30 marzo 2012

La mosca bianca di Roberto Gassi

Persone e non personaggi, uomini e donne non numeri.

Alla ricerca dell’umanità perduta.



Scrittori, poeti e artisti sono sempre stati cantori del proprio tempo, a volte critici, sarcastici e ironici. L’arte, sia essa scrittura, pittura o musica, oltre ad aver sempre contribuito ad ingentilire e svegliare gli animi, ha sempre cercato di dare voce a sentimenti troppe volte relegati in fondo alle coscienze, sacrificati ad ideali troppo grandi ed astratti per essere davvero capiti, oppure all’ideologia e alle convinzioni del momento.
In questo momento storico siamo di fronte ad un cambiamento epocale, stiamo salutando il vecchio mondo, il caro vecchio pazzo mondo. Quindi servono nuove leggi, nuove regole, nuovi parametri e livellamenti. Cosa importante si sta cercando di riformare il “mercato del lavoro”. Marx scriveva che il lavoro è l’essenza dell’uomo, e così dovrebbe essere, poiché “il lavoro” si prende la maggior parte della vita “attiva di una persona. Ma negli ultimi anni non è stato così, il lavoro ci ha abbruttiti, sfiduciati e, adesso comincia a negarci la tranquillità di un futuro.
Le nuove leggi, le nuove proposte dovrebbero avere al centro “L’uomo”, non solo numeri o spread da colmare; creare nuove occasioni lavorative all’altezza del prossimo mondo nuovo.
La mosca bianca, il libro di Roberto Gassi pubblicato da Albus edizioni, è una “cronaca minuto per minuto” di un giorno, una settimana, di una vita lavorativa. Come tutti gli artisti il Gassi non punta il dito contro nessuno, ma si limita a descrivere, a raccontare gli ambienti del lavoro, i lavoratori e le loro storie.
In primo luogo, più che i personaggi, Gassi descrive le persone. Persone normali che davvero si possono trovare in un’azienda, ma anche in un ufficio. Non sono da considerare personaggi, perché non sono macchiette, bensì persone cariche di un loro personale dramma umano che scaricano sulla vita lavorativa ognuno a modo suo: chi con atteggiamenti sadici, chi con fare strafottente, chi con atteggiamento ludico, chi con morbosa cortigianeria.
In secondo luogo è importante lo stile narrativo dell’autore. Più che ironico, il tono è satirico e a tratti persino tragico. L’ambiente è tragicamente comico, come può essere solo la realtà: ci sono storie di dolorosa ingiustizia sociale, di raccomandazioni, di mobbing, tragiche nel loro contenuto, ma descritte con una sottile ironia canzonatoria e soprattutto con un profondissimo e vivo senso di comprensione umana. Quel sentimento che fa sentire il lettore vicino ai perseguitati ed ai persecutori, ai vincitori e ai vinti, perché tutti esseri umani, vincolati in un mondo difficile e pieno di ostacoli, in cui ognuno si salva come può.
In fabbrica, come in azienda, come in ufficio o all’università vale davvero la legge del più furbo e del più lecchino? Quindi ai giovani, oltre ad insegnare che, come dice il Premier Monti “il posto fisso è monotono”, dobbiamo anche insegnare che per sopravvivere nel mondo del lavoro bisogna essere furbi, ingiusti, lecchini e disonesti? O per riuscire a galleggiare basterà soltanto essere delle mosche bianche? Domande importanti a cui bisogna trovare in fretta una risposta, perché, anche se, oggi si parla solo dell’ articolo 18, bisognerebbe sempre ricordare l’esistenza di un certo articolo 1: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione.”

La mosca bianca di Roberto Gassi, un libro da leggere. Nelle migliori librerie o direttamente dal sito www.albusedizioni.it … anche in versione ebook.


G.B.

28 marzo 2012

Io e Mrs Pennington di Alberto Zella

Alberto Zella
IO E MRS PENNINGTON Edizioni Solfanelli


Ambientato nella Londra di pochi anni fa, che il rincorrersi degli avvenimenti del nostro tempo ci fa sembrare già lontana o addirittura senza tempo, Io e Mrs.Pennington ripropone un dilemma antico quanto l’uomo e a cui nessuno, nemmeno Sigmund Freud, sembra avere trovato una risposta definitiva: perché sogniamo?
I sogni portano Davide Rossero in un mondo arcano, nascosto nel profondo dell’anima, dove il bene e il male combattono la battaglia di un’intera vita e i ricordi giacciono in attesa di essere liberati dalla loro prigione e di rivelarsi nella visione onirica.
La sottile divisione tra il sogno e la veglia diventa a un tratto impalpabile: è vano fuggire l’inquietante presenza di un uomo misterioso che lo bracca perfino a Londra, dove ha sperato di trovare quiete.
E' nel sogno che ci viene rivelata la nostra vera essenza, come ben sa Mrs. Agatha Pennington, padrona di casa di Davide, incontrata un giorno di vento davanti alla Royal Albert Hall.
Vera signora dei sogni e leader carismatica della Società del Mercoledì, che si riunisce nella sua casa di Cranley Gardens, è lei la benefica presenza che invia a Davide le visione oniriche che curano i dolori dei ricordi e in cui una ragazza nasce da una conchiglia.
Questa storia ebbe inizio qualche anno fa, ma quando ripenso a quegli avvenimenti ho la sensazione che da allora sia trascorso moltissimo tempo. Era l’epoca in cui la mia passione diventava sogno e la mia paura mostrava ciò che temeva, e ciò che temeva accadeva.
La mia povera anima sembrava destinata a essere risucchiata nel nulla in ogni notte di incubo. Eppure di quel “Tempo dei Sogni”, così vicino, così lontano, sento ancora oggi, di tanto in tanto, un’incredibile nostalgia.


Alberto Zella, nato nel 1960, è al suo esordio come scrittore. "Io e Mrs. Pennington" è un romanzo pensato durante i tragitti in treno per pendolarismo e nasce dalla passione dell’autore per le letture psicoanalitiche. Laureato in Economia e Commercio e impiegato presso una società del gruppo Eni, Albero Zella compie frequenti viaggi all’estero, soprattutto in Nord Africa e Nord Europa, il che gli ha fornito materiale per la sua scrittura, molto rispettosa della geografia dei luoghi e delle persone.


Alberto Zella
IO E MRS PENNINGTON
Copertina di Vincenzo Bosica
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-7497-739-0]
Pagg. 288 - € 19,00
http://www.edizionisolfanelli.it/ioepennington.htm

26 marzo 2012

La manovra Monti e la finanza locale

LA MANOVRA MONTI E LA FINANZA LOCALECancellato il federalismo fiscale?
di Antonio Laurenzano
“Autonomia” e “Responsabilità”, i cardini del federalismo fiscale invocati per rendere efficienti i bilanci comunali sono stati cancellati dalla manovra Monti “Salva Italia” sotto l’effetto dell’emergenza crisi. E l’impatto sulla finanza locale delle misure adottate dal Governo dei tecnici è notevole! E’ ulteriormente aumentato il contributo alla manovra finanziaria imposto agli enti territoriali in termini di tagli ai trasferimenti e di obiettivi rigorosi del Patto di stabilità interno. A questo drenaggio di risorse che fa saltare ogni equilibrio di finanza locale si aggiungono altre misure che devastano i conti degli enti locali, limitandone ogni margine gestionale. Istituzione dell’IMU, Imposta municipale unica, in sostituzione dell’ICI, riforma della TARSU, provvedimenti sul Fondo perequativo, tesoreria unica: con queste novità legislative per i Comuni italiani è scattata l’operazione Bilancio 2012, con termine prorogato al 30 giugno.Dalla tassazione immobiliare le innovazioni più importanti. Con l’IMU vengono tassati tutti gli immobili, comprese le prime case. Aliquote base del 4 e del 7,6 per mille oltre a un aumento dell’imponibile per effetto dei nuovi moltiplicatori delle rendite catastali. Il maggiore gettito previsto è pari a 12,2 miliardi, ma di questo incremento nelle casse comunali non resterà un euro! Infatti lo Stato da un lato chiede ai Comuni di accreditargli 9 miliardi, pari alla metà del maggiore gettito a esclusione delle prime case, e dall’altro taglia i trasferimenti erariali erogati ai Comuni a titolo di Fondo perequativo per la restante differenza! Analoga operazione di sterilizzazione è prevista per il miliardo in più previsto dalla riforma della TARSU. I Comuni sono chiamati cioè a far da esattori per lo Stato sul suo maggiore prelievo! Una “supertassa” dai Comuni, con i soldi che però finiscono allo Stato. Dalla revisione dei tributi comunali prevista dalla manovra Monti non cambierà nulla in termini di risorse disponibili, ma pesante sarà il “costo politico-elettorale” per i Sindaci che, in caso di variazioni in aumento delle aliquote base, dovranno darne ragione ai cittadini alle prese con un’ alta pressione fiscale. La manovra inoltre stringe i cordoni della finanza locale con un’altra sforbiciata dei trasferimenti statali sul fondo perequativo, senza alcuna compensazione di maggiori gettiti. Significativa la dichiarazione resa dal Sindaco di Reggio Emilia e Presidente ANCI, Graziano Delrio, “L’introduzione dell’IMU richiede a noi Comuni di metterci la faccia di fronte a imprese e famiglie; vogliamo capire se è solo una situazione dovuta allo stato di emergenza dei conti pubblici e quali sono le prospettive, è necessario ripensare qualcosa nel rapporto tra Stato e Comuni”.I Comuni sono cioè partite di giro, corpi inerti usati per prelevare risorse e cassa a servizio dello Stato centrale e il Patto di stabilità non revisionato costituisce un argine a ogni possibilità di reagire a questi attentati all’autonomia federale, peraltro fortemente minata dalla istituzione della Tesoreria Unica che ne condiziona la gestione finanziaria. Di fatto, una gestione commissariale!  E’ dunque opportuno mettere mano alla complessa materia della finanza locale con una riforma che ne semplifichi le norme, ribadendo il principio del vincolo di bilancio in pareggio come architrave della finanza locale ed eliminando lacci e laccioli. Se c’è la necessità di ridurre le risorse degli enti locali, meglio agire sui trasferimenti erariali piuttosto che interferire con l’autonomia locale. Il federalismo fiscale, ancor prima di partire, è già cancellato?...

22 marzo 2012

Marta che aspetta l'alba di Massimo Polidoro

MARTA CHE ASPETTA L’ALBA    
di Massimo Polidoro
© 2011 Edizioni Piemme ISBN 978-88-566-1994-2
Pag 187  € 14,50


Polidoro è un docente di metodo scientifico e psicologia dell’insolito dell’Università Bicocca di Milano. Il suo lavoro è stato intervistare la signora Mariuccia Giacomini e farle raccontare la sua storia e quelle delle persone che con lei sono venute a contatto, quando lavorava presso quello che era noto come il manicomio San Giovanni di Trieste, il cui vero nome è ospedale psichiatrico “Andrea di Sergio Galatti”.
Ai più questo nome non dice nulla, a chi come me, da tempo, si occupa di malati mentali, fa subito venire in mente Franco Basaglia e la sua lotta per dare dignità a chi soffriva di malattie psichiatriche.
La storia inizia con Marta, una ragazza di una famiglia bene che non è d’accordo col matrimonio di sua sorella con quel Carlo che nonlaconvince molto.
Siamo negli anni sessanta, e ancora esiste il ricovero coatto delle persone.
Marta si ritrova ricoverata al San Giovanni e, più urla la sua sanità mentale, più le danno della pazza. E cosa si fa ai pazzi in quegli anni? Li si imbottisce di farmaci, li si lega ai letti, li si chiude in gabbia. Se questo non basta e nemmeno le botte convincono a stare calmi, si fanno gli elettroshock e se ancora non si ottengono risultati… il paziente viene lobotomizzato. Una pratica barbara e assurda.
Mariuccia ha bisogno di lavorare e viene assunta come infermiera. In realtà passa le sue giornate di lavoro a pulire vetri e pavimenti, a lavare con la canna i sudici, cioè quelli che si fanno tutto addosso. A imboccare a forza i tranquilli, che non si muovono.
Non le sembra giusto quello a cui assiste: donne trascinate per i capelli sul pavimento, o prese a calci… ma chi è lei per sapere come vanno trattati i matti? Così tace e lavora.
Ma un giorno arriva il dottor Franco Basaglia, uno psichiatra che pensa che i matti possano migliorare se gli si parla, se li si fa uscire in mezzo alla gente normale.
Tutti gli danno addosso, dai partiti politici, agli altri medici;fino alla gente che ha paura di quelle persone. Chi li vuole incontrare per strada?
E invece… invece Basaglia vince la sua battaglia, dimostrando che ha ragione; dando dignità a persone che non l’avevano mai avuta.
Spesso le persone ricoverate non erano nemmeno affette da vere patologie, ma avevano solo delle stranezze, o erano bambini abbandonati e cresciuti, poi, in manicomio.
Simbolo di tutta questa vicenda è Marco cavallo. Un equino che i matti vedono fuori dalla loro finestra, transitare su e giù per trasportare la merce. Quando avranno la possibilità di avvicinarsi all’arte e di fare qualcosa con le loro mani, chiederanno a gran voce la statua di Marco cavallo: una statua grande, con una pancia grossa per contenere i loro desideri, azzurro come il cielo: come la libertà.
Non è un libro lungo o difficile da leggere, anzi, è piuttosto corto, di approccio immediato. Con tante frasi riportate in dialetto triestino, così come parlavano la gente che lavorava lì, e come tentavano di esprimersi anche i malati.
Mariuccia ci racconta la sua vita, e tramite questa ci parla dei pazienti, dei progressi fatti in quegli anni. Della sua crescita personale, come donna e come individuo. Uno spaccato storico di quegli anni importante.
Purtroppo Basaglia morì prima di aver portato a compimento la sua opera. Così, vennero fatti estinguere i manicomi e aperti i presidi, ma, quel che ancora oggi manca, è l’aiuto alle famiglie delle persone malate.
Se lui avesse potuto ultimare il disegno che aveva in mente, di certo ci troveremmo in una situazione più agevole e facile per tutti.
Il libro termina con Mariuccia che va a prendere  Marta. Dalla ragazza che era è diventata una donna obesa, senza denti, rovinata da tutto ciò che ha subito. Marta che all’alba aspetta la sua amica, vestita di tutto punto per uscire in quel mondo che per troppo le è stato negato.

© Miriam Ballerini

16 marzo 2012

La quarta dimensione / Il tempo secondo Samuel Alexander



LA QUARTA DIMENSIONE
Il tempo secondo Samuel Alexander



Samuel Alexander (1859-1938) è stato un filosofo australiano di origini ebraiche. Appartenne a quel vasto e variegato movimento di pensiero che prese il generico nome di neorealismo anglo-americano, del quale fecero parte, tra gli altri, Moore, Russel, Withehead, Santayana. La nascita di questo movimento è fatta risalire proprio alla Confutazione dell’idealismo di G. E. Moore, nel 1903. L’idealismo vive perennemente nella pretesa assurda di esaurire nel pensiero l’oggetto conosciuto. Al contrario la coscienza rimanda ad un qualcosa che è altro da essa. Questo altro è il sensum: a differenza del realismo antico che riconosceva la validità dell’oggetto come altro dal pensiero, tuttavia il realismo inglese moderno, allievo della lezione del Berkeley, per il quale l’«esse est percipi», riconosce invece come reale il dato di senso e non la sostanza materiale. In questo senso il neorealismo prese le distanze anche dal rozzo materialismo atomistico e meccanicistico, che la stessa scienza moderna ha liquidato, facendo piuttosto credito ad una concezione evoluzionistica emergente, come quella di Morgan. In Spazio, tempo e divinità, (1920) l’Alexander sostiene proprio questo principio dell’evoluzione emergente, ispirata a motivi evocati dall’evoluzionismo bergsoniano e dal relativismo einsteniano. La realtà è per l’Alexander un continuum spazio-temporale e perciò è quadridimensionale. La quarta dimensione è il tempo, ove il tempo è rispetto allo spazio, quello che è l’anima rispetto al corpo, ovvero lo spirito, o la Res Cogitans, come la chiamava Cartesio, rispetto alla Res Extensa. In Alexander tuttavia non vi è un dualismo, anzi un monismo metafisico e dinamico. Ora se l’anima dello spazio è il tempo, allora l’elemento dell’evoluzione non può essere l’atomo, ma è l’evento. Alla visione meccanicistica del materialismo si sostituisce così un evoluzionismo vitalistico che vede, nella irreversibilità del processo temporale, l’emergere di gradi di esistenza ascendenti. Questi gradi esistenziali sono le categorie. Le categorie non sono forme soggettive, ma forme oggettive dell’ente e sono: l’esistenza, l’universalità, la relazione, l’ordine, la sostanza, la quantità, il numero, il moto. Tra le categorie che evidentemente si ispirano a quelle classiche aristoteliche non vi è la qualità, perché le qualità indicano le emergenze, e possono essere di tre tipi: primarie, secondarie e terziarie. Le primarie e le secondarie suscitano le emergenze che vanno dalla materia alla vita e alla mente. La mente non è altro che il grado più elevato di quei rapporti di compresenza e di coesistenza che si trovano fino dai gradi più bassi della realtà. Ed è proprio dalla mente cosciente che emergono poi le qualità terziarie, che fanno parte del mondo dei valori e possono essere, etiche, scientifiche o estetiche. Ma l’emergenza non si arresta a questo mondo, ma va oltre, fin verso la Deità. Questa suprema Qualità dell’universo infatti esiste come tensione e sforzo, sebbene non come realtà attuale. Rispetto a questa Qualità l’evoluzione emergente è dinamismo inesauribile.

Vincenzo Capodiferro

10 marzo 2012

Lo spread: il nostro incubo quotidiano



IN PRIMO PIANO
LO SPREAD : IL NOSTRO INCUBO QUOTIDIANO
Il conflitto valutario e le politiche macroeconomiche - I misteri della finanza internazionale.

di Antonio Laurenzano


“Operazione verità: per non morire tra le macerie di un’Europa tedesca”. Interessante e ricco di spunti il recente saggio di Renato Brunetta sulla crisi dell’euro e del processo d’integrazione politica, economica e sociale del Vecchio Continente. Sul tappeto, a tre anni dall’inizio della crisi finanziaria che ha sconvolto i precari equilibri finanziari nel mondo, restano alcune questioni irrisolte: a)il coordinamento delle politiche macroeconomiche tra le tre grandi potenze economiche mondiali: Stati Uniti, Europa e “Paesi emergenti” (Cina, Brasile, India) ;b)la crisi dei debiti sovrani di molti paesi europei avanzati; 3)il permanere degli squilibri globali che sono all’origine della crisi in un contesto di sostegno alla crescita.

La soluzione di queste questioni, secondo l’economista, richiede una convergenza nelle politiche di tutti i paesi coinvolti, nella consapevolezza che il quadro macroeconomico internazionale, che condiziona ogni accordo, rimane caratterizzato da una ripresa economica a due velocità. In particolare, si registra una crescente divergenza tra le politiche di austerità dell’Europa, alle prese con la crisi dei debiti sovrani, e quelle anti-deflattive degli Stati Uniti, decisi a non far mancare il sostegno macroeconomico alla ripresa, soprattutto attraverso la creazione illimitata di moneta impiegata per l’acquisto di titoli del debito pubblico da parte della Federal Reserve. Nel frattempo prosegue la crescita più rapida nei paesi emergenti.
Il conflitto valutario in atto è dunque una conseguenza della mancanza di meccanismi di aggiustamento degli squilibri globali in presenza di un sistema monetario internazionale e di un sistema di tassi di cambio disordinati. E l’Europa, con effetti dirompenti, ha palesato nel corso della crisi le sue debolezze strutturali con una moneta unica che non ha alle spalle una vera e propria banca centrale. La globalizzazione degli ultimi anni ha stravolto le regole del gioco e messo a nudo la fragilità dell’euro. Una moneta che aspira ad essere una valuta di riserva internazionale ma che non dispone di una banca centrale in grado di fissare il cambio o di agire come prestatore di ultima istanza per evitare la crisi di liquidità del sistema, è una valuta … sacrificale nello scontro di potere mondiale. Una moneta chiamata a convivere con una moltitudine di curve di tassi di interesse a scadenza. Praticamente una per ogni paese membro.
Fin quando i differenziali, cioè gli spread, tra i vari tassi nazionali erano “fisiologici” l’essere una “moneta artificiosa” non appariva in tutta la sua criticità. Poi è scoppiata la crisi da sostenibilità dei debiti pubblici europei e i differenziali si sono sempre più allargati! Sono diventati talmente ampi da rendere davvero eccezionale la situazione prodotta dall’euro: una moneta unica che esprime tante curve di rendimento sui titoli emessi in quella stessa valuta dai vari emittenti. Si passa dal 2% dei Bund tedeschi al 3,7% degli OAT francesi, al 7% dei Btp italiani!
E’ dallo scorso luglio che i cittadini italiani vivono in una sorta di grande fratello della finanza, dove le news sullo spread e l’andamento degli indici di borsa vengono pubblicate senza soluzione di continuità. Lo spread, premio per un rischio specifico, dovrebbe sintetizzare la probabilità di fallimento della controparte. Nel caso italiano, lo spread non ha, né può averlo, tutto il significato che gli si attribuisce. Il suo valore complessivo è meno importante di quanto non si creda per decifrare i rischi futuri. Nel caso degli Stati sovrani, infatti, gli stessi possono imporre nuove imposte, nazionalizzare beni privati, privatizzare società pubbliche, vendere o dare in concessione in blocco asset di cui hanno la proprietà, inclusi i beni culturali, creare inflazione monetizzando parte del debito. Tutti elementi difficilmente quantificabili da uno spread perché senza una effettiva serie storica di prezzi ed eventi passati.
Nel caso dell’Italia, poi, lo spread sul debito dovrebbe tenere conto anche della capacità di generare cash flow. L’avanzo primario, la “cassa” generata dalla gestione caratteristica dell’economia pubblica italiana, è positivo. Un taglio gestibile della spesa corrente ed opportune dismissioni renderebbero positivo anche la “cassa” al netto degli oneri sul debito pubblico tale da rendere poco razionale e credibile il valore dello spread che i mercati, con convenzioni che prescindono dalla considerazione degli effettivi margini comportamentali del Paese, assegnano ai Btp.
E’ giunta l’ora di scoprire le carte! Chi è il… grande burattinaio che muove i fili della finanza internazionale? Chi si nasconde dietro le società di rating? A chi dà fastidio un euro forte? A chi fa paura un’Europa politicamente unita e, finalmente, padrona del proprio destino? Perché, dopo la Grecia, nel mirino della speculazione, è caduta l’Italia? Interrogativi inquietanti alle cui risposte è legato il futuro economico e finanziario dell’Europa.

05 marzo 2012

"Una lettera nella testa" di Andrea Pagani


UNA LETTERA NELLA TESTA                          di Andrea Pagani
© 2011 Lupetti – Narrativa Lupetti
ISBN 978-88-8391-340-2    Pag. 137   € 14,00
Questo è il romanzo d’esordio di Andrea Pagani.
Abitiamo nello stesso paese e, per qualche strana ragione, abbiamo pure scritto qualcosa di simile, senza mai esserci conosciuti!
Il suo libro, la sua storia, ha molti punti in comune con il mio primo libro d’invenzione “Il giardino dei maggiolini”. La difficoltà di rapporti tra il protagonista e i suoi genitori; la crescita interiore; un mentore che si identifica in un anziano.
Leggerlo è stato un po’ come ritrovare qualcosa di già vissuto, perché indossato dalla mia prima protagonista.
Andrea, è un ragazzo di 34 anni, fa l’infermiere in un ospedale di Como. Avrebbe potuto fare l’avvocato, lavorare in giacca e cravatta, ma non riesce a riconoscersi in questo ruolo. Decide, pertanto, di passare a un lavoro in ospedale, per essere utile agli altri.
All’inizio crede gli basterà il sorriso di gratitudine di una vecchina per sentirsi appagato; col passare degli anni, capirà che, invece, sarà la sfida del convivere con vita e morte quella che maggiormente gli darà soddisfazione.
Andrea  è genuino nel suo esporsi a dei lettori che, non sempre, avranno occhi ingenui nella lettura delle sue parole. Lui si mostra per quello che è con coraggio, determinazione, sincerità.
Ben sappiamo che, invece, questo mondo pare debba essere dei più furbi, di chi sa mentire meglio, di chi si nasconde. Andrea non fa uso di maschere, non si cela, si mostra appieno!
Parla di sé, dei suoi desideri, delle sue opinioni. Del rapporto ostile col padre; della sua visione del mondo, auspicando a un ritorno di quei valori essenziali che fanno di un essere, un uomo.
Mi ha sorpresa piacevolmente ritrovare in un giovane questa sfida disegnata sul viso aperto.
Di tanto in tanto, qua e là, rischia di cadere nella moralizzazione, per eccesso di zelo!
Scritto con penna semplice, scorrevole, questo lungo soliloquio ci mostra la vita ospedaliera, fatta non solo, purtroppo, di guarigioni; ma spesso di dolore e di lutti. E come, da tutto ciò, Andrea ne tragga i frutti utili per la sua crescita interiore.
Buona l’introspezione, necessaria a scrivere un testo di certo non facile.
La lettera, Andrea, la scriverà alla fine del libro, quando, in seguito a un incidente stradale, si renderà conto di cose tralasciate, di quanto si era ripromesso di dire ai suoi genitori e, ancora, non aveva vergato.
Una lettera nella testa” è un testo educativo, utile per chi volesse leggerlo.

© Miriam Ballerini

Ciao, Lucio!

LUCIO DALLA
Un lampo,
per entrare
nel futuro!
D’un colpo
ha abbracciato
Caruso, Senna e Nuvolari.
Un attimo
bastardo
per bisbigliare
“Braxton”,
lo swing
infinito
per rendere
immortali
versi, arie
e orizzonti
melodici
senza confini!

(Antonio V. Gelormini)

02 marzo 2012

Antonio Motta - nel ricordo sentito di un uomo di tecnica e di cultura

ANTONIO MOTTA
Nel ricordo sentito di un uomo di tecnica e di cultura
Antonio Motta chi era? È stato un grande padre, un sapiente maestro, un saggio amico, che ci ha sostenuto nella nostra crescita e nella nostra formazione culturale, ma soprattutto umana. Abbiamo ripreso un’antica testimonianza per ricordarlo e vi abbiamo aggiunto le note personali, per colorarla, ma soprattutto per esprimere tutto il nostro filiale affetto e la stima che abbiamo provato per quest’uomo di tecnica e di cultura, come abbiamo sottolineato nel titolo di questo inserto, che abbiamo ripreso da un antico memoriale, per rievocare la figura di quell’“intellettuale di frontiera”, come amava definirsi, il girovago, il camminatore-pensatore per le vie, i tratturi, paese per paese, montagna per montagna di quella sconosciuta terra ancestrale, cara tanto al De Martino, quanto al Banfield, coll’“amoral familism” di Montegrano, tanto al Pasolini quanto al Gibson, registi spettatori della Matera-Gerusalemme, materia immateriale di una città materico-spirituale. Ci affidò alle sue amorevoli mani Don Salvatore Vigilante, insieme all’editore Paolo Laurita. Quante volte avevamo accompagnato Don Salvatore con la sua 126 bianca in giro per le strade di Basilicata! E fu proprio Antonio ad insistere a pubblicare l’opera sui moti legittimisti del 1860 nel Lagonegrese, seguendo la traccia della tesi che avevamo sostenuto coll’emerito Prof. Vittorio Vidotto all’Università di Roma. Ci fece fare una lista di tutti i rivoluzionari, che erano circa cinquecento, con tutte le loro generalità. Dopo meticolose ricerche ed approfondimenti il lavoro uscì col sintomatico titolo “Storia di una rivoluzione d’ottobre” e fu presentato al premio Basilicata quando ancora era vivo don Tommaso Pedio. Come era solito fare ci seguiva cogli occhi da ingegnere, come veramente ci ha formato nello spirito della ricerca. Il lavoro fu poi pubblicato da Paolo Laurita, col titolo “Una Domenica di sangue”, nei “Quaderni di bacheca”, riecheggiante questa volta la rivoluzione russa del 1905. Quando il giovane Antonio Motta era a Bari a studiare ingegneria, ci raccontava che aveva emendato le bozze di Benedetto Croce per la Laterza. Erano tempi duri e per guadagnarsi qualcosa per vivere faceva il correttore. Lamentava molto il fatto di non avere potuto studiare le lettere classiche, però aveva avuto la fortuna di avere una moglie, Emilia, che era esperta di greco e di latino e che completava quel suo vuoto culturale. Per questo prima di morire ci chiese di tradurre l’epistola in latino di Giacomo Castelli, un intellettuale carboniense del ‘700. Si trattava di un importante itinerario antico del Regno di Napoli, che egli dopo anni di ricerche era riuscito a trovare in un biblioteca di Venezia. E noi lo facemmo. Lo facemmo con quell’amore filiale, quasi per tenere contento un padre che tante volte ci aveva accolto a Potenza. Non facemmo neppure in tempo a finire e rivedere lo scritto che egli morì improvvisamente. Ci siamo rimasti pietrificati dal dolore. Ci decidemmo allora di divulgare lo stesso il lavoro che fu accolto da Michele Nigro, che ringraziamo profondamente, nella sua rivista “Nugae” di Battipaglia. Non avevamo i fondi per finanziare una pubblicazione tanto importante. Non potremo però mai dimenticare quel volto cordiale ed umano, quelle sue mani stanche e sofferenti che ritirava quando volevi stringerle. A Potenza nel suo appartamento c’era una biblioteca storica molto importante. Quando andavamo là ci fermavamo ad ore a fare ricerche ed egli ci stava dietro col suo fare accorto e cortese. Anche da don Tommaso, come lo chiamavamo, c’era uno studio dove ti ci perdevi. Per noi giovani studiosi era come entrare in un paradiso. E ci portò da lui l’amico Peppino Cracas, che lo conosceva bene, perché aveva lavorato alla Corte d’Appello di Potenza e don Tommaso prima di fare lo storico era avvocato. Quando andammo da lui ci sembrava di sognare e si mise a fare quelle domande affettuose sulla storia, da grande maestro per tastare la nostra modesta preparazione, e noi tutti intimoriti balbettavamo le nostre strofette, come se fossimo a fare un esame e poi egli ci portava con gesti di grandiosa nobiltà d’animo al suo impareggiabile livello di cultore. Come dimenticare quando chiese: «da dove vieni?». Ed noi: «Da Castelsaraceno». E lui: «Ma tu lo sai che a Castelsaraceno il primo febbraio del 1861 furono fucilati nove giovani …». Noi non sapevamo niente perché quel fatto era stato cancellato dalla memoria. Ed in memoria di quei nove giovani poi facemmo fare una lapide che fu affissa in piazza. Non vi diciamo il profondo dispiacere e rammarico quando scendendo al paese, ci siamo accorti che la lapide dei nove giovani non c’era più. È stata tolta per dei lavori di ristrutturazione e poi non è stata più rimessa. È come se il cuore infranto assieme a quella lapide fosse stato dilapidato. E quando venne a presentarci a Castelsaraceno si ricordò delle strade provinciali che aveva fatto costruire, mentre i proprietari si erano attruppati per far passare la strada da dove piaceva a loro. E facendo passare un asino davanti lo seguivano tracciando la carraia. Ci raccontò degli studi del giovane Petrucelli Della Gattina, di come i baroni preferivano mangiare i passeri nella polenta. Quel giorno si mise a pure a nevicare e dovette scappare subito a Potenza, non poté fermarsi neppure per la cena. Dobbiamo molto ad Antonio Motta, perché fu egli ad iniziarci, per così dire, allo studio della filosofia. Un giorno regalando uno studio di Franco Venturi - che egli aveva conosciuto nel suo confino ad Avigliano - su Nicolas Antoine Boulanger, disse: «giovane mettiti al lavoro!». All’inizio non avevamo capito cosa intendesse. Egli ci teneva tanto a fare delle ricerche su quel pensatore illuminista, perché oltre ad essere un filosofo, era un ingegnere, come lui. Ci fece tradurre la “Vita di Boulanger” attribuita a Diderot, dal francese. Ed allora ci mettemmo all’opera e da quelle ricerche uscì il primo studio di filosofia su Boulanger “La dittatura di Dio”. Come Boulanger aveva fatto per le vie della Sciampagna, così il Motta aveva girato metro per metro la Lucania e la conosceva a fondo. La sua storia nasceva dalla diretta esperienza sul campo, come proferiva Giustino Fortunato, «il Mezzogiorno è frutto della storia e della geografia». Perciò si faceva chiamare non storico, ma geostorico, ricordando come Bacone avesse inteso che veritas filia temporis, ed anche - perché no? - filia loci. Antonio Motta da giovane era un attivista politico che militava nel PCI. Anche egli, come tanti letterati lucani avevano preso la via dell’esilio dell’emigrazione, però dopo era riuscito a tornare a Potenza. Dopo la primavera di Praga, come tanti intellettuali di sinistra preferì non fare lo yes man ma autenticamente seguì lo spirito del socialismo vero e si avvicinò alla cultura cristiana, soprattutto ad Agostino ed a quella ideale Città neoplatonica e comunistica. Era nato a Laurenzana, un piccolo paese dell’entroterra lucano, Antonio Motta si è spento a Potenza nel 2006, lasciando un vuoto incolmabile culturale, e soprattutto umano. Viveva nel Capoluogo lucano, ove si era inurbato dall’immediato dopoguerra. È stato per molti anni Ingegnere Capo dell’Ufficio Tecnico dell’Amministrazione provinciale, dove ha avuto modo di approfondire le tematiche legate al territorio della Basilicata nella realizzazione di notevoli interventi nel settore della rete viaria: questa specifica esperienza si ritrova negli scritti da lui successivamente pubblicati, di cui si annovera una vasta bibliografia. Insigne storico e studioso ha saputo ben conciliare gli interessi del lavoro con quelli della cultura, cui si dedicò totalmente dall’età della pensione. A questo proposito ricordiamo quanto ci raccontava. Lamentava spesso la corruzione nei lavori pubblici e visto che gli avevano offerto incarichi importanti, rifiutò e preferì andare in pensione prima, pur prendendo di meno. E disse: «Ho appeso il cappotto!». Molte volte ripeteva la frase in dialetto potentino, o “potenzese” nel gergo locale: «non sono le poltrone che fanno i culi, ma i culi che fanno le poltrone!». Ricordava il Machiavelli che proferiva: non sono i titoli che fanno le persone, ma le persone che fanno i titoli. Antonio Motta apparteneva a quella sconsolata e ribelle generazione di antifascisti. È stato amico di Sinisgalli. Aveva conosciuto Scotellaro, il poeta martire socialista delle masse contadine. È stato socio del Circolo Culturale “Silvio Spaventa Filippi” nel cui ambito è stato tra i fondatori del “Premio Letterario Basilicata”, nonché socio della Deputazione di Storia Patria della Lucania e dell’Associazione per la Storia Sociale del Mezzogiorno e dell’area del Mediterraneo, del Centro “Conoscere il Vulture” e dell’Istituto Nazionale di Studi Romani. Si è fatto conoscere dagli studiosi di storia già dal 1981 con il suo “Memorandum per il Centro Storico di Potenza” e nel 1989 con il volume “Carlo Afan De Rivera. Burocrate ed intellettuale Borbonico. Il sistema viario preunitario”, al quale fu assegnato dalla Giuria, presieduta da Tommaso Pedio, il “Premio Basilicata per la Saggistica”. Dall’elenco delle sue opere si evince che ha collaborato con numerose riviste con ricerche e studi relativi a tematiche di storia del territorio con specifico interesse per la storia della viabilità meridionale e regionale «con l’intento di fornire una presentazione compiuta e una verifica concreta sulla realtà locale e settoriale della Basilicata moderna e contemporanea». Tra questi studi si citano ad esempio: “Per le montagne di Basilicata, per tutti quei paesi più o meno alpestri”, “L’abbiamo a piedi percorso, erborizzando”, apparsi sul Bollettino Storico della Basilicata; “Totila e la Lucania” sulla rivista “Radici”. Tra i suoi scritti più importanti, la maggior parte pubblicati dall’ editore Paolo Laurita di Potenza, soprattutto nella collana “Quaderni di bacheca”, ricordiamo, oltre a quelli citati: “Oltre Eboli” (1998); “Giovanni Andrea Serrao Vescovo” (1999), una sua memoria sul 1799 lucano con peculiare riferimento al prelato potentino sacrificato sull’altare della rendita fondiaria. Doveva uscire l’ultimo suo saggio su Potenza: “I cateti del tempo sulla Città”, in cui si raffrontava con l’agostiniana “Città di Dio”. In campo letterario non è stato da meno, già dal 1977 con le “Considerazioni per un’etica della presentazione”, in “Rassegna itineraria di versi e immagini”. Tra le raccolte poetiche si rammentano “Frammenti dall’esilio” (1999) e “Versi di Babele. Babele di versi” (2003). Quest’ultima, in particolare, raccoglie i versi dal 1956 al 1966, «dalla morte di nonno Antonio,» come il Nostro scrive, «al matrimonio con Emilia, scritti tra Bari, Potenza e Laurenzana». Abbiamo ricordato i nostri giganti, sulle cui spalle sicuri guardavamo al mondo. Ringraziamo sentitamente la scrittrice Miriam Ballerini che ci ha concesso di inserire queste pagine di cuore e di vita che hanno profondamente segnato la nostra strada.

Vincenzo Capodiferro

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