasio. Così sono questi fiori che abbiamo raccolto. Ringrazio veramente di cuore l’editore Cristian Cavinato che ci ha accolto un piccolo scrigno di spiritualità cristiana, che già ha visto alle stampe “Teodicea” e “Golgota”. L’uomo occidentale, che vive fortemente questa esperienza del “tramonto”, si rivolge, dopo il vuoto incolmabile del Parricidio collettivo: la “morte di Dio!” alle religioni orientali, alla spiritualità pagana, a tanti altri filoni. Eppure non sa che si perde! Ha davanti agli occhi questo campo di fiori della spiritualità cristiana. Cosa ha invidiare la mistica cristiana di una Teresa d’Avila o di tanti altri, che non stiamo qui a menzionare, alle mistiche orientali, o alle mistificherie farraginose e nebulose che circolano oggi nel “mare di nebbia”, che ha perso lo sguardo verso l’Infinito? Eppure noi abbiamo gli occhi impappinati di ricotta: ci piace di più la mistica orientale, è più bella, va più alla moda! E ci siamo dimenticati totalmente di Cristo, tanto è vero che il Re si è stancato ed invita alle nozze gli storpi, gli zoppi, d tutti quelli che erano lontani, perché i vicini non vedono più. Gli inni sacri sono tratti da un poeta monzese: Deponti Paolo, “Strenna Sacra” del 1844. Di lui possediamo un poema “La Gerusalemme conquistata”, non riportata in questa raccolta. Questo poeta, poco conosciuto, è menzionato come “studente” tra gli associati nelle “Memorie storiche della citta di Monza” del canonico Antonio Francesco Frisi del 1841. Sicuramente è stato trai frequentatori dell’illustre scuola fondata da Bartolomeo Zucchi per poveri ragazzi, la quale divenne ufficialmente liceo classico nel 1871. Affidiamo allora questi fiori al gusto dell’uomo di oggi, sempre più frastornato da internet, dai social, sempre più immerso in un mondo virtuale, ma che si sta allontanando poco a poco dalla vera virtù. Questi fiori mai appassiscono, ma non perché sono secchi, ma perché sono sempre vivi, sono fiori viventi, tracce della Bellezza, quella bellezza che fece esclamare al vecchio Agostino: «Tardi ti amai, bellezza, sempre antica e sempre nuova!».

Vincenzo Capodiferro

23 luglio 2018

Cascini "Il girotondo" a cura di Vincenzo Capodiferro


CASCINI. “IL GIROTONDO”
La voce poetica di un preside che ci racconta la sua vita “tra primina e buona scuola”.

Il Girotondo. Tra primina e buona scuola … nella Lucania” è una raccolta di poesie scritta da Prospero Antonio Cascini, edita da Monetti nel 2018. È la voce poetica di un preside che ci racconta appunto la sua vita dalla “primina” alla “buona scuola”, con cui conclude la sua lunga carriera didattica. Il Cascini è nato e vissuto in Lucania e divenne preside giovanissimo, a soli 34 anni. Psicologo con perfezionamento in psicopedagogia presso l’Università degli Studi di Torino, inizia la carriera come preside ad Oppido Mamertina e poi prosegue in Basilicata, ove «matura esperienza di dirigenza in scuole di ogni ordine e grado». Come scrive nella prefazione il giornalista e scrittore Antonio Sarno: «Due immagini fotografiche raccontano il percorso poetico di Prospero Cascini. La prima lo vede “coi pantaloncini corti” “tra botole, scale, bauli, zollette di zucchero come viatico e tanto affetto” affrontare con il cugino coetaneo la primina nella spartana stanza del maestro … La seconda, invece, non contiene figure umane …. Ma soltanto una frase autografata: “affinché la Nostra Scuola sia sempre eguale a se stessa, ma diversa …». Proprio toccante questa immagine della Nostra Scuola che si contrappone alla Buona Scuola! E chi ne sa di più della scuola se non i presidi, gli insegnanti, il personale di ogni tipo, gli allievi, i genitori, in pratica chi ci vive nella scuola? Una scuola “sempre eguale a se stessa, ma diversa!”. Il “Girotondo” è un gioco che alla fine vede “tutti giù per terra”! «Sarà/ trofeo,/ patire,/ gioire,/ il girotondo della vita/ come/ la severa/ umanità/ dei bambini». Il verso centrale “il girotondo della vita” ci fa riflettere appieno sul senso che il Cascini vuole trasmetterci in questa raccolta. Noi nella nostra vita, pervasi sempre da quello spirito del “fanciullino” del Pascoli giochiamo con quella “severa umanità”. «E Spingersi a terra non sarà sconfitta». Quel tutti giù per terra! rappresenta il fine/la fine di tutta la nostra esistenza, come un heideggeriano essere-per-la-morte. Il fanciullino è l’ideale tragico, ed è anche paradossalmente l’ultima meta delle metamorfosi dell’uomo-oltre-super-uomo di Nietzsche. Ma questo fanciullino viaggia trai confini dell’inetto e dell’eroe, proprio come diceva il filosofo: l’uomo trafila su di una corda tesa, tra la belva e il superuomo. Il Cascini è il cugino di un altro poeta-vate: Valerio, che vive a Torino, proprio in quella città ove il filosofo tedesco vide offuscarsi la mente. E proprio nei nostri paesi ancora il poeta conserva pienamente il suo titolo, che D’Annunzio ancora sognava, come agli antichi tempi greci: il vate. Il poeta è l’oracolo dell’Infinito, dell’Assoluto, colui che detta i vaticini. Nosce te ipsum! Ne sa qualcosa Teresa Armenti - amica e dipendente anche per molti anni del Cascini - che come Saffo, canta il suo ultimo canto: «E tu che spunti/ Fra la tacita selva in su la rupe,/ Nunzio del giorno». La poesia, voce acclamante della dionisiaca Venus lucifera, annunzia il giorno - l’Apollo della vita. La “tacita rupe” ha a che fare coi nostri monti selvaggi: Castelsaraceno, di cui l’Arcieri scriveva: di orrendevole aspetto, di angusto orizzonte. Ma da quell’angusto orizzonte sono usciti pastori e dietro di loro i cantori, i poeti. I versi del Cascini con stile tra ermetico e simbolista, delineano vari aspetti dell’esistenza dell’erlebnis - come lo definivano gli storicisti - del vissuto. Quello stile ironico e laconico, fescennino, lucanico, come per dire da “fabula atellana” è tipico del Cascini. Come ad esempio “La politica”, di cui molto ne sa, molto ne ha sofferto (anche insieme a me che mi ero candidato con lui): «Ti copre con/ un mantello multicolor/ ti toglie il respiro». Come ad esempio “La scuola”, di cui ne coglie i profondi meandri: «Correre per arrivare./ Tempi morti da rispettare». Due versi e ti dicono tutto! O “I consigli di classe”: «Atteggiamenti costruiti/ alla bisogna./ Comportamenti/ lisi dai ricordi./ Sguardi infiniti e finti». Pochi versi, densi, pregni, significativi, ti dicono tutto, senza spreco di parole! Questo è lo stile del Cascini! E lui di scuola ne sa tanto, perché ha vissuto sempre là: dalla primina, appunto, alla buona scuola, sempre! Oppure “La Buona Scuola”: «Al tempo/ della rivoluzione annunciata/ senza rivoluzionari/ tutto finì». O “whatsApp”: Silenzio …stampa/ … Non profumerà più l’inchiostro/ di una pagina stampata/ da un qualsiasi tipografo/ magari esodato». Guardate i giovani di oggi, che Cascini vedeva trai banchi, gli stessi banchi della sua primina del ‘56: anche a due metri comunicano col cellulare! Un’ultima cosa: in copertina è riportato un bel dipinto sui Sassi di Matera di Filippo De Marinis, in quarta di copertina, invece, tra le altre immagini c’è una foto: “Il Preside con il suo primo alunno laureato”. Quell’alunno, che allora fu premiato dal Cascini ero io: grazie di cuore, Preside, per tutto!

Vincenzo Capodiferro

17 luglio 2018

Montanelli: il coraggio dell'esempio a cura di Angelo Ivan Leone

MONTANELLI: IL CORAGGIO DELL'ESEMPIO di Angelo Ivan Leone

Indro Montanelli smise di essere fascista nel 1936-1937 all'inizio della campagna di Spagna, quando il Fascismo, dopo la campagna di Etiopia e le sanzioni, aveva raggiunto il massimo del suo consenso. Premesso questo e cassata quindi, la stucchevole pregiuziale fascista, c'è da aggiungere che per questo suo rifiuto al Fascismo Montanelli pagò con l'ostracismo e con l'esilio in Estonia. Tornò alla ribalta grazie alle cronache fatte sul Corriere della Sera della guerra tra Finlandia e URSS e da allora iniziò la sua parabola come giornalista più amato dagli italiani, tanto che lo definirono: il principe. Montanelli pagò il suo rifiuto al Fascismo con la condanna a morte che gli diedero i nazisti che lo imprigionarono nel carcere di San Vittore e, dal quale, solo fortunosamente riuscì ad evadere. Montanelli pagò, ancora di più se è possibile, il suo rifiuto al Comunismo con le 4 pallottole che i brigasti rossi gli spararono mentre si recava alla sede del Giornale da lui diretto e fondato per 20 anni. Montanelli, dopo svariati anni, perdonò i suoi sicari e strinse loro la mano perché, frase sua, indimenticabile: con i nemici sconfitti si brinda. Montenelli pagò il suo rifiuto al berlusconismo lasciando il Giornale da lui diretto e fondato per 20 anni e fondando la Voce. Lasciò la sua creatura editoriale amata e venerata di cui lui era stato padre e bandiera per ricominciare un avventura a 85 anni suonati. Sfido chiunque dei vegliardi attuali di questa macilenta e tremebonda italietta a fare altrettanto. Le opere scritte da Montanelli, la sua storia d'Italia in particolare, ebbero un immenso successo di pubblico e questa fu la sua opera più grande avendo reso un servigio immenso al popolo e alla nazione di cui era un immenso figlio. Il servigio reso fu quello di avvicinare gli uni (il popolo) all'altra (la nazione), quella di aver fatto conoscere la storia del proprio Paese ad un popolo che se ne è sempre strafotutto, proprio perché ha trovato quegli intellettuali di cui fu sempre acerrimo nemico, quasi tutti di sinistra seppur con parecchi soldini, che hanno reso la cultura italiana distante e lontana dal popolo, proprio il contrario di quello che dovrebbe essere e hanno reso lo stesso circuito culturale una sorta di grossa mafia. Come se non ce ne fossero già abbastanza in questo Paese che è mafioso nel suo dna. Sul fatto, infine, che il comunismo di Mosca, come tutti i comunismi che sono arrivati al potere, fosse: inumano, violento, persecutore e creatore di povertà non è che aveva ragione Montanelli, è stata la storia a dimostrarcelo, altrimenti non si spiegherebbe il perché il comunismo sia imploso dal di dentro, lasciando partita vinta al regime capitalista che non è certo il paradiso in terra, eppure si è rivelato, alla prova dei fatti, migliore e più duraturo del regime nato in URSS. Per quanto riguarda la sua prosa che era semplice, pulita e bellissima io mi auguro che anche uno solo, uno soltanto dei tanti soloni e intellettuali engagé e non, che abbiamo in Italia, sappiano scrivere bene anche solo la decima parte di come scriveva Montanelli e, sopratutto, che abbiano anche solo un millesimo delle palle che aveva lui.
Indro Montanelli smise di essere fascista nel 1936-1937 all'inizio della campagna di Spagna, quando il Fascismo, dopo la campagna di Etiopia e le sanzioni, aveva raggiunto il massimo del suo consenso. Premesso questo e cassata quindi, la stucchevole pregiuziale fascista, c'è da aggiungere che per questo suo rifiuto al Fascismo Montanelli pagò con l'ostracismo e con l'esilio in Estonia. Tornò alla ribalta grazie alle cronache fatte sul Corriere della Sera della guerra tra Finlandia e URSS e da allora iniziò la sua parabola come giornalista più amato dagli italiani, tanto che lo definirono: il principe. Montanelli pagò il suo rifiuto al Fascismo con la condanna a morte che gli diedero i nazisti che lo imprigionarono nel carcere di San Vittore e, dal quale, solo fortunosamente riuscì ad evadere. Montanelli pagò, ancora di più se è possibile, il suo rifiuto al Comunismo con le 4 pallottole che i brigatisti rossi gli spararono mentre si recava alla sede del Giornale da lui diretto e fondato per 20 anni. Montanelli, dopo svariati anni, perdonò i suoi sicari e strinse loro la mano perché, frase sua, indimenticabile: con i nemici sconfitti si brinda. Montenelli pagò il suo rifiuto al berlusconismo lasciando il Giornale da lui diretto e fondato per 20 anni e fondando la Voce. Lasciò la sua creatura editoriale amata e venerata di cui lui era stato padre e bandiera per ricominciare un avventura a 85 anni suonati. Sfido chiunque dei vegliardi attuali di questa macilenta e tremebonda italietta a fare altrettanto. Le opere scritte da Montanelli, la sua storia d'Italia in particolare, ebbero un immenso successo di pubblico e questa fu la sua opera più grande avendo reso un servigio immenso al popolo e alla nazione di cui era un immenso figlio. Il servigio reso fu quello di avvicinare gli uni (il popolo) all'altra (la nazione), quella di aver fatto conoscere la storia del proprio Paese ad un popolo che se ne è sempre strafotutto, proprio perché ha trovato quegli intellettuali di cui fu sempre acerrimo nemico, quasi tutti di sinistra seppur con parecchi soldini, che hanno reso la cultura italiana distante e lontana dal popolo, proprio il contrario di quello che dovrebbe essere e hanno reso lo stesso circuito culturale una sorta di grossa mafia. Come se non ce ne fossero già abbastanza in questo Paese che è mafioso nel suo dna. Sul fatto, infine, che il comunismo di Mosca, come tutti i comunismi che sono arrivati al potere, fosse: inumano, violento, persecutore e creatore di povertà non è che aveva ragione Montanelli, è stata la storia a dimostrarcelo, altrimenti non si spiegherebbe il perché il comunismo sia imploso dal di dentro, lasciando partita vinta al regime capitalista che non è certo il paradiso in terra, eppure si è rivelato, alla prova dei fatti, migliore e più duraturo del regime nato in URSS. Per quanto riguarda la sua prosa che era semplice, pulita e bellissima io mi auguro che anche uno solo, uno soltanto dei tanti soloni e intellettuali engagé e non, che abbiamo in Italia, sappiano scrivere bene anche solo la decima parte di come scriveva Montanelli e, soprattutto, che abbiano anche solo un millesimo delle palle che aveva lui.

RONALDO, SCELTA DI CUORE O … DI FISCO? di Antonio Laurenzano

                           
 RONALDO, SCELTA DI CUORE O … DI            FISCO?  di  Antonio  Laurenzano

Italia bianconera nel pallone, è arrivato il Ronaldo Day. Mister “pallone d’oro” a Torino per la presentazione alla stampa. Dal Real Madrid alla Juventus per 112 milioni, guadagnerà 30 milioni netti all’anno per quattro stagioni. Un calciatore che gestisce un impero finanziario ramificato tra Lussemburgo, Jersey, Panama e Isole Vergini britanniche. Una fitta rete di paradisi fiscali per rendere invisibile un patrimonio  sul quale ha indagato il fisco spagnolo accertando una maxi evasione per la quale l’asso portoghese ha patteggiato lo scorso mese una multa di 18,8 milioni. Il potere commerciale del brand CR7 è testimoniato dai social: Ronaldo batte tutti  con 74 milioni di follower solo su Twitter, e oltre 311 milioni se si considerano tutte le piattaforme social. Numeri da capogiro per  il promoter del marchio bianconero nel mondo, un marchio poco diffuso rispetto a quelli dei maggiori club europei. Uomo immagine della Juve del futuro, ma anche fattore di successi sportivi (Champions League?) e finanziari (incassi, proventi, Borsa). Grande attesa fra i tifosi: già vendute dallo store ufficiale Juve più di 500 maglie di CR7. Un rilevante indotto economico.
Nasce nel segno del grande business una delle più importanti operazioni di mercato del calcio italiano. “E’ stato Ronaldo a scegliere la Juventus e a credere nel nostro progetto”, ha dichiarato raggiante nei giorni scorsi l’ad Marotta. In molti , soprattutto club e tifosi avversari, ancora non si capacitano del suo clamoroso addio ai blancos madrilisti con i quali ha vinto ogni trofeo. Non riescono a capire come mai CR7 abbia deciso di trasferirsi nel Belpaese, alla Juventus. Una scelta di cuore? Forse. Ma soprattutto una …. scelta di fisco! Se al cuore non si comanda, nemmeno al conto in banca si comanda dopo una super multa fiscale!
Paese che vai, fisco che trovi. E se il fisco è amico è un vero affare lasciare Madrid e mettere tenda all’ombra della Mole Antonelliana. Sì, è anche una questione di imposte la scintilla che ha fatto scattare il grande amore di Ronaldo per i colori bianconeri della Juventus, grazie a un poderoso assist del fisco italiano. La chiave di lettura è in una norma contenuta nella Legge di bilancio 2017 che, modificando l’art. 24 bis del testo unico delle imposte sui redditi (Tuir), permette a Cristiano Ronaldo di beneficiare di un regime fiscale particolarmente vantaggioso riservato ai “paperoni” che trasferiscono la propria residenza fiscale in Italia. I cospicui redditi del “fenomeno” prodotti all’estero saranno tassati con un’unica imposta forfettaria di 100 mila euro all’anno! Per CR7 una pacchia: un’imposta sostitutiva di una manciata di euro per guadagni milionari da diritti d’immagine, proventi da pubblicità e sponsorizzazioni, redditi di natura finanziaria e immobiliare. Con buona pace del fisco spagnolo! Quando si dice … una scelta di cuore.  

TERRE DESOLATE di Stephen King a cura di Miriam Ballerini

TERRE DESOLATE di Stephen King
(c) 1992 Sperling & Kupfer
ISBN 88-7824-655-7 86-I-99 Pag. 542 € 7,50

Terzo volume della serie La torre nera.
Terre desolate riprende dal cammino di Roland, Eddie e Susannah, alla ricerca della torre nera. Eddie e Susannah fanno loro la causa dell’ultimo cavaliere, e se ne convinceranno ancora di più quando, sulla strada del vettore, aiuteranno Roland a riportare nel suo mondo Jake, il bambino incontrato da Roland alla stazione di posta nel primo volume; in seguito sacrificato dallo stesso cavaliere, per continuare nel suo compito di trovare la famosa torre.
Si unisce a loro Oy, un bimbolo, cioè un incrocio fra una cane semiparlante e un procione. Il quale diverrà amico inseparabile del piccolo Jake.
Nel loro peregrinare, giungono alla cittadina di Crocefiume, ultimo baluardo di vecchi sapienti. Saranno loro a informarli dell’esistenza di Blaine il Mono, un treno che viaggia alla velocità di 800 miglia orarie. Così da poter attraversare le terre desolate.
Arrivati a Lud, Jake viene rapito da uno dei cittadini, uno dei tanti destinato presto a morire, perché sopraffatto da degenerazione fisica in seguito a delle radiazioni. Il bambino verrà ritrovato e portato in salvo grazie a Oy e Roland; mentre Susannah e Eddie, troveranno Blaine: un treno dall’intelligenza umana che tiene in scacco la città e gli abitanti di Lud. Accetterà di trasportare i quattro pellegrini e Oy, in cambio di una serie di indovinelli, la sua passione.
Il finale del libro termina proprio in questo modo, troncato in modo brusco da una frase pronunciata dal treno e che lascia il lettore con una serie infinita di interrogativi: “ALLORA”, esclamò la voce di Blaine. “GETTATE LE VOSTRE RETI, MIEI CAVALIERI ERRANTI! METTETEMI ALLA PROVA CON LE VOSTRE DOMANDE E CHE ABBIA INIZIO LA GARA”.

Nel terzo volume comincia a delinearsi la spiegazione di come mai il mondo di Roland sia andato avanti. Pare in seguito a una catastrofe nucleare, o comunque a delle radiazioni sprigionatesi in seguito a qualche incidente che hanno apportato delle modifiche sostanziali alle persone e agli animali. E proprio in questo, King, dimostra la sua fantasia nell’inventare nuove strane forme di vita.
Come nella maggior parte dei suoi romanzi, sa creare suspence, introducendo personaggi sempre nuovi e particolari. Sa sdoppiarsi, raccontando a tratti , ad esempio, la vicenda di Roland e Oy al di sotto della città, alla ricerca di Jake, e allo stesso tempo procedendo con la ricerca di Eddie e Susannah.
Indubbiamente ci regala delle trovate geniali.

Miriam Ballerini


16 luglio 2018

Shady Show - Corn79, Fabio Petani, Wayne Horse Galo Art Gallery – Via Saluzzo 11/g, Torino a cura di Marco Salvario


Shady Show - Corn79, Fabio Petani, Wayne Horse
Galo Art Gallery – Via Saluzzo 11/g, Torino

Marco Salvario


Dopo la bella mostra dedicata alle opere di Artez, la Galo Art Gallery ha aperto il suo spazio espositivo a tre artisti le cui produzioni, benché frutto di ricerche, studi e interpretazioni personali e autonome, s’integrano e armonizzano in modo sorprendente e piacevole. Le opere sono contrassegnate semplicemente da un numero, da 1 a 33, e si deve consultare un foglio fornito gentilmente all’ingresso con la presentazione della mostra per conoscere autore, titolo, dimensioni e valore iva esclusa; malgrado questo, basta poco esercizio per riconoscere e distinguere un autore dall’altro.
La mostra, dal titolo Shady Show, è aperta dal 9 giugno al 21 luglio 2018.


Wayne Horse




Le opere di questo eclettico artista tedesco, che divide la sua attività in numerosi filoni artistici, sono d’immediato e violento impatto visivo. Due soli colori, nero e giallo oro, che si scambiano tra sfondo e disegno. Immagini che sembrano deformarsi nelle onde dei movimenti e dei suoni, scivolando in atmosfere macabre e decadenti.
C’è vita e dissoluzione, abbandono tragico ai propri sensi. Siamo in un instabile bilico tra sogno, delirio, estasi, allucinazione e, al tempo stesso, ci troviamo a riscoprire quanto delle realtà passate è rimasto nei nostri ricordi.
Atmosfere torbide, che richiamano, scaraventandole nel futuro, le opere di Toulouse Lautrec e, in parte, anche di Degas.


Fabio Petani



Artista torinese che sembra spesso rielaborare l’influenza della pittura cinese floreale. L’interpretazione è raffinata e personale, prediligendo luci e ombre al gioco dei colori. Un sole giallo o rosso o anche blu scuro e nero, come in un controluce violento e accecante, di una precisione assoluta, è quasi sempre uno dei punti focali delle opere, mentre piante e fiori sembrano pagine di un antico erbario, aperte e sovrapposte a una realtà viva.


Corn79



Autore anche lui piemontese, molto attivo a Torino, presenta in questa mostra lavori su metalli realizzati con una nuova tecnica realizzativa. Il risultato, diciamolo subito, è vincente. L’armonia delle linee e dei tratti viene impreziosita da colori che a volte sembrano brillare di luce propria, gli sfondi rendono una spazialità indefinita di livelli. Il pensiero vaga libero in uno spazio limitato e si perde in suggestioni e ricordi. Io, ad esempio, mentre osservavo, ho pensato ad antiche pitture rupestri, a fossili prigionieri negli strati della pietra, a frammenti di antichi vasi greci, ma nulla impedisce di lasciarsi trasportare in una dimensione futura di spazi e nuovi mondi.


10 luglio 2018

PENSIONI, QUALE FUTURO? di Antonio Laurenzano

        PENSIONI, QUALE FUTURO?
                 di  Antonio Laurenzano

“L’occupazione è salita, ma servono ancora i migranti per pagare le pensioni. Pochi giovani al lavoro e troppi anziani in pensione.” La relazione del Presidente dell’Inps Tito Boeri per la presentazione del XVII rapporto annuale fotografa un quadro preoccupante dell’Italia: un Paese in cui povertà e precarietà aumentano, un Paese in calo demografico che invecchia al punto che “il sistema pensionistico rischia di saltare senza il contributo degli immigrati”. Oggi abbiamo circa 2 pensionati per ogni 3 lavoratori, ha ricordato Boeri, un rapporto destinato a peggiorare con la cancellazione della Legge Fornero e il ripristino delle pensioni di anzianità. Un’operazione pericolosa per la tenuta dei conti pubblici: 750.000 nuovi pensionati e una spesa annua a regime di 18 miliardi. L’abbassamento dell’età pensionabile, contraendo l’occupazione, riduce il reddito netto dei lavoratori per l’aumento del cuneo fiscale, con ricadute sul costo del lavoro. Uno scenario che rende incerto il futuro del sistema pensionistico “in grado di reggere solo con maggiore occupazione e con l’adeguamento automatico dell’età pensionabile alla longevità.”
Da queste premesse, l’invito del presidente dell’Inps al Governo a “pensare al futuro”, a riflettere sulla fuga all’estero di tanti giovani, a programmare scelte di politica socio-economica legate all’andamento demografico. La popolazione italiana, nell’arco di una sola legislatura, potrebbe ridursi di circa 300.000 unità e, osserva Boeri, “dimezzando i flussi migratori, si appesantirebbe il già precario rapporto fra popolazione in età pensionabile e popolazione in età lavorativa.” Una tesi fortemente contestata dal ministro Salvini: “Boeri vive su Marte”! Secca la replica del … “marziano”: “La storia ci insegna che quando si pongono forti restrizioni all’immigrazione regolare, aumenta l’immigrazione clandestina e viceversa e il nostro Paese ha bisogno di aumentare quella regolare per i tanti lavori per i quali famiglie e imprese non trovano lavoratori.” Nel lavoro manuale non qualificato sono oggi impiegati il 36% dei lavoratori stranieri in Italia, contro solo l’8% dei lavoratori italiani.
Messaggio chiaro che fa luce sulle tante ombre di un sistema previdenziale lasciato per anni in balia degli interessi elettorali dei partiti e che vuole ora misurarsi, responsabilmente, con le proposte legislative, perché “previdenza significa visione a lungo termine, tutela del risparmio tanto nell’orientare le scelte individuali quanto nel valutare le scelte collettive attraverso  l’azione dei governi.” Questione di civiltà giuridica e di equilibrato “welfare state”.  

06 luglio 2018

RIFLESSIONI SULL’INDIVIDUALISMO a cura di Franco Carenzo




LAGART
LABORATORIO FILOSOFICO ARTISTICO
ALOISIANUM – GALLARATE

RIFLESSIONI SULL’INDIVIDUALISMO

“Individualismo non è solo disordine ... è guardarsi negli occhi e non incontrarsi … ognuno cerca solo di salvare se stesso … ma in un pomeriggio piovoso entra un raggio di sole.”1

Il testo “Il disagio della modernità” di Charles Taylor esamina alcune forme di disagio presenti nella nostra epoca che hanno origine nella modernità, soprattutto la perdita di punti di riferimento morali dovuto ad un individualismo egoista.
Sul Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano troviamo la seguente definizione di individualismo:
“Ogni dottrina morale o politica che riconosce all’individuo un prevalente valore di fine (non assoluto altrimenti sarebbe anarchia) rispetto alle comunità di cui fa parte”. È una reazione all’assolutismo degli stati moderni, ai privilegi nobiliari, ed anche al fanatismo religioso.
“È il fondamento teorico che il liberalismo politico si è dato al suo primo affacciarsi nel mondo moderno… È il fondamento del liberismo economico, proprio della scuola classica dell’economia, è la lotta contro l’ingerenza dello stato negli affari economici e la rivendicazione all’individuo dell’iniziativa economica. Vien connotato come “egoismo” perché voleva che le attività economiche si svolgessero secondo le direttive dell’interesse privato”.
Se l’individuo ha un prevalente valore di fine rispetto alle comunità di cui fa parte, è evidente che non si può non giungere alla libertà di coscienza e di pensiero.
Si può comprendere la nascita dell’individualismo. Si può anche riconoscere la funzione di iniziativa economica, di dinamismo sociale e culturale svolta grazie a questa visione, ma oggi non si possono non vedere anche i limiti di essa: eccessive diseguaglianze economiche, materialismo pratico, catastrofe ecologica incombente, difficoltà e violenze nelle relazioni interpersonali. ecc.
Talvolta si può correggere un errore con un altro errore, ed è proprio quello che è accaduto! Al posto di statalismo e privilegi: l’individualismo borghese!

L’individualismo, caratterizzato dalla scissione tra natura e cultura (intesa anche come tecnologia), dalla valorizzazione eccessiva della cultura a scapito della natura, da un predominio esagerato della ragione sugli istinti o dalla non integrazione di questi ultimi con la personalità, ha raggiunto livelli mai visti.
Siamo troppo soli: “c’è un modo di essere assenti, pur con tutta la nostra presenza. Nell’atto di non guardare, di non ascoltare, di non toccare l’altro, lo spogliamo sottilmente della sua identità; siamo con l’altro, ma lo ignoriamo, questa squalifica, cosciente o inconscia, racchiude la patologia dell’individualismo”2.
Occorre un’aperta trasgressione dei valori culturali contemporanei, e della società dei consumi per restaurare nell’essere umano il vincolo originario con la natura, i nostri simili, e Dio.
Non basta una mera riformulazione dei valori, bensì una trans-culturazione: un apprendimento a livello affettivo e comportamentale.
L’amore non è solo una parola: occorre sentire l’altro come parte di te. Quando stanno uccidendo delle persone, stanno uccidendo te.
Affettività è la capacità di creare connessioni con se stessi, gli altri e l’universo. È capacità d’incontrare l’altro a partire dall’empatia.
Gli esseri umani hanno bisogno di esser nutriti con emozioni che fanno rinascere la loro identità.

Come cambiare il mondo senza cambiare noi stessi? Nel cercare le cause del fallimento delle rivoluzioni sociali è necessario considerare che le persone che le hanno promosse non avevano realizzato in se stesse il necessario processo evolutivo personale. Le trasformazioni sociali possono condurre a esiti positivi solamente se hanno origine da un contesto “sano”, e non da nevrosi o da risentimento, altrimenti avranno il solo effetto di sostituire una patologia con un’altra.
La gente vive nel suo piccolo mondo, per questo l’abbraccio è un atto politico.
Verranno tempi migliori: il destino dell’uomo non è accumulare denaro e sviluppare tecnologia, ma l’amore.

Un altro aspetto importante della modernità è la difesa della libertà di coscienza e di pensiero come reazione all’intolleranza. Il cattolicesimo è stato visto, purtroppo spesso a ragione, come una forma di fanatismo religioso che ha portato chiusura mentale, indottrinamento, stagnazione culturale, guerre. Ancora oggi quando si è molto cristiani, si viene percepiti come dogmatici. Il cristianesimo però non è un’ideologia, un apparato concettuale, ma è un’esperienza spirituale che salva.
Si è creato il “relativismo morbido”. Esso sta a significare che non esistono valori assoluti, sulla base del rispetto reciproco; viene definito morbido perché almeno un valore assoluto c’è: il rispetto delle idee altrui.
Ci sono due forme di questo “atteggiamento”: una “popolare” ed una colta. Taylor non descrive la prima, ma si può ragionevolmente pensare che sia quella basata su frasi come: “ognuno la pensa come vuole”. La seconda ha una base filosofica e porta spesso ad una sorta di nichilismo.
Gli studenti sono il punto di giuntura tra cultura popolare e alta cultura. In essi, questa teoria rafforza ulteriormente le loro modalità egocentriche e, conferendo una giustificazione, diventa la premessa di una sorta di auto indulgenza morale.
L’esigenza di opporsi al fanatismo religioso, propria dei pensatori illuministici, ha fatto progressivamente smarrire la ricerca di un contatto con la trascendenza. Ma perché privarci di una parte di noi, e propri della dimensione che ci eleva maggiormente?
Invece di difendere il relativismo morbido, dato che nessuno contesta più la libertà di pensiero, non sarebbe meglio ragionare, anche solo da un punto di vista laico, su ciò che rende la vita degna di essere vissuta e su come creare rapporti migliori tra le persone?
In ambito laico non c’è solo il modello dello studente “relativista morbido e auto-indulgente moralmente”, c’è anche la “persona rispettabile” che, a prezzo di tanti sforzi, si è fatta apprezzare professionalmente o socialmente, è riuscita a costruirsi la sua cerchia di amici, ma proprio per questo si sente in diritto di giudicare gli altri. Non è empatica, o meglio: lo è solo con chi vuole. A volte attua deliberatamente strategie distruttive verso qualcuno con la complicità di altri. Fa distinzioni tra le persone. È inconsapevolmente l’espressione dell’individualismo a cui avevamo accennato, però in chiave moralista. La sua moralità è una forma mascherata di autoaffermazione. Sa essere scaltra. Anche questo è un tipo umano che deve essere superato perché non percepisce di avere legami con tutti gli altri simili, crea implicitamente gerarchie, distinzioni ed esclusione tra le persone, e quindi sofferenza.

Un detto popolare dice: “quando la gente non ce la fa più , si rivolge al buon Gesù”. Come mai l’incontro con Cristo avviene spesso dopo periodi di difficoltà esistenziale e non prima? Cosa manca al Cattolicesimo per essere “naturalmente” attrattivo, in quanto sviluppa possibilità di crescita e di realizzazione esistenziale interessanti?

Cosa dire, come dialogare, con chi ha fatto una scelta individualista?
Taylor propone implicitamente di utilizzare il concetto di autenticità: è il risvolto positivo dell’individualismo, di contro all’egoismo che è la sua manifestazione negativa.
Autenticità (o autentico) è un termine utilizzato da Jaspers (insieme a quello opposto e simmetrico di inautenticità – inautentico) per indicare l’essere che è proprio dell’uomo contrapposto allo smarrimento di sé o della sua propria natura, che è l’inautenticità. “l’inautenticità è ciò che c’è di più profondo in contrapposizione a ciò che è più superficiale. Per es.: ciò che tocca il fondo di ogni esistenza psichica di contro a ciò che rimane a livello epidermico, ciò che dura di contro a ciò che è momentaneo, ciò che la persona ha sviluppato contro a ciò che la persona ha imitato o accettato acriticamente. Anche Heidegger riprende questa dualità di concetti, anche se non pone nessuna valutazione preferenziale per una condizione rispetto ad un’altra, e afferma che l’esistenza inautentica è caratterizzata dalla chiacchiera, dalla curiosità e dall’equivoco, che costituiscono il modo di esser quotidiano e “anonimo” dell’uomo.

Il modo di dialogare con chi ha assunto una posizione individualista, utilizzando il concetto di autenticità è quello di affermare che ciò che tutti cerchiamo veramente, anche se non ne siamo pienamente consapevoli, è l’autenticità, perché solo con essa siamo in connessione profonda con la nostra coscienza, abbiamo integrato tutte le dimensioni del nostro essere, senza parti dissociate o in conflitto tra loro. Utilizziamo le nostre facoltà anche a servizio degli altri, riusciamo a dare un senso alla nostra vita, cresciamo come persone, diventiamo creatori di felicità, e di conseguenza quest’ultima “arriva” anche a noi.

“Individualismo non è solo disordine ... è guardarsi negli occhi e non incontrarsi ... ognuno cerca solo di salvare se stesso … ma in un pomeriggio piovoso entra un raggio di sole”3.

Franco Carenzo

1 Rolando Toro
2 Rolando Toro
3 Rolando Toro

PER UNA LETTURA DE’: “IL DISAGIO DELLA MODERNITA’” di Charles Taylor a cura di Franco Carenzo



LAGART
LABORATORIO FILOSOFICO ARTISTICO
ALOISIANUM – GALLARATE

PER UNA LETTURA DE’: “IL DISAGIO DELLA MODERNITA’”
di Charles Taylor

Questo testo del filosofo canadese Taylor, pensatore dichiaratamente cattolico, esamina alcune forme di disagio presenti nella nostra epoca che hanno origine nella modernità. Da qui il titolo.
I tre aspetti considerati sono i seguenti:
  1. Perdita di senso: venir meno dei punti di riferimento morali, dovuti ad un individualismo egoistico.
  2. Eclissi dei fini, cioè dei valori fondamentali dell’uomo, di fronte al primato della ragion strumentale.
  3. Perdita di libertà: a livello politico, a causa del disinteresse per le questioni che riguardano il bene comune.
Il primo punto è quello trattato più diffusamente. Nella trattazione relativa troviamo il concetto di “relativismo morbido”. Esso sta a significare che non esistono valori assoluti, sulla base del rispetto reciproco; viene definito morbido perché almeno un valore assoluto c’è: il rispetto delle idee altrui.
Ci sono due forme di questo “atteggiamento”: una “popolare” ed una colta. Taylor non descrive la prima, ma si può ragionevolmente pensare che sia quella basata su frasi come: “ognuno la pensa come vuole”. La seconda ha una base filosofica e porta spesso ad una sorta di nichilismo.
Gli studenti sono il punto di giuntura tra cultura popolare e alta cultura. In essi, questa teoria, rafforza ulteriormente le loro modalità egocentriche e, conferendo una giustificazione, diventa la premessa di una sorta di auto indulgenza morale.

Il relativismo morbido ha il pregio di essere il fondamento della tolleranza, ma porta a conseguenze di cui, in genere, non si tiene conto. La più tipica è il soggettivismo morale: le posizioni morali non sono in nessun modo fondate sulla ragione o sulla natura delle cose, ma sono adottate in ultima analisi per il semplice motivo che ci troviamo a subire la loro attrazione. La ragione non é in grado di dirimere le controversie morali. Posso mettere in luce certe conseguenze della posizione di qualcuno, a cui magari questi non ha pensato, ma ciò nonostante se l’interlocutore ritiene di mantenere la sua posizione originaria, è impossibile opporgli qualche altro argomento. Per questo motivo c’è silenzio su ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Il relativismo morbido si autodistrugge. Nell’insistere sulla legittimità della scelta tra certe opzioni, accade che le priviamo del loro significato. Tutte le scelte hanno l’identico valore perché sono scelte liberamente, ed è la scelta che conferisce valore. Ma ciò nega implicitamente l’esistenza, anteriormente alla scelta, di un orizzonte di valori in forza del quale alcune cose sono più ed altre meno importanti, e altre ancora non lo sono affatto.

Taylor cita Allan Bloom che nel libro La chiusura della mente americana assume una posizione severamente critica nei confronti dell’odierna gioventù istruita, il cui tratto principale è l’accettazione di un relativismo superficiale. Ognuno ha i suoi valori di cui è impossibile discutere. Questa non è solo una posizione gnoseologica, una concezione dei limiti che la che la ragione è in grado di stabilire, è intesa anche come una posizione morale: non si devono contestare le scelte e i valori altrui.
Il relativismo è il corollario di una forma di individualismo, il principio è che ognuno ha il diritto di sviluppare la sua propria forma di vita, fondata sulla propria percezione di ciò che è realmente importante; gli esseri umani sono chiamati ad essere fedeli a se stessi, e a ricercare la propria autorealizzazione. In cosa consista ciascuno deve deciderlo da sé. Nessun può o deve dettarne il contenuto.
È l’individualismo dell’auto-realizzazione, molto diffuso nel nostro tempo. C’è una certa retorica che conferisce una patina di splendore a questa vita, ma non contiene nulla di particolarmente nobile; la capacità di sopravvivere ha soppiantato l’eroismo. Non è solo lassismo morale o egoismo: il punto è che molti si sentono chiamati a sacrificare i loro rapporti d’amore, la cura dei figli, per inseguire le loro carriere. Sentono che devono comportarsi così. Le loro vite sarebbero sprecate se si comportassero diversamente.
Vedere i rapporti umani come strumentali all’autorealizzazione individuale è una parodia che finisce col distruggere se stessa.
Il secondo aspetto del disagio è quello legato al primato della ragion strumentale. Questa è quel tipo di razionalità che utilizziamo quando calcoliamo l’applicazione più economica del rapporto costi/prodotto. Il timore è che i fini indipendenti, cioè i valori che dovrebbero guidare le nostre vite, si trovino eclissati dall’esigenza di massimizzare la produzione. Questo avviene quando si giustifica con la crescita economica una distribuzione pesantemente diseguale del reddito, o si creano le premesse per una catastrofe ambientale.
Il terzo aspetto è il disinteresse per le questioni che riguardano il bene comune. È una delle conseguenze dell’individualismo. Dice Taylor a proposito: “L’individualismo impoverisce le nostre vite, allontana dall’interesse per gli altri e per la società. Una società in cui gli esseri umani si riducono nella condizione di individui - rinchiusi nei loro cuori - è una società in cui pochi vorranno partecipare attivamente all’autogoverno… ciò aprirà la strada ad un dispotismo morbido”.

Ma come si può da un lato salvare il sacrosanto principio della tolleranza e dall’altro parlare a ragion veduta di ciò che rende la vita degna di esser vissuta, ossia dei valori? Taylor non chiarisce questo punto, ma qui occorre precisare la distinzione tra livello giuridico e livello teoretico. Da un punto di vista giuridico non si può stabilire per legge che una posizione di pensiero sia superiore ad un’altra, ad eccezione dei principi concordati sui quali si basano le leggi di una nazione. Da un punto di vista teoretico però si può legittimamente pensare che dei valori, una filosofia, una linea politica o una religione siano superiori alle altre, a patto però che questo non autorizzi a imporle, a usare violenza, a creare intolleranza. Gli unici mezzi leciti per diffonderle sono il dialogo e la persuasione, sempre uniti allo spirito critico e autocritico. Se così non fosse non avrebbero senso neppure il dibattito politico e la nozione di bene comune.

La tolleranza era sembrata giustamente l’unica via per uscire dal fanatismo legato alle guerre di religione del 1600. Oggi però, di fronte al disagio di cui abbiamo parlato, è giunto il momento di entrare in una nuova epoca culturale. La lotta contro il fanatismo ha portato alla diffidenza verso le religioni storiche, in modo particolare nei confronti del cattolicesimo. Si è usata la ragione per rischiarare le tenebre dell’intolleranza e si è esaminata la religione in termini puramente razionali. Questo però ha causato anche la perdita della spiritualità. Ma la moralità senza la spiritualità fatica a sostenersi.
Queste considerazioni, essendosi sviluppate in ambito borghese, si sono accompagnate alla ricerca della propria autoaffermazione in campo economico, al liberismo, al capitalismo, all’aumento delle diseguaglianze, allo sfruttamento e all’impoverimento di vaste regioni della terra, all’inquinamento, alla distruzione delle risorse.
Il relativismo morbido ha portato come rovescio della medaglia la spietata ricerca del profitto.

Di fronte a tutto questo: c’è bisogno di tornare a parlare di valori, di costruire un mondo sulla collaborazione e non sulla competizione, di spiritualità per rinvigorire la moralità e per lo sviluppo di tutte le potenzialità dell’essere umano, di solidarietà, di economia “collaborativa” e che non metta al primo posto il profitto, di emozioni rigeneranti e positive, di un contatto che cura. L’esigenza di superare la repressione sessuale non deve portare all’immoralità o alla volgarità, ma allo scoprire il valore “terapeutico” dell’abbraccio e delle carezze e alla ricerca di una maggior intesa all’interno di coppie stabili. La metafora più adatta per esprimere tutto questo potrebbe essere “danzare la vita”, secondo un’espressione di Roger Garaudy.
Ma come iniziare ad “invertire la direzione di marcia”?
A ben vedere l’individualismo può essere inteso non solo come fenomeno amorale, egoismo, atomismo concepito come difesa intransigente dell’individuo isolato dal suo contesto, fenomeno di dissoluzione in cui si perdono i valori e rimane una pura e semplice anomia, dove ognuno bada a se stesso. Potrebbe anche essere la premessa per la ricerca della propria autenticità esistenziale.
È catastrofico confondere queste due specie di individualismo.
L’ideale dell’autenticità ha una forza morale, è un ideale degnissimo, in linea con la cultura attuale e verso il quale occorre né una condanna totale, né un elogio acritico e neppure un compromesso scrupolosamente bilanciato, bensì un opera di ripristino la quale possa aiutarci a rinnovare la nostra prassi.
Anche l’individualista, in fondo, insegue questo valore, spesso non rendendosene neppure conto. L’autorealizzazione è un prodotto pervertito dell’ideale dell’autenticità. L’appagamento non temporaneo che l’individualista cerca veramente è costituito dall’autenticità. Essa è: amicizia vera, amore, integrazione tra sessualità, affettività e spiritualità, scoprire e realizzare il proprio modo originale di essere nel mondo, sviluppare le proprie potenzialità per fare felici non solo se stessi ma anche gli altri, contatto con la propria profondità interiore, ricerca del senso della vita, di una missione da compiere, empatia verso la sofferenza, riconoscimento di legami con ogni essere umano in quanto tale.
I critici del soggettivismo si basano sull’esistenza di qualcosa che diciamo natura umana, la cui comprensione mostrerà che ci sono modi di vita giusti e sbagliati. La radice di questa posizione è Aristotele. Lo Stagirita è avversato dai soggettivisti. Ma i filosofi aristotelici hanno in genere avversato l’ideale dell’autenticità, vi hanno visto un allontanamento dagli standard della natura umana, non avevano nessun motivo di articolare l’ideale in questione. Taylor propone come autori per approfondire questo concetto: S. Agostino, secondo cui la strada che conduce a Dio passa attraverso la nostra riflessiva consapevolezze di noi stessi; Shaftesbury, per il quale la moralità ha una voce interna; Rousseau che presenta la questione della morale nei termini di una voce della natura che parla dentro di noi e che dobbiamo seguire.
L’idea di autenticità assume un’importanza cruciale in Herder. Questo filosofo dell’800 è noto per aver parlato della “missione” che ogni nazione deve svolgere in un determinato periodo storico. Ma oltre a ciò, egli afferma che ognuno di noi ha una sua maniera originale di esser uomo. Si tratta di una novità: prima del ‘700 nessuno pensava che le differenze tra gli esseri umani avessero questo tipo di significato morale, c’è un modo di essere uomo che è il mio modo. Sono chiamato a vivere la mia vita in questo modo e non ad imitazione di qualche modo altrui. Ciò conferisce un’importanza nuova alla fedeltà a sé medesimi: se non sono fedele a me stesso, perdo la sostanza della mia vita, perdo ciò che l’essere uomo è per me. Una cruciale importanza morale è questo speciale contatto con se stessi, con la propria natura interna, che si può perdere o non raggiungere.
Aggiungo che altri autori presso i quali è possibile trovare spunti su temi analoghi sono: Heidegger, Jaspers, Scheler, ed anche lo psicologo V. Frankl e l’antropologo Rolando Toro.
Ma come si fa ad entrare in contatto con la nostra interiorità? Secondo Taylor attraverso il dialogo. Questo può essere un modo, ma ve ne sono altri, come la lettura, la riflessione mentale e scritta, la meditazione a-concettuale, la creatività artistica quando diventa anche ricerca di significati, qualunque percorso di crescita e formazione personale e di gruppo.
Franco Carenzo

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