30 luglio 2018

“DI TAL BELLEZZA” Ecco le “sensazioni” poetiche, classiche e maestose, di Gianfranco Galante! a cura di Vincenzo Capodiferro


DI TAL BELLEZZA”
Ecco le “sensazioni” poetiche, classiche e maestose, di Gianfranco Galante!

Di tal bellezza. Sensazioni d’una quotidiana, disordinata, non cronologia” è una raccolta poetica di Gianfranco Galante, edita da Gian-Pi s.a.s., Varese 2017. Gianfranco Galante nasce a Varese nel 1964. Dopo una breve parentesi vissuta in Sicilia torna a Varese nel 1972. Si diploma nel 1982. Fin dall’adolescenza compone. Gestisce una cartoleria in città ormai da anni. Gianfranco è un cartolaio illuminato, e soprattutto: «Scrive di getto riportando sensazioni del vissuto di ieri, ma anche scrivendo di emozioni avvertite nel “sentire” del presente. Con una scrittura non propriamente attuale, ama riportare l’intimo dell’animo e fragilità umane con particolare sensibilità per le “mancanze affettive” del vivere quotidiano»: «Di tal bellezza/ che descriver non saprei,/ ma vederla con gli occhi miei/ parole persi,/ e i sensi miei!». Gianfranco ci riporta su di un sincero piano classicista, consolidato in forme poetiche antiche, ma sempre nuove, per la novità delle immagini e dei sentimenti. Potremmo dire: questa è poesia! Oggi l’arte spesso soffre di alienazioni astrattiste, come se il sentimento avesse raggiunto il culmine delle più alte sfere, o latebre cerebrali. Ma l’arte, come ci ricorda Croce, è la semplice espressione di un sentimento. L’arte è intuizione, non è concetto ed il poeta si fonde colla sua poesia. Il poeta è la poesia. Scrive Fabio Scotto: «La raccolta di liriche di Gianfranco Galante “Di tal bellezza” propone, fin dal titolo, una ricerca esplicitamente tributaria della “lezione classica”. Il verso, per lo più endecasillabo spezzato in settenari e quinari a rima alternata, scandisce metricamente una lezione lirica sul senso dell’esistere e sulla relazione amorosa, come sugli affetti, visti nel loro quotidiano e problematico porsi di presenze ed enigmi». La poesia nel Novecento, soprattutto Primo, aveva abbandonato i canoni metrici, per esprimere le forti e marcate calcature dei sentieri dell’anima. Ma il volgere dell’ultimo secolo del secondo millennio aveva visto il succedersi di due guerre mondiali, dei totalitarismi, della guerra fredda, degli stermini di massa! La poesia non era libera: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe …» ci ricorda Montale. C’era il Fascio: non si poteva parlare! Gianfranco invece ci riporta con un pindarico volo verso i lidi antichi. E qui ricordiamo la Trinacria: il triangolo che segna il vertice del Mediterraneo. Ci ripropone valori stilinovistici, con un guinizzelliano “cor gentil”. Il poeta qui diviene, per così dire il galantuomo, tanto per ricordare il Galante/galante. L’onestà e la gentilezza sono valori sempiterni, che in questa raccolta vengono diluiti nel mare della “società liquida” - tanto per usare un termine baumaniano - e come scogli si battono in questo succedersi più o meno aggressivo delle onde. E si esprime parimenti quel “male di vivere”, che è stato il baratro dove sono affondati i nostri poeti maggiori: un triangolo delle Bermuda che nulla ha a che vedere con la nostra amata “Trinacria”. Come in “Buio e silenzi”: «In questa notte/ nel silenzio del buio,/ avverto il buio/ dei tuoi silenzi;/ e tutto m’è frastuono». L’assonanza analogica tra buio e silenzio che si rincorrono come due serpenti attorcigliati in un caduceo si rompe nel frastuono di una “gettatezza” esistenzialeggiante. Come in “Passus vitae”: «Rifletto,/ in quest’angolo di vita,/ e mal vivo;/ non cercato,/ non desiderato./ e poetar/ d’un amor che non mi è vicino,/ m’è destino …». La poesia, il linguaggio primordiale con cui si esprime lo Spirito, ci avvicina alla poiesis, cioè alla divina creazione, ecco perché è destino. Dio è il primo Poeta, il creator del nulla e del tutto. Noi siamo imitatori di questo artista Assoluto. Non siamo noi che scegliamo la poesia, ma la Poesia che sceglie noi, e ci ispira. Le divine Muse sono messaggere dell’Eterno. Vedete “Vergogna d’essere umano”: «Vergogna/ d’essere umano,/ ch’ancor oggi/ schiavizza e vende … E un falso dio/ non dona amore;/ abbaglia le menti/ e assai fa rumore/ portando l’oblio/ all’ombra funesta/ d’un sol tintinnio». Ci ricorda l’”Uomo del mio tempo” di Quasimodo. E quel tintinnio vuoto ci ricorda anche Paolo: «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna». E per concludere facciamo un’altra riflessione. Prendiamo alcuni passaggi di “Strumento muto”: «Non t’odo/ muto strumento./ Strisci, graffi/ e segni lasci;/ e verghi come nulla fosse/ versi, frasi… Ti sento/ ma non t’odo,/ caotico/ strumento muto». Ecco qui avvertiamo il disagio del poeta/musico. La poesia è musica. La musica è il dono delle Muse, è la divina armonia che si fonde nella sezione aurea dell’Universo. Ricordate che i Pitagorici nelle estasi meditative riuscivano ad ascoltare il cammino degli astri. Non a caso il Galante dice di sé nella “Prefatio”: «Durate la stesura, di quando in quando, sono solito ascoltare musica, la quale è fonte, sia d’intimo piacere sublime, che d’ispirazione». Ed addirittura consiglia di leggere i brani con gli stessi fondi musicali con cui egli li ha composti “verbo manentis in charta”. Schopenhauer scriveva che la musica esprime con un linguaggio universale l’intima essenza del mondo. Eppure la poesia oggi risuona come uno strumento muto. Si esprime la forte incomunicabilità dell’arte. Ti sento/ ma non t’odo … sentiamo ma non udiamo, vediamo, ma non guardiamo, questo è il profondo disagio dell’uomo d’oggi, che comunica a due passi col cellulare, ma poi non sa più dialogare col suo prossimo. Immaginate un’orchestra di strumenti muti: siamo noi che dobbiamo ricostruire tutto. Non siamo più capaci di ascoltare, di vedere l’Essere che ci circonda onni-abbracciante. Il poeta che canta, il vate non è più riconosciuto, l’artista vive la solitudine/solipsismo, il richiudersi in se stesso, il ripiegarsi sempre di più nella medesimezza dell’io. Ecco perché si rifugia nell’astrattismo. Ma Gianfranco corre contro corrente: è un “fuori tempo”, come commenta Santi M., un giurisperito letterato conoscitore di “Di tal bellezza”. E così si chiude: «E quivi rimango sì tacito e solo,/ ancora cercando di nuove parole;/ che affiora da sole». Ecco il petrarchesco “Solo e pensoso”! E sopra vi è uno schizzo di un uomo che gira con una lanterna. Quell’uomo ci ricorda Diogene che cerca l’Uomo, o il nietzschiano Zarathustra che folle in un mercato annuncia la morte di Dio. Tra le altre opere di Gianfranco Galante ricordiamo: “Tante impressioni, pochi pensieri, troppe parole” (1980); “Volevo raccontare una storia da tanto tempo … adesso l’ho fatto!” (2014); “Esitante psicostasia” (2016); “Paesaggi d’estate” (2016, ried. 2018).
Vincenzo Capodiferro

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