02 agosto 2006

Eugenio Montale: dove era il tennis

di Augusto da San Buono

Negli anni Settanta, quando Gianni Brera dirigeva ancora “Il Guerin Sportivo”, raccontò che un giorno si era recato a casa del poeta Eugenio Montale e l’aveva ammirato come eccellente baritono. Si sa che Montale aveva iniziato la sua carriera proprio come cantante lirico, che rimase l’unica sua vera passione, al di là della poesia e della letteratura. Interpretare Jago con il fez piumato, o Scarpia con il monocolo e la tabacchiera, era stato da sempre suo sogno.. “Ma la morte del mio maestro di canto - ironizzò il poeta - pose fine alla mia vagheggiata carriera… Caro Brera, di sport non so nulla, ma potendo vivere una seconda vita come sportivo, credo che avrei privilegiato il tennis, perché ha quel fascino, quell’eleganza, quelle movenze tipiche della danza. E poi non va dimenticato che io sono ligure e il primo club di tennis italiano è nato qui, a Bordighera, nel 1878”.
Montale probabilmente non impugnò mai, in vita sua, una racchetta da tennis, né forse conosceva le regole del gioco, ma amava guardare – direi sbirciare con occhio da poeta – chi praticava questo sport, soprattutto quand’erano fanciulle, come nel caso di una sua prosa del 1943, in cui rievoca una partita di tennis nella “grande villa, color zabaglione”, sulle rive del mar ligure, presumibilmente a Monterosso, nelle Cinque Terre, dove la famiglia Montale trascorreva l’estate. “Dov’era una volta il tennis, nel piccolo rettangolo difeso dalla massicciata su cui dominano i pini selvatici, cresce ora la gramigna e raspano i conigli nelle ore di libera uscita. Qui vennero un giorno a giocare due sorelle, due bianche farfalle, nelle prime ore del pomeriggio”.

E’ chiaro che il Tennis che ricordava il Montale bambino era il Lawn Tennis Club dei primissimi anni del Novecento e non doveva offrire ai gentlemen ed alle ladies molto di più che un modo di far passare amenamente il tempo, tra qualche colpo di racchetta e l'immancabile thé delle cinque, o ancora, più romanticamente quello che aveva intravisto dalle reti di recinzione di una villa, giocato da due ragazze-farfalle, cioè molto più simile ad un balletto, ad un sogno lieve, che ad uno sport, in cui c’è la gioia fisica, ma anche tensione, fatica e sudore. E tuttavia il tennis doveva esercitare in lui un certo irresistibile fascino, se è vero come è vero che tornerà più volte, nella sua poesia, come metafora della vita. “A conti fatti, chiedersi il come e il perché quella partita fu interrotta è come chiedersi del perché della nubecola di vapore che esce dal cargo arrembato, laggiù sulla linea della Palmaria. Fra poco s’accenderanno nel golfo le prime lampare… Si direbbe che la vita non possa accendersi che a lampi e si pasca solo di quanto s’accumula inerte e va in cancrena in queste zone abbandonate”. Insomma, la vita in una voleè, che può essere simile ad un ricamo, o in un lob, liftato, simile ad una magica parabola, o in un passante alle intersezioni delle righe, in una partita dal solito tran tran , piuttosto monotona e noiosa.

Anche in una delle sue ultime opere, pubblicata sul Corriere della Sera del 26 settembre 1975, “Sul lago d’Orta, - testo d’importanza capitale per capire l’ultimo Montale – il poeta fa riferimento ad un’altra vecchia villa abbandonata, in cui si giocava a tennis. In questo posto, abitato da una famiglia inglese, ora “neppure un’anguilla /tenta di sopravvivere …(chiaro riferimento ai trascorsi tentativi della poesia di resistere), e “le muse stanno appollaiate/sulla balaustra (ossia le muse sopravvivono sotto forma di galline, - e qui Montale va ben oltre Baudelaire, che aveva detto che erano cigni asfittici sul lastricato nero della strada, - perché la poesia è ridotta a tale, pollaio, deserto, deiezione).

Ma ci può essere – oggi - un rapporto tra tennis e poesia? Ovviamente è una domanda retorica, perché la poesia sta dentro di noi e può essere in ogni luogo, tuttavia il pessimista e autoironico poeta della crisi e del disfacimento, il nostro più grande poeta e forse il più grande a livello europeo, Eugenio Montale, si è rivelato profetico in tutto. Aveva detto il 12 dicembre 1975, quando gli conferirono il Nobel per la letteratura che “in un mondo nel quale il benessere è assimilabile alla disperazione e l’arte, - ormai diventata bene di consumo, - ha perso la sua essenza primaria”, non era possibile la poesia. Veramente l’aveva posto come interrogativo, ma subito dopo aveva rifiutato ogni privilegio che gli perveniva dalla poesia: “Non amo / essere conficcato nella storia/ per quattro versi o poco più. ”Aggiungendo, ironicamente, ma con un’autocritica radicale: “Abbiamo / fatto del nostro meglio per peggiorare il mondo”.

Sì, possiamo dire – naturalmente dilatando e forzando un po’ i concetti della sua poetica - che Montale è stato profetico anche per quanto riguarda le sorti del nostro tennis. Infatti là “dov’era il tennis “, inteso come luogo della poesia , con le fanciulle che sono due farfalle, ovvero il nulla che si fa carne, che volteggiano liete e colorate, ora non c’è più..nulla . La sua ironia e il suo pessimismo, insomma colgono, come sempre, nel segno . Forse la verità non ha alcuna lettera maiuscola e non è certamente, come disse lui, “la logorrea schifa dei dialettici, / ma la sedimentazione, il ristagno, una tela di ragno che può durare…(perciò ), / non distruggetela con la scopa”… né con la racchetta.

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Rev. 04-02-13 AdB
 

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