27 agosto 2023

I libri di Progetto Babele


Ogni fine settimana, a partire da oggi, sarà possibile scaricare gratuitamente la versione Kindle di uno dei libri pubblicati nella collana I libri di PB

Inaugura la serie:

Disponibile gratuitamente solo oggi e domani (26 e 27 Agosto)!

[(...)In questo libro troverete dodici finestre aperte su altrettante stagioni e paesaggi di un mondo immaginario eppure, a suo modo, coerente. Un teatrino popolato da personaggi sperduti, testardi, a volte brutali, mossi dalla consapevolezza di una mancanza, di un vuoto al quale non sanno dare un nome ma che sognano confusamente di colmare. E questa necessità li spinge a viaggiare, a cercare, a rovesciare il tavolo, a cambiare tutte le carte della mano. Perché, o si trova una scala reale, o non ha senso giocare. E tanti saluti a chi si contenta di vincere con una doppia coppia. Siano essi geniali (e molto distratti) ingegneri, brutali e giganteschi barbari imprigionati in un mondo a metà fra Howard e Lord Dunsany, ombre nel deserto, impiegati non del tutto disposti a piegarsi, vecchi e bellicosi contadini toscani o fantasmi, a modo loro, piuttosto concreti. Completano il tutto un paio di divagazioni giovanili, che ho incluso più che altro per nostalgia, come fossero quei pezzi che si trovano a volte nei musei, quelli che nessuno sa davvero cosa fossero o a cosa servissero ma sembra brutto lasciarli in una cassa sul retro. Così li si espone con una avvertenza in caratteri piccoli: ritrovamento non catalogato, uso incerto. Agitare con prudenza.]

Si chiede cortesemente, dopo la lettura, di lasciare una recensione.

Un cordialissimo saluto

 

24 agosto 2023

Fëdor Sologub Peredonov, il demone meschino a cura di Marcello Sgarbi


Fëdor Sologub

Peredonov, il demone meschino – (Fazi)


Collana: Le Strade

Formato: Brossura

ISBN: 9788893257046

Pagine: 372


Sulle orme di un acuto indagatore dell’animo umano quale Dostoevskij, Sologub mette in scena la vicenda di un personaggio che non avrebbe stonato in un romanzo del grande scrittore russo.

Peredonov, insegnante di provincia dall’ego smisurato quanto le sue ambizioni, è altrettanto ambiguo e opportunista. Volgare e superstizioso, rivolto solo a se stesso e ai propri interessi, disprezza la distinzione nella scuola, non ha amici ed è ancora più meschino perché si sottomette all’autorità con ipocrisia.

La sua vita sembra destinata alla mediocrità, ma nonostante tutto il protagonista dell’opera di Sologub viene baciato dalla sorte: la principessa pietrobughese Volanskaja è disposta a favorirlo e a fargli conquistare il posto di ispettore scolastico. A condizione, però, che sposi Varvara, la donna con la quale Peredonov convive.

Da quel momento, per l’insegnante la meta diventa un’ossessione che gli fa vedere nemici che attentano alla sua carriera, personificati dall’immagine dell’Inafferrabile. L’escalation di dubbi e paure lo porta a pensarsi vittima di persecuzioni, fino a sfociare in un paranoico delirio distruttivo.

Il contraltare al demone che abita in Peredonov - meschino quanto la società “perbene” - è l’innocenza di Saša e Ljudmila: la tensione verso la bellezza come antidoto alla mostruosità.

La faccia di Peredonov non esprimeva nulla se non la solita ottusità; gli occhiali dorati sul naso e i capelli corti sulla testa saltellavano in modo meccanico, quasi appartenessero a un essere inanimato.

Peredonov sedeva accanto a Marta. Gli avevano fatto così tanto posto che Marta non poteva essere più scomoda.

In mezzo a tutto quel tormento nelle strade e nelle case, sotto l’alienazione che scendeva dal cielo, sopra la terra sporca e inerte, camminava Peredonov, languendo per paure confuse e non trovando conforto in ciò che è superiore né consolazione in ciò che è terreno perché anche adesso, come sempre, guardava il mondo con occhi spenti, come un demone che si strugge in angosce e paure senza nome, nella solitudine più oscura.

Superando la chiesa, Peredonov si tolse il cappello e si fece tre volte il segno della croce con gesti ampi e infervorati, così che chiunque si trovasse nei dintorni potesse vedere con che zelo il futuro ispettore passava accanto alla chiesa. Non l’aveva mai fatto, ma era divenuto ormai necessario stare bene all’erta: non era improbabile che una spia camminasse di soppiatto alle sue spalle o qualcuno lo osservasse di nascosto da dietro un albero.

Intanto l’Inafferrabile gli turbinava attorno, rideva silenziosamente e per il riso sussultava tutta. Ricordava a Peredonov varie circostanze spaventose. Lui si guardò intorno circospetto e bisbigliò.


© Marcello Sgarbi


22 agosto 2023

Un film scomodo del 1980: La ragazza di via Millelire A cura di Marco Salvario

Un film scomodo del 1980: La ragazza di via Millelire

A cura di Marco Salvario


Allo spettatore di oggi non possono che suscitare meraviglia e incredulità, la furia, il disgusto e lo scandalo con cui il film di Gianni Serra “La ragazza di via Millelire” viene accolto dalla critica dei principali quotidiani italiani, dopo la presentazione in concorso al Festival del Cinema di Venezia del 1980. Non si fanno sconti: “Sgradevolissimo”, “Gronda fango”, “Il film più becero dell'anno”.

Nei quartieri di Torino dove è ambientato, Via Artom e Mirafiori Sud, nascono immediatamente, anzi sono attivi ancora prima che il film sia terminato, comitati spontanei che protestano indignati; ne fanno parte famiglie, commercianti, operai e sacerdoti. I dibattiti si tramutano subito in risse; come per “Ultimo tango a Parigi”, si chiede il rogo.

Il film lo hanno visionato in pochi e si crede agli articoli dei giornali, che buttano benzina sul fuoco.

Tutto comincia da un'idea apparentemente condivisibile del consiglio comunale di Torino per il 1979, dichiarato dall'ONU “Anno internazionale del fanciullo”. Il sindaco comunista Diego Novelli avalla il progetto per la realizzazione di un film sul tema, mentre della produzione si incarica la Rai.

Nei quartieri in rivolta la situazione si calma quando il lavoro è proiettato al cinema Massimo di Torino, davanti a spettatori che riconoscono che il diavolo è così brutto come lo si dipinge, ma per Gianni Serra, rimasto quasi da solo a difendere il suo lavoro, non è una vittoria. Tra i pochi che lo hanno appoggiato a Venezia, proponendolo per la premiazione, c'è Umberto Eco che, proprio nel 1980, pubblica il suo primo romanzo: “Il nome della rosa”.

Dopo brevissime apparizioni nelle sale cinematografiche, occasione per pochi tra cui il vostro articolista di vedere “La ragazza di via Millelire” sul grande schermo, la pellicola scompare dalla grande distribuzione. Oggi, sul canale YouTube, si può trovare una rarissima messa in onda televisiva, avvenuta a tre anni di distanza e in seconda serata, con la presentazione di un Tullio Kezich estremamente cauto nel pesare le parole e nell'esprimere giudizi; d'altronde il film era già costato il posto all'allora direttore del secondo canale Rai.

Recentemente, a 40 anni di distanza, Rai Teche ha restaurato e digitalizzato la pellicola.



Gianni Serra è un regista del bresciano morto a Roma nel 2020. In Rai cura programmi televisivi condotti da Mike Bongiorno, Enzo Tortora, Enzo Biagi, e “La Domenica Sportiva”; il suo nome, però, è legato alle inchieste e a un controverso lungometraggio sul disastro di Seveso, “Una lepre con la faccia di bambina”. Oltre ai film per la televisione, di lui ricordiamo per il cinema: “Uno dei tre” e “Fortezze vuote”, dove affronta il tema delle malattie mentali.

Della mia prima visione del film in una sala di via Po non ho molti ricordi, sono passati più di quaranta anni, però l'interesse suscitato mi ha fatto acquistare la sceneggiatura del film, pubblicata dalla Savelli Editore, casa editrice della sinistra estrema, che ha stampato opere come “La strage di Stato”, controinchiesta sulla bomba di piazza Fontana e, altro scandalo, “Porci con le ali”.

Il volume con la sceneggiatura di “La ragazza di via Millelire” è accompagnata da interventi di Diego Novelli e dello stesso Gianni Serra, che testimoniano la situazione tesa e polemica seguita all'uscita del film.

Pur volendo evitare di impantanarmi in un dibattito politico e sociologico su quegli anni difficili, non posso estrapolare il film dal suo periodo storico.

Il 1978 è l'anno del rapimento e dell'uccisione di Aldo Moro: la tensione in Italia è altissima.

Nelle città del Nord l'immigrazione proveniente dal Sud Italia fa nascere nuove periferie. A Torino le vie dedicate al partigiano Emanuele Artom e all'ufficiale Domenico Leoni, detto Millelire, sono ghetti dove il degrado, la povertà, lo sfruttamento, sono sotto l'occhio di tutti. Gli uomini che hanno trovato lavoro alla Fiat, sono soggetti a turni massacranti e il loro stipendio non basta a mantenere famiglie troppo numerose. Mancanza di istruzione, delinquenza, spaccio, prostituzione minorile, sono fuori dal controllo delle istituzioni e delle forze dell'ordine, preoccupate piuttosto di tenere a bada la minaccia terroristica.

La chiusura di manicomi e riformatori ha portato alla nascita di inediti comprensori, come Centri d'Incontro e Strutture di recupero, che funzionano, quando funzionano, solo grazie alla buona volontà e all'improvvisazione di poche persone. Proprio questo aspetto, la rappresentazione che di tale problematica sociale ha dato Serra, spiega secondo me la reazione rabbiosa e quasi isterica che, dimentica del film, ha generato attacchi eccessivi e sistematici.

La ragazza di via Millelire” non sarà tra le opere immortali del secolo scorso, ma ha il suo fascino, il suo impegno, la sua forza di denuncia e una sua poesia, facendo della protagonista dalla bellezza acerba, quella che fu definita “un'eroina punk”.



Il film si dipana intorno al personaggio di Betty, Pellegrino Elisabetta, tredicenne irrequieta, in fuga da tutto e da tutti, sbandata ma con i suoi valori, con le sue regole spesso tribali. Una ragazzina fragile e ostinata, non più bambina e non ancora donna, intelligente e ingenua al tempo stesso; in un sotto mondo di personaggi allo sbando, vinti, perduti, senza morale, senza futuro, lei vuole combattere per non finire come le ragazze della sua età e condizione, a fare la schiava per un marito padrone o a prostituirsi per portare soldi a casa.

Betty, pur nella sua confusione, è coerente con se stessa. Si cerca, soffre, sbaglia, si sfoga, chiede aiuto e consiglio, si ribella e si vendica.

Prova a confidarsi con tutti quelli che incontra: suo fratello Rocco, il travestito Garofano, il “poeta” Calvo, Tonino di cui quasi si innamora ma che vuole sfruttarla e la cede ai suo amici solo per giocare a fare il duro, le ragazze con cui condivide breve periodi di vita in comunità da cui fugge subito, Michele a cui si rivolge per vendicarsi di Tonino. Quando parla di se stessa, confessa: “... io voglio bene un po' a tutti, sì perché sono un tipo che si affeziona ...”. Alla fine, tuttavia, Betty si trova sempre sola e l'unico suo riferimento è Verdiana, l'operatrice del Centro d'Incontro che deve occuparsi di lei.

Verdiana è una donna stanca, scoraggiata, consapevole di quanto siano grandi i disagi e limitati i mezzi che ha a disposizione, eppure non vuole arrendersi, neppure davanti a quel caso disperato che è Betty. La Betty che mastica e fa scoppiare gomme americane, i cui tacchetti, cerca di sembrare meno piccola di quanto è, accompagnano con il loro ticchettio secco il suo camminare per le strade.

Nell'ultima scena del film, Betty e Verdiana sono a confronto per l'ennesima volta. La ragazzina, dopo avere provato il carcere, dopo essere riuscita a vendicarsi di Tonino e dei suoi violentatori, non ha altro posto dove rifugiarsi che il Centro d'Incontro. Dopo troppi fallimenti, Verdiana ormai non ha più nulla da tentare con lei, eppure, mentre riflette sul cosa fare, l'operaio che ripara i lampioni in strada le annuncia quello che è un inatteso miracolo: le lampade che ogni notte sono rotte a sassate senza motivo, quel giorno sono state risparmiate; basta quello perché la donna si sieda davanti a una Betty muta e a capo chino. No, non l'abbandonerà neanche adesso: “Non fare quella faccia! Una soluzione alla fine l'abbiamo sempre trovata, no?”

Non è un lieto fine, eppure è un messaggio di speranza.



Film violento, più nelle descrizioni che nelle scene. La dodicenne incinta, sottratta al padre che vuole massacrarla di botte, che ripete lamentandosi e riferendosi al genitore: “Ma se è stato lui, ma se è stato lui.” La violenza di gruppo su Betty mentre Tonino, di cui si era innamorata, lancia il coltello contro un muro e poi si preoccupa perché la lama si è spezzata. Il pestaggio e lo sfregio al ragazzo di un altro quartiere, perché ha invaso una zona non sua.

Abituati ai film e agli spettacoli moderni, al sangue che schizza ovunque, non proviamo particolare turbamento e lo stesso vale per le tante sistematiche parolacce che accompagnano i dialoghi, entrate nel lessico abituale di dibattiti culturali, sociali e politici, usate indifferentemente da alunni e professori. Manca piuttosto quel vero distacco tra dialetti, che ha reso difficile e volte impossibile l'integrazione.

Moltissimi degli attori non sono professionisti.

La protagonista Betty è Oria Conforti, una ragazza che compie 15 anni sul set, durante le registrazioni. Poche le sue altre apparizioni, per lo più su televisioni private. Lascia giovanissima il mondo dello spettacolo. La sua interpretazione ne “La ragazza di via Millelire” è convincente ed emozionante. Oggi la si può trovare a raccontarsi con nostalgia su Facebook, in una pagina dedicata al film.

Attrice professionista, oltre che brava cantautrice e artista di varietà, è Maria Monti, “Verdiana”. Serra le affida un personaggio difficile, apparentemente chiuso, prigioniero del proprio ruolo, che invece ha, sotto i modi burberi e infastiditi, un'umanità profonda e spirito di sacrificio. Maria Monti disegna una Verdiana di grande equilibrio che, pur restando in secondo piano con la sua storia rispetto a Betty, è umana e “vera”.

Chissà se chi ha criticato con tanta violenza il film, ha colto qualcuna delle citazioni che gli sceneggiatori Tomaso Sherman e Gianni Serra hanno sparso nella storia.

Ad esempio, una ragazza della comunità recita: “Come una stampa antica calabrese ...”. Vi ricorda qualcosa? Nella poesia “Torino” di Guido Gozzano troviamo il verso: “Come una stampa antica bavarese ...”.


FONTE: "“La ragazza di via Millelire” di Gianni Serra: lo scomodo film del 1980 ambientato a Torino - OUBLIETTE MAGAZINE"

21 agosto 2023

Montecristo di Umberto Lucarelli a cura di Vincenzo Capodiferro


MONTECRISTO

Una moderna “Isola che non c’è” di Umberto Lucarelli


Montecristo ci ricorda un’isola amena, ma soprattutto ci rimanda ad un locus letterario, legato ad Alexandre Dumas. Padre e figlio appartengono al Romanticismo, lo Sturm und drang che non è solo ottocentesco, ma universale: l’eterno Romanticismo che ritroviamo in queste pagine. Il titolo dell’opera di Umberto Lucarelli di Milano, Montecristo, non è casuale. «Le lotte non finiscono mai, è questa la prima riflessione, leggendo il libro di Umberto Lucarelli Montecristo. Le lotte non finiscono per chi è abituato a pensare e agire come un soggetto politico, per chi combatte da sempre per il riconoscimento dei diritti umani… L’uomo stupidamente si è venduto al mercato e al danaro, dimenticando le cose importanti della vita, come guardare un tramonto, stare a contatto con la natura,» scrive Serena Vita nella prefazione. La vita umana è caratterizzata sempre da lotta, questa è una lezione che abbiamo recepito da Malthus a Darwin, da Hegel a Marx. Lotta per la sopravvivenza, lotta di spiriti, lotta di classi. Lotta di razze (Hitler). Lotta di civiltà (Huntington). Il problema è che in questa guerra l’uomo d’oggi non è più protagonista. È servo che vuole il padrone: è il popolo che vuol rimanere schiavo degli egiziani, che non vuole più i Mosè, i rivoluzionari-guide, che non vuole più attraversare deserti, non vuol più la manna e le quaglie. Questa è la presente generazione: una massa di celebrolesi collegati ad un cervello artificiale che pensa per tutti. Il pensiero unico, senza differenza, senza alcuna opposizione. L’uomo contemporaneo non pensa più (Heidegger). L’opera di Umberto, un’opera di avanguardia che si legge in una continua suspence e l’assenza della punteggiatura ti induce a questa lettura post-futuristica, denuncia proprio ciò: ha vinto il super-capitalismo, anzi l’iper-capitalismo internazionalistico anonimo impersonale massonico, l’ultima manifestazione di questa storica malattia. Il capitalismo individualistico degli industriali sette-ottocenteschi ha ceduto il passo a quello delle nazioni novecentesco e poi si è trasformato in un mostro sovranazionale: un Moloch assetato di guerre e di sangue! Superate, ma solo apparentemente le barriere nazionalistiche, il novo ordo mundi appare all’orizzonte. La poesia-prosa, la serie infinita di racconto-pensiero di Umberto ti mette sempre in guardia. E se accadesse una catastrofe? Anche d’umana fattura? Cosa farebbe la massa incollata ai quadratini elettronici telematici? La massa inerte, inerme, fragile, flemmatica, stanchevole? Di popolo non se ne parla neppure, perché la massa è aggregato atomistico senza coscienza collettiva, ciò in cui ancora credevano i redentoristi dell’Ottocento, prima dei totalitaristi del Novecento. Umberto è un visionario, vede ancora le bandiere rosse, i popoli “alla riscossa”: «è come se fosse scoppiata una guerra mondiale in cui tutti combattono contro tutti guidati dai generali della paura e forse l’unico luogo in cui trovare rifugio è un’isola in mezzo al mare quella di Montecristo». Hobbes parlava di bellum omnium contra omnes, di homo homini lupus, riferendosi ad uno stato naturale prepolitico. Rousseau, invece, attribuiva la belluinità non alla natura in sé, ma alla società civile fondata sul possesso, sulla proprietà privata. Chi ha risvegliato questo spirito lupigno umano? Questa aggressività? Questo spirito di Thanatos che sconvolse financo Freud innanzi alla Grande Guerra? Quale diavolo? Chi provoca le guerre e perché? Il popolo vuole le guerre? Non ha visto il resto Freud! Appena ha intravisto i fascismi all’orizzonte. Umberto parla di un «colpo di stato mondiale», «con gli occhi e le orecchie e le unghie conficcati nelle televisioni sdraiati sui divani seduti sulle sedie e in piedi in cucina a preparare il pranzo o la cena ad ascoltare questo e quello e le caterve di bugie e mala informazione che veniva di getto sfornata in continuazione per continuare a stordire e annichilire le menti delle persone». Immagine neorealista del mondo oggi. Un totalitarismo perfetto, sublime, non-violento. «Una multinazionale è più vicina al totalitarismo di qualunque altra istituzione umana» diceva Noam Chomsky. Immaginate con l’attuale multi-nazional-socialismo? Perché comandano loro! Il potere politico è oramai asservito a quello economico. «Io però non ho più voglia di lavorare benché abbia due figli ancora giovincelli da mantenere e non mi sento per questo né un briccone né un debosciato solo non ho più assolutamente il desiderio di inserirmi di nuovo in questo sistema di folli in questo mondo demenziale che porta solo e soltanto all’autodistruzione». Ecco le “confessioni di un italiano” di un intellettuale attuale, insofferente, sensibile ai danni del sistema sociale, un sistema oramai tumefatto, disfatto. D'altronde per prendere il potere bisogna distruggere la morale: Lenin docet. E ci sono riusciti benissimo. Il lavoro è l’alienazione totale marxiana: prima alla Charlie Chaplin alle prese coi bulloni, oggi alle prese coi mega servizi su servizi. Prima c’erano i campi, poi le fabbriche, dopo, il post-post-moderno, post-industriale, post… le nuove fabbriche: i supermercati, le scuole che formano automi e gli ospedali. Prima il primato del primario per saecula saeculorum, fondato sul sistema padroni-servi della gleba, poi quello del secondario, fondato su quello borghesi-proletari, poi del terziario, fondato sul sistema dirigenti-dipendenti. Cosa è cambiato? Un tubo! Un bel tubo! Umberto è un moderno socialista utopista. E se succedesse una catastrofe, chi se ne accorgerebbe? Ci sono catastrofi indotte per rafforzare il supremo superpotere unico che nulla ha da invidiare alle storiche monarchie assolute. Qui c’è una monarchia assoluta mondiale dipendente dal diavolo Mammona, il Danaro deificato. Umberto guarda ad un’isola che non c’è, ad un mondo ‘baumanianamente’ retro-topico, o dis-topico. L’isola di Montecristo è l’unica che resiste ancora alla “società liquida”, anzi liquefatta. Si è arrivati troppo innanzi e si guarda al passato, al primo passato e, «con un po’ di fortuna potrei farla franca e all’isola di Montecristo trovare la ricchezza nascosta dell’abate Faria del libro di Dumas». Un’antica storia racconta di un padre che dice al figlio che nella vigna è nascosto un tesoro. Il figlio scava dappertutto per trovare quel tesoro. Alla fine, non c’era niente. Però aveva zappato la vigna che portò molto frutto. Questo era il tesoro. Scrive Marco Passeri: «”Montecristo” è un libro rabbioso, senza dubbio, un libro che non risparmia nulla al tempo presente, che incalza il lettore con continue e percussive staffilate a tutto ciò che sembra comunemente e passivamente accettato come ineluttabile, ma non è un libro disperato».


V. Capodiferro

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano Addio al “Patto di stu...