29 maggio 2008

Teatro – la recensione di Bruna Alasia

OMAGGIO A FRIDA KAHLO
monologo scritto da Valeria Moretti e interpretato da Enrica Rosso
Dal Salottolmino di Roma in tournée italiana


“Una bomba avvolta in un nastro di seta”

Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderon - la grande pittrice messicana nata nel 1907 e morta pressoché sconosciuta a soli quarantasette anni dopo una vita di grande sofferenza, divenuta artista di culto da un decennio, quando le mostre si sono susseguite a New York e un suo ritratto è stato venduto per un milione e mezzo di dollari - non cessa di affascinare i posteri. Dopo le numerose biografie e il film con Salma Hayek diretto da Julie Taymor, numerosi gli adattamenti teatrali.
Sui palcoscenici italiani arriva ora il testo di Valeria Moretti, interpretato da Enrica Rosso – vista recentemente in Apnea, L’uomo in più, Preferisco il rumore del mare - che calza il personaggio alla perfezione per l’ accento straordinariamente esotico e il fisico che ricorda la minuta, fiera e magnetica Frida.
Valeria Moretti è nota per aver portato sulla scena biografie di grandi donne, basti citare l’ultima e fortunata “Chanson Colette”, commedia con Lucia Poli che racconta la vita dell’omonima scrittrice. L’omaggio a “Frida Kahlo”, partito il 28 maggio dal Salottolmino di Roma, toccherà varie città italiane entro il 2008.
Per comprendere lo spettacolo è bene rammentare che il 17 settembre 1925 Frida Khalo, allora diciottenne, attraversava Città del Messico su un autobus: in quel periodo nella capitale messicana venivano esposti piccoli quadri votivi dedicati alla Santa Vergine, chiamati “retablos”, come ringraziamento per scampati incidenti, visto che i mezzi di trasporto erano guidati con spericolatezza da corrida. L’infortunio accaduto a Frida non fu un caso isolato, ma certo uno dei più terribili: le si spezzarono la colonna vertebrale, l’osso del collo, la terza e la quarta costola, la gamba, il piede, la spalla, le pelvi si ruppero in tre punti e una ringhiera entrata dall’addome uscì dalla vagina. Mai più la sua vita fu uguale.
Il trascinante monologo di Valeria Moretti sintetizza con passione e semplicità le tappe dell’esistenza al limite, l’anima complessa e “doppia” di questa artista segnata da un destino che la vede lottare contro la solitudine e la morte, avvenuta a soli 47 anni. Enrica Rosso rende bene il lamento di una donna ferita, l’angoscia per l’amore non corrisposto dal marito Diego Rivera, anch’egli pittore ma, al contrario di Frida, baciato da un successo che oggi va scemando. Entrambe ci restituiscono un’immagine nitida del personaggio e della sua pittura, definita mirabilmente da André Breton: “una bomba avvolta in un nastro di seta”.
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27 maggio 2008

"Il Principe felice" di Oscar Wilde

'I classici' di A. di Biase
“Il principe felice e i migliori racconti”
Oscar Wilde
a cura di Silvia Mondardini
pag. 142- Barbera Editore - 2007

Il volume, ben curato e presentato dall’ottima e giovanissima Silvia Mondardini, raccoglie sotto un unico titolo le storie wildiane pubblicate nel 1887 (Happy Prince and Other Tales) e nel 1891 (The House of Pomegranates e Lord Arthur Savile's Crime and other Stories).
Assente da questa pubblicazione “Il fantasma di Canterville”, racconto pure del 1887, che trova spesso una edizione autonoma dovuta al successo, anche cinematografico, dello scritto.

Per questioni legate alla complessità di taluni testi, non appare corretto considerare adatte alla lettura infantile tutte le favole qui raccolte, soprattutto quando lo sguardo si spinge alle non brevi novelle de “Il pescatore e la sua anima” o “Il figlio della stella”, scritti nei quali la probabile matrice orientalista – che il nostro ereditò nei primi anni ad Oxford – decade in un bizantinismo piuttosto sterile, non adatto al contesto ed incapace di conciliare le immagini virgiliane con i tratti caratteristici di altri autori classici ai quali Wilde volle qui ispirarsi: certamente Apuleio e probabilmente anche Ovidio. In questi contesti l’autore del “Gray” perde dunque la propria spontaneità, l’innocenza, e con loro il principale propellente alla propria arte.

La prima parte del testo – robusto ed elegantemente presentato con una copertina di Donatella Cena – racchiude quindi il meglio di questa edizione, con fiabe brevi e squisite senz’altro adatte a bimbi di almeno otto anni.
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22 maggio 2008

"Bassa marea" di Miriam Ballerini

Bassa marea
M. Ballerini
Serel International - 2005
Pagg. 148
Nella quarta di copertina di questo suo volume di racconti, là dove la Ballerini ha voluto inserire una breve biografia, si legge che l’autrice di “Bassa marea” concilia la sua passione per la scrittura con il lavoro di casalinga. L’impressione è che questa presentazione finisca per proporre un giudizio sulla scrittrice la quale, sia per la sensibilità che per il linguaggio ricco di immagini, non è affatto un’autrice ‘leggera’. Racconti di vita vissuta ispirati a fatti di cronaca o, in alcuni casi, ai precedenti romanzi dell’autrice comasca, sono qui intercalati da immagini evocative e da aforismi tratti da classici della letteratura, come Pascoli e Zola. I temi sono importanti, dal concepimento all’amicizia, ma anche la violenza ed il carcere. Nel racconto più intenso dal punto di vista narrativo, “Il volo”, - sebbene il più bello sia forse “Il pallone” - non manca un tratto magico quando si propone uno scambio fra sogno e realtà. (A. di Biase)
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La recensione di Bruna Alasia
Roma in the world”, tourné mondiale di Elena Bonelli
Dal Salone Margherita alla Carnegie Hall: la canzone romana si fa internazionale

Il “Salone Margherita”, scrigno di velluti rossi e marmi nel centro storico della “città eterna”, è il più antico e il più celebre café-chantant di tutta la penisola. Inaugurato nel 1890 si ispirava ai modelli del “Moulin rouge “ e “Les folies bergère”, la sensazione di trascorrervi una serata densa di suggestioni del passato unita a un tocco esotico di francese è fortissima, se l’interprete è l’attrice e cantante Elena Bonelli che porta sulla scena “Roma in the world”.
Questa artista poliedrica ed eclettica, che ha inciso come voce ufficiale del nostro inno di Mameli un cd da due milioni di copie, che si esibisce al Waldorf Astoria per il Columbus day o al Palazzo dell’Onu a New York, si pone sulle orme di coloro che hanno reso grande la canzone romana, rendendola personale attraverso una innovativa operazione “globalizzante”.
Una sfida alla tradizione difficile ma riuscita perché calibrata con cura: i classici della canzone “romanesca”, anche i più impensabili da tradurre, interpretati in francese, in spagnolo, in inglese, in portoghese, acquistano dimensione internazionale senza perdere “l’aria di casa”. Diventano più comprensibili ed esportabili, liberati dal perimetro delle operazioni nostalgiche. ““Chitarra romana” in fado portoghese, “Sinnò me moro” in Andaluso, “Vecchia Roma” con accento parigino, “Roma nun fa la stupida stasera” con swing da musical di Brodway sono affascinanti .
Elena Bonelli, da cinque anni lavora a questo progetto con passione, promuovendolo anche nei luoghi più lontani.
Romana di Prati, statuaria come un personaggio di Moravia, volto intenso alla Anna Magnani - a cui fa omaggio recitando una sofferta imitazione dell’attrice - possiede “le physique du rôle” e la voce giusta per la missione. Il sempreverde Carlo Lizzani ha arricchito i suoi spettacoli con una regia elegante.
“Roma in the world” è la sintesi più alta di questa esperienza che, dopo le serate romane al Parco della Musica e al Salone Margherita approderà al ponte di Brooklyn, attraversando Tokio, Istanbul, Zagabria, Budapest, Parigi, Varsavia, Guatemala City e altre città ancora. Fra il 12 e il 20 ottobre 2008 sarà alla Carnegie Hall di New York, poi al Gleason Theater di Miami, al Salone dell'Ambasciata d’Italia a Washington e a Chicago.
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Malesia

di Antonio V. Gelormini
I sorrisi della Malesia volano sulle onde di Polignano in Puglia. Prendono il posto dei gabbiani e accendono di una luce seducente i riflessi di un cielo per sempre dipinto di blu, dalle note e dai versi intramontabili del suo padrone di casa più famoso nel mondo.

Non poteva esserci approdo più naturale, per le affascinanti mete turistiche malesiane, dell’entusiasmante forza propositiva di Mr. Volare che, prim’ancora di poter contare sui raffinati e confortevoli servizi della Malaysia Airlines, aveva aperto le sue braccia ai sogni più segreti e più desiderati di tanti italiani. Facendoli viaggiare, più in alto del sole, rapiti dal vento e felici di stare lassù.

Il Paese del sorriso: così è meglio conosciuta la Malesia, fino a poco tempo fa semplice ed impropria cornice alla tigre salgariana di Mompracem ed alla sua affascinante perla di Labuan. L’incantevole isola che impreziosisce il paesaggio costiero del Sabah; incastonata, ancora nel secolo scorso, nella favola reale del vicino Sultanato del Brunei.

La Malesia è un paese moderno, a cui la natura sorride sin dalla notte dei tempi. Un paradiso dal sorriso contagioso, tanto da riuscire a declinarlo in un’infinità di modi, quante sono le specie e le varietà di una galleria a cielo aperto unica, come i suoi parchi millenari, la sua fauna e la sua flora.

Si comincia da quello rassicurante e premuroso delle hostess di una Compagnia di bandiera tra le migliori al mondo, a quello brillante e invitante della sua gente. Da quello cauto e silenzioso dietro le maschere dei sub, alle prese con un inverosimile acquario naturale, a quello stordito e incredulo di fronte alla vitalità di grattacieli e monumenti dalla sconcertante bellezza. E ancora, da quello colpito e incuriosito dalla rafflesia: la pianta più famosa della Malesia, col fiore più grande del mondo (fino a più di un metro di diametro), a quello rapito e sorpreso per il meraviglioso spettacolo delle dischiusa, tra la sabbia bianca e vellutata, delle minuscole uova di tartarughe verdi o di quelle becco di falco.

Un paradiso che accoglie a braccia aperte, quelle della Penisola Malaysia e di Sarawak, distese in un immenso arcipelago a cavallo dell’Equatore, nel sud-est asiatico. Sorrette dalle mete incantevoli di Giava, Sumatra, Borneo, Timor Est, Molucche, Filippine, Singapore, Indonesia e Papua Nuova Guinea.

Una festa delle religioni dove il culto del rispetto altrui è talmente sacro da permettere la celebrazione partecipata ed ecumenica delle festività di ogni professione di fede. Un carosello di proposte culinarie all’insegna della leggerezza, dei colori e della seduzione, in linea con la fantasmagoria di sorrisi che ne accompagnano il cortese invito a gustarle.

Un inno alla bellezza e alla dolcezza, capace di rendere indimenticabile ogni viaggio di nozze. Una tempesta di emozioni da far dire, ancora con i versi musicali di Domenico Modugno: “Dio come ti amo/non è possibile/ avere fra le braccia/tanta felicità/baciare le tue labbra/che odorano di vento/noi due innamorati/come nessuno al mondo”. Benvenuti in Malaysia.
(gelormini@katamail.com)
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Rev: 31-01-13 --- AdB

19 maggio 2008

Recensione: Il Wilde di Vignolo

'I classici' di A. di Biase
Oscar Wilde, il critico artista
Marco Vignolo Gargini
Prospettiva editrice, 2007
227 p.
La Natura non come grande madre dell’uomo, bensì come figlia, come sua creazione, questa l’essenza dell’estetica di Oscar Wilde nella lettura critica di Marco Vignolo Gargini, il quale in un volume completo ed accattivante, senza mai apparire ostico, ripercorre il pensiero del ‘critico artista’ irlandese. La fonte, neanche a dirlo, sono i brillanti articoli editi nel 1889-91 sulla “Decadenza della menzogna”, “L’autentica funzione della critica” e “L’anima dell’uomo”, quest’ultimo grande paradosso desideroso di congiungere socialismo ed individualismo. «E’ stato detto - scrive Wilde – che il fine conveniente della Critica è vedere l’oggetto come esso è realmente in sé, ma questo è un errore molto serio, e non tiene conto alcuno della più perfetta forma di critica, che è nella sua essenza puramente soggettiva, perché cerca di rivelare il proprio segreto e non quello altrui. Perché la critica più alta si occupa dell’arte non in quanto espressione, ma puramente in quanto impressione».
Non è dunque l’Arte ad imitare la Natura, ma la Natura – e cioè nient’altro, è questa la provocazione, se non quello che noi vediamo e percepiamo – ad imitare l’Arte; il mondo non è stato quindi creato una volta sola, bensì tutte le volte che un grande artista lo ha guardato, interpretato e descritto, portando alla luce ciò che prima non era mai stato visto e quindi non era mai esistito. Un volume davvero ‘maneggevole’, che meriterebbe una copertina ed una rilegatura più consone al proprio spessore ed alla propria sobrietà.
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L'Arte di De Candia

di Augusto da San Buono

1.L’arte di De Candia
Sono pochi, sono rari, i creativi. E lui, Edoardo De Candia, l’Anglo, Odoacre, il Vikingo, il Cavaliere della Notte, il Santo bevitore, il Matto di Lecce, lui lo era davvero. Una via di mezzo tra Ligabue, ( lo scemo del villaggio , grezzo, istintivo, infantile) e Van Gogh, uno che intingeva i pennelli nel proprio sangue, pittore per disperazione , emblema del dramma dell’artista che si sente escluso dalla società. E De Candia, come Van Gogh, come Ligabue , fu escluso dalla società e , come loro, morì pazzo senza che la sua arte sia stata riconosciuta in vita.
Che arte? Pensate ai fauvisti, ai Derain e ai De Vlaminck, più che a Matisse, a quei colori mobili e avvampanti che man mano si fanno sete di libertà, spazi di passione , ma anche labirinti , silenzi, incantesimi, deserto infinito , lontananza senza più ritorno. Ne parlai molti anni fa con Maurizio Nocera , un testimone, un amico , uno che lo ha assistito negli ultimi giorni di vita , con pietà commossa, fraterna , con amore vero dell’uomo verso “l’altro”. Uno che si è preso il suo ultimo vomito addosso prima che morisse , in quel torrido agosto del 1992 , all’”Opis” di Lecce dove Edoardo aveva camminato per centinaia d’ore fermo su un solo mattone, sempre lo stesso, con le decorazioni consumate dai suoi piedi nudi , per nascondere , occultare l’altro se stesso che gli rideva dentro , inafferrabile, indelebile, invisibile, equilibrista del nulla, consumato clown a cielo aperto , cielo chiaro, azzurrissimo, segno della dimenticanza.... Nocera ricordava i sospiri, i lamenti , le lacrime ( Oh, lasciatelo piangere, perdio!) di quell’enorme Don Chisciotte , tra le padelle e le flebo , il sangue e l’ orina: “Io ho fatto Tarzan, io. Ho vissuto nella jungla. Che ci faccio ora qui, nella merda?”, diceva.

Il meraviglioso privilegio dell’arte – scrisse Baudelaire – è che lo spaventoso, espresso con arte , diventa bellezza , e che il dolore ritmizzato , articolato , riempie lo spirito di una gioia tranquilla... Ma non è così, non è così, protestava Maurizio. La sua vita è stata solo inferno, senza requie… la morte è stata per lui liberazione. (“ Non ho paura della morte, vorrei morire per non soffrire”)

2. Il funerale di Tarzan
A San Pio , al suo funerale , un funerale povero , di quarta classe , eravamo tutti atei , silenziosi. Nessuno che sapesse rispondere al prete, nessuno che volesse dire un amen. “Esce di scena un artista che amava la notte il mare e l’aria aperta” , disse poi Tonino Caputo, rievocando gli anni dell’infanzia e della giovinezza e i viaggi a Roma. Sembrava un funerale alla chetichella, da consumarsi in fretta in fretta. La bara e il corteo entrarono nell’ingresso di servizio per lavori in corso al portone principale della Chiesa, la cerimonia fu rapida, scarna, essenziale, da tomba sul mare , mancava solo un fischio prolungato, lontano, e la bara che scende giù , nel gorgo, coi marinai ritti sull’attenti, a poppa della nave. Un funerale davvero povero e grigio, con quattro gatti, i pochi amici veri, e una serie di flash irrelati di memoria, che ciascuno si portava con sé. Edoardo che ride con quella sua risata fragorosa , ride e scorreggia , scorreggia e ride , e poi orina addosso all’amico dall’alto del susino, come farebbe Tarzan con Cita nella jungla. Con il fotografo e Antonio Verri , - raccontava Nocera – una sera siamo andati a casa sua, con tante belle domande in testa . L’omone era abbronzato , beveva vino e birra a gogò , ma non diceva niente. Edoar, barbaro giocoso , ti ricordi di Frances, la marsigliese , di quel Natale passato con lei alle Cesine ? , gli diceva Verri ; e il falò dei quadri che bruciasti alle spalle del Castello Carlo V, tu insieme a Saverio Dodaro, te lo ricordi? E l’olandese volante con la sua Ford tulipano , l’auto-dormitorio-ufficio-alcova? Quante scopate in quell’auto, eh? E lui: “Natale , Pasqua , e gli altri giorni . Tutti uguali , tutte cazzate…Gli artisti sono tutti merdosi…”.
E la musica cinese , e la filosofia orientale , il pagliaro della spiaggia di San Cataldo, dove passavi le tue notti insieme ai sorci e mettevi da parte le patate bollite anche per loro? Sono tutte cose – continuava Nocera - che trovi in quel gioiello di libro che è “Edoardo”, Edizioni d’Ars, 1998, di Antonio Massari, fraterno amico d’infanzia di De Candia . E’ uno che vive da molti anni a Milano, uno in gamba, che ha trovato la propria strada. E’ il figlio del celebre pittore Michele, lo ricorderai, uno dei più significativi della stagione d’oro leccese. E’ pittore anche lui ed è bravo, ma è anche uno scrittore vero , uno che scrive da dio.

3. Artisti salentini a Roma
Edoardo fu il primo figlio dei fiori del Salento , uno di quelli che fate l’amore non fate la guerra…(“Solo amore amore, niente altro, solo amore. Senza amore noi muti rabbrividiamo ”) , ma non ha mai mosso un dito per fare qualcosa di concreto , con costanza, con applicazione, con serietà. Niente. “Solo pittare , sempre pittare, e lavorare mai”?, gli dicevano padre e madre. Ha fatto di tutto per annientarsi…Alla fine i genitori lo hanno fatto rinchiudere in manicomio e così sono riusciti a fargli perdere quel minimo di contatto con la realtà , realtà che non capiva e non amava. ( “I miei genitori erano colpevoli, ma i medici erano ancor più fessi e colpevoli di loro”)
Lecce gli stava stretta, lo soffocava. E allora eccolo a Roma , la Roma della dolce vita di Via Veneto, delle trattorie e delle baldorie trasteverine , delle passeggiate sotto i platani barocchi , i musei foderati di travertino . “Si beveva e si leggevano poesie con Carmelo Bene e Ugo Tapparini , si leggeva spesso “Il poeta contumace” di Corbiere tradotto dal grande Vittorio Pagano , quello dell’atto definitivo. Sì beveva e si andava a donne , si beveva e si pittava , si faceva arte…. Con la vendita dei nostri quadri Carmelo affittò il teatro - laboratorio in via Roma libera dove ci fu la prima minzione in pubblico da parte di Alberto Greco, il pittore argentino morto suicida a Parigi, e subito dopo quella dello stesso Bene. Edoardo dormiva , o stava sotto i monumenti , gli archi e le colonne , pieno di stupore , come un gatto randagio o un Cristo a ridere , a gola aperta e denti scoperti.

4. Dipinge nudo con pennellate disperate
Molteplice e simultaneo , nodo continuo e vitale . Insonne fumatore che dialogava con i merli e dava da mangiare ai piccioni di piazza Duomo, che gli facevano ressa attorno, gli facevano un concerto d’ali , un comizio grigio, come a un San Francesco salentino. E lui rideva , rideva con la bocca ormai sdentata, e non sapeva più dove mettere la lingua . E quella pancia dilatata e orribile , quel viso ultimo stravolto , muto , assente .
Maledetta puttana della morte, eccolo il Cavaliere nero , stremato, l’ex gigante , il vikingo di via Monte Sabotino che fa rutti e scorregge ad ogni angolo di strada , il cavaliere visionario con la carne nera e bucata , pieno di pustole , pus e sangue , e croste di sabbia . Eccolo , il più talentuoso dei pittori leccesi , il pattinatore folle dei marciapiedi , il pettinatore delle comete d’agosto che dipinge nudo i suoi nudi quadri , le suo opere d’arte tra l’informale e il materico , e l’arte del corpo , eccolo col foglio di carta a terra , pieni di cerchi spezzati e colori intensi , segni folli , accesi, malati , eccolo che dà pennellatacce rosse e disperate (“ il rosso è il colore del fuoco , del sangue, del vino , della vita”), e lui , maldestro gigante , brutto e cencioso, con il culo di fuori e lo scroto pencolante ( “Io sto sulle palle a loro e loro mi stanno sulle palle a me”) Eccolo “nel vano tentativo , durato tutta una vita, di trascinare nel maleodorante antro angusto la radiosa aristocrazia del mare e gli spazi profumati di luce , dei boschi, con il vento che lievemente gli accarezzava la bella chioma stinta di alghe selvagge” . E poi fuori da quel tugurio eccolo per le strade di Lecce lungo la teoria , la processione dei Bar , ormai tutti chiusi per lui, Santo Bevitore, tranne uno, che non vuol far sapere chi è. No, non era un bel vedere questo mendico cencioso, questo carro armato di stracci e di sporcizia che si spostava da una strada all’altra della città, ormai privo di sé e di qualsiasi aggancio con la realtà. L’avevano voluto pazzo a tutti costi e tale
s’era ridotto, dopo centinaia di elettroshock , anni di ricoveri, migliaia di sedativi e docce fredde. Era ormai per tutti lo scemo del villaggio, il pazzo di Lecce.

5. Il mare, il mare, il mare!
Un tempo prendeva la strada per il mare , a San Cataldo , undici chilometri di timo , di odori di sabbia , per fare il bagno nudo integrale , e dipingere qualche marina , un viaggio nel colore, con le cabine senza pareti , e il mare che debordava nel vuoto che delimitava i grandi fogli da disegno , e poi il disegno fulmineo , le donne nude e prosperose , il geometrismo fallico , i suoi dialoghi con la vagina ante litteram , i tanti disegni erotici di stampo picassiano.
Mastodontico tumulo di carne con un’anima fanciulla , che dipingeva a larghe pennellate come un Matisse salentino, creatura kafkiana , metà sogno e metà circo ambulante , replay impossibile di un mondo che non esiste più , che forse non è mai esistito , la tua non fu la morte lenta e inesorabile del trasgressore. No, non ci fu alcun eroismo. Tu avevi lasciato questa terra inospitale molto tempo prima , in punta di piedi. Quello che parlava agitando le mani come mannaie era solo un ectoplasma , un fantasma invendicato , un anima implacata e amara che cercava ancora un paradiso che non c’è , una pace che non esiste. Il tuo riposo del guerriero, del ribelle creatore , il riposo del settimo giorno , nell’appagamento dell’uomo e dell’artista incompiuto non c’è mai stato. Tu , Edoardo, sei fallito in tutto, perfino “artisticamente”, se è vero come è vero che nonostante celebrazioni, libri, simposi, film su di te, di amici ed estimatori, ancora nulla di concreto han fatto le Istituzioni, i Critici d’arte che contano, i Grandi Mercanti Nazionali e Internazionali. Tutto ti hanno sottratto i raccoglitori di sterco , gli affaristi a buon mercato . Un poco alla volta ti hanno svuotato del tutto , completamente , finchè è rimasto solo il Matto , un uomo disabitato , una gigantesca crisalide , un immenso involucro , un buco nero , un deserto con gli ultimi fuochi, gli ultimi bagliori per stupefatte parole di cristallo e fulminei incontri. ( “Non ho amici, io sono solo, sperduto, abbandonato”). Ma questa è forse la sorte dei veri profeti, la sorte dei veri poeti.
Ricordo l’ultima stretta di mano , l’ultima immagine della sua stanza-cella-catacomba , l’ultima beffa , con le marine a cinquemila lire e gli oli e le tempere sciolte nell’acqua dell’Adriatico , paesaggi ghignanti che si disgregavano il giorno dopo come nelle dissolvenze narrative di Borges. Splendido e dannato , teorizzatore di farisei , amico del manicomio, gran campo di grano bruciato , anima diseredata , anima da negro , drop out , ultimo della terra , amara radice , sempre perennemente in fuga dal microcosmo salentino, dalla “maledetta Lecce” da cui non potevi star troppo lontano.…No, - diceva Antonio Massari - quello che mi stava davanti non era più Edoardo , che era alto come il più alto dei pini di San Cataldo , non era più Odoacre il maestoso , il nauseato, il puro, il bellissimo ….In fondo la bellezza è qualcosa di difforme e niente di più…Non più illuminazioni , né canti di Maldoror , non più Sartre e Juliette Greco, ma una sedia , un povero letto, una prigione putrida che puzza di piscio , di vernice e roba andata a male. E un corpaccione nudo, sgraziato, lento a muoversi, lento a comprendere, tornato analfabeta come un uomo delle caverne. Pitta non sa che cosa , non mi riconosce più, non sa più parlare , nemmeno cogli occhi..
Rivedo quella sua marina con le spume che camminano , quella marina sbarrata dagli alberi listati a lutto per il controluce , e gli alberi e i giunchi in primo piano che sono sbarre di prigione composte con tre pennellate . Sabbia mare e cielo. Il mare. L’unico vero suo grande amore , il mare che lui amava e da cui si sentiva riamato. Un paracadute, una pianta , un giglio e un bacio sulla bocca …e poi verrà la morte e avrà i tuoi occhi.

6. In fondo al tunnel dei tigli il tramonto.
Vendeva marine a diecimila lire ai passanti di via Toma: “Vuei cu tte li ccatti?” Non ne ho comprati nessuno , dice un barista. Che peccato, chissà quanto valgono adesso, vero? Niente, non valgono nulla. Non avere rimorsi, barista-birraio leccese. Sono come lui. Campioni senza valore…Poco prima della morte era bello come un Cristo deposto .Non dipingo più, diceva, non ho testa .
Era immenso come un campo di grano dentro un piccolo letto stretto , una sedia e un comodino un armadietto coi ritagli di carta , la finestra aperta, l’aria agonizzante come in un orinatoio pubblico; al di là della porta a vetri un cane latrava , lui si era risvegliato, madido di sudore. Gli asciugai il viso col fazzoletto. Se lo lasciò addosso, come un sudario. Erano le prove mortuarie. “Lo rivedo in fondo al tunnel di tigli camminare come sul fuoco, tramontante”. Sembrava quasi un tramonto definitivo, il tramonto del sole e dell’universo intero.
Era un creativo, ma sai a questa latitudine nostra, a questa latitudine del tacco, la fantasia, la creatività non basta , ci vuole di più, ci vuole carattere , ci vogliono le palle e lui , pur essendo un gigante ,le palle non ce l’aveva proprio. Anzi. Era di una sensibilità femminea, come spesso capita alle nature creative.

Molti anni dopo questo incontro con Nocera , ritrovo De Candia attraverso l’opera di un altro amico comune , un poliedrico, che ha diversi registri, diverse scansioni, diverse tonalità, diversi gradi di sensibilità , e va sempre in giro con una lampada ( leggi macchina fotografica) , con cui cerca “l’uomo”, in definitiva cerca se stesso. Parlo di Elio “Diogene” Scarciglia, poeta dell’immagine , che mi fa avere un suo libro con annesso documentario in dvd dal titolo emblematico, “Sembra quasi che il sole tramonti”, Terra d’Ulivi, 2007 . Ed è per me come un volo di Icaro . Vi ricordate quel famoso quadro di Matisse , quella figura appiattita e nera nel cielo azzurro durante la sua caduta libera tra le stelle? Il figlio di Dedalo , sciolte le sue ali di cera al sole , continua a precipitare nella notte cosmica simile alle notti insonni di Edoardo , in fuga perenne dalla realtà, dai suoi mali e dalle sue angosce. “Me ne fotto della vita, con la morte ho un rapporto , con la morte…Me ne vado in cielo , me ne vado in mezzo agli angeli, alle sante, alle madonne” . Elio ha realizzato un’opera di scavo, di grande sensibilità, in cui arte e vita vanno insieme fino alle estreme drammatiche conseguenze. “Bisogna dire – scrive Carpentieri – che il documentario affronta la figura di De Candia dal suo interno, in una sorta di dimensione - e forse proprio per questa lenta per ritmo - che lo mette a nudo e lo rivela in tutta la sua complessità emotiva …seguendolo in un percorso temporale a cui danno immagine il giovane Emanuele Scarciglia ( molto somigliante nel ruolo di Edoardo) e voce tanti volti noti della cultura leccese, alcuni dei quali amici storici dell'Artista”.

7. Una forza extraumana
Elio ha voluto spazzar via ogni residuo di retorica sul clichè tardoromantico dell’artista maledetto , ha bruciato sull’altare della verità e dell’onestà intellettuale ogni falso sentimentalismo, ha fatto un falò d’ogni pregiudizio , ma anche di ogni dietrologia . Si è sforzato di mettere a nudo , e a fuoco, il personaggio , nella sua complessità, nelle sue mille e una sfaccettature, personaggio che lui non aveva conosciuto, in quanto si trovava lontano da Lecce e dal Salento. Ed è riuscito a mio avviso a restituirci un Edoardo vivo , con la sola forza dell’immagine e dell’evocazione Nessuna immagine patinata o convenzionale, nessun volo pindarico, nessuna forzatura , ha fatto parlare e vivere il pittore attraverso i fatti, le sue parole e le testimonianze di tutti quelli che l’hanno conosciuto . Poi ha steso il tutto su un grande pannello, come un grande unico quadro, e , per velature, ne ha delineato i contorni, sfumato le immagini in un narrato essenziale, con musiche originali di Andrea Senatore . Infine ha raccolto tutte le opere che poteva , tempere e disegni , le ha fotografate da par suo , e ne fatto un libro , un mazzo di fiori straordinario dai colori incredibili , che stanno lì a testimoniare il talento mostruoso di questo artista originalissimo, unico, con una energia , “una forza extraumana che imprime nel suo segno eroico forte di secoli, di millenni” , come disse Raffaele De Grada.
Scarciglia non ha toccato una virgola del poema tragico che è stata la vita di Edoardo, eppure nulla è più suo di questa ostensione che il pittore leccese fa di sé stesso, vera e propria sindone di carne e sangue, ostia consacrata all’arte con la sua faccia da strega spagliata, la bocca sdentata, le bave e li dderrutti .Lo fa rivivere percorrendo traiettorie rischiose, insidiose, “in un flusso di ricordi, emozioni, allucinazioni…un ritratto ispirato e poetico…un omaggio commosso ad un artista che attende ancora il riscatto”.
8. L’arte può tutto, l’arte è vita.
Sì, questo gigantesco danzatore di nuvole si è spezzato mille volte prima ancora di esibirsi al pubblico, e parliamo di palcoscenici importanti, Milano, Roma, Firenze, Parigi, Londra ( “La moglie inglese di De Gasperi aveva spedito i miei disegni ad un’accademia a Londra, così mi hanno invitato”) , - con la sua grazia suprema, quella grazia e leggerezza che ritroviamo nei suoi dipinti, nei suoi disegni che si fanno sempre più essenziali, infantili, assoluti . Basta vederlo all’inizio del film quando fa il Tarzan nella jungla di un giardino leccese , inseguirlo nelle marine leccesi, alle Cesine, dove era stato “con una marsigliese bionda, alta robusta…e poi con una sedicenne di Francavilla che sembrava un ‘amazzone”…e poi a Torre Venere , a Torre dell’Orso, a Sant’Andrea , alle Pajare , e in tutte le marine in cui faceva il bagno nudo ( “perché mi sento libero e fresco , naturale , a contatto diretto col sole e col mare. Le pezze me dannu fastidio” ), inseguendo il vento , i gabbiani e i sogni vesperali, urne d’azzurro, scintillazioni di linee, increspature, fratture tra finzione e realtà, linguaggio e idealità, tra volere e potere , tra aspirazione e fine. Il mare diventa tutto per lui , non può farne a meno, tutti i giorni , a piedi, estate o inverno, va al mare, mangia coi topi, dorme nei boschi, tra i pini marittimi , gli eucalipti , il rosmarino e il mirto , o “inthra li pagghiari “ , come scrive Antonio Massari nel suo più volte citato bel libro. Il mare è finestra e specchio dell’anima , silenzio e lungo vuoto , passato e futuro, angoscia e felicità. Non può farne più a meno, come dell’arte a cui è stato chiamato ancor prima di nascere. ”L’arte può tutto, l’arte è vita , - dice Edoardo- , e tutto si può permettere un artista , ogni cosa, la più assurda , la più fottuta, tutto…. Io so’ Picasso e Michelangelo , Klee, Mirò e Braque… io so’ il vento , io so’ il mistero…Gli altri vivono a spese degli artisti…Gli artisti creano e loro?...Tutti parassiti , tutti magnaccia” . E ride con l’ebbrezza del cuore, il canto e il grido che si fanno colore vivo, passione, il prodigio che si fa linea, paesaggio, orizzonte marino, corpo di donna nuda, e poi giù, giù, senza più difese, senza sovrastrutture , senza compromessi , senza spazi in cui trovar riparo, senza nessuna possibilità di sfuggire al proprio destino di “diverso”, di angelo martire dell’arte , eccolo affondare nelle tenebre, nella fredda notte , e un brivido lungo di fronte alle palude degli uomini dabbene, a quei mostri spaventosi di indifferenza che siamo tutti noi quando attraversiamo le strade di Lecce , o di qualsiasi altra città del mondo , senza accorgerci di calpestare anime fragilissime ,meravigliose e nude come la sua.

9. Una corona di spine
Edoardo si è oscurato man mano , nei bordelli, nelle carceri, nelle osterie a bere “vino e malinconie”, tradito e abbandonato dagli amici, ma anche dai tramonti, dai notturni del proprio destino , che erano dentro di lui, inadatto a vivere in questo mondo dove i pastori fanno saltare , a pietre, i denti ai vari don Chisciotte di turno, dove ogni giorno viene impiccato o bastonato un poeta , come capita a lui , a Bari, dove viene massacrano di botte , mezza faccia ridotta a “marangiana” perché si permette di “disfiorare appena una ragazza ( “Pure qualcuno ti disfiorerà, bocca di sorgiva”) . Torna a casa. Non può più dormire con la finestra chiusa, e la povera madre, di notte, d’inverno, la chiude. (“Entra l’umidore”) . Allora lui scardina infisso e bussola e scaraventa tutto in giardino, sotto i due limoni e il mandarino dormienti. Il padre lo fa rinchiudere in manicomio, oggi “Opis”, Ospedale Psichiatrico Interprovinciale Salentino. E qui gli cingono le tempie con la corona non d’alloro , ma di spine, una corona elettrica. Una lunga serie di elettrochocks e di docce gelate, l’ultimo affronto alla sua dignità. E l’ anima sua azzurra , che sapeva di mare e di alghe , si fa indecifrata e sola , si fa man mano estranea a se stessa , diventa enigma, preghiera , soffio d’aria prigioniera ; l’anima non sa più sfuggire alla trivialità del “progresso” in cui si traveste il tempo finale, non sa più ritrovare il profumo dei fiori e quello del mare cobalto blu, in mezzo alla immondizia e al catrame, all’odore del sangue e dell’orina degli ospedali. Che cosa orrenda, che lamento e che grido di dolore senza fine, che bandiera di carne sanguinante, povero Edoardo , tu, anima libera e gioiosa tra i venti e le nuvole , i boschi e le stelle , rinchiuso come animale in gabbia! Quel manicomio di Lecce è il nostro vivo rimorso , le macerie di una memoria tutta da ricostruire e da ricomporre.... quella tua esistenza sospesa tra il mistero e l’irrealtà.
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La recensione di Bruna Alasia

MANUALE DI SCRITTURA CREATIVA
di Roberto Cotroneo
Castelvecchi editore, anno 2008, euro 18

Il talento non si può apprendere, ma chi ne possiede abbastanza, sorretto da sincera passione, può affinare la vocazione, migliorare la propria esperienza, spiando dal buco della serratura i processi mentali, le motivazioni, i timori, le scelte, l’esercizio tenace, i suggerimenti di uno scrittore che dal 1994 ad oggi ha pubblicato con i maggiori editori una serie ininterrotta di romanzi tradotti in molte lingue: Se una mattina d’estate un bambino, Presto con fuoco (premio selezione Campiello), Otranto, L’età perfetta, Per un attimo immenso ho dimenticato il mio nome, Chiedimi chi erano i Breatles, Questo amore.
Stiamo parlando di Roberto Cotroneo, per più di un decennio direttore delle pagine culturali de “L’Espresso”, oggi editorialista de “L’Unità” e condirettore della scuola di giornalismo della Luiss di Roma.

Cotroneo da molti anni tiene corsi di scrittura creativa e questo suo manuale è un distillato del suo amore per la letteratura e per l’insegnamento: una lezione confidenziale, una rassegna di amichevoli consigli diretti a chi aspira all’arte della narrazione. Concentrato di competenze che ci conduce non solo tra le pieghe della creatività, dissertando sulle decisioni da prendere prima di scrivere un testo narrativo, cosa evitare, quali tecniche usare, come dominare lo stile, come sceglierlo; ma ci guida anche nella pratica degli atteggiamenti “sani” di fronte alle delusioni. Ad esempio, lapidario su un comportamento diffuso tra gli aspiranti scrittori: non si deve mai pagare per pubblicare. “Se vi chiedono denaro, sappiate che di fronte avete soltanto uno stampatore, e niente di più. Chi chiede denaro fa in modo, di solito, che siate voi a pagare la stampa del libro – scrive Roberto Cotroneo – Quando il libro è stampato sappiate che non arriverà mai da nessuna parte”.

L’autore include nel suo saggio una dissertazione sulla funzione dell’agente letterario, indica gli editor e gli indirizzi di trenta case editrici, passa in rassegna i siti che ospitano on line i testi degli esordienti, le riviste letterarie, le scuole di scrittura creativa. Molto interessanti gli interventi di Andrea Camilleri, Stas’ Gawronski, Roberto Gilodi e Piergiorgio Nicolazzini che guidano il neofita sulla strada difficile della pubblicazione.
“La teoria è questa, la passione è la vostra”: recita il risvolto di copertina, ciò premesso “Manuale di scrittura creativa” è un testo prezioso da consultare e conservare.
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17 maggio 2008

A proposito della bella principessa

di A. di Biase

Nell’ottimo opuscolo che l’anno passato il quotidiano l’Unità ha voluto dedicare alla figura di Gaetano Salvemini, si illustrava il pensiero molto nitido del grande pugliese in tema di religione. Salvemini non era religioso: non solo ci teneva a dirlo ma rimarcò sempre – nel corso della sua lunga esistenza - il timore di ritrovarsi in una qualche maniera ‘convertito’ in punto di morte, sulla spinta di debolezze vere, presunte o manipolate.
Eppure Salvemini non fu ateo. Molto opportuna testimonianza a questo proposito è la lettera scritta all’amico Giovanni Modugno nel 1946, dove si legge: «Quel che m'interessa è la pratica morale, e non la fede dogmatica di ciascuno. Beninteso che se un uomo onesto ritiene di dover appoggiare la sua pratica morale su una fede religiosa, io non lo crederò per questo meno intelligente di me. Ognuno nel proprio spirito e a modo proprio giustifica le proprie azioni. La vecchierella, che pregando innanzi all’immagine della Madonna trova conforto al suo dolore e un raggio di speranza, è altrettanto rispettabile quanto il filosofo che pesta l'acqua nel mortaio delle sue astrazioni».
Si tratta di un passaggio molto, molto interessante il quale introduce – alla maniera di un grande quale è stato il fondatore della Mazzini Society - l’importante e controversa questione della ‘puerilità’ del pensiero religioso.

La prima risposta alle domande che sgorgano immediate è dunque sì, le religioni confessionali sono puerili: svalutano infatti il pensiero antico sull’argomento, relegando ad esso la stupida idolatria, ma portano poi la gente in appositi luoghi di culto e la istruiscono ad adorare le statue. Puerile, a voler pensar bene, altrimenti molto peggio.
Il fatto è però che bisogna chiedersi se il semplice modello religioso che viene proposto ai bambini, e che rimane intatto negli adulti privi di una capacità critica autonoma, è intimamente lacunoso, o se invece la sua completa comprensione – beati coloro i quali davvero vi riescono appieno – non presupponga lo sviluppo di una sensibilità ad un linguaggio diverso, che non è il linguaggio della parola, bensì – proponiamo - quello del silenzio.
Sono davvero tutte frottole le storielle bibliche, i miti, le favole tanto care ai bimbi? oppure tutte queste storielle sono solo quello che si riesce a dire ed a scrivere su certi argomenti? C’è qualche segreto allora, qualche arcano? Intendeva questo l’allievo migliore di Bertrand Russell quando disse che «…di quel che non si può dire si deve tacere»?
Io propongo di no, non ci sono segreti, ma c’è il limite dell’esperienza che proviene dal contatto con idee che non hanno una corrispondenza diretta con la lingua scritta o parlata. Non vi sarebbe nessun segreto, nessun arcano rivelato nel parlarne o nello scriverne, ma nessuno vi è mai riuscito perché dell’esperienza non si riesce a dire.
Non sbagliano allora – propongo – quelli che si affidano ad una recita puerile, non per dire la verità, bensì per cercarne l’esperienza; una recita che potrà essere spesso derisa dall’intelletto, ma mai pienamente compresa, sebbene certo l’intelligenza sia utile ad unire i punti incerti di un disegno intravisto.
E che storia è mai questa, mi chiedo ogni tanto? Che storia è la vicenda umana? Ha una sua geometria? Propongo di sì. E’ un percorso chiuso? Sembrerebbe.
Io l’unica cosa che mi sento di dare per certo è l’inizio, magari non in tutti i dettagli, ma insomma almeno i personaggi.
Propongo dunque l’inizio comune di una di quelle molte storie che si raccontano ai bimbi dei quattro angoli del mondo:« C’era una volta una bella principessa…».
Il resto ognuno lo trovi da sé.
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15 maggio 2008

Recensione: "Le lettere di Carlo Cattaneo"

'I classici' di A. di Biase
Carlo Cattaneo
Lettere 1821-1869
Peg. 426 - Oscar Classici Mondadori
Il lettore che volesse attingere a questo volume, per un interesse al pensiero politico di Cattaneo, resterebbe con ogni probabilità deluso. La raccolta è sostanzialmente priva di una sua organicità, con il risultato che le parti più interessanti del testo sono gli aneddoti e gli episodi. Tra le epistole più significative possono essere citate quelle nelle quali si raccomanda – in tema di ferrovie che travalichino le Alpi – la via del Gottardo, poi effettivamente realizzata in contrapposizione all’idea di passare attraverso il Lucomagno; altre interessanti lettere sono quelle nelle quali compare l’uomo Cattaneo, mai iscritto alle società segrete – proprio lui, figlio intellettuale di Romagnosi e uomo di Mazzini in Lombardia -, ma sempre pronto a vedere negli altri un ‘fratello’, nonché a sentire il problema dei poveri come un “problema del genere umano”.
Dal punto di vista editoriale non pare molto azzeccata l’idea di pubblicare le note in fondo al volume, cosa questa che toglie unità al testo, costringendo il lettore che voglia comprendere a saltare continuamente da una pagina all’altra.
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12 maggio 2008

I racconti di Versailles – 16 – di Bruna Alasia

YOLANDE DE POLIGNAC LA SEDUTTRICE
Racconto sedicesimo


La fine del 1775 fu freddissima. La neve aveva coperto di un bianco folgorante Versailles e Parigi. Luigi e Maria Antonietta trascorrevano molto tempo davanti al camino, lui leggendo dossier, lei con la principessa di Lamballe a far piani per rendere interessante la vita.
- Con un clima come questo da noi si andava in slitta – raccontava la regina all’ amica
- In slitta? – sgranava gli occhi la Lamballe – cosa sarebbe?
- Non la conoscete?! Deve essercene qualcuna anche in Francia…
Vecchie slitte, usate dal padre di Luigi XVI, antiquate ma in buono stato, furono trovate nelle scuderie e allineate all’aperto.
- Dobbiamo costruirne di più moderne! – esclamò sua maestà vedendole.
In pochi giorni i principi del sangue e i signori della corte ne ebbero una ciascuno, finché un mattino, trainate da cavalli con pennacchi bianchi e tintinnanti sonagliere, le slitte furono lanciate nel parco tra le risa dei passeggeri.
- Fantastico! – gridava Maria Teresa
- Sono contenta che vi piaccia… – la regina le strinse la mano.
Qualche giorno dopo fu deciso di estendere le corse sino a Champs Elysées e la Lamballe acconsentì:
- State lanciando una moda nordica.
Partirono festanti.
La Parigi che si scaldava a fatica nei tuguri, vide sfilare lungo i boulevards signore in maschera sopra carrozze mai viste. Caroline Chevrier risalendo i giardini delle Tuileries con i piedi avvolti in calzature di stracci si fermò stupita e Marianne, la bambina avuta da un rapporto mercenario dopo la morte del marito, la scrollò:
- Cosa sono?
- Carrozze…
- Che carrozze?
- Una schifezza austriaca…
- Schifezza austriaca! – gridò la piccola al passaggio di una slitta
Sua madre le mollò un ceffone:
- Vuoi farci finire alla Bastiglia?
Marianne non capì, scoppiò in un pianto disperato.
Caroline prese in braccio l’unica sua creatura, visto che gli altri li aveva falcidiati la tubercolosi. Mentre si allontanava affondando nella neve disse:
- Marianne non parlare mai ad alta voce se passa la regina…
***
Il periodo che seguì fu spensierato. Maria Teresa di Lamballe, divenuta sovrintendente della casa, organizzò numerosi balli ai quali Maria Antonietta prese parte con gioia. Il potere conferitole da sua maestà le aveva dato alla testa, litigava a sproposito con le dame d’onore e di compagnia per mantenere il controllo su tutto, coinvolgendo una Antonietta sempre più stanca di lei e dei suoi battibecchi. Tempo prima però la regina, durante un ricevimento, aveva avuto un incontro che le aveva cambiato la vita.
Nel salone degli Specchi, alla fine di una quadriglia, la contessa di Artois si era avvicinata:
- Maestà… conoscete la mia dama d’onore, Diane de Polignac?
La regina aveva assentito.
- Permettete di presentarvi sua cognata che si trova a corte per la prima volta…
Una giovane bella, forse la più bella in quel momento, arrossì e si inchinò:
- Yolande de Polignac… se preferite Jules… vostra umile servitrice…
Maria Antonietta notò la freschezza dell’ ovale incorniciato dai capelli castani, la fronte alta sopra uno sguardo azzurro, il collo lungo, tornito, l’abito semplice, quasi dimesso. Provò un moto di simpatia e si incuriosì.
Si appartò con lei:
- Come avete detto di chiamarvi?
- Yolande de Polignac
- Come mai non vi ho visto prima?
- Abitualmente vivo a Claye, nelle mie terre…
- E qui non siete mai venuta?
- L’esser priva di mezzi mi ha impedito di prender parte anche alle vostre nozze… - arrossì violentemente.
La regina fu affascinata da quell’aura di dignitosa sventura:
- Ohhh… non dovete preoccuparvi! Se non conoscete il piacere delle feste, rimedieremo subito…
***
I Polignac erano una famiglia decaduta: un secolo prima avevano posseduto terreni molto vasti nel Velay ma a causa della passione per il gioco e per il lusso sfrenato, nell’arco di poche generazioni, si erano mangiati tutto. Il conte Polignac ora viveva nelle terre di Claye con 8000 luigi di rendita insieme alla moglie Yolande. Grazie all’ammissione a palazzo della sorella Diane, come dama di compagnia della contessa di Artois, il loro tenore migliorò e presero a frequentare la corte. Quando Maria Antonietta conobbe Yolande provò per lei un trasporto simile a un innamoramento adolescenziale, ne ammirava la bellezza, la modestia, la mancanza di opportunismo. Le sue relazioni extra coniugali stuzzicavano la regina: Yolande era amante del conte di Vaudreuil e per una come Antonietta, nel fiore degli anni, frustrata da un consorte inadatto e impotente, da una vita in fondo ripetitiva e noiosa, la giovane era una ventata d’avventura e di invidiabile trasgressione.
Durante un soggiorno a Fontainebleu, con grande dispiacere della principessa di Lamballe, la regina e Yolande si appartarono spesso, alternando al gioco d’azzardo conversazioni molto confidenziali .
- Volete dire che invitate il conte di Vaudreuil a casa vostra? – chiedeva stupita sua maestà.
- E’ così…
- Davvero? E’ vostro marito?
- E’ tanto comprensivo, un marito perfetto…
Maria Antonietta ammirata e sorniona:
- Credete che sappia?
- Sì, ma non lo darà mai a vedere.
- Dio mio! Una relazione pericolosa…
Quando la vacanza finì Yolande de Polignac prese commiato sottolineando con parole opportune lacrime sincere:
- La mia limitata disponibilità finanziaria non mi permette di restare oltre…. ancora non ci vogliamo così bene da soffrire per la lontananza, ma sta per succedere…. permettetemi di evitare che accada, lasciatemi partire prima che sia tardi…
- Oh Yolande! – la regina le buttò le braccia al collo e pianse – già adesso mi sento male al solo pensiero di non vedervi. Restate vi prego…
Si baciarono sulle guance, sulle mani, sul capo.
Il conte di Artois, fratello di Luigi XVI, che le aveva spiate da una porta socchiusa, scoppiò a ridere e insinuò:
- Non fate complimenti mesdames!
La giovane donna cedette alle suppliche disperate della regina e diversi giorni dopo, lei e il marito, si trasferirono in un appartamento di Versailles.
L’appassionata amicizia di Antonietta per Yolande de Polignac detta “Jules”, suscitò a corte commenti malevoli e invidia per i favori di cui avrebbero beneficiato la favorita e la sua famiglia. La calunnia attecchì, tanto che un giorno sua maestà arrivò a sfogarsi con la madre:
15 dicembre 1775
Madame mia cara madre
(…) Siamo in una epidemia di canzoni satiriche. Ne sono state fatte per tutti a corte, uomini e donne, la leggerezza francese ha toccato persino il re. L’operazione è stata mossa dalla maldicenza contro il sovrano. Dal canto mio non sono stata risparmiata. Mi hanno attribuito a sproposito le due tendenze, per le donne e per gli amanti.

***
Maria Antonietta non amava il grasso fratello di Luigi, il conte di Provenza, e lo teneva a distanza. Passava il suo tempo con Artois, più giovane e scavezzacollo, a caccia, a cavallo, al gioco: Artois aveva introdotto a corte la moda inglese delle corse dei cavalli, unica innovazione che donò alla Francia. Quel giorno però, avanzando verso il castello di Brunoy, la regina dovette ammettere che “monsieur”, come era chiamato Provenza, in quel palazzo comprato a un marchese caduto in disgrazia, dava le feste più raffinate e grandiose mai viste. La reggia di Brunoy, lussuosamente ristrutturata, sorgeva sul fiume Yerres, non lontana dalla foresta di Senart e aveva giardini rigogliosi.
Giunti al primo boschetto la regina e il seguito si imbatterono con stupore in un gruppo di cavalieri armati che, appese lance e scudi ai rami, si erano addormentati ai piedi degli alberi. Si guardarono in silenzio, non parlarono Yolande de Polignac, il conte di Vaudreuil, il barone di Besenval, i signori di Guines e di Coigny, che a quel tempo costituivano una compagnia fissa. Ma i giovani, che avevano sentito il fruscio dei piedi sull’erba, si alzarono di scatto.
- Maestà – disse uno di loro inchinandosi profondamente
- Non ci sono belle signore a tenervi svegli? – chiese Maria Antonietta civettuola
- Nessuna vostra pari – il cavaliere avanzò – nessuna che possa ispirare imprese come quelle di Carlo Magno… soltanto voi ci avete tratti dal letargo…
La regina sorrise.
- Vogliamo dimostrarvi tutto il nostro valore maestà…. – prese lancia e scudo facendo segno di seguirlo – ora vedrete.
Condusse il drappello di nobili a una arena magnificamente decorata nello stile degli antichi tornei. Maria Antonietta decise di prendere posto con gli altri sugli spalti. Lo spettacolo iniziò: cinquanta danzatori vestiti in abiti da paggio consegnarono ai cavalieri venticinque cavalli bianchi e venticinque cavalli neri splendidamente bardati. La giostra partì. Il partito con i colori della regina era comandato da Vestris, alla testa della fazione opposta stava il maestro di ballo della corte di Russia. Tutti sapevano che avrebbero vinto le insegne di sua maestà, ma questo non tolse suspence alla gara.
- Come mai non è venuto il duca di Lauzun? – chiese a un tratto Yolande
- Non verrà più con noi– disse Maria Antonietta
- E perché?
- E’ un impertinente… sapete che mi aveva regalato una bellissima piuma di airone?
- Certo.
- Per ringraziarlo ho voluto indossarla… volevo capisse che l’apprezzavo… Lauzun ha frainteso…
- Cioè?
- Non so cosa abbia creduto, si è montato la testa… un giorno si è buttato in ginocchio e mi ha fatto una dichiarazione d’amore…
La Polignac allargò gli occhi scandalizzata.
- Un vero impertinente – concluse Maria Antonietta
Una lancia si spezzò contro uno scudo, un cavaliere cadde a terra.
- Mio Dio! – esclamò Yolande .
Il cavaliere si rialzò, partì al galoppo e travolse il nemico. Furono issate le insegne della regina e scoppiarono battimani fragorosi: sua maestà aveva vinto.
***
In pieno accordo con Maria Teresa, dal 18 aprile al 31 maggio 1777, l’imperatore Giuseppe II si recò in Francia per rinsaldare l’alleanza con l’Austria e indagare sulle ragioni dell’infecondità della sorella. Giuseppe, Luigi e Maria Antonietta cenarono spesso insieme, in maniera raccolta e informale, serviti da pochi “ufficiali della bocca”. L’imperatore parlava, il re lo ascoltava assentendo in maniera disarmante e quasi ottusa.
- Gran paese la Francia – diceva Giuseppe con spiccato accento teutonico – ammirevole l’arte, il Lussemburgo, la scuola militare, il palazzo di giustizia… meno la moda eccentrica delle francesi….
Maria Antonietta allargò gli occhi.
- Non trovate ridicolo il loro modo di pettinarsi? Di imbellettarsi? – l’imperatore guardò dritto Luigi.
- Che volete… – l’altro fece spallucce – ammetto che non ho mai visto signore spendere così tanto per rendersi ridicole…. un anno e mezzo fa c’è stata un’epidemia di abiti color “pulce”, come io stesso avevo soprannominato una stoffa marroncina … a Versailles ha fatto furore…
- Color pulce, questa è buona! – Giuseppe scoppiò in una risata
- Cosa avete contro la moda? – la sorella reagì – la pulce è stata un trionfo in onore del re…. C’erano abiti color pulce vecchia, pulce giovane, dorso di pulce, ventre di pulce, anche coscia…
Giuseppe II bevve il suo malaga e fece una smorfia:
- Puah! Pettinature alte al punto da non entrare in carrozza... tutto quel rosso sulle guance... troppa affettazione, troppa etichetta… trovo che la principessa di Lamballe complichi la vostra vita con cerimonie e liti inutili…
Lo sguardo di Maria Antonietta fu desolato:
- Ho sbagliato a nominarla sovrintendente della casa.
Il Giudizio di Giuseppe II sulla povera Maria Teresa di Lamballe diede il colpo di grazia a una relazione affettiva ormai al tramonto, le rare visite che la regina faceva alla favorita di un tempo si interruppero. Ormai vedeva solo Yolande de Polignac, che senza colpo ferire, senza mai chiederlo, era riuscita a sistemare a corte tutti i suoi e a usufruire di un passaggio diretto tra le sue stanze e quelle di sua maestà. Jules era una seduttrice autentica: sapeva catturare la benevolenza altrui grazie a una disarmante noncuranza che i parenti, più interessati di lei, sfruttarono al massimo. La fresca e misteriosa “Jules” ascendeva veloce mentre Maria Teresa cadeva in picchiata.
I cortigiani presero a disertare i ricevimenti della Lamballe ostentando con sadico piacere fedeltà alla regina, l’accusarono di incapacità, di pedanteria, di rigore esagerato, di avarizia, di mancanza di spirito e di assurde gelosie. Ammalatasi di rosolia, lei si ritirò per lunghi periodi nella sua tenuta di Penthièvre. Pianse e cadde in depressione: niente riusciva a restituirle la felicità che aveva conosciuto come favorita di sua maestà, nemmeno i numerosi viaggi in Olanda.
Una sera d’inverno, nel castello di famiglia, invitato il suocero davanti al camino acceso, l’amabile duca di Penthièvre, malgrado il tempo trascorso la principessa rinvangava ancora:
- Quando vedo il ritratto che mi ha fatto la Vigée Le Brun mi sembra di essere un’altra persona, sono passati mille anni da allora…
- Non esagerate – disse il duca
- Conoscete la Polignac?
- Ne ho sentito parlare…
- Una santarellina all’apparenza – sibilò rancorosa – ma come è stata brava dietro quel sorriso pulito ad accaparrarsi di tutto e di più! Il conte di Polignac suo marito è diventato subito colonnello del reggimento del re e primo scudiero della regina. Ha avuto un appartamento a Versailles e uno in ogni castello reale, il titolo di duca ereditario che ha fatto entrare Jules nella cerchia di Maria Antonietta, poi la direzione delle poste e la baronia di Fénétrange. L’amante di Yolande, quel Vaudreuil… una pensione di trentamila luigi…
- Gesù… - sospirò il duca
- … e l’incarico di gran falconiere di Francia… sua zia, la contessa d’Andlau, pure lei una pensione sostanziosa… suo suocero ha avuto l’ambasciata di Berna e suo cugino quella di Colonia… sua figlia Aglae quando si sposerà avrà una dote favolosa, il re le ha promesso ottocento mila luigi!
- Non è possibile… una dote è di seimila…
- Vi dico che è così… l’abate Vermond, l’ambasciatore Merci Argenteau sono scandalizzati al punto che l’abate si è allontanato per 15 giorni…
Il mite duca di Penthiévre scosse la testa.
- Questa manna immeritata è uno scandalo… come può il nostro buon Luigi permettere questo?
- Non ne ho la minima idea…. so solo che la Polignac col suo finto candore ha stregato Maria Antonietta che sta dilapidando tutto per lei…
Ciò detto Maria Teresa Luisa di Savoia Carignano, sua altezza serenissima principessa di Lamballe, prese il fazzolettino blù profumato alla violetta regalatole da sua maestà e si asciugò una lacrima.
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08 maggio 2008

MANUEL PUIG E RITA HAYWORTH

di Augusto da San Buono

Sono quasi vent’anni che se ne è andato Manuel Puig, scrittore argentino, figlio di una italiana di Busseto, il paese di Verdi. Maria Elena Delle Donne, si chiamava la madre e aveva la lirica nel sangue, e tutti sembrano averlo dimenticato. Manuel se ne è “ghiuto” che era ancora abbastanza giovane (53 anni), morto per una banalissima operazione di cistifellea, morto senza averne alcuna coscienza, anzi convintissimo che stesse per guarire, e con un sacco di progetti che gli rullavano per la testa, una testa e un cuore ancora pieni di desideri e di delirii.
Ai medici e alle infermiere parlava delle sue attrici preferite, di Rita Hayworth, Ingrid Bergman, Greta Garbo, Carmen Miranda, di cui aveva scritto nei suoi romanzi. “Il tradimento di Rita Hayworth” è stato il suo primo libro, uscito in piena rivoluzione sessantottina, e ciononostante andato a ruba. Nelle pagine vi ritroviamo la Rita di “Sangue e arena”, la Rita che faceva "toro, toro" a Tyron Power con la morte addosso: lui era inginocchiato come un povero spagnolo povero, lei una Venere americana di Brooklyn con il vestito trasparente e quella sua risata così sensuale “che ti faceva arrapare tremendamente” (era più che un coito, quella sua risata, dirà Manuel, nel suo libro). Manuel moriva inconsapevole, come un fanciullo, sognando gli aquiloni, quell'aquilone coloratissimo che aveva visto da bambino e che ancora continuava a salire nel cielo, mentre Manuel vedeva sotto di sé la pampa gialla e secca della sua terra da cui era ormai esule dal 1976. Ancora un attimo, basta seguire ancora per poco quell'aquilone, si diceva, ed ecco Buenos Aires, a pochi chilometri da Villegas, ecco, ora riesco scorgere l'obelisco in Avenida da Corientes.
Oddio, da quanti anni non ci metteva più piede?, che emozione pazzesca!
Il secondo libro Manuel Puig l'avevano proibito, si profilava come un bestseller, tutte le librerie erano state prese d'assalto, tutti volevano leggere “Boquitas Pintadas”, scritto nel 1973, ma la Division Moral della Polizia (la nostra defunta “Buoncostume”) aveva sequestrato tutti gli esemplari. E’ un libro pornografico, dicevano le matrone della Parrocchia de la Mercedes.
Brutti ricordi per Manuel. Ma ecco che appare Greta Garbo con la sua voce da contralto ed è china su di lui, con il suo volto lunare.
“Manuel, vorrei che il passato non esistesse. Vorrei non aver fatto l'attrice, ma essere stata la tua donna”.
Oh Greta, Greta, amore mio. Ma il passato non esiste, dice Manuel, il passato non esiste, querida. “Voglio solo pensare al nostro futuro, tu ed io Manuel. Ma forse neanche quello esiste, anche il futuro è solo un ipotesi?”. Poi ecco il bacio, ma è il bacio della donna ragno, ed è subito dolore, il dolore brutale, la voglia di gridare, le convulsioni. E' una punizione divina, questa, lo so, dice Manuel. Perché mio padre è morto in un gerentecomio ed io ero contento, la sua morte era stata di sollievo per me, capisci? Come in quel film con Bette Davis, quando lei non fa una piega davanti al marito moribondo, il suo viso in primo piano è una maschera fredda, mentre il marito cerca a tentoni, disperatamente, invano le pillole per il mal di cuore...
Quella scena ha tormentato Manuel Puig per mesi e mesi, ora sente di meritare il castigo, ma non sa di dover morire. Pensa di aver patito ed espiato, pensa che tra poco starà bene, pensa che guarirà e parlerà ancora con gli amici, Lucy, Javier , Ingrid, Rita, Greta. Oh, Dio, la vita dovrebbe essere un film con l'happy end, coi protagonisti che alla fine sono riscattati dal loro crudele destino. E Manuel l'ha fatto, questo, nei suoi libri, ha inventato dei finali su misura. Ha fatto dire a Luise Reiner che l'amore veniva, l'amore la stringeva freneticamente, mentre la disgraziata moriva alcolizzata, in solitudine, abbandonata, piena di ragni e di sporcizia. Se potesse fare così anche per lui, l'amore, se potesse stringerlo, abbracciarlo con il viso e l'immensa curva splendente del seno di Gilda, o di Carmen Miranda che ondeggia i fianchi fra le palme; se potessero portarlo via, nel vento, come l'aquilone, che plana ora in una deliziosa vertigine verso l'ospedale dove si trova lui, a Cuernevaca, per una banale operazione di cistifellea. Sembra che l’aquilone ora gli venga incontro, s’avvicina sempre più, sempre più e ha il sorriso luminoso di Rita…. Oh, Rita, Rita, querida!...
Ma ecco che l'infermiera messicana guarda l'orologio, sono le quattro e cinquantacinque del mattino, il 22 luglio del 1990, gli copre il viso col lenzuolo e scrive la data e l’ora della sua morte sulla lavagnetta nera.


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