26 aprile 2023

LUCANITÀ SARACENA Grande accoglienza nelle infime convalli della nostra terra




 
LUCANITÀ SARACENA

Grande accoglienza nelle infime convalli della nostra terra


Lucanità Saracena”, libro di versi e foto in vernacolo ed italiano dei cugini: Prospero e Valerio Cascini, il primo preside in pensione ed il secondo avvocato, sta girando di paese in paese. Da Biandronno, patria di emigrati, approda a San Chirico Raparo, il 21 aprile, ove sono intervenuti il sindaco, Vincenzo Cirigliano, il parroco, don Nicola Modarelli, il letterato Angelo Iacovino, nipote del pittore Giovanni Iacovino e la scrittrice Teresa Armenti. Si è parlato di identità culturale e religiosa. Teresa ha ricordato le figure di De Sarlo e dei Magaldi. San Chirico è stato un centro floridissimo nell’antichità, legato, in particolare alla Badia di Sant’Angelo al monte di Raparo dei Monaci Basiliani. La badia di Sant’Angelo è stata ristrutturata ed è un gioiello di arte bizantina. Proclamata, fin dal 1927, Monumento Nazionale, è uno dei luoghi di interesse del Parco del Lagonegrese-Val d’Agri. Di grande attrattiva è la fonte Trigella, citata dal Pontano nel “De Meteoris” al capo XLVII (Poemi astrologici, 1975) e conosciuta fin dai tempi antichi.


Ipse autem fruitumque diis atque imperat anteo

Unde fluit gelidus salebroso fonte Trigella

Orescitque hieme in media atque aestate liquescit.


La leggenda vuole che Ripenia, la ninfa, essendo Capripede innamorato di lei, si andasse a rifugiare nelle acque freddissime della fonte (“tri-gelida”), e il fauno la fece prosciugare. Ecco perché mentre d’inverno l’acqua non scorre, d’estate è una fonte molto ricca.

Una sorgente simile è la fonte Orca, nei pressi di Ghirla, in Valganna: quando è sereno emerge, mentre quando è maltempo si perde nei meandri della terra.

Il nostro territorio era costellato da tre grandi badie, di origine basiliana: quella di S. Angelo al monte Raparo, quella di S. Elia a Carbone e quella di Orsoleo a Sant’Arcangelo. La toponomastica ricorda questa poderosa opera di colonizzazione monastica ad opera dei Greci, dopo la presa di Costantinopoli nel 1453. Ci fu anche un’ondata di emigrazione ad opera degli Albanesi, dopo le imprese di Scanderberg. Ne sono testimonianza diversi centri, dove ancora si parla la lingua arbereshe, tra cui Ginestra, San Paolo Albanese, San Costantino Albanese e altri.

La badia di S. Angelo era famosa nell’antichità: il monte Raparo, come ci descrive il “Dizionario del Regno di Napoli” del 1816 «è rinomato per il monastero dei Basiliani, che vi fece Ugone Sanseverino, dato poi in commenda con le sue vaste rendite, che aveva in diversi paesi di quel circondario. Ce ne rimangono poche fabbriche, e la chiesa ad archi puntuti, dedicata all’Arcangelo san Michele, ove il 29 settembre vi si porta il clero di Castelsaraceno. Di questa badia, detta di S. Angelo a Raparo e talvolta denominata per sbaglio de Caprino, dell’ordine benedettino, situata alle radici di esso monte, ne parlano l’Ughelli in Italia Sacra, Agostino Lubin, in Abbatiarum Italiae brevi notitia, Romae 1693, ed altri. Avvisa Paolo Emilio Santoro che il celebre monastero di S. Elia di Carbone, possedé benanche aedem Sancti Protomartiri Stefani de Azupa, cedente Luca Rapari Abbate. Senza dubbio doversi intendere essere stato il detto Luca uno degli Abati di S. Angelo al Raparo. A poca distanza dalla detta chiesa di S. Angelo evvi S. Maria delle acque, e da sotto della chiesa vedesi un gran masso con apertura, dalla quale esce gran quantità di acqua, capace di dar moto a diversi mulini, ma non è sempre perenne, ma è mirabile, perché dissecca nell’inverno e fluisce nell’estate; sebbene non sia l’unico fonte di tal natura, che abbiamo in Regno, e se ne sa la cagione. Un tal fonte è detto di Trigella e il Pontano ci fece un’elegante composizione, che leggiamo tra le sue poesie…». Tra l’altro si cita che «nelle sue falde è coltivato, non così al di sopra. Vi si menano gli armenti, che producono buoni formaggi, essendo benanche abbondante di erbe medicinali. Nel suo giro vi sono diversi paesi come Castelsaraceno, Sanquirico, Sammartino, Spinoso, Taranto…».





Per Teresa le poesie di Prospero sono come mappe di un linguaggio capace di raccontare se stesso nei cambiamenti cogliendo le sfumature di ogni realtà.

Iacovino ha messo in evidenza come la Lucanità è stata la prima fonte di ispirazione oltre alle tanti comuni esperienze. E Prospero ha concluso che oggi più che mai la poesia abbisogna di essere a tu per tu con il lettore e nel più totale silenzio.

Vincenzo Capodiferro

23 aprile 2023

The circle is unbroken- Gino Dal Soler a cura di Claudio Giuffrida


The circle is unbroken- Gino Dal Soler

Edito da Tuttle, 2011, pagine: 239

40 anni di Folk psichedelico e visionario


Un documento prezioso che recensisco con piacere, anche se non è più reperibile da Blow up-Tuttle edizioni, soprattutto proprio nella speranza di una nuova riedizione che gli amanti della musica Folk non potranno che apprezzare. Una guida ricchissima di documenti e fondamentale per orientarsi negli ascolti fino al 2011, data appunto della sua edizione.

Il testo è diviso in due parti: nella prima parte vengono raccontati in modo dettagliato gli “eroi” del Folk anni 60 e 70: nelle terre di Albione tra paradisi acustici e nirvana elettrici, le battaglie acide d’oltreoceano, quattro passi nel cosmo del kraut folk, il volo magico su tappeto volante in Italia; una seconda parte di qualche lustro dopo: il weird folk, il fingerpicking dei figli e nipoti di John Fahey e Robbie Basho, le radici ancestrali del doom folk, il Forest folk europeo.

Preziosa anche l’appendice di 101 oggetti del desiderio in ordine alfabetico: molti i dischi fondamentali ma molti anche quelli da scoprire, per creatività e capacità di offrire idee e stili, sogni e suoni di una generazione visionaria e ribelle.

Inizia con questa citazione a rinforzo della scelta del titolo del libro e che così traduco:

Le stagioni cambiano mentre sta piovendo qualcosa di crudele

Stavo aspettando oltre gli anni
Adesso ti vedo viaggiare verso l’orizzonte
Fratelli da sempre a riunirsi qui
Venite, costruiamo la nave del futuro
In un modo antico che viaggi lontano
Venite e veleggiamo verso l’isola dell’eternità.”

Robin Williamson – The circle is unbroken – 1968

Parte prima:

Si viaggia nelle terre di Albione con le dovute citazioni a Shirley Collins, Bert Jansch, Donovan il folk-hippy, Roy Harper il ribelle, l’aria solida di John Martin e la luna rosa di Nick Drake, l’esoterismo magico della Third Ear Band, la banda delle incredibili corde (ISB), la trimurti del folk rock inglese (Fairport Convention, Steel-eye Span, Pentangle). Pagine affascinanti di racconti e citazioni ricercate.

Mentre poi raggiunge l’oltreoceano dove infervorano “battaglie psichedeliche” grazie a Tim Buckley, i folksingers, le voci femminili dell’acid-folk americano. C’è anche il kraut folk teutonico tra jam sessions e dischi autoprodotti, il ruolo avuto dagli Amon Duul e da autori poco conosciuti da noi ma veri sperimentatori tra il folk-blues e l’oriente, l’acustica e l’elettronica di molte cult bands.

In italia alcune pagine di riconoscimenti verso Claudio Rocchi, gli Aktuala, Alan Sorrenti, Juri Camiscasca e le escursioni lisergiche degli Albergo Intergalattico Spaziale di Terra di Benedetto con Mino De Martino.

Parte seconda:

Gli inizi degli anni 80 con il cambio di rotta verso quello che viene definito il weird folk, Folk bizzarro e misterioso, un avant-free folk che pesca dall’improvvisazione come dalla tradizione americana.

Da Timothy Renner a Jeffrey Alexander, da Tara Burke a Sharon Krause e Helena Epvall, personalità musicali ben raccontate nella loro evoluzione musicale. E poi ancora di Marissa Nadler, Arborea e Devendra Banhart.

Nella California il collettivo Jewelled Antler dove natura e paesaggio diventano spazi sonori da condividere in comunità e ne esce una musica come di una moderna Arcadia elettroacustica.

Un capitolo interessantissimo sui figli e nipoti di John Fahey e Robbie Basho geni del fingerpicking: Glenn Jones e Ben Chasny, Sean Smith e Jack Rose chitarristi americani, James Blackshaw e Rick Tomlinson dall’Inghilterra.

Un capitolo dedicato alle radici ancestrali del Doom Folk, dove per doom si intende il destino tragico, avverso, in comune con le più tipiche murder ballads, ma qui con il suono che diventa heavy, di derivazione metal e post-punk, in particolare si racconta di Daniel Higgs in America e Alexander Tucker in Inghilterra.

Ultimo capitolo il Forest Folk che rappresenta i nuovi bagliori dalla vecchia Europa, con gli artisti che hanno contribuito ad espandere il territorio del folk propriamente detto: dalla Scozia di Daniel Padden e Alasdair Roberts, all’Irlanda con Dave Colohan, al Folk underground finnico dai nomi di artisti impronunciabili, esplorando ciò che di più innovativo ha prodotto l’Europa, con ballate legate ai suoi luoghi incontaminati ma arricchite dai suoni tecnologici, dall’improvvisazione e da una sana psichedelia.

Un viaggio approfondito attraverso molti artisti spesso sconosciuti e questo è un ulteriore merito di questo libro che stimola un approfondimento per comprendere come si sono allargati i confini della musica Folk fino a circa un decennio fa.

Gino Dal Soler: classe 1957, bolognese,ha iniziato a scrivere su re Nudo negli anni settanta, ha pubblicato nel 1996 Dances and Drones: mappe delle musiche più visionarie degli anni 90, e dal 1997 caporedattore di Blow up.

Originale pubblicazione su:

https://www.giannizuretti.com/articoli/the-circle-is-unbroken-gino-dal-soler/


© Claudio Giuffrida

21 aprile 2023

I collage di Dario Neira - Parole scritte con la pelle. A cura di Marco Salvario

I collage di Dario Neira - Parole scritte con la pelle.

A cura di Marco Salvario

Il corpo di ogni uomo si interfaccia con l'ambiente in cui vive grazie a un organo molto importante, l'epidermide; un paio di metri quadri di un sottilissimo tessuto che ci avvolge, ci protegge e ci consente di conoscere chi e cosa abbiamo vicino. È esclusivamente grazie alla pelle, di cui l'epidermide è lo strato più esterno, che il nostro cervello può ricevere informazioni relative alle caratteristiche dei corpi con cui entriamo in contatto e reagire di conseguenza.

Questa provvidenziale buccia è il materiale che Dario Neira utilizza come elemento base per i suoi collage. Sia chiaro, non è vera pelle: nessuno umano, uomo o donna, giovane o vecchio, ha subito il terribile suplizio di San Bartolomeo e di Marcantonio Bragadin, per permettere la realizzazione dei suoi lavori; semplicemente, Neira attinge alle illustrazioni di giornali e riviste, dove la pelle nuda è sempre esposta con generosità eccessiva, soprattutto per ammiccanti e ingannevoli scopi pubblicitari.

Invece nessuna speculazione erotica o pornografica è nei collage; la pelle è solo considerata come una finestra aperta verso il mondo, verso il nostro prossimo. Una finestra e un limite, una frontiera e una zona di scambio.



L'armonia di forme e le sfumature di colori nelle composizioni di Neira affascinano chi le osserva e non ci si rende subito conto, che spesso le forme risultanti rappresentano lettere e che le lettere compongono o suggeriscono frasi; ad esempio, quando alle lettere della parola “COLLAGE” si aggiunge una “R”, questa la trasforma e ne suggerisce altre - “CORAGE”, “CORE”, “RAGE”, “ORE” - in una specie di raffinato e dinamico Scarabeo. Altre opere permettono di leggere: “EDUCAZIONE SENTIMENTALE” o “TUTTE LE MIE MANCATE VITE”. In quest'ultimo caso, soprattutto quando non si è più giovanissimi come me e come l'artista, si rischia di smarrire il valore artistico del quadro per perdersi nei pensieri e meditare sul testo del messaggio, sulle mancate vite che non abbiamo percorso nel nostro passato, sui rimpianti piccoli e grandi, sui rimorsi spesso dolorosi che ci siamo lasciati alle spalle. Si pecca per pensieri, opere e per omissioni. Chi non ne ha dubbi sulle scelte che ha fatto, scagli pure la prima pietra.

Eppure questo è un ambiguo gioco di significati, livelli sovrapposti in cui si rischia di perdersi. Ci facciamo, io per primo, catturare ingenuamente da uno slogan e questo dimostra la nostra debolezza; è il messaggio che ha scritto, quello che voleva comunicarci l'artista, oppure, proprio al contrario, voleva metterci in guardia dal tradire i nostri giudizi personali per accettare passivamente, entusiasti e ciechi, quelli altrui, già pronti e confezionati?



Per apprezzare appieno un lavoro, cataloghi e riproduzioni digitali sono strumenti utili, ma spesso assolutamente inadeguati. Nel caso dei collage, la visione diretta permette di valutare il lavoro di costruzione, gli strati sovrapposti che, pur nel loro minimo rilievo, apportano una sensazione di tridimensionalità.

Questo è particolarmente vero per queste opere.

L'ultima mostra personale di Dario Neira, curata da Olga Gambari, ha come azzeccatissimo titolo: “PAROLE NUDE”. “Nude” perché scritte con la pelle, “parole” perché indagano sull'interfacciarsi semplice eppure complesso, tra l'individuo e il mondo che è fuori da lui.

La mostra è stata ospitata, per il periodo che va dal 27 gennaio all'4 aprile 2023, dalla galleria d'arte contemporanea “metroquadro”, nata a Rivoli nel 2008 e dal 2016 trasferitasi a Torino in Corso San Maurizio, a poca distanza da Piazza Vittorio Veneto.



Dario Neira è nato a Torino nel 1963. Medico chirurgo, esperto di biomedicina e psicoanalisi, trasporta tali conoscenze nella propria arte, e l'abilità con cui sa usare gli strumenti della sua professione di chirurgo, bisturi e forbici, gli è sicuramente utile nel taglio preciso e sicuro con cui dà forma agli elementi compositivi dei suoi collage.


FONTE: Dario Neira e la tecnica del collage: parole scritte con la pelle - OUBLIETTE MAGAZINE


20 aprile 2023

“ENCHIRIDION CELESTE” di Alessandro Ramberti a cura di Vincenzo Capodiferro


ENCHIRIDION CELESTE”

Raccolta ponderata e sensibile di Alessandro Ramberti

È uscita alle stampe la raccolta poetica “Enchiridion celeste” dell’autore Alessandro Ramberti, editore Fara, Rimini 2022. È una raccolta che si sviluppa in terzine, prototipo dantesco, anche se a schema libero, senza rima. È una raccolta ponderata, sensibile ai temi del tempo, dello spazio e dell’amore. Vi è un riferimento costante al “Clementissimo”. I componimenti si ergono come preghiere, brecce nel cuore, flessi di mondo. Vediamo:

Il Dio di Abramo e di Isacco

ci interroga, ci scuote

dal torpore, ci dona…

Come diceva Pascal: “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe non è il Dio dei filosofi”, è un Dio reale, col quale entriamo in contatto. È il Dio che da dentro ci sprona, è il “maestro interiore” di Agostino che ci parla dal fondo dell’anima, perché il fondo dell’anima, come ci insegnano i mistici tedeschi, è Dio stesso, è l’abisso.

Cosa ti anima quando

resinosi cipressi

sconvolgono i ricordi …

Il cipresso è simbolo della morte, ci ricorda i “Sepolcri” foscoliani, ma anche i cipressi carducciani “che a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar”.

Puoi cogliere la mano

che aleggia sull’abisso

con fedeltà assoluta?

È quel salto pascaliano nel vuoto che si giustifica solo con una fede cieca, è quel salto al terzo stadio di Kierkegaard, quello religioso: dal don Giovanni al consigliere Guglielmo, dal consigliere Guglielmo ad Abramo, nostro padre nella fede.

Alessandro Ramberti, laureato in Lingue orientali a Venezia, ha pubblicato: “Racconti su un chicco di riso” (Pisa 1991); “Vecchio e nuovo” (2019); “Faglia” (2020); “Medela” (2021); “La simmetria imperfetta” (2022).


Vincenzo Capodiferro

19 aprile 2023

OPERAZIONE VERITA’ PER IL PNRR di Antonio Laurenzano


OPERAZIONE VERITA’
 PER IL PNRR

di Antonio Laurenzano

Conto alla rovescia per l’ “Operazione verità”. Italia sotto esame per la terza tranche di 19 miliardi dei fondi del Pnrr, il pilastro del programma europeo Next Generation Eu, varato nel 2020 per un’Europa più unita e solidale. Entro la fine di aprile Palazzo Chigi dovrà inviare a Bruxelles la proposta di revisione degli investimenti in termini realizzativi. Pochi giorni per il Governo per fare un check up e decidere quali progetti vanno modificati o addirittura eliminati dal Piano di ripresa e resilienza. La trattativa con la Commissione europea riguarda la rimodulazione di alcune parti del Piano sollecitata dal Ministro Raffaele Fitto, dovuta al lievitare dei costi delle materie prime e alla consapevolezza che alcuni capitoli di spesa possono entrare in una fase critica e non essere attuati entro la scadenza, prevista a giugno del 2026. “La priorità è non perdere i fondi, ma c’è bisogno di realismo, ha osservato il Ministro, bisogna prendere atto di quello che è possibile fare e di quello che non si può fare”. Spostare cioè gli investimenti in ritardo su altri percorsi, non in scadenza nel 2026, per evitare il rischio di perdere le prossime sette rate di finanziamento europeo.

Sono in gioco i 209 miliardi, tra sovvenzioni a fondo perduto e prestiti ultra agevolati, concessi all’Italia dall’Ue dopo la tragedia della pandemia: un’occasione irripetibile per il rilancio di un Paese fermo da tempo, una straordinaria opportunità per affrontare i problemi strutturali attraverso riforme profonde e investimenti pubblici a sostegno della domanda aggregata. Il nodo da sciogliere è quello di sempre: burocrazia, deficit di infrastrutture, carenza di personale adeguato. Rilevante la distanza tra la capacità di spesa chiesta dal Pnrr e quella permessa dalla obsoleta struttura della pubblica amministrazione. L’abbondanza di risorse destinate al piano di ripresa si scontra con la povertà (cronica) di capacità realizzative dello Stato. Le disfunzioni del nostro apparato politico-amministrativo sono profondamente radicate e costituiscono un serio ostacolo per l’utilizzo dei fondi comunitari. Si rischia di azzerare un’opportunità storica, una sorta di “Piano Marshall bis”. Sprecarla sarebbe un clamoroso autogol economico-sociale, oltre che un duro colpo all’immagine del sistema Italia. Accelerare dunque ogni procedura, perché, ha commentato l’economista Francesco Giavazzi, “spostare in là delle scadenze del Pnrr è da evitare, non è nel nostro interesse”. La crescita del 2023 sarà infatti determinata in gran parte dagli investimenti del Pnrr che genereranno un impulso alla domanda pari a 2-3 punti di Pil in un solo anno, portando la crescita al 3%.

Il punto di non ritorno è la recente relazione presentata alla Camera dalla Corte dei Conti, con la rivelazione che del tesoretto del Pnrr, alla fine del 2022, l’Italia ha speso solo 21 miliardi, legati a 107 delle 285 misure elencate nel Piano. Ma in realtà, al netto dei crediti d’imposta automatici per le imprese e l’edilizia, sono soltanto 10 miliardi, con un tasso di realizzazione del 6%. Nella eloquenza dei numeri il quadro appare chiaro: la spesa effettiva ha viaggiato ai minimi termini con conseguente modesta accelerazione data finora al Piano. Trasparenza, responsabilità e serietà. La Commissione europea attende dalla rinnovata task force di Palazzo Chigi una proposta concreta per negoziare una tempistica del Piano meno rigida.

Restano sul tappeto polemiche e accuse politiche. L’emergere dei ritardi nell’attuazione del Piano ha dato il via al balletto del “tutti contro tutti”: la solita sagra dei rimpalli delle responsabilità, sullo sfondo di emergenze congiunturali e problemi strutturali. Sul banco degli imputati, in primis, l’ex premier Giuseppe Conte reo di “aver fatto man bassa” dell’intera quota europea spettante, fra sussidi e prestiti, senza una valutazione della oggettiva possibilità di utilizzo. Un approccio sbagliato perché, secondo alcuni osservatori “fin dall’inizio risultò chiaro che sarebbe stato impossibile spendere tutti questi soldi in modo corretto, veramente utile, su progetti seri e ben coordinati.” La risposta alle critiche arriverà dai fatti, ossia dall’auspicabile azione di rilancio del Pnrr da parte del governo per realizzarne le sei missioni: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, infrastrutture, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute. Il tutto supportato dalla riforma della Pubblica Amministrazione, della giustizia, della concorrenza e dalla semplificazione delle procedure amministrative. Un severo banco di prova per superare il quale rimane di grande attualità il messaggio di fine mandato di Mario Draghi: “la politica italiana sa ottenere grandi risultati quando collabora tra forze politiche di colori diversi ma anche tra Governo centrale ed enti territoriali, il Pnrr non è il Piano di un governo, ma di tutta l’Italia, e ha bisogno dell’impegno di tutti per garantire la riuscita nei tempi e con gli obiettivi previsti.” Per l’Italia una sfida epocale per attivare uno sviluppo sostenibile, superare cioè i rischi derivanti dalla incertezza politica, dalla crisi energetica e dall’aumento dei costi di finanziamento. Occorre una notevole e coesa volontà politica per dare concretezza all’azione di governo, accantonando ogni sterile protagonismo per privilegiare gli interessi superiori di un Paese in forte affanno socio-economico. La crescita non scaturisce solo da variabili economiche. Dipende dalla credibilità del sistema Italia sui mercati finanziari internazionali. Fattori che determinano il progresso di un Paese a patto di una “unità intesa non come una opzione ma come un dovere.”

Miriam Ballerini Progetto a cura di Marcello Sgarbi


Miriam Ballerini

Progetto

Disponibile solo su www.amazon.it

Ho poca dimestichezza con il territorio della poesia, mi ci muovo disorientato come un rallysta senza il suo navigatore. Ed è forse questo il motivo per cui sono riuscito ad apprezzare i versi di Miriam Ballerini, la tenutaria di questo blog.

Perché il suo poetare è fatto di immagini semplici e immediate, comprensibili a tutti, osservate con uno sguardo attento al dettaglio ed evocate con tono lieve.

Miriam ci fa vedere quello che scrive e ci coinvolge. Tanto da oltrepassare i limiti imposti dalla pagina per farci provare una commozione sincera, così come ribadisce lei stessa nell’esergo che segue la sua introduzione a questa raccolta, mutuato dallo scrittore Nicholas Sparks: “La poesia non è stata scritta per essere analizzata. Deve ispirarci al di là della ragione, deve commuoverci al di là della comprensione”.

Nella metrica dell’autrice brillano i paragoni e le metafore, quasi sempre legati al mondo della natura, presente molto spesso insieme alle tematiche sociali anche nei suoi racconti e nei suoi romanzi.

Come nella poesia La strada, dove “La tastiera di un pianoforte fa da ponte a una vecchina che attraversa appesa alla borsa”. Sembra di assistere alla scena. E notare il passo lento della donna, così stanco da suscitare un paradosso visivo: è lei ad appendersi alla borsa, non il contrario.

Le similitudini di Progetto, il componimento che dà il titolo alla raccolta, insieme a Come stelo mi ricordano l’antologia di prosa e poesia Come fiori sul ciglio della strada: “O forse siamo girasoli mancati,/coi petali a coprirci lo sguardo,/ che rasenta l’imperfetto del suolo,/anziché spingersi/in alto, a guardia del tuo sguardo?”.

A volte si fanno pittoriche, per esempio quando Miriam scrive: Lecco il gusto/cioccolato fondente/ della notte./Un lampione piange giallognolo,/tratteggiando il volo nero dei pipistrelli”. E a me sembra di contemplare i contrasti stridenti delle opere vangoghiane Caffè di notte e Campo di grano con volo di corvi.

Le metafore offrono immagini inedite, in particolare nella poesia Papaveri e ancora di più in Cosa rimane, in cui la speranza viene definita un gelato al sole che cola troppo presto su una cialda dolce, ma subito amara, perché finisce, sfinendo la lingua che ancora cerca un gusto scomparso.

Oppure suscitano impressioni uditive, come in VentoUno schianto d’elica/rompe il mosaico del cielo,/intessuto dai voli sottili,/d’ali di passero”. E più avanti: “Mentre uno struscio di foglia,/rinsecchita e rugosa,/ si trascina sulla strada sottostante./E rende sonoro il vento che turbina, fuori e dentro di me”.

Dalla pittura alla letteratura, Nuovo anno provoca rimandi al Diario di Katherine Mansfield ed Eremita a Il barone rampante di Italo Calvino: La natura non è mai vile/e niente temo nel grembo/della mia capanna sull’albero,/lontana dai tranelli/di un mondo che non oso/più riconoscere come mia patria”.

O ancora sembra echeggiare Dickens, come in Stelle di cartone, dove risplende un’altra metafora: “Se nevicherà avrò almeno una coperta./Candida panna con la quale guarnire/la mia torta al sapore di nulla”.

E non si può non pensare a De André con le poesie dedicate agli ultimi, fra cui spiccano per il loro afflato di umanità Un viaggio senza speranza, L’urlo e Rumeno.

Di umanità, con le sue tensioni e le sue contraddizioni, a volte addirittura disperata, alla deriva, parlano Vuoti a rendere e Matrioska, ma soprattutto Delusione e Clandestini. In Delusione Miriam scrive: Quante volte ho poggiato su braccia sbagliate,/la mia fiducia; donata vestita a festa,/tornava a casa violata,/a cenci sdrucita./I falsi amici sono come i rifiuti,/ in un bosco,/gli alberi pare respirino,/ma la sporcizia/soffoca il terreno.

E in Clandestini: “Nessuno può impadronirsi/di un mondo in prestito./Siamo affittuari, casomai;/pedine poste a caso/su una scacchiera dove/ogni giorno/la partita cambia giocatori”. In Uomo? L’autrice si spinge a provocare, prendendo a prestito l’undicesimo comandamento, quello non scritto sulle Tavole della Legge ma portato da Gesù con il Nuovo Testamento: “Ama il prossimo tuo come te stesso. Ti ami?”.

L’attenzione di Miriam Ballerini verso la persona, il rispetto per la sua identità e la sua dignità, sono del resto ribaditi anche nella postfazione alla raccolta: Alla fine è sempre e solo una la parola che ci lega: umanità. Siamo tutti umani, ognuno con le nostre differenze a farci unici e speciali”.

E non può mancare un tributo al proprio mestiere, come si legge in Pensieri vanesi: “Perché la scrittura non mente./Si avvinghia ai fogli e si dà vergine/ a chiunque la voglia leggere./ Non si prostituisce atteggiandosi/all’artista dei bla bla bla”.

Progetto è una prova d’autore matura, che conferma il talento versatile di Miriam Ballerini.

© Marcello Sgarbi

15 aprile 2023

TORTURA DEMOCRATICA: FINE PENA MAI a cura di Carmelo Musumeci

 


TORTURA DEMOCRATICA: FINE PENA MAI


Un (ex) ergastolano ostativo libero è l’eccezione che conferma la regola, ma si sente come un reduce: la guerra è finita, ma non è finita nella sua testa.  Questa notte ho sognato di essere di nuovo in carcere, a fare i soliti discorsi che facevo con i miei compagni, per più di un quarto di secolo:

 - La “Pena di Morte Viva” ti lascia in vita. Nient’altro!
- Non abbiamo niente in cui sperare per il resto della nostra vita.
- L’Uomo Ombra ha solo due anime, una per il passato e una per il presente, non ne ha nessuna per il futuro.
- Per un ergastolano ostativo la morte è come un’amica che ti viene a salvare, aprendo il cancello della tua cella.
- A volte penso che i buoni fuori dal muro di cinta non ci daranno mai la libertà, né la speranza di averla un giorno.
- E se non ci ammazzano non è perché sono buoni, ma per torturarci di più.
- Non è vero che molte vittime dei nostri reati vogliono giustizia... cercano solo una lecita vendetta... nient’altro.
- Gli Uomini Ombra chiamano questo maledetto posto "l’Assassinio dei Sogni", perché in galera, per vivere, devi sognare.
- L’Assassino dei Sogni è ghiotto dei sogni di noi prigionieri...
- I sogni che gli piacciono più di tutti sono quelli degli Uomini Ombra, perché sono i più belli.
- Devi sapere che il carcere è molto peggio di quello che pensi e di quello che immagini adesso.
- Io ne so qualcosa, perché sono al quarantatreesimo anno di galera.
- Alla lunga dentro di noi non sopravvive più nessun sogno.
- Credimi, non c’è nessuna via d’uscita davanti a noi.
- L’unica possibilità che ci è rimasta, per soffrire di meno, è pensare come pensano i morti.
- D’altronde, l’Uomo Ombra non può fare altro che aspettare, aspettare sempre e aspettare ancora, fin quando il suo cuore non smetterà di battere.
- Ti confido che questa mattina, come mi capita sempre più spesso, ho pensato: che cosa ci sto ancora a fare su questa terra? Da qualche anno non riesco più a trovare buoni motivi che mi spingano a vivere.
- Devi sapere che non riesco più a trovare nessuna ragione per vivere: giorni, notti, mesi e anni senza esistere.
- L’Uomo Ombra vive al buio e anche di Dio non può vedere che la sua ombra.
- Viviamo distaccati ed estraniati da tutti gli altri prigionieri, nel nostro mondo di solitudine e ombre.
- Il carcere è un mondo di paura, solitudine e angoscia.
- Persino le sbarre soffrono e piangono, perché sono sbattute e picchiate tutti i giorni per controllare se durante la notte siano state segate.
- Nel cuore di un Uomo Ombra arriva solo l’eco della vita che è al di là dal muro di cinta.
- Qui viviamo solo in un mondo di ombre.
- E possiamo usare solo i nostri sogni per immaginare la realtà che c’è nel mondo dei vivi.
- Il dolore di un Uomo Ombra, che non tornerà mai libero, è come l’acqua di una fonte che non smette mai di sgorgare.
- Per noi vivere è come bruciarsi senza riscaldarsi.
- Gli Uomini Ombra non possono fare altro che stringere i denti e sopportare l’esistenza, perché non hanno neppure il diritto di riposare, visto che non sono ancora morti.
- Siamo come cadaveri in attesa di essere sepolti.
- A differenza dei morti abbiamo la vita, ma che vita?
- L’ergastolo è peggiore della pena di morte perché, mentre i prigionieri defunti dormono e riposano sottoterra, gli Uomini Ombra in vita si dannano l’anima sopra la terra.
- Siamo vivi perché continuiamo a respirare, ma sarebbe meglio essere morti, perché è terribile non essere né vivi né morti. La nostra pena assomiglia a una morte al rallentatore, bevuta a gocce, perché moriamo un po’ tutti i giorni e tutte le notti.

 Per fortuna ad un tratto mi sono svegliato e mi sono reso conto che avevo sognato di essere ancora dentro, ma poi ho subito pensato che i 1.784 ergastolani (dati del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria aggiornati al 2020) si veglieranno, nella stragrandissima maggioranza, da morti, perché i paesi democratici non uccidono una volta sola, ma un po' tutti i giorni e un po' tutte le notti e i bugiardi dicono che non lo fanno per vendetta, ma per giustizia.

Carmelo Musumeci
Aprile 2023

 

14 aprile 2023

Cornell Woolrich – Appuntamenti in nero – a cura di Marcello Sgarbi


Cornell Woolrich
Appuntamenti in nero – (Einaudi)


Collana: Einaudi Stile Libero

Pagine: 252

EAN: 9788806156404

Forse un po' sottovalutato rispetto ad altri autori, anche Woolrich si inserisce a pieno titolo nella tradizione dei grandi giallisti. Maestro della suspense, che calibra sapientemente con un innato senso del ritmo, ha scritto fra l’altro “La sposa era in nero” da cui è stato tratto il quasi omonimo film “La sposa in nero” diretto nel 1958 da François Truffaut.

In questa crime story a mio modo di vedere Woolrich si supera, già solo a partire dall’idea che permette lo sviluppo di tutto l’impianto narrativo. Come tanti, Johnny Marr è un ragazzo innamorato e ogni sera aspetta impaziente di incontrare la fidanzata, davanti a un drugstore, sulla piazza principale della loro cittadina. È un 31 maggio e come tutte le sere anche in quel momento Johnny è lì.

Il tempo passa ma Johnny si ostina, sa che lei di sicuro lo raggiungerà. Il silenzio della sera è rotto in lontananza dal rumore di un aereo. Di lì a poco, Marr vede la folla aggregarsi in un punto della piazza. Si fa largo per capire se anche la sua ragazza è fra quella gente e scopre che lei è lì, morta sul selciato, colpita da una bottiglia lanciata dall'alto.

Johnny non accetta l’assurdità della tragedia e per diverso tempo la rimuove. Ogni sera aspetta, alla stessa ora, nutrendo paranoicamente un desiderio folle. Nella piazza ormai tutti lo conoscono. Qualcuno lo comprende, altri lo compatiscono. Poi Johnny scompare.

Assumendo nomi diversi, ma mantenendo le iniziali J e M, si introduce in tutte le compagnie di noleggio di aerei e trova finalmente un documento che gli permette di dare inizio a una spietata, implacabile, perversa vendetta.

© Marcello Sgarbi

13 aprile 2023

ASPERGER di Ninetta Pierangeli

ASPERGER di Ninetta Pierangeli 


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Vale dedicargli qualche parola, per originalità narrativa, per quel gusto di autentico che resta.
Trovarsi senza mediazioni nella vita reale: la lettura di "Asperger" di Ninetta Pierangeli (Ed. L'Erudita), un romanzo ambientato in un centro per l'assistenza psichica, psicologica e neurologica di Roma, cucito insieme dai frammenti delle singole voci dei vari protagonisti, convergenti, ciascuna con la propria umanità, in una parola concorde. L'autrice è attenta alla libertà dei personaggi coinvolti, non pone filtri ai loro pensieri, ai sentimenti che li conducono, determinati dal dramma dell'esperienza personale, ciascuna piena del proprio nocciolo di sofferenza e insieme di attesa di liberazione.
Non suggerisce neanche, e ciò contribuisce molto alla verità della sua narrazione, soluzioni a buon mercato o prospettive rassicuranti. Il dolore, sembra dirci, contro cui normalmente ci si dibatte volontaristicamente, è un mistero da lasciare intero, in tutta la sua radicale attesa di essere salvato.
Di fronte ad esso, l'unico comportamento umanamente giusto sembra allora quello di Silvana: forse il personaggio alter ego dell'autrice, che con la sua anima triste sente, innato, il compito di soffrire l'abisso del dolore degli uomini, ma restando alla speranza, finché un giorno il grido si sciolga, come una farfalla dal parto di una crisalide.

(c) Carla Cenci


https://www.giulioperroneditore.com/prodotto/asperger/

12 aprile 2023

Tarlo fatale di Santi Moschella a cura di Vincenzo Capodiferro


TARLO FATALE

Una riflessione sulla vita e sulla difficoltà di essere uomini, di Santi Moschella


Tarlo fatale” è un’opera di Santi Moschella, pubblicata da Tracce per la Meta, Borgoricco, febbraio 2023. Si legge nella prefazione, di Anna Maria Folchini Stabile: «Una riflessione sulla vita ed in particolare sulla difficoltà di essere uomini coerenti con principi, idee, affetti, desideri, educazione e valori, che bene o male l’esistenza offre a tutti, ma che non tutti ricordano o riconoscono e applicano nelle varie situazioni che la vita stessa offre». “Tarlo fatale” è un romanzo sociale, dedicato al dramma del gioco patologico. Conoscendo la grandiosa intellettualità di Santi, la sua lunga esperienza di magistrato, possiamo con certezza riconoscere che in quest’opera ha messo tutto sé stesso, la sua mente e soprattutto il suo cuore. Santi proviene dalla Sicilia ed attua, con la stessa metodicità che offriva il naturalismo francese di Zola, un’analisi sociologica di questo dramma, anche se le conclusioni si avvicinano al verismo italiano, al Verga. I vinti di Santi, come quelli di Verga, sono irredenti. Non c’è una Provvidenza, come in Manzoni, che soccorre Renzo e Lucia, i deboli. Questa analisi sociale è condotta con la stessa meticolosità di un’indagine giudiziaria. L’opera è bellissima perché è sintesi di poesia e prosa. È un’opera completa. «Menzogna innocente. Quella menzogna innocente e strumentale alla chiusura in se stesso del giocatore seriale. A volte giunge perfino a dichiarare che giocare è sbagliato. A volte giunge perfino a dichiarare che chi gioca perde. E più o meno consapevolmente intende deviare l’attenzione degli altri, affinché non si rendano conto della prigione, delle sabbie mobili in cui egli è caduto». I mali della società capitalistica, il gioco, le droghe, surrogati di utopistici soddisfacimenti di bisogni primordiali, vengono passati in rassegna con occhio vigile: la società liquida non perdona. È facile cadere in quelle sabbie mobili di cui parla Santi. Non ci sono più scogli, riferimenti morali, religiosi, politici, sociali. L’uomo vagola smarrito nel buio: perciò si parla di difficoltà di essere uomini. La generazione odierna, rispetto a quella precedente, sanguigna, battagliera, fiera degli sconvolgimenti sociali e politici degli anni Settanta, è, invece, flemmatica, fragile. Non è facile. La lettura del libro di Santi ci aiuta a capire come il mondo va oggi e ci offre anche in controluce la medicina, il farmaco, che in origine etimologica è anche il veleno, ciò che è amaro, ciò che serve per curare questi mali che affliggono la società: offrire nuove prospettive che diano senso all’esistenza umana.

Santi Moschella nasce a Santa Teresa di Riva, in provincia di Messina, nel 1957. Conseguita la maturità presso il Liceo Classico “Trimarchi”, partecipa alla vita sociale e politica della sua città. Avvocato, attualmente dirige la Segreteria della Corte di Giustizia tributaria di Varese. Svolge attività di volontariato ed è socio fondatore del Centro Storico Italiano, sezione di Varese. Ha pubblicato con Armando Siciliano Editore i seguenti romanzi storici: “Spesso ti dicono di non arrenderti” (2012); “Mi chiamo Giuseppe. Per gli amici Peppino” (2014); “Gghiotta sturiusa di cuntu di amri di ventu” (2019); con Tracce per la Meta “Così è se mi piace” (2016).

Vincenzo Capodiferro

07 aprile 2023

05 aprile 2023

Progetto di Miriam Ballerini a cura di Vincenzo Capodiferro


PROGETTO

Un’antologia sofferta ed incantata di Miriam Ballerini

Scrive l’autrice: «Dal titolo di una poesia in cui domando a Dio cosa davvero volesse creare quando ci ha ideati, è nata questa antologia. Non mi sono mai reputata una poetessa. Scrivo romanzi, scrivo racconti … le poesie sono quelle storie in cui m'imbatto, troppo grandi per la mia anima, troppo minime per crearne qualcosa di più, se non delle riflessioni incisive. Così come nella narrativa sociale, che è ciò di cui mi occupo nella mia professione, anche quando la mia penna si dedica alla poesia, l'attenzione è sempre rapita dalle storie degli ultimi; spesso dalle manifestazioni della natura». Da anni Miriam Ballerini si dedica alla letteratura sociale. Il suo sguardo è fisso sugli ultimi, sui bisognosi. La letteratura, come nel naturalismo di Zola, si fa carico di descrivere il disagio sociale delle classi più abiette. Spesso la voce di Miriam sfocia in aperto, pessimistico, verismo. Per i vinti non c’è speranza, non c’è redenzione. Eppure il letterato può dire il vero, può denunziare.

Scrivo e so

che quando consegno

le mie parole al mondo,

ognuno ne farà origami o esempio.

Scempio.

Poi ti trovi in questi festini,

dove ognuno pretende che

la penna sua, sia migliore dell’altra.

E come è vero. C’è troppa competizione tra autori. Non c’è l’alleanza degli intellettuali che potrebbero cambiare il mondo, se solo, come si auspicava Cattaneo, si associassero le menti. Non ci sono scuole o correnti dominanti che riescano a dare un senso vero alle cose, persi tra le onde della società liquida dove è difficile anche interpretare. Nietzsche: - I fatti sono stupidi senza l’interprete! Il letterato da sempre si è fatto carico di questa funzione interpretante ed orientante. Oggi non più!

Ma certo! Ridi!

Non come molti,

con le labbra strette,

intimorite che un raglio fugga;

ma con lo sboccio pieno

di tutta l’ilarità.

Ci ricorda il leopardiano: Godi, fanciullo mio; stato soave…: è uno schietto invito al carpe diem, in una vita che fugge, spesso amara, dominata dallo schopenhaueriano pendolo tra dolore e noia. Nella letteratura di Miriam ci sono tutti: il rumeno, l’acchiappasogni, la matrioska, l’emigrante. Come scrive ella: «Alla fine è sempre e solo una la parola che ci lega: umanità. Siamo tutti umani, ognuno con le nostre differenze a farci unici e speciali». È l’ideale del Nihil Umanum… Non esistono i superuomini, ma esistono senz’altro i sottuomini: a loro dobbiamo rapportarci per capire l’umanità. Anche Nietzsche alla fine l’aveva capito. Siamo tutti inetti, inutili, limitati, provvisori.

Questa antologia è una sintesi perfetta della vita di Miriam, della sua letteratura, sempre attenta e sensibile ai bisogni dell’altro, soprattutto degli ultimi. Le condizioni più deplorevoli dell’umanità ci rivelano il vero senso dell’uomo. Non lo vediamo nella ricchezza, nei miti sempre antichi e sempre nuovi del successo, dell’eroismo, che oggi si rivela nei telematismi, negli ultraversi e metaversi, nelle vite parallele vissute sul portale di un cellulare o di un computer, o sulle lenti di occhiali tridimensionali. Rischiamo di non vedere più il mondo così com’è, di eludere ed anestetizzare il dolore e la morte nell’eutanasia vivente. La morte è vera essenza della vita, come diceva Heidegger (l’essere per la morte!) e come ci ammoniva Sant’Alfonso nel suo “Apparecchio”.

© Vincenzo Capofiderro


03 aprile 2023

Le opere di Susy Gómez alla galleria Giorgio Persano. A cura di Marco Salvario

Le opere di Susy Gómez alla galleria Giorgio Persano.

A cura di Marco Salvario

La galleria Giorgio Persano ha cominciato la sua attività nel 1970 e, da allora, ha portato avanti un interessante percorso di produzioni, mostre ed eventi. Dal 2020, la sua sede è a Palazzo Scaglia di Verrua, edificio di grande valore storico e artistico nella zona del quadrilatero romano di Torino.

Palazzo Scaglia di Verrua, costruito a cavallo del 1600, è stato risparmiato dal Barocco, che nel periodo successivo ha ridisegnato il volto di Torino, l'unica altra costruzione torinese rimasta fedele all'epoca rinascimentale è il Duomo di San Giovanni, ma non dalla seconda guerra mondiale, durante la quale è stato gravemente danneggiato dai bombardamenti incendiari del novembre del 1942 e dell'agosto del 1943, che ne causarono il crollo del tetto. I restauri ne hanno recuperato, almeno in parte, la bellezza originaria. Sulla facciata e nei cortili, si possono ammirare gli affreschi del bresciano Antonino Parentani.



Nei suoi locali al primo piano, dal 24 gennaio all'11 marzo 2023, la galleria Giorgio Persano ha ospitato una personale di Susy Gómez, nata nel 1964 a Pollensa, sull'isola di Maiorca, e specializzatasi alla facoltà di Belle Arti di Barcellona. Negli anni novanta l'artista spagnola allestisce con successo le sue prime mostre e comincia la collaborazione con la galleria Giorgio Persano. Le sue opere sono perlopiù rivolte a indagare le relazioni tra individuo e società, tra arte e spiritualità, tra libera espressione e vincoli culturali. Nella sua produzione, l'uomo perde la propria identità nella molteplicità delle possibili interazioni con il contesto in cui è destinato a vivere, perché non esistono comportamenti obbligati, scelte giuste o sbagliate.


Via Nuova” è la scultura che dà il titolo alla mostra.

L'artista, mentre era in meditazione durante una sua performance, si è fatta ricoprire di porcellana; quando la pasta si è solidificata formando una specie di guscio rigido, Susy Gomez l'ha spezzata per liberarsi e uscirne. Successivamente le due parti in porcellana sono state dorate. Molteplici i significati tra i quali, forse quello di più immediata lettura, è la condizione della donna rinchiusa in una prigione dorata, che può trovare solo in se stessa la forza per emanciparsi e affermarsi. Una donna altrimenti schiava della cultura maschilista, ma anche di se stessa e della propria passività.

La mostra, oltre ad alcuni disegni giovanili, accoglie cinque grandi opere fotografiche, formato 180 x 240 centimetri, tutte realizzate nel 2022. L'artista spagnola sceglie dalle pagine delle riviste di moda femminile le illustrazioni che più la colpiscono e su di esse interviene con dense e monocromatiche pennellate di colore; a questo punto, fotografa la propria opera e la stampa ingrandita su lastre di alluminio.

Le opere sono presentate non appese contro le pareti come normali quadri, ma leggermente inclinate, e questo le rende quasi tridimensionali; letteralmente ci si sente spinti a entrare nell'immagine, come si può varcare una porta aperta.

In modo non diverso dalla scultura “Via Nuova”, la figura femminile viene a essere umiliata, cancellata, schiacciata sotto la vernice; riescono a mostrarsi le mani o le gambe o il viso. È come se il corpo fosse stato costretto a indossasse un opprimente burqa. Un annullamento che si riflette anche nel (non) titolo delle opere: “Sin Título N° ...” e un numero progressivo da 269 a 273.

Eppure la donna, pur resa sommersa nel parallelo del processo fotografico e nella società, non è mai completamente sopraffatta: dove più spesso sembra il velo di vernice che la ricopre, proprio lì si riescono ancora a cogliere i lineamenti di un volto o del corpo. Tracce che sembrano annunciare il seme ancora vitale di una ribellione, di una rivincita contro i preconcetti di un'anacronistica tradizione patriarcale e maschilista, anzi è meglio usare il termine “machista” per adattarci alla realtà spagnola dell'artista.



Via Nuova” è la quinta personale di Susy Gómez ospitata alla Giorgio Persano, la prima è stata[mi:]”

nel 1995 e da allora l'artista ha continuato il suo coerente percorso di ricerca e sperimentazione, ogni volta riuscendo a regalare nuove e diverse emozioni. Nel 1997 è stata presentata la mostraLa Casa Que Hoy Soy”, nel 2001 “Si Pudiera Decir Lo Contenta Que Estaba”, che sembrava avvicinarsi al surrealismo pur in un contesto di critico e sarcastico disincanto, e nel 2014 “Dias blancos“ dove, pure in un'atmosfera meno repressa anzi quasi di sereno ricordo, possiamo trovare le scelte tecniche della produzione recente.


FONTE: “Via Nuova”: mostra di Susy Gómez presso la Galleria Giorgio Persano a Torino sino all’11 marzo 2023 - OUBLIETTE MAGAZINE

Vicenza Jazz XXVIII Edizione 13-19 maggio 2024

                                        Vicenza Jazz                                          XXVIII Edizione 13-19 maggio 2024     ...