30 gennaio 2020

La fine del principio di Angelo Ivan Leone

La fine del principio di Angelo Ivan Leone

I dati di queste elezioni regionali sono sotto gli occhi di tutti e stanno a testimoniare:
1 La sconfitta di Matteo Salvini nel suo progetto di dare la spallata finale al governo nazionale. Sconfitta a livello nazionale perché così ha condotto la campagna elettorale ed ora è normale che ne paghi le conseguenze. Prima tra tutte la messa in discussione come capo dell'opposizione, perché anche dove ha vinto, in Calabria, la destra che ha vinto è quella forzista e non leghista. A questa messa in discussione della persona ne conseguirà la messa in discussione della sua stessa strategia politica che ha incassato la prima vera, grande e cocente battuta d'arresto, dopo la crisi scatenata a ferragosto che lo ha portato ad uscire dal governo di cui era, tutto insieme: il cavallo trainante, la mosca cocchiera e il centravanti di sfondamento. In una sola parola: il demiurgo e che Platone ci perdoni.
2 La debacle dei 5 stelle che, dopo il grandissimo risultato delle politiche, sono passati di sconfitta in sconfitta fino al disastro attuale che condanna il movimento all'irrilevanza sia in Calabria sia in Emilia Romagna dove i 5 stelli erano nati con le loro prime manifestazioni. Ora che è sconfitto e condannato all'irrilevanza nel voto regionale, senza un capo perché Di Maio si è dimesso ancora prima di sapere l'esito regionale, segno che si sapevano i numeri del disastro e superato nonché surclassato dalle sardine nelle piazze, per il movimento si apre una fase convulsa e critica che lo trova, al governo del Paese come forza di maggioranza relativa. Da una situazione del genere si può o rinascere con idee, strategie e uomini nuovi o cadere in preda al cuoio dissolvi delle secessioni e dell'irrilevanza anche nel voto nazionale.
3 La vittoria da Fort Alamo ottenuta dal PD in quello che era, è e, con tutta probabilità resterà per parecchi anni ancora, la sua roccaforte. Se il PD avesse perso in Emilia Romagna poteva implodere e dare una scossa tellurica non solo e non tanto al governo quanto all'intero sistema Paese. Ora questo non è avvenuto ergo con questa vittoria il PD e il suo segretario Zingaretti ne escono rafforzati e possono avere modo di fare politica con le mani libere.
Churchill avrebbe detto che "se non era l'inizio della fine era sicuramente la fine del principio."

Macelleria carceraria a cura di Carmelo Musumeci

MACELLERIA CARCERARIA

“L’articolo 27 della Costituzione parla di pena, non di carcere. Noi abbiamo una tradizione centrata sul carcere, ma la Costituzione lascia un campo molto aperto e non è detto che il carcere sia sempre la pena più adeguata” (Presidente della Corte Costituzionale)

Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose, pestaggi, abusi, soprusi, sovraffollamento. Eppure nessuno ne parla, (o quasi, ma lo fanno in pochi) nessuno affronta il problema delle molte Guantanamo che ci sono in Italia. Non starebbe a me dire certe cose, io non ho la moralità e l’intelligenza dei nostri governati, politici, intellettuali e uomini di chiesa. Io sono un avanzo di galera, un delinquente, e per giunta pure ergastolano in liberazione condizionale, eppure sento il dovere di farlo lo stesso.

Tutti sanno che in Italia il carcere quando va bene è una fabbrica di stupidità umana e quando va male è una fabbrica di ingiustizia. È come se chi andasse all’ospedale morisse, invece di guarire. Il carcere così com’è produce carcere, si nutre di male per produrre altro male e nuovi detenuti. La privazione della libertà non dovrebbe essere considerata l’unica forma di pena, non lo dico io ma lo afferma l’attuale Presidente della Corte Costituzionale. Sì, è vero, il carcere, per qualsiasi classe politica e per qualsiasi governo, porta consensi e voti elettorali, ma sono consensi e voti che grondano sangue, morti e odio. Questa, a mio parere, non è più giustizia, è solo vendetta sociale, di uno Stato ingiusto che guadagna sulla sofferenza, sia delle vittime sia degli autori dei reati. Nei miei 29 anni di carcere ho capito che spesso i “buoni” fanno i criminali per nascondere di non essere buoni mentre i veri criminali fanno i forcaioli per continuare ad essere criminali.

Con il decreto di sicurezza bis si è andati a gettare benzina in fondo all’inferno. Ma proprio in fondo, nel girone più basso. Sembra che la società italiana davvero non voglia conoscere la verità sulle sue prigioni. Ai politici italiani non interessa sapere che le carceri scoppiano in tutta Italia, che i detenuti muoiono, che alcuni si tolgono la vita e che altri crepano psicologicamente. I politici, nella stragrande maggioranza, hanno dimenticato che anche i prigionieri sono uomini, e mai una parola o una riga sui 60.000 detenuti abbandonati a se stessi che vivono accatastati uno sopra l’altro. Vivere in questo modo toglie ogni rimorso per quello che si è fatto fuori.

I “muri” sono abbastanza alti da permettere di poter far finta di non vedere e udire la disperazione e le grida d’aiuto che vengono da dentro. Sembra che a nessuno importi sapere che nelle carceri italiane non c’è più spazio per vivere; che vivere uno sopra l’altro è una condanna aggiuntiva, una condanna moltiplicata dal punto di vista fisico, psichico, morale e sanitario; che il carcere in Italia non è solo il luogo dove vanno i delinquenti, (non tutti, quelli veri stanno fuori) ma è soprattutto la discarica sociale per gli emarginati, i diseredati, gli emigrati, i tossicodipendenti, i figli di un Dio minore, i ribelli. Basti pensare a Nicoletta Dosio, l’attivista No Tav di 73 anni, condannata a un anno di carcere dal tribunale di Torino, perché accusata insieme ad altri attivisti di aver aperto le sbarre di un casello autostradale durante una manifestazione di protesta.

Carmelo Musumeci
Gennaio 2020


27 gennaio 2020

Don’t Let My Mother Know SARA MUNARI a cura di Marco Salvario

Don’t Let My Mother Know
SARA MUNARI
Riccardo Costantini Contemporary - Via Giolitti 51, 10123 Torino
22.11.2019 - 25.01.2020
a cura di Marco Salvario


Non sempre è facile spiegare quello che si trova e quello che si prova visitando una galleria d’arte e ammetto di sentirmi in questa occasione più in difficoltà del solito. Proviamo a partire dall’inizio.
La Riccardo Costantini Contemporary nasce nel 1993 con lo scopo di promuovere ed esporre artisti di ogni nazionalità e di ogni mezzo espressivo; per più di due mesi, fine 2019 e inizio 2020, ha ospitato i lavori della fotografa Sara Munari.
Sara Munari è una fotografa a 360 gradi e ogni aspetto del mondo fotografico desta il suo interesse, con sguardi a volte ironici, a volte malinconici, a volte critici, sempre con intelligenza. Insegna fotografia, tiene conferenze, espone in tutta Europa, organizza mostre e workshop per altri colleghi, ha scritto tre libri sulla fotografia e ne ha pubblicati quattro di sue opere.
Il suo progetto “Don’t Let My Mother Know” non è però una mostra fotografica o, perlomeno, lo è solo in parte; piuttosto è una storia che nasce su un filo apparentemente fragile tra fantascienza e sogno, ma denso di intrecci e riferimenti e che si sviluppa subito in due creazioni diverse eppure parallele.
Si comincia con un video lungo una dozzina di minuti, nel quale è raccontata in prima persona la trama narrativa nel suo completo svolgimento. Con voce stanca e invecchiata, la protagonista si presenta come un’ottantottenne che ha vissuto l’incredibile esperienza di entrare in contatto con un mondo alieno e prova l’autenticità della sua testimonianza con documenti, fotografie e mappe.
Non vi racconto troppo perché il filo guida non è fondamentale di per se stesso mentre lo è per quell’insieme di sensazioni e di riflessioni, guidate o personali che l’artista vuole creare nello spettatore e, ovviamente il mio giudizio è sempre personale, raggiungendo il suo intento.
Gran parte del materiale utilizzato è stato ripreso in Islanda e non è stato modificato con tecniche digitali; questo non vuole dire che non ci sia il trucco. L’abilità dell’artista sta nel cogliere l’attimo in cui alcune palline lanciate in aria sono ancora sospese per creare l’illusione di oggetti misteriosi in orbita, nell’indossare un guanto per realizzare una mano aliena e nello scegliere sapientemente le inquadrature.
Ogni immagine, ogni evento, diventano spunti ed elementi indipendenti dai quali il visitatore potrà creare le proprie chiavi interpretative.
Una di queste chiavi ce la fornisce l’autrice svelando quella che è l’allegoria principale della sua opera: l’alieno x23 che lei incontra e non riesce a riportare con lei sulla terra, viene a coincidere con la figura di suo padre, percepito sempre più lontano perché malato di Alzheimer. Così il titolo Don’t Let My Mother Know (Non ditelo a mia madre), che a me aveva ricordato l’allegro tormentone di una canzone di Giuni Russo (Mia madre non lo deve sapere,
non lo deve sapere …), perde la sua allegria.
No, non stiamo giocando ma vivendo con malinconia e rimpianto una vicenda a più livelli, carica di umanità ed empatia.



La cura con cui il materiale è presentato, capace di sostenere e dare verosimiglianza alla narrazione, non copre i giochi e le provocazioni dell’autrice; dai piccoli scherzosi scherzi con le sillabe - l’agenzia spaziale Rasa, è il nome della fotografa con le sillabe scambiate e il pianeta Musa riprende le sue iniziali – alle più profonde riflessioni che coinvolgono i nostri sentimenti, la nostra visiono dello spazio, del nostro mondo, dei rapporti personali; ci troviamo davanti a un mondo sconosciuto che è il nostro pianeta anche quando non lo riconosciamo, con forme che il tempo trascorso o impoverito dalla fragilità dei ricordi, rende ostile e minaccioso; un pianeta dove ci sentiamo persi e soli anche se a volte riusciamo a incontrarci, a cercare di comunicare e aiutarci. Il nostro prossimo è l’alieno, la malattia è l’alieno. Faticosamente in parte riusciamo a entrare in contatto, ad aiutarci nel bisogno, ma alla fine l’extraterrestre x23, cui ci ha legati un ricordo e da un affetto a cui non siamo riusciti a dare forma completamente, non ci ha seguito nel nostro viaggio di ritorno.


FRANCO GIANNATONI, “LA RAGAZZA DALLA GONNA SCOZZESE” a cura di Vincenzo Capodiferro

FRANCO GIANNATONI, “LA RAGAZZA DALLA GONNA SCOZZESE”
Una storia travolgente, vera, di una povera ragazza varesina, Carla Caroglio, trucidata dalla SS nel 1943

È veramente toccante la storia di Carla Caroglio, una ragazza di 25 anni, di Varese, trucidata dalle SS nella strage degli ebrei sul Lago Maggiore. Come si legge, proprio nella pagina di copertina: «Cattolica e battezzata ma “fidanzata con un ebreo”. Arrestata a Baveno il 15 settembre 1943. Il suo corpo scomparve per sempre». “La ragazza dalla gonna scozzese” è l’ultimo lavoro dello storico Franco Giannatoni, Edizioni Amici della Resistenza, novembre 2019. Franco Giannantoni, nato a Varese nel 1938, giornalista e storico, ha pubblicato un sacco di opere sulla Resistenza, sul neofascismo e sullo stragismo con le maggiori case editrici italiane (Feltrinelli, Angeli, Mursia, Garzanti). Tra le sue ultime opere segnaliamo: “La fine. La fucilazione di Mussolini nei rapporti dei servizi segreti americani”, Garzanti 2009; “La Shoah. Varese 1938-1945. Un delitto italiano”, Amici della Resistenza 2018. «Gli incontri con il dottor Luca Caroglio, nipote di Carla Caroglio e con sua figlia Valentina Luisa sono stati decisivi per definire meglio la figura di questa giovane donna, una fra le cinquantasette vittime della strage nazista del lago Maggiore nel settembre 1943 e per cercare di sciogliere alcuni nodi che avvolgono il mistero dei motivi della sua tragica morte». Questa povera ragazza, bellissima spigliata, moderna nei vestimenti, perché adusava indossare camicette di seta e gonne scozzese, è vittima di un immane fraintendimento che passa per “indubbia ebraicità”, solo perché ritenuta fidanzata di un ebreo. Siamo agli assurdi, che dalla Arendt, sono finemente attribuiti a questo personaggio, Eichmann, che non si sa se sia un idiota, cioè un esecutore, un inetto pericoloso, post sveviano-pirandelliano, o un finto tale per ascondere le sue nefandissime tendenze verso il male, alias fesso per non andar in guerra. Come si fa a uccidere una ragazza innocente per presunta colpevolezza, un caso di indubbia ebraicità!? Noi italiani siamo corresponsabili della Shoah. Non possiamo giustificarci. Accanto ai “volenterosi carnefici di Hitler” dobbiamo porre i “carnefici italiani”. Come ha potuto l’umanità raggiungere tali bassezze, più che bestali, più che demoniache!? Il Novecento con due guerre mondiali, totalitarismi, stermini di massa e bombe atomiche è peggio del Medioevo, che dagli illuministi fu definito l’età di oscurantismo e di barbarie. Ma peggio dell’oscurità c’è qua! La vergogna dell’umanità! Aristotele aveva definito l’uomo un animale politico per natura, salvo i superuomini, o gli eroi, o gli Dei, ed i sottuomini, cioè i demoni e le belve. Qui abbiamo raggiunto uno stato peggiore dei demoni. Come l’uomo, il magnum miraculum, è potuto precipitare negli abissi infondati dell’inferno? Primo Levi, in “Se questo è un uomo”, parla di “al di qua del bene e del male”. Ma questa amoralità è frutto dell’immoralità “al di là del bene e del male” di nietzschiana memoria. La morale subumana è frutto di quella sovrumana. Il rischio è che si dimentica, o come sottolinea Franco, che le giornate della memoria divengano delle celebrazioni sterili, mentre i giovani guardano, storditi dai cellulari e dai falsi miti delle nuove razze, dette civiltà e degli eroi, a destra, sempre più a destra, mentre a sinistra un precipizio travolge le menti ed i cuori, un rammarico, uno stupore malsano. Così guardavano i socialisti ascendere Benito, tranne Giacomo Matteotti, reo di aver detto la verità. «La Caroglio, alla contestazione razziale, senza perdere lucidità, aveva ribattuto ad alta voce di essere stata battezzata a Varese, di essere ariana e di professare la religione cattolica… per dimostrare ciò aveva preso dalla borsetta la carta d’identità e l’aveva mostrata all’ufficiale tedesco …». Ma non ci fu niente da fare! «La bella ragazza dalle gonne scozzesi e dalle camicette antiquate dal momento in cui il tenente Toso la vide per l’ultima volta, non fu più notata. Nessuno la incontrò che passeggiava per Baveno, come soleva fare ogni giorno. Il suo corpo venne ritrovato, aveva riferito Toso, “qualche tempo dopo, crivellato di pallottole, da un contadino a Fondotoce, che aveva notato nel suo campo della terra smossa di recente. Incuriosito aveva scavato, finché era affiorata una gamba di donna”». Ma come abbiamo potuto permettere una tale sciagura, noi il paese della cultura, della libertà? I Germani erano barbari fin dall’inizio, ma noi Latini abbiamo raggiunto il baratro della follia. Noi non abbiamo avuto un processo di Norimberga. Noi abbiamo avuto l’amnistia, una spugna che tutto ha appianato e cancellato ogni giustizia. Ma nulla sfugge all’eterna Giustizia! Al Congresso di Vienna diedero tutta la colpa a Napoleone. Nel ’45 tutta la colpa a Hitler ed a Mussolini! Ma siamo noi: tutti colpevoli! Noi abbiamo la responsabilità dell’avvenire, a maggior ragione dopo le sciagure umane che la storia, maestra di vita, ci insegna. Altrimenti, come Pasolini, dovremmo dedurre che rispetto a noi questa Storia è una povera Cassandra, che dice sempre la verità, ma nessuno le crede, anzi le si dà la colpa delle sciagure che accadono, e la si lapida come un’adultera con lapidi immemori.

Vincenzo Capodiferro

24 gennaio 2020

Anche Insubria e Liuc pagheranno pegno alla Brexit di Antonio Laurenzano

Anche Insubria e Liuc pagheranno pegno alla Brexit di Antonio Laurenzano
“Rien ne va plus”. I giochi sono fatti: a fine mese sarà divorzio fra Regno Unito e Unione europea. Finisce, fra accuse e polemiche, una storia d’amore mai iniziata. La notte del 31 gennaio, una volta completato l’iter di ratifica parlamentare, il Big Ben suonerà a festa allo scoccare della Brexit, per la gioia del bizzarro premier britannico Boris Johnson che, dopo l’addio, intende chiudere entro il 2020 il periodo di transizione. “Salvo totale fallimento del buonsenso”, sul tappeto tanti problemi da risolvere: accordo di partenariato fra UK e Ue, circolazione dei cittadini europei, condizioni di mercato (dazi, dumping), confini irlandesi, controlli doganali, quota di budget Ue di 39 miliardi di sterline da versare a Bruxelles. Non ultima fra le questioni in sospeso c’è Erasmus, lo storico programma comunitario nato nel 1987 che offre la possibilità agli studenti universitari europei di effettuare in un altro Paese dell’Unione un periodo di studio, dai 3 ai 12 mesi, legalmente riconosciuto dalla propria Università. Dalla sua nascita ha coinvolto circa nove milioni di persone e nell’ultimo bilancio pluriennale comunitario, che va dal 2014 al 2020, è stato finanziato con 14 miliardi di euro. Ogni anno 400.000 persone tra studenti, insegnanti e altro personale girano per l’Europa grazie a Erasmus, “una svolta per 5 milioni di studenti europei, perché ha migliorato la loro vita personale e professionale, rendendo le università più innovative”.
Nei giorni scorsi, mentre il mondo era distratto dagli stucchevoli annunci di Harry e Meghan, a Londra, la Camera dei Comuni ha confermato la volontà del governo britannico di mettere fine a Erasmus. Un voto che, per quanto atteso, ha suscitato reazioni di protesta sui social media da parte di studenti e accademici del Regno di Sua Maestà. “Una decisione miserabile, un furto alle giovani e future generazioni”, secondo il giudizio dello storico inglese Simon Shama. “Solo lo scambio e l’integrazione faranno il cittadino europeo di domani, non certo le chiusure e gli arroccamenti.” Un giorno molto triste, il commento generale, perché “se il progetto europeo in questi anni è cresciuto, se l’Unione, soprattutto tra le giovani generazioni, si è fatta concreta, lo si deve anche a iniziative di integrazioni culturale come l’Erasmus.”
Il Governo britannico, in evidente caduta d’immagine per i furiosi commenti degli utenti online, ha ridimensionato la notizia, smentendo per ora l’addio a Erasmus, nonostante la secca bocciatura in Parlamento della mozione liberal-democratica a favore della sua regolare prosecuzione dopo Brexit: “l’accordo con l’Ue andrà rinegoziato”. Stando al comunicato ufficiale di Downing Street, il programma continuerà come previsto per il 2020, nessuna conseguenza sugli scambi in corso o su quelli che inizieranno a breve, poi si vedrà. Il timore è che Erasmus possa servire a Boris Johnson come “merce di scambio” nell’accordo commerciale con l’Ue. Sarebbe una rappresentazione squallida della integrazione culturale del Vecchio Continente attraverso i negoziati che dovranno regolamentare i futuri rapporti commerciali fra Uk e Ue. Un futuro ancora tutto da scrivere.
Al post Brexit e al destino di Erasmus oltre Manica guardano con attenzione i due Atenei della provincia di Varese, molto attivi nel programma Erasmus. Dal 2000, 1300 studenti dell’ Università degli Studi dell’Insubria (Varese e Como) hanno varcato il confine per un periodo di studio all’estero, lasciando il posto a 575 universitari europei. Per l’anno accademico in corso l’Università Insubrica ha offerto ai propri studenti più di 500 posti in quasi 200 Università dell’Ue. E aria europea si respira anche a Castellanza, alla LIUC, che nel dicembre 2013 ha ottenuto dall’Unione europea l’ ”Erasmus Charter for Higher Education” (ECHE). Numerosi sono i partner universitari della LIUC in 22 Paesi dell’Unione per “offrire agli studenti l’opportunità di fare nuove esperienze all’estero in un diverso sistema educativo e di perfezionare la conoscenza di un’altra lingua.” Resta sospesa a un filo la domanda di fondo: per i ragazzi varesini studiare all’ombra di Westminster e di Buckingham Palace sarà off-limits? Con Brexit rischia di arrestarsi l’orologio della storia e con esso ogni processo di crescita civile dell’Europa. Thank you, United Kingdom!

23 gennaio 2020

Rosa Zagari: prigioniera e malata a cura di Carmelo Musumeci

Rosa Zagari: prigioniera e malata

“Spesso in carcere fanno più male le sofferenze che vediamo che quelle che subiamo”

 (Dal libro “Angelo SenzaDio” di Carmelo Musumeci, distribuito da Amazon)



     In questi giorni mi ha colpito la dichiarazione della senatrice Liliana Segre, in visita al carcere di San Vittore: “Dai detenuti gli unici gesti di umanità prima della deportazione." e ho pensato a Rosa Zagari, prigioniera dei “buoni”, che rischia la paralisi, dopo una caduta in carcere che le ha provocato fratture. È stata condannata in primo grado a otto anni, perché non darle la possibilità di curarsi fuori? Probabilmente perché non è una persona importante, forse perché ha parenti pregiudicati o forse, semplicemente, chi amministra la giustizia non si può permettere di avere un cuore al posto del codice. Fino a che punto può arrivare la giustizia degli uomini per tutelare i suoi cittadini? Può arrivare per esempio ad accanirsi contro una prigioniera, malata, stanca e depressa (le è appena mancata la madre). Io credo di no, credo che una democrazia che usi mezzi disumani sia una democrazia malata. Non ho mai visto nessun delinquente cambiare per effetto di trattamenti disumani e degradanti, e un Paese che li usa, comunque, fosse anche per fermare i fenomeni criminali, degrada se stesso.

Il giuramento di Ippocrate dice: “Medico, ricordati che il malato non è una cosa, o un mezzo, ma un fine, un valore”.  Invece in carcere il malato detenuto/a è un malato/a sfortunato/a. Quando una persona in libertà è malata spesso, non sempre, l’ambiente in cui vive rispetta il suo stato, nel senso che la si cura e di norma almeno può essere sicura di ricevere attenzione dalla propria famiglia. Invece guai al paziente in carcere, la richiesta di attenzione genera disprezzo. Il prigioniero/a malato/a non gode della pur minima protezione, persino gli si fa una colpa della sua malattia. Alla prima occasione, al minimo lamento e tentativo di conforto, per un motivo normalmente di nessuna importanza, la malattia gli viene rinfacciata come una colpa e lui/lei viene additato come simulatore. E qualunque disturbo possa lamentare, non gli si crede. Purtroppo il detenuto/a malato/a è come un cieco a cui si rimprovera di non vedere.

Lancio un appello affinché a Rosa Zagari sia data la possibilità di curarsi in una struttura esterna al carcere, perché a mio parere non è così necessario che continui a stare in carcere in queste condizioni, e inoltre una giustizia umana è la migliore delle medicine, sia per i cattivi che per i buoni.



Carmelo Musumeci

Gennaio 2020

20 gennaio 2020

Inciampo a cura di Miriam Ballerini


INCIAMPO

Giovedì 16 gennaio 2020 anche nel mio paese, Appiano Gentile, in provincia di Como, è stata posizionata una pietra d'inciampo.
In pratica è una targa che riporta il nome di un nostro concittadino che ha operato contro il nazifascismo e che, per questo, ha pagato con la propria vita.
Cherubino Ferrario, al quale già è stata dedicata una via, pagò per aver stampato dei volantini per i partigiani.
Mi fa molto piacere che siano stati proprio i ragazzi delle scuole a impegnarsi a raccogliere materiale e a scoprire chi fosse questo signore e cosa gli fosse accaduto.
L'artista Gunter Demnig ha posato personalmente la pietra d'inciampo, così come sta facendo da anni in tutta Europa.
Cherubino era padre di due ragazzi, era sposato e di lavoro faceva il tipografo a Milano; inoltre suonava nella banda.
Ecco, da questo ritratto vediamo che non era un eroe, non indossava nessun mantello da superman, ma era un uomo comune. Ciò che di lui lo ha fatto diventare un grande è stato il coraggio di opporsi al regime. È stato ucciso perché sapeva bene da che parte stare, aveva capito quale fosse la parte giusta.
Ha avuto il coraggio di opporsi.
Oggi più che mai questi esempi vanno sottolineati, perché fin troppe persone tacciano davanti a vari fenomeni, oppure non fanno nemmeno la fatica di farsi un'opinione e di portarla avanti, lottando per le proprie idee. Fin troppi omertosi lasciano andare come viene; a posto loro, che importanza ha se viene coinvolto il negro di turno? O il Rom? O il povero disgraziato? Finché non vengono toccati personalmente, va tutto bene.
Ecco, Cherubino, ancora oggi, ci ricorda che non va bene affatto. Che ci sono state persone come lui che avevano tutta la vita davanti, ma che volevano vivere in un mondo giusto, non in un mondo che andava bene così.

© Miriam Ballerini


18 gennaio 2020

Emergenza Australia


L’opera pittorica di Domenico Mingione detto Mimmo a cura di Marco Salvario

L’opera pittorica di Domenico Mingione detto Mimmo.
a cura di Marco Salvario

Questa volta non è girando tra le gallerie d’arte torinesi che ho trovato spunto per ammirare e presentare ai lettori un artista che mi ha subito conquistato con la sua raffinata capacità espressiva, bensì navigando nell’oceano infinito di internet, comodamente seduto sulla mia poltroncina davanti al computer di casa.
Su facebook tanti gruppi sono dedicati al mondo dell’arte e lì si confrontano pittori diversi per stile, bravura, esperienza e motivazione, ma uguali per entusiasmo e voglia di mettersi in discussione. In genere scegliere e districarsi tra tanta offerta è impossibile, però davanti a una delle opere di Domenico Mingione detto Mimmo, è scattato in me quel misto di piacere e di curiosità che mi ha fatto fermare e indagare di più su questo personaggio.
Per chi volesse condividere questa mia esperienza, le opere dell’artista possono essere visionate sul suo profilo facebook dal quale, dopo averne ricevuta l’autorizzazione, e di questo lo ringrazio, sono state ricavate tutte le immagini del presente articolo.
Non è stato facile per me scegliere fra le più di duecento opere esposte nella sua galleria virtuale, tutte intriganti e di ottima qualità, quindi le mie illustrazioni non rappresentano una selezione effettuata sulla bellezza, quanto il tentativo di offrire una visione d’insieme il più possibile completa.



Poche le informazioni pubbliche disponibili su Domenico Mingione: è un professore di latino e greco ora in pensione e vive a Pomigliano d'Arco in provincia di Napoli; ha insegnato durante la sua carriera anche storia dell'arte e dipinge per passione, usando per lo più la tecnica a olio su tela. La sua maestria sa sfruttare al meglio i giochi di luce e i contrasti, affrontando con perizia i minimi dettagli, siano un ricciolo sottile di capelli, un filo di perle, il drappeggio del vestito, un minimo arrossamento sul candore della pelle, la profondità di uno sguardo.
Il gusto per il classico, sia come temi sia come impostazione pittorica, ben armonizza con la passione per la bellezza femminile e per interpretazioni di respiro moderno. Potremmo quindi riallacciare la sua opera alla felice esperienza della scuola napoletana che, sviluppatasi nel Seicento sulle orme di Caravaggio, il quale nell’ultima parte della sua vita trascorse nella capitale borbonica lunghi periodi, ancora era ben viva nel secolo scorso.
Molti i temi classici affrontati tra filosofia e storia. ''Platone elabora la teoria del mondo delle idee'', ''Il suicidio di Cleopatra'', ''Atlante'', ''Carità romana'': la narrazione pittorica è sempre all’altezza del soggetto e molto spesso accompagnata da un testo, faccio riferimento sempre a facebook nei commenti alle illustrazioni, in cui l’episodio è descritto e analizzato. Copio solo l’inizio dello scritto che accompagna l’opera ''La Cultura n.2'' ovvero ''Prosopopea della Cultura'':
''Io sono la Cultura, ed altri veri amici non avrai, fuorché me! Io sono bella, di una bellezza sottilmente fascinosa, pur senza orpelli od ornamenti. L'unico ornamento che amo indossare è quello della Verità che deriva dalla realtà dei fatti e non dalle semplici opinioni. Tu, se mi seguirai, avrai mille occhi e mille orecchie, e se coltiverai la mia sincera amicizia, avrai vissuto non una, ma cento vite, perché io sola e soltanto io ti darò la possibilità di conoscere il pensiero altrui.”
L’elogio della Cultura, e non si può non scrivere tale nome con la maiuscola, è, in queste frasi e in quelle che seguono, così vivo e sincero, che non posso non provare invidia per chi ha avuto la fortuna di avere il professor Mingione come docente.
Ritorniamo alle opere pittoriche. Temi classici ma non solo. Con lievità e fascino gustiamo la bellezza femminile, elegante, soave, sensuale e mai volgare.
'La bella bisbetica'', ''Signorina'', ''Pensierosa'', ''Il mantello verde'', Interpretazione personale del dipinto di Vermeer ''La ragazza con l'orecchino di perla'', ''Il medaglione'', ''La signora Ines'', ''La lunga collana'', ''Ragazza dal vestito grigio'', ''Il biglietto'': sono veri omaggi alle donne. Omaggi che a volte hanno un sotto inteso simpaticamente ironico, come ''Uh, che mal di testa mi fa venire il mio fidanzato''.
Rare ma sempre apprezzabilissime sono le scene di gruppo come ''L'esame di musica'', ''Nolite me tangere'' (Non mi toccate), ''I dissoluti'' o ''Susanna e i vecchioni''.



Per alcuni quadri l’artista ci permette di ammirare oltre all’opera, i disegni preparatori da lui realizzati, che sono lavori finiti e validi. Nell’ultima illustrazione dell’articolo le due opere ''La bella bisbetica'' e ''La Cultura n.2'' ovvero ''Prosopopea della Cultura'' sono precedute entrambe dal disegno preparatorio. Sinceramente non è facile scegliere tra le due proposte, tra la cura finale e la freschezza del progetto iniziale.



15 gennaio 2020

La Tv e il teatrino della politica di Antonio Laurenzano

La Tv e il teatrino della politica di Antonio Laurenzano
Impietosa verità quella rilevata dall’ultimo rapporto Censis sulla classe politica di casa nostra: oggi il 90% degli italiani vorrebbe vedere sempre meno politici in televisione. E non a caso, osserva Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis, “c’è uno zoccolo duro di tre italiani su dieci che ha buttato via la tessera elettorale e non va a votare.”
Nei palazzi romani è caduta nel dimenticatoio la linea del Governo Monti di non mandare ministri e sottosegretari nei talk show televisivi per “essere più presenti a lavoro”. Si voleva “normalizzare” l’informazione politica, azzerando la sovrapposizione e identificazione tra il dibattito politico e la sua rappresentazione mediatica. Cancellare quindi il ricordo di partecipazioni a programmi tv con interventi poco eleganti, funzionali alle esigenze di share del conduttore di turno. Il compito di chi governa, sosteneva l’ex premier Monti, non è rappresentare se stesso e le proprie scelte, ma compiere quelle scelte e applicarle nel rispetto del mandato ricevuto.
Di acqua sotto i ponti del Tevere a Roma, in questi anni, ne è passata tanta, ma nulla è cambiato: il passato che ritorna. Oggi il politico è un volto noto, al pari di un attore televisivo, pronto a calarsi nel ruolo di “personaggio tv” appena davanti a una telecamera. Personalismo, rissosità e toni sempre più accesi per stare al passo con le “regole” della visibilità televisiva. Un chiacchiericcio politico che con l’approfondimento ha davvero poco a che fare, con tanti ringraziamenti a una chiara e corretta informazione. Tante parole in libera uscita, pochi elementi di dibattito serio e costruttivo con la sensazione generale, alla fine della trasmissione, che tutti quanti si capisca di meno. E’ il teatrino della politica! E’ il luogo in cui il dibattito fra i partiti, o presunto tale, prende “teatralmente” vita con “attori” che, lasciando il seggio di Montecitorio o di Palazzo Madama, liberano in uno studio televisivo ogni repressa forma di protagonismo, accantonando progettualità politica e concretezza d’azione. Spettacolo inquietante sul quale, ammonisce il critico televisivo Aldo Grasso, c’è poco da essere indulgenti: “Smettiamola di pensare che i politici siano i protagonisti di una grottesca sitcom, degli innocenti personaggi che abitano l’immaginario collettivo, anche perché i danni di questa classe politica sono concreti e sono sotto gli occhi di tutti.”
I politici ormai invadono a qualsiasi ora il piccolo schermo. Intervallati dai servizi in esterna, si snodano così interminabili girandole di pareri e soprattutto esternazioni di esponenti di partito chiamati a dire, a volte senza cognizione di causa, la loro verità e ancora di più a sconfessare quella altrui. Una finestra sempre aperta sulla politica nazionale da parte di tutte le reti: dalla Rai a Mediaset, a La7. Tutta la programmazione mattutina e pomeridiana, con forte presenza in prima serata, non è altro che un lungo (sfibrante) talk show politico. E più la politica si indebolisce, più si rafforza il ruolo della tv nel cercare di spiegarla, anche nell’era dei social media.
Decine di milioni di persone accendono giornalmente la televisione, a conferma dell’importanza strategica che ha assunto nel tempo lo spazio tv per ogni politico. Una campagna elettorale dal vivo, che non finisce mai: politica e tv, un’attrazione perenne. Un’attrazione favorita anche dalla progressiva erosione delle competenze legislative delle assemblee parlamentarti e dai relativi tempi del dibattito politico certamente poco televisivi. Si alimentano così di ambizioni personali e di una mediocrità dei palinsesti certe trasmissioni televisive che sono divenute il sintomo della malattia populista italiana: fake news, bufale e volgarità gratuita sono le “perle” di una tv spazzatura. Indignarsi non serve a nulla. Per fortuna c’è il telecomando, perché “nella vita comandi fino a quando c’hai stretto in mano il tuo telecomando”. Renzo Arbore docet.

13 gennaio 2020

IL PENSIERO SOFFIA ANCORA a cura di Vincenzo Capodiferro

IL PENSIERO SOFFIA ANCORA
L’ultima raccolta densa e classicista di Gianpi

Il pensiero soffia ancora”, edito da Tracce, Borgoricco 2019, è l’ultima raccolta poetica di Gianfranco Galante, che noi amichevolmente chiamiamo Gianpi. Gianfranco Galante nasce a Varese nel 1964, ma è sempre legato a questa sua madre, la Sicilia, dove è vissuto per una breve parentesi della sua vita, ma v’è tanto rimasto legato. Nel 1972 torna a Varese con la famiglia. Nel 1982 si diploma. La vita di Gianpi è fatta di questi “ritorni”. Sono questi ritorni che legano due terre così diverse, come il sud ed il nord. Eppure questa “parentesi dei ritorni” è una miniera ricchissima di emozioni, offerta proprio sul terreno di ciò che noi volgarmente per secoli abbiamo bollato come emigrazione. Altra parentesi per non dimenticare: anche la Lombardia, e non solo il Veneto ed il Meridione, è stata terra di migranti, anche Varese, prima della fase industriale, e lo torna ad essere nella fase postindustriale. Gianpi scrive fin dall’adolescenza, è attratto dal verso classico, dal sapore della “metricità”, che ritroviamo in molte sue opere, anche ristampate, come “Di tal bellezza”, “Emozioni in bilico”, “Paesaggi d’estate”. Potremmo definire il suo stile neoclassico, come conferma Ilaria Celestini nella “Prefazione”: «Parla un linguaggio d’altri tempi, questo Autore che si pone quale moderno cantore di poesia e di storie, e con eleganza ci invita a scoprire il suo mondo: una realtà dove su tutto trionfa l’amore, un sentimento potente e sicuro, a volte ferito, a volte nascosto, ma sempre presente, a dare un’impronta chiara ed emozionante sul piano espressivo e corredato da stilemi di tipo tradizionale rivisitati in chiave assolutamente personale e originale». È Amore la fonte primaria di poesia e dolore, provocato da Lui. Non c’è amore senza dolore. E così ci par rivivere quelle stagioni del Dolce Stil Novo, ove ricompare la donna angelo, così trasfigurata – cioè in senso negativo: sfigurata – dalla poetica novecentesca: ci basti ricordare il Montale. E torna così quel “Cor gentil” centro dell’amore vero. Questa è una poesia cavalleresca che ha origini antichissime. “Il Pensiero soffia ancora” ci dice sempre che lo Spirito (da “spirare”, soffiare) è sempre vivo. È lui che ispira tutti gli artisti, gli scienziati, gli intellettuali. Così quest’opera ci pare una rivendicazione dell’autenticità della poesia italiana. Rivediamo alcuni temi, come quello classico del “Tempo”:

Maledizione!
Non ho più tempo,
mi manca il tempo
d’avere tempo.

Fugit hora. Siamo immersi nel turbinio del Panta Rei. Eppure, con Agostino ed Heidegger, possiamo riaffermare a chiare lettere: noi siamo il tempo. E se Agostino non sa rispondere all’eterna domanda: cosa è il tempo? – se Heidegger interrompe il suo capolavoro “Essere e tempo” su questo profondo interrogativo, vuol dire, in fin dei conti, che noi, nelle profondità del nostro essere, non sappiamo chi siamo. Viviamo così, senza sapere di esistere. Questa angoscia esistenziale la ritroviamo in “Non esisto”:

Te, cui mia assenza
è indifferenza;
te, cui mia presenza
è come vuota assenza.

Non aggiungere dolore
al mio già inutile spasmo.
Te, cui il dolore, mio,
non fa poi male…

È Amore e dolore che danno senso all’esistenza, al tempo. Noi siamo in fondo l’amore. Noi siamo Amore e Dio è amore, pertanto nel fondo del nostro “Cor gentile”, noi siamo Dio, come predicano da secoli i mistici, come Mister Eckart, Taulero, Susone e tutti gli altri. Questa verità la troviamo confermata in “Lux in Domino”:

Nel tuo mondo
cui silenzio è quiete,
il mio sussurro è un urlo
ed è frastuono in me.

Grazie al silenzio primordiale, ove abita Iddio, si sente la voce, il Verbo, che dà senso alle cose. Così la Parola si propaga nella Poesia (da “Poieo” creare), che è continuazione della creazione originaria, divina. Il poeta diviene così “pontifex”, sacerdote dello Spirito vivente, che sussurra perennemente in noi, l’Infinito che ci empie dei suoi doni e ci suggerisce. Il poeta è solo colui che sa ascoltare la voce del silenzio. Chiudiamo così allora questo breve, ma non certamente con la pretesa di essere esaustivo, commento all’ultima raccolta di Gianpi, con le parole sempre della Celestini: «Cielo, teneri e intensi barlumi d’infinito, palpiti di meraviglia e gratitudine per tutta la strada percorsa insieme e per tutta quella che verrà. Una raccolta preziosa, da regalare a se stessi e chi si ama, per donarsi il piacere d’immergersi in una dimensione incantata e, nel contempo, reale».

Vincenzo Capodiferro

In memoria di un uomo di Angelo Ivan Leone



In memoria di un uomo di Angelo Ivan Leone

Si è spento ieri uno dei maestri del giornalismo italiano: Giampaolo Pansa. È stato un uomo che tanto ha dato e tanto ha meritato della nostra classe intellettuale. Purtroppo questa parola: intellettuale, genera spesso in Italia e tra gli italiani un misto di fastidio e intolleranza. Stato d'animo in gran parte giustificato per l'appecoramento quasi totale della nostra classe intellettuale a quella dei potenti e delle élite in generale. Se tutto questo è vero per molti di essi, non lo è mai stato per tutti. Pansa era un intellettuale vero ergo contro corrente, disorganico e sempre pronto a revisionare non solo la storia, ma anche e, soprattutto, le proprie idee e convincimenti. Memorabili le sue definizioni giornalistiche la "balena bianca" per definire la DC è roba sua. Sempre farina del suo sacco furono le opere storiche come "Il sangue dei vinti" che cercarono di spiegare quella che fu la "guerra civile" degli e tra gli italiani combattuta tra il 1943 e il 1945 e, in alcune zone d'Italia, anche oltre. Di qui l'accusa di revisionismo, solo perché si ostinava a spiegare la storia non come agiografia dove i buoni sono tutti da una parte e i cattivi tutti dall'altra, ma come il romanzo dell'uomo soggetto a continua e perenne revisione.
Proprio per questa sua onestà intellettuale lo vogliamo ricordare come e quale uno degli intellettuali migliori che il nostro Paese poteva ancora vantare.
Ciao Giampaolo, che la terra ti sia lieve e, mi raccomando, continua a scrivere di storia anche adesso che sei dall'altra parte della strada.

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano Addio al “Patto di stu...