“DI TAL BELLEZZA” Ecco le “sensazioni” poetiche, classiche e maestose, di Gianfranco Galante! a cura di Vincenzo Capodiferro
“DI
TAL BELLEZZA”
Ecco
le “sensazioni” poetiche, classiche e maestose, di Gianfranco
Galante!
“Di
tal bellezza. Sensazioni d’una quotidiana, disordinata, non
cronologia” è una raccolta poetica di Gianfranco Galante, edita da
Gian-Pi s.a.s., Varese 2017. Gianfranco Galante nasce a Varese nel
1964. Dopo una breve parentesi vissuta in Sicilia torna a Varese nel
1972. Si diploma nel 1982. Fin dall’adolescenza compone. Gestisce
una cartoleria in città ormai da anni. Gianfranco è un cartolaio
illuminato, e soprattutto: «Scrive di getto riportando sensazioni
del vissuto di ieri, ma anche scrivendo di emozioni avvertite nel
“sentire” del presente. Con una scrittura non propriamente
attuale, ama riportare l’intimo dell’animo e fragilità umane con
particolare sensibilità per le “mancanze affettive” del vivere
quotidiano»: «Di tal bellezza/ che descriver non saprei,/ ma
vederla con gli occhi miei/ parole persi,/ e i sensi miei!».
Gianfranco ci riporta su di un sincero piano classicista, consolidato
in forme poetiche antiche, ma sempre nuove, per la novità delle
immagini e dei sentimenti. Potremmo dire: questa è poesia! Oggi
l’arte spesso soffre di alienazioni astrattiste, come se il
sentimento avesse raggiunto il culmine delle più alte sfere, o
latebre cerebrali. Ma l’arte, come ci ricorda Croce, è la semplice
espressione di un sentimento. L’arte è intuizione, non è concetto
ed il poeta si fonde colla sua poesia. Il poeta è la poesia. Scrive
Fabio Scotto: «La raccolta di liriche di Gianfranco Galante “Di
tal bellezza” propone, fin dal titolo, una ricerca esplicitamente
tributaria della “lezione classica”. Il verso, per lo più
endecasillabo spezzato in settenari e quinari a rima alternata,
scandisce metricamente una lezione lirica sul senso dell’esistere e
sulla relazione amorosa, come sugli affetti, visti nel loro
quotidiano e problematico porsi di presenze ed enigmi». La poesia
nel Novecento,
soprattutto Primo,
aveva abbandonato i canoni metrici, per esprimere le forti e marcate
calcature dei sentieri dell’anima. Ma il volgere dell’ultimo
secolo del secondo millennio aveva visto il succedersi di due guerre
mondiali, dei totalitarismi, della guerra fredda, degli stermini di
massa! La poesia non era libera: «Non chiederci la parola che
squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe …» ci ricorda
Montale. C’era il Fascio: non si poteva parlare! Gianfranco invece
ci riporta con un pindarico volo verso i lidi antichi. E qui
ricordiamo la Trinacria: il triangolo che segna il vertice del
Mediterraneo. Ci ripropone valori stilinovistici, con un
guinizzelliano “cor gentil”. Il poeta qui diviene, per così dire
il galantuomo, tanto per ricordare il Galante/galante. L’onestà e
la gentilezza sono valori sempiterni, che in questa raccolta vengono
diluiti nel mare della “società liquida” - tanto per usare un
termine baumaniano - e come scogli si battono in questo succedersi
più o meno aggressivo delle onde. E si esprime parimenti quel “male
di vivere”, che è stato il baratro dove sono affondati i nostri
poeti maggiori: un triangolo delle Bermuda che nulla ha a che vedere
con la nostra amata “Trinacria”. Come in “Buio e silenzi”:
«In questa notte/ nel silenzio del buio,/ avverto il buio/ dei tuoi
silenzi;/ e tutto m’è frastuono». L’assonanza analogica tra
buio e silenzio che si rincorrono come due serpenti attorcigliati in
un caduceo si rompe nel frastuono di una “gettatezza”
esistenzialeggiante. Come in “Passus vitae”: «Rifletto,/ in
quest’angolo di vita,/ e mal vivo;/ non cercato,/ non desiderato./
e poetar/ d’un amor che non mi è vicino,/ m’è destino …». La
poesia, il linguaggio primordiale con cui si esprime lo Spirito, ci
avvicina alla poiesis,
cioè alla divina creazione, ecco perché è destino.
Dio è il primo Poeta, il creator del nulla e del tutto. Noi siamo
imitatori di questo artista Assoluto. Non siamo noi che scegliamo la
poesia, ma la Poesia che sceglie noi, e ci ispira. Le divine Muse
sono messaggere dell’Eterno. Vedete “Vergogna d’essere umano”:
«Vergogna/ d’essere umano,/ ch’ancor oggi/ schiavizza e vende …
E un falso dio/ non dona amore;/ abbaglia le menti/ e assai fa
rumore/ portando l’oblio/ all’ombra funesta/ d’un sol
tintinnio». Ci ricorda l’”Uomo del mio tempo” di Quasimodo. E
quel tintinnio vuoto ci ricorda anche Paolo: «Se anche parlassi le
lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono
come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna». E per
concludere facciamo un’altra riflessione. Prendiamo alcuni passaggi
di “Strumento muto”: «Non t’odo/ muto strumento./ Strisci,
graffi/ e segni lasci;/ e verghi come nulla fosse/ versi, frasi… Ti
sento/ ma non t’odo,/ caotico/ strumento muto». Ecco qui
avvertiamo il disagio del poeta/musico. La poesia è musica. La
musica è il dono delle Muse, è la divina armonia che si fonde nella
sezione aurea dell’Universo. Ricordate che i Pitagorici nelle
estasi meditative riuscivano ad ascoltare il cammino degli astri. Non
a caso il Galante dice di sé nella “Prefatio”: «Durate la
stesura, di quando in quando, sono solito ascoltare musica, la quale
è fonte, sia d’intimo piacere sublime, che d’ispirazione». Ed
addirittura consiglia di leggere i brani con gli stessi fondi
musicali con cui egli li ha composti “verbo manentis in charta”.
Schopenhauer scriveva che la musica esprime con un linguaggio
universale l’intima essenza del mondo. Eppure la poesia oggi
risuona come uno strumento muto. Si esprime la forte incomunicabilità
dell’arte. Ti
sento/ ma non t’odo … sentiamo
ma non udiamo, vediamo, ma non guardiamo, questo è il profondo
disagio dell’uomo d’oggi, che comunica a due passi col cellulare,
ma poi non sa più dialogare col suo prossimo. Immaginate
un’orchestra di strumenti muti: siamo noi che dobbiamo ricostruire
tutto. Non siamo più capaci di ascoltare, di vedere l’Essere che
ci circonda onni-abbracciante. Il poeta che canta, il vate non è più
riconosciuto, l’artista vive la solitudine/solipsismo, il
richiudersi in se stesso, il ripiegarsi sempre di più nella
medesimezza dell’io. Ecco perché si rifugia nell’astrattismo. Ma
Gianfranco corre contro corrente: è un “fuori tempo”, come
commenta Santi M., un giurisperito letterato conoscitore di “Di tal
bellezza”. E così si chiude: «E quivi rimango sì tacito e solo,/
ancora cercando di nuove parole;/ che affiora da sole». Ecco il
petrarchesco “Solo e pensoso”! E sopra vi è uno schizzo di un
uomo che gira con una lanterna. Quell’uomo ci ricorda Diogene che
cerca l’Uomo, o il nietzschiano Zarathustra che folle in un mercato
annuncia la morte di Dio. Tra le altre opere di Gianfranco Galante
ricordiamo: “Tante impressioni, pochi pensieri, troppe parole”
(1980); “Volevo raccontare una storia da tanto tempo … adesso
l’ho fatto!” (2014); “Esitante psicostasia” (2016); “Paesaggi
d’estate” (2016, ried. 2018).
Vincenzo
Capodiferro
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