DALLA
TERZINA ALLA TRINITÀ
La poesia religiosa in Cristina di Lagopesole
Trovandosi per caso di fronte ad una raccolta così adornata che par che sembra
un messale, e dietro scorgendo uno stemma arcano, quello di Cristina di
Lagopesole, ci tuffiamo in una dimensione d’altri tempi, sempre antica e sempre
nuova, eterna ed eterea, in un mondo di fede che si traduce in splendidi versi.
È il caso del Flos Sanctorum. E’ il caso del De Trinitate, Edizioni Feeria-Comunità di
San Leolino 2007, un
titolo tipicamente agostiniano, il testo che prenderemo in esame in queste
considerazioni. Mille terzine in trentatre libri consacrati alla Tre
Persone della Santissima Trinità. Il De Trinitate, dedicato a Sua
Santità Benedetto XVI è diviso in tre sezioni: Padre, Figlio e Spirito.
L’ultima sezione poi si divide in nove inni intitolati ai nove doni dello
Spirito, altri ai sette sacramenti, altri ai cinque elementi. Altri ancora ai
sette sigilli che ospitano dei Santi. È in poche parole un vero e proprio
compendium in versi sacrae theologiae ac philosophiae. L’esperienza
poetica in Cristina di Lagopesole è direttamente connaturata alla sua
esperienza mistica. La poesia è mistica. È platonicamente “divina mania”, è
aristotelicamente “catarsi”, ma è soprattutto “creazione”. Poiein
significa creare, fare. In questa creatio si ha l’imitatio della creazione
originaria. Dio disse e tutte le cose furon fatte: la parola creatrice. E la
poesia è anche la forma primordiale di ogni sapere in ogni lingua, popolo,
civiltà; vedi Omero, i Presocratici, tanto per citare esempi di quella cultura
a noi cara e vicina, quella classica, sulla quale il Cristianesimo in qualche
modo si è innestato. Ogni poeta in questo senso è un mistico, un ispirato,
quindi Cristina si inserisce bene in questa cordata che è anche il cordone
ombelicale diretto che ci unisce alla vita e ci vivifica. Esempi ne abbiamo
tanti, cito la Dickinson, la quale, pure essa si ispirava, a sua volta, al bel
noto saio bianco indossato da Balzac, quando era preda dell’estasi compositiva.
Nel mondo non profano, ad esempio, la stessa Teresa d’Avila, in certi momenti
di unione con Dio improvvisava poesie. Questo vale in genere per ogni forma
d’arte, ma in particolare per la poesia. Il poeta rivela d’altro canto un mondo
interamente costruito, utilizza una materia che già gli è stata donata, il
verbo, modifica l’Universo. Egli fa come Dio, crea, ma non ex nihilo, crea ma
non saprebbe dire ciò che egli ha creato, perché egli – e fortemente nel caso
di Cristina – riceve per ispirazione e riporta. Non è Cristina la poetessa, è
Dio il poeta, come è Dio il profeta, né Geremia, né Isaia, né Cassandra e così
via. Se il Signore non costruisce la città invano fatica il costruttore. Se il
Signore non custodisce la città invano veglia il custode. Il compito di questo
costruttore, dell’uomo è l’interpretazione, naturale, del libro vivente della
Natura, o soprannaturale, del Logos divino. È l’utilizzazione di una materia
creata per ricreare e ricrearsi. Il riferimento princeps di questo poema
trinitario è poi, come l’autrice stessa mette in evidenza nell’opera, il divino
Dante Alighieri. L’aderenza è formalmente e contenutisticamente rilevante. La
scelta di un tema così sublime, come la Trinità in versi denota il grande
cammino spirituale che l’autrice ha fatto e fa da itinerante. La sua è una
poesia vivente, libera, nascente dal cuore come uno zampillo inesauribile, fons
vivus, ignis, charitas. È quello Spirito che soffia dove vuole e quando vuole,
soffia nelle narici e nella vita, nella parola vivente. La poesia di Cristina
in questo senso è pura effusione spirituale, è una poesia che nasce
dall’ascolto, più che dalla parola. La Trinità è mistero sommo della Deità. Il
mistero è mistica e mistica è la sua poesia. L’anima si perde in questo mistero
e non riesce mai a raggiungerlo definitivamente, perché non ne ha mai, né
potrebbe averne, una chiara, limpida visione intellettuale. Di qui la ricchezza
delle parole, la ricchezza delle immagini, la simbologia. Il mistero si può
raggiungere solo attraverso il simbolo, attraverso l’immagine, la favola, come
in Platone, attraverso il mito. Questa “mitologia” cristiana non va intesa in
senso sprezzante, negativa. Ne sono esempi le parole dei Santi presi ad
immagine da Cristina stessa nel poema. I Santi dei sette sigilli diventano gli
intermediari tra Dio e l’uomo. Dio è l’inafferrabile ed anche l’inesprimibile.
Solo il cuore puro può avvicinarsi a Lui e poi è caro, soprattutto nei vangeli,
l’uso delle parabole, delle metafore. Dio rimane sempre un Dio nascosto, non si
rivela se non agli umili. I misteri del Regno vengono comunicati alle persone
semplici. La scelta della poesia è la scelta di un linguaggio semplice, ma ciò
che è semplice è anche, nello stesso tempo, difficile, sconcertante. Dio, Logos
e Sofia nell’anima. Quella di Cristina è una “Gnosi” di salvezza, e intendiamo
gnosi non nel senso negativo che si è accumulato e stratificato nei secoli e
secoli di condanna e di abominio della Chiesa ufficiale verso, invece, uno
spunto, uno slancio intellettuale ed umano che ha carezzato generazioni e
generazioni di cristiani e che non è svanito nel nulla. Il cristianesimo ha
avuto bisogno di una sua struttura di conoscenze. Sapienza e amore, questa è la
sintesi. Fede e ragione, sarebbe cieco chi le vede guerreggiare distinte e
separate. Questo il mistico, proficiente, perfetto che egli sia, lo sa, perché
riceve da Dio stesso la conoscenza che viene data in dono a chi ha fede. Il
simbolismo alchemico, esoterico, lo si può notare nella simbologia delle cifre:
Tremila versi a tua lode,/ numero sacro fondamentale, cifra del cielo./
Mille terzine trinitarie di grazia fulgente e divina,/ Trono Libro Colomba,
Triplice cerchio, Triangolo, Stella. Non è affatto un disagio, molti Santi,
come Tommaso l’Aquinate, Alberto Magno, suo maestro, si avvicinarono agli studi
alchemici. La poesia è un po’ come l’alchimia, usa la composizione degli
elementi per la creazione di nuove essenze. La cosmologia antica si trova
espressa nella dottrina degli Elementi che Cristina poeticamente rende con grande
eleganza e senso di stupore. Aggiunge il principio della Luce, che già
Grossatesta individuò come prima promanazione del divino. E se pensiamo a
quanti studi su di essa hanno sconcertato generazioni di scienziati, ci
renderemmo conto che anche questi scienziati dovrebbero unirsi in un unico
afflato al coro di Cristina di Lagopesole. A epilogo di queste considerazioni,
che sono brevi per la sede cui sono destinate - si potrebbe dire e dire su
questo meraviglioso poema e soprattutto sull’autrice, un esempio raro di
grandezza poetica e di vita – ci soffermiamo su un concetto bene espresso dal
curatore dell’edizione Mauro Agosto della Pontificia Università Lateranense -
anche l’ Ouverture di Carmelo Mezzasalma è completa e tralucente - sul
Cristianesimo come terapia: l’incarnazione abolisce ogni dualismo: il divino e
l’umano sono uniti senza confusione e senza separazione; il destino della
storia è di essere deprofanizzata e santificata, affinché si realizzi la
profezia dell’Apocalisse: et ambulabunt gentes per lumen eius et reges terrae
adferent gloriam suam et honorem in illam. Con l’auspicio che giammai si avveri
il contrario, che la santità si profanizzi. L’opera di Cristina è un grande
rimedio ai mali dell’umanità delle anime.
Vincenzo Capodiferro