29 giugno 2008

Carmen nocturna - Racconti

CARMEN NOCTURNA
Introduzione di Domenico Nigro
Presentazione di Steve Sylvester
Edizioni Tabula fati - Pagg. 64
La poesia gotica in particolare fa leva su Carmen nocturna, quella parte “sospesa” della nostra anima che non conosciamo mai perfettamente, che rimane ignota, latente, sospesa, appunto, nell’aria sopra le righe del nostro vivere quotidiano. Ecco quindi una raccolta di piccole opere dove gli elementi soprannaturali così presenti e così importanti non sono altro che l’espressione codificata delle nostre paure comuni, dei nostri desideri inconfessabili, di tutte le inquietudini che ci accompagnano fin dall’infanzia. L’orrore, la mostruosità, la paura, costituiscono la più straordinaria molla dell’immaginario sociale e con la loro funzione catartica e tentatrice fungono da reagente a questo mondo schematizzato e vincolato da dogmi e regole, aiutandoci a liberarci dalle tensioni dei nostri tempi.
Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

27 giugno 2008

"Duma Key" di Stephen King

DUMA KEY Stephen King
© 2008 Sperling & Kupfer Editori S.p. A. ISBN 978-88-200-4506-7 86-I-08
€ 19,90 pag. 743

Duma Key è un’isola della Florida, e Edgar Freemantle ci arriva deciso a ricominciare, dopo una dura batosta ricevuta dalla vita.
Sposato con Pam, con due figlie, Edgar era un costruttore, fino a quando una gru non gli cade sull’auto e gli trancia il braccio destro.
Dura è la riabilitazione e ancora più dura è continuare quando Pam, sua moglie, gli comunica la sua decisione: vuole divorziare da lui, perché Edgar è diventato un’altra persona. Ha tentato di strangolarla e lei ne ha paura.
Certo, Edgar non riesce a controllare la sua ira, quando non gli escono le parole giuste, quando in un discorso dice una cosa per l’altra. Il suo terapista arriva a consigliargli di scaricare la sua rabbia su una stupida bambola di stoffa. Eppure, funziona.
Solo che è troppo tardi. Il suo matrimonio è sfasciato e lui decide di partire, di ritirarsi su quell’isola che pare averlo chiamato da un depliant.
Così si trasferisce in quella villetta sull’oceano, dove la notte sente le conchiglie bisbigliare nell’alta marea, sotto la casa.
Unico ospite dell’isola, insieme a un signore che scorge solo da lontano sulla spiaggia. Ogni giorno, per riabilitare anche l’anca che è stata duramente compromessa, cammina qualche passo in più, avvicinandosi sempre di più alla sdraio su cui siede quel signore che cordialmente lo invita a bere un the ghiacciato con lui. Edgar gli urla che accetterà solo quando riuscirà ad arrivarci con le sue gambe. E quel giorno, finalmente, arriva. Conosce Wireman, ex avvocato, ora badante della signorina Eastlake, proprietaria dell’intera Duma Key, e malata di alzheimer.
Un’amicizia che si consoliderà pagina dopo pagina, e che salverà la vita ad entrambi.
Edgar inizia a disegnare, glielo impone quel braccio mancante che prude, lo assilla con la sua presenza invisibile. Dipinge tanto e così bene da diventare in breve tempo un artista ricercato.
Ma non è lui il solo a dipingere, ben altro è a guidargli la mano. La signorina Eastlake lo sa, e lo sa anche Wireman.
In questo ultimo lavoro di King troviamo diversi ingredienti: da quelli psicologici di chi subisce un incidente, della rabbia che si prova durante la riabilitazione. Alle strane sensazioni degli arti fantasmi. Chi ha perso un piede sentirà ancora il solletico. E così il personaggio principale sente ancora quel braccio e le unghie della mano che si allungano senza che lui possa tagliarle, perché non esistono.
Si passa quindi al paranormale, ai fantasmi, a fenomeni inspiegabili.
E ancora al forte legame dell’amicizia, ai nostri eroi che insceneranno l’eterna battaglia fra il bene e il male.
E’ scritto in modo maturo, con sempre quell’incoraggiamento a proseguire, a cercare di capire dove lo scrittore voglia arrivare.
A ogni fatto inspiegabile si aggiunge un tassello alla storia presente che spiega quella passata, e ancora tutto si ripete.
Un libro piacevole che per gli amanti del genere e di King, non è assolutamente da perdere.
© Miriam Ballerini
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25 giugno 2008

"Fuga dal monsone" di Marco Biaz


Due cartine e 46 illustrazioni di viaggio
con una postfazione dell'autore
Edizioni Gingko
Collana: Bianca - Le bussole. Genere: romanzo. Pagg: 244

Nel 1996 Marco Biaz raccolse i suoi bagagli di viaggio, i suoi appunti, e iniziò a scrivere questa storia partorita due anni prima nel corso del suo viaggio di ritorno dal Sud Est asiatico. Aveva girovagato in lungo e in largo per India, Sri Lanka, Nepal, Bangladesh, Thailandia, Malesia, Indonesia, zaino in spalla, per 12 mesi, in solitaria. Durante quel viaggio aveva conosciuto viaggiatori provenienti da ogni angolo dal mondo, dei quali aveva annotato storie, sogni, itinerari, fallimenti. Impiegati, hippy attempati, musicisti, hostess, raccoglitori di tulipani, trekker, sognatori, spacciatori, finti guru, futuri barman berlinesi. Ciò che li accomunava era il viaggio inteso come bivio, soluzione ai problemi o punto di rottura definitivo. Erano accomunati dalla diserzione dal regime routinario. Erano nuovi viaggiatori, esploratori, avventurieri che avevano abbandonato gli impegni, il lavoro, il denaro, le bollette da pagare, le sicurezze economiche, sociali, affettive, per scoprire come e dove si riesce a vivere la parte migliore di se stessi, a qualsiasi costo. ll loro viaggiare costituiva una fuga da se stessi, lo specchio infranto delle proprie illusioni. Un altro appuntamento con la loro storia, come crescere, lavorare, proliferare e morire di tumore o di infarto. Il libro ne racconta gli incubi peggiori, i sogni più intimi, gli amori, gli umori, i progetti. "Nel loro caso viaggiare non significava cambiare, o migliorare, ma disinnescare quella bomba ad orologeria collocata nella psiche umana sovrapponendo ad ogni ripartenza un progetto, come un tentativo perpetuo di sublimare il senso dell’esistenza." (Dalla prefazione di Maurizio DiMaggio, Dj sempre in viaggio, Radio Monte Carlo)
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Insubria Critica non ha - come noto - alcun interesse economico, né diretto, né indiretto, alla presentazione dei libri proposti. Si tratta solo di una libera selezione fatta sul materiale che ci viene proposto.
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15 giugno 2008

"Storia del Sudtirolo" di Alfons Gruber

'Per capire il mondo' di A. di Biase
"Storia del Sudtirolo"
Alfons Gruber
Athesia - 2005
Pag. 151
Il consiglio per il lettore digiuno sull’argomento è quello, da noi stessi seguito, di leggere il libro a freddo, senza preoccuparsi troppo – almeno inizialmente - dell’attendibilità dei contenuti.
Si tratta di un buon libro di storia, sebbene anomalo per almeno due ragioni: è di parte e non pare proprio volerlo nascondere, ma è anche attendibile e soprattutto trae molti dei propri meriti dalla capacità di essere verosimile prima ancora che vero, perché guida il lettore in un itinerario – a tratti forse romanzato, soprattutto nella descrizione delle singole situazioni – che segue il filo della storia europea ed italiana dell’ultimo secolo. E’ la storia del Sudtirolo, ma anche e soprattutto la storia vista ‘dal’ Sudtirolo: una terra di importanza strategica che non ha potuto trovare pace nel riassetto seguito alle due principali guerre del secolo scorso e, pur avendo tutti i titoli per essere terra degli austriaci, si è trovata dunque di fronte a diversi tentativi di ‘italianizzazione’ forzata, primi fra tutti quelli condotti durante il Ventennio.
L’impressione è che il volume avrebbe molto da guadagnare se riuscisse ad essere più freddo; meno agiografico ad esempio nell’approccio alla vicenda umana e politica del ‘canonico’ Michael Gamper; più asciutto invece – soprattutto nell’uso degli aggettivi – nel trattare del fascismo altoatesino di Ettore Tolomei, e questo non perché ciò che si è tentato di fare in Alto Adige debba essere considerato meno assurdo di quello che è, bensì proprio perché l’intelligenza e la capacità di comprensione del lettore risulterebbero esaltate – è proprio questa l’impressione – se il libro fosse scritto semplicemente da un tedesco e non per i tedeschi.
L’autore appare troppo preoccupato di dare forza ad argomenti che, se la storia e la geografia andassero sempre d’accordo, avrebbero semplicemente il vigore del buon senso: non si fa nessuna fatica a dare ragione all’Alto Adige.
Il volume è graficamente molto bello, tascabile e robusto.
La traduzione italiana potrebbe essere migliorata.
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13 giugno 2008

Libri - la recensione di Bruna Alasia

“GLI OTTO VENTI”
di Silvia Rosselli
Sellerio editore, pag. 281, 2008, euro 16.00

Biografia storica: il dramma di essere avanguardie

Il poetico titolo, “Gli otto venti”, sintetizza il turbine dell’esistenza: nel buddismo essi sono le circostanze contrapposte di prosperità e declino, onore e disonore, lode e biasimo, sofferenza e piacere. Non lasciarsi travolgere da questi venti, siano essi positivi o negativi, é il traguardo difficilissimo della serenità: ogni vita che vi tende diventa esempio. In tale luce, il corale drammatico dei Rosselli e dei loro cari, emerge con la prepotenza e il fascino della testimonianza, seducente come un romanzo epico, gruppo in cui identifichiamo i valori più alti di un secolo e il seme del futuro germogliare.
L’autrice - figlia di Nello Rosselli, storico e antifascista, fratello di Carlo, fondatore del movimento politico “Giustizia e libertà”, assassinati dal regime nel 1937 - dopo la morte del padre e sino al 1946 è vissuta in esilio tra Svizzera, Inghilterra e Stati Uniti. Al ritorno in Italia, sposatasi giovanissima, ha avuto tre figli. Affidatasi alla psicoanalisi ai tempi in cui era disciplina “sospetta” - antecedenti al famoso “Le parole per dirlo” di Marie Cardinal - é stata allieva di Ernst Bernhard e tra i fondatori dell’AIPA. Con il metodo junghiano ha esercitato per venticinque anni con fede da pioniere.
Protagonisti de “Gli otto venti” non sono solo le figure eroiche dei padri Rosselli, ma nel destino da loro tracciato, risplende l’intimità familiare: domina la scena del quotidiano la dignità del vivere di esseri sostenuti dall’amore e dai loro valori. Ci affezioniamo alla nonna Amelia, scrittrice e drammaturga di livello europeo, alla madre fragile e tenace, alla sorella, ai due fratelli più piccoli, alle zie, ai cugini, al marito, ai figli, agli uomini della sua vita, all’esperienza della psicoanalisi, che non la salva da una depressione severa imposta dalle ferite del destino. Di grande suggestione i luoghi, gli ambienti e persino le case: a Firenze, in via Giusti, o l’Apparita, il cui giardino in copertina è dipinto dal padre; in Maremma costruita creativamente senza l’aiuto di architetti.
La figlia di Nello ha come lui un temperamento indomito: anticonformista e femminista antelitteram, ricca di una spiritualità che ha trovato delta sfociando nel buddismo. “Gli otto venti” è il lascito morale di una famiglia illuminata, attraverso la generazione dei padri, dei figli e dei nipoti, legati da un costante coraggio: a Giovanni Forti, figlio di Silvia - morto per l’infezione del secolo, di cui ha dissepolto il tabù - è dedicato un libro di successo “L’intruso”, dal quale è tratto un dramma teatrale .
“Dopo la morte di mia madre – scrive Silvia Rosselli - mi sono accorta che non c’era più nessuno a cui fare domande sul passato. Ero rimasta l’ultima. Il flusso della memoria è come quello della vita. Finisce quando finiamo noi. Allora ho pensato di scrivere”. L’autrice ci regala così, con umiltà, lo scandaglio psicologico di quel coraggio che non ha reso classe dirigente i suoi protagonisti, non conformi al potere, bensì avanguardie di un’epoca con la grandezza e l’intrinseco scotto. Ciò nonostante il libro è lieve, si legge in un soffio, pervaso com’è di una accettazione della vita che commuove e stupisce.

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10 giugno 2008

"Fiori di serra" di Miriam Ballerini

Fiori di serra di Miriam Ballerini
Prefazione dell’autore
In copertina immagine di Aldo Colnago
Serel International – EEditrice.com
www.eeditrice.com
info@eeditrice.com
Narrativa romanzo
Pagg. 228
ISBN: 978-88-89401-12-5
Prezzo: € 13,00

La vita carceraria, ma anche le finalità della reclusione sono un tema che è sempre stato oggetto di ampi dibattiti. In buona sostanza ci si domanda se una pena detentiva sia finalizzata al recupero del reo, oppure se si tratti di una semplice vendetta della società nei confronti di chi non ne accetti le regole, oppure ancora, nella migliore delle ipotesi, se si intenda perseguire l’una e l’altra strada.
Resta comunque un fatto: quello che succede al di là del muro, dietro le inferriate, quale sia la vita che là si conduce è quasi sempre ignoto ai più, proprio perché la reclusione rappresenta una parentesi di isolamento dal mondo esterno, una sorta di “altro mondo” di cui sappiamo l’esistenza, ma che confiniamo in una zona di disinteresse mentale.
Miriam Ballerini si deve essere posta questo problema se al riguardo ha deciso di scrivere addirittura un libro che ha intitolato assai bene Fiori di serra, perché al pari dei fiori che possono nascere liberamente o possono essere coltivati sotto strutture artificiali (e sempre fiori restano), ci sono uomini che vivono liberamente e altri invece che sono detenuti nelle carceri. Anche in questo caso sempre uomini restano, con la loro personalità, i loro affetti, le angosce e le gioie che si portano dentro.
Ecco, mi sembra che con questo libro l’autrice comasca abbia inteso sollevare quel velo di ipocrisia che sommerge la pietà, una virtù ormai rara, quasi dimenticata, ma che consente di comprendere anche chi sbaglia e, fermo restando che le leggi devono essere rispettate, questo non toglie tuttavia che chi ha commesso un reato debba conservare la sua dignità anche durante l’espiazione della colpa.
Quello che più mi ha colpito in questo lavoro è stata la struttura dello stesso, perché Miriam Ballerini aveva di fronte a sé due strade: quella del romanzo di ambientazione carceraria e quella dell’indagine giornalistica.
Ha fatto, però, una scelta che mi ha stupito e che, secondo me, si è rivelata molto oculata, perché riesce ad avvincere il lettore.
In pratica ha percorso sia l’una che l’altra strada e così troviamo un romanzo certamente di fantasia e anche un’inchiesta giornalistica, ma non mescolate, bensì presenti su due piani sovrapposti, di cui il primo discendente e il secondo invece progressivamente emergente, con il risultato che alla fine vengono a fondersi.
L’aspetto di indagine, frutto di un’esperienza diretta che l’ha portata a ottenere di visitare la Casa Circondariale “Il Bassone” di Como, integra così e approfondisce le problematiche che vanno emergendo nella narrazione di fantasia.
In tal modo si vengono a creare dei momenti di riflessione a cui il lettore viene naturalmente condotto, una tecnica molto proficua e che mantiene viva l’attenzione dalla prima all’ultima pagina, a cui si giunge più consapevoli di quel che accade al di là del muro, con il risultato che riscopriamo anche noi che i reclusi non sono ombre, ma semplicemente esseri umani che stanno espiando le colpe per cui sono stati giudicati.
Miriam Ballerini ha maturato un’esperienza per certi versi sconvolgente quando è stata a tu per tu con la realtà carceraria, ma è riuscita a trasfonderla in modo assai convincente in questo libro, al punto che chi legge riesce ad avvertire le stesse sensazioni e i medesimi timori.
Onde evitare equivoci, l’ho detto prima e lo ripeto, perché è importante: con Fiori di serra l’autrice non si pone il problema della detenzione, cioè se sia una pena più o meno giusta, ma intende ridare a chi ha sbagliato la dignità di essere umano e questo mi sembra veramente importante.
Sono sicuro che, chiuso il libro, vedrete in modo diverso, ma soprattutto non superficiale, quei nostri simili che se ne stanno dietro le sbarre.
E’ superfluo che dica che ne raccomando vivamente la lettura.
Renzo Montagnoli (Arte insieme)
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07 giugno 2008

Recensione: "Il Risorgimento" di Giampiero Carocci

'Per capire il mondo' di A. di Biase
“Il Risorgimento”
Giampiero Carocci
Newton Compton – 2007
Pag. 189

E’ opinione di Giampiero Carocci che la sensazione di una nazione entrata oramai in una crisi irreversibile debba essere annoverata tra le motivazioni di un rinnovato interesse al nostro Risorgimento.
Carocci non sembra avere legami con quella pur ottima storiografia secondo la quale “la Rivoluzione francese è finita”: è proprio dal grande evento di fine Settecento infatti, e non dalla semplice crescita demografica ed agricola dovuta all’influenza del pensiero illuminista – sempre che sia possibile operare una netta cesura fra i due momenti – che, sostiene il nostro, il Risorgimento italiano prese le mosse.
Dal triennio rivoluzionario del ’96-‘99, passando attraverso la Restaurazione, si arriva – in un volume che ha tensione critica, ma non dimentica l’ordine cronologico indispensabile al lettore profano -, al ’48 europeo, alle Cinque giornate ed agli sviluppi della situazione internazionale che portarono alla guerra di Crimea e Cavour al successo finale.
La buona strutturazione del testo consente di non dimenticare il ruolo svolto dagli intellettuali nel Risorgimento, ben tratteggia la figura di Mazzini ed il suo ruolo importante, sebbene ‘passivo’, nel processo di unificazione; un capitolo intero è poi dedicato alla ‘rozzezza’ romantica di Carlo Pisacane, ma alcune righe non sono risparmiate a quella buffa e regale di Vittorio Emanuele.
Scorrendo le pagine si percepisce, ed è molto importante per gli sviluppi che deve continuare ad avere la storiografia su questo importante pezzo della nostra storia, l’attenzione riposta dall’autore al dibattito promosso anche da parte di altri studiosi contemporanei, con diversi riferimenti ad Alberto Mario Banti e Franco Della Peruta.
Da non dimenticare infine le appendici, contenenti un estratto degli statuti della Carboneria e la Costituzione della Repubblica romana del 1849.
Quello proposto è dunque un buon volume per coloro che vogliano approcciare la storia d’Italia attraverso la lettura di un testo completo e sufficientemente sviluppato, ma non ostico né lungo.
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06 giugno 2008

"Jupiter decimus" di Luca Granzotto

Luca Granzotto
JUPITER DECIMUS
Presentazione di Tullio Bologna
Edizioni Tabula fati, Chieti 2008
[ISBN-978-88-7475-145-7]
Pagg. 224 - € 10,00

Paralizzato da un incidente in giovane età, Aurelius J. Langham, il più grande iperfisico vivente, inviso alla scienza ortodossa, sogna di scardinare l’oscura matrice Spazio/ Tempo/ Materia per consegnare all’uomo la chiave dei viaggi spaziali più mirabolanti. Quando Langham svanisce nel nulla per ventidue ore, la sua sparizione suona come un campanello d’allarme. Dov’è stato portato? Chi lo ha rapito? Forse le stesse enigmatiche presenze che, da oltre mezzo secolo, stanno segretamente reclutando cervelli sul nostro pianeta? E a quale scopo? Ma, allora, per quale ragione Langham è l’unico che sia mai stato liberato? Spetterà ad Arsha Niversen, la psicologa dell’Unità Mimesis, incaricata di far luce sugli eventi, dare un volto agli insospettabili burattinai che da sempre muovono i fili dell’esistenza non solo di Langham. Ben conscia che dalle mosse dello scienziato dipenderanno molti destini. Non ultimo, quello della Terra... Jupiter decimus è un romanzo avvincente, claustrofobico, vissuto nel chiuso paranoico e soffocante di asettiche stanze, costantemente in bilico fra rivelazioni sconvolgenti e verità solo all’apparenza senza senso. Una partita a scacchi segreta, destinata a rivelare la drammatica posta che è in gioco. E l’esistenza di un inquietante progetto occulto con catastrofiche conseguenze per la nostra stessa civiltà. Appassionato fin da ragazzo di fantascienza e in generale di ogni forma di letteratura fantastica, Luca Granzotto ha esordito nel 2005 con "Il metallo degli dei" (Editing Edizioni, Treviso 2005), primo volume della saga Solar Maximum. Il sequel "Il guardiano dei mondi" (Editing Edizioni, Treviso 2006), si è distinto per l’autorevole prefazione dell’astronauta Umberto Guidoni che ha consentito all’autore un impensabile approdo televisivo con un’intervista su Rai Uno. Con "Jupiter Decimus", Luca Granzotto, ingegnere chimico nato a Torino e residente a Brescia ormai da anni, abbandona il sentiero della space-opera per un romanzo retrò, a metà strada tra la fantascienza e il thriller e, in omaggio alla grande tradizione del passato, si rivolge a un ampio pubblico di lettori.
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05 giugno 2008

Il suono del Classico

Difficilmente accade da studente
di apprezzare un buon libro, il quale non ti dà
bensì ti ha toglie qualcosa.
 
Da giovani è come il colpo secco e sordo
della scure:
poi però il tempo affina l'orecchio
e si impara ad ascoltare.
 
Come la lama splendente e affilata
che fende veloce il legnetto sottile,
così è l'inconfondibile suono del Classico.

AdB

 

04 giugno 2008

L'incantevole Lecce di Guido Piovene

di Augusto da San Buono
CINQUANTA ANNI FA L’AUTORE DI “VIAGGIO IN ITALIA” APPRODAVA A LECCE.

Cinquant’anni fa venne a Lecce Guido Piovene , con la sua gigantesca Buick avorio e la prorompente moglie bionda che la guidava come un ‘amazzone decisionista , una Pentesilea moderna , tesa e plastica , smaltata e ingioiellata da Cartier; e la Lecce cordiale e disincantata del tempo vide venire presso di sé questo scrittore veneto strano , francesizzante, dal “grugno austriaco” , come dice Flora Volpini , una delle sue amanti tradite , quasi “ un edonista dell’ambiguità” ,con la sua pipa di radica ,coi suoi immacolati doppiopetto grigi, le cravatte sgargianti, quasi arroganti, e le pesanti valige di cuoio grasso . Si fermò all’Hotel *** e cominciò a prendere appunti per il suo reportage rimasto famoso , il “Viaggio in Italia” , un po’ alla maniera goethiana , pur essendo egli italianissimo, un vicentino che conosceva tutto della provincia veneta , delle nebbie padane , delle angosce e delle voragini esistenziali.

Goldoni e il barocco leccese
L’autore del celebrato “Lettere di una novizia”, era arrivato mezzo assopito e quasi ingoiato dalla comoda poltroncina della sua maestosa Buick, ed era come un gatto soriano che viene disturbato nel suo dormiveglia. Scese malvolentieri, quasi di contraggenio , dall’auto americana , guardandosi intorno un po’ annoiato e diffidente . Ma ecco che vide subito qualcosa di inaspettato intorno a se , qualcosa che non si aspettava di trovare in una città del sud ( aveva girato tutta l’Italia, il Salento era la sua penultima tappa, dopo ci sarebbe stato il Lazio, che conosceva , dove concluse il suo “viaggio”) . Piovene vide una città “incantevole”, in tutto e per tutto degna della sua fama di Firenze delle Puglie, o Atene del Barocco, una città che trovò familiare per lindore, pulizia, bellezza architettonica , tono aristocratico , cultura. Scriverà subito dopo: “ Lecce è l’antitesi di Bari. Bari è borghese e trafficante; il carattere dei leccesi inclina invece a una gentilezza un po’ ironica , a un distacco intellettuale. Lecce gli sembrò più simile a Vicenza , o a Bergamo , che alle altre città della Puglia e del sud. “ Se dovessi paragonarla ad un’altra città italiana , non cercherei nel Sud, ma piuttosto nella Val Padana, nel Veneto, nell’Emilia , in quelle città che già furono sede di un ducato e di un principato , e in cui finisce di esaltarsi lo spirito di una cultura aristocratica”.
Se ne va in giro, a Piazza Sant’Oronzo, vede l’anfiteatro, il Sedile, la chiesetta di San Marco, con il leone di San Marco, “la cui presenza sembra giustificare il soffio d’aria veneta circolante nella città…Lecce conserva una qualità signorile , quasi di salotto distinto dai servizi del circondario. Se si entra nella parte vecchia , le molte chiese barocche e i palazzi barocchi, ora di faccia, ora di sghembo, in piazzette e stradine , e disposti tra loro in angoli dal gusto scenico , si direbbero una serie di piccoli teatri. Tutto sembra disposto e ornato per un lieve gioco teatrale; una commedia di Goldoni non vi stonerebbe ; facciate di chiese, palazzi e i loro effetti combinati , tramandano attraverso i secoli un animo squisitamente provvisorio, quasi dovessero durare una sera sola, ma una sera che conta, forse definitiva. “
Piovene , l’ex conte nero dei tempi del fascismo , si innamora pazzamente di Lecce , va tutto il giorno in giro nelle botteghe di artigiani , fa mille domande, interroga , prende appunti, sorride, annota: “ C’è una grande bottega che vende uccelli colorati e fa spicco tra le altre; ma non potrei fare a meno di notare a margine il piacere provato, in questo clima di commedia goldoniana o d’opera allegra , leggendo l’insegna di un parrucchiere , il maggiore della città, e vedendo che il suo nome è Amleto Prete. E’ un nome applicato ad un parrucchiere che dà idee musicali, e forse sarebbe piaciuto a Rossini”.
E poi se ne va nelle chiese ad ammirare il barocco leccese , “che non è quello di Roma, o quello ardente e chimerico di alcune città siciliane , e nemmeno di altre cittadine pugliese come Martina Franca “. E’ un barocco non strutturale che si esprime con una materia più simile all’argilla che al marmo, la pietra leccese, e non pone limiti all’estro popolare ed al gusto del minuzioso. Cascate d’ornamenti, folte cortine d’edera romantiche, qualcosa di simile a piante subacquee sulle quali s’incrostano conchiglie coralli cristalli che prendono un aspetto meraviglioso. “Chiese e palazzi sono come ravvolti dentro una tonaca di pietra lavorata come lo stucco , senonchè la pietra tenera , esposta all’aria , prende un bel colore dorato. Il grande capriccio di Lecce va da San Matteo al Duomo, d Santa Maria del Rosario a Santa Maria delle Grazie , da Santa Chiara ai Palazzi della nobiltà , fino al Palazzo del Governo ed a Santa Croce che è il culmine : aquile, draghi, scimmie, santi, i turchi , le colonne tortili, le balaustre, i trafori, i riccioli,, i fiori, le frutta, i nastri svolazzanti. Pure quella facciata dà un’impressione d’armonia , e , come tutta Lecce, incanta”.

Il cimitero di Lecce è tra i più belli d’Italia
Guido è felice , ha una spiccata empatia per i leccesi, ne tesse mille elogi: …“hanno un’indole gentile con un fondo brevemente ironico, coltivano l’eleganza, intima ed esteriore, in un modo che ricorda Parma. Anche nei ceti più modesti, uomini e donne appaiono ben vestiti. E’ una popolazione poco meridionale, sono frequenti le persone bionde e di pelle asciutta e chiara. Anche nella parlata la lingua è poco dialettale, senza accenti spiccati. Venendo dalle terre limitrofe , con le loro parlate fortemente caratteristiche, si è improvvisamente tuffati nell’italiano puro. E’ come imbattersi nel mare in una polla d’acqua dolce”. Si ostina a tutti i costi a non volerli considerare “meridionali” ( dimentica che qui era Magna Grecia, culla della civiltà) perché hanno delle qualità civiche e culturali di tutto rispetto: “La Biblioteca provinciale , riordinata nel dopoguerra , è tra le migliori del Sud; ci sono cicli di conferenze su temi letterali, musicali, giuridici, storici, psicologici; concerti e rappresentazioni teatrali. E’ una vera università libera , l’ambiente letterario con scrittori e studiosi come Girolamo Comi, Vittorio Bodini, Vittorio Pagano somiglia, in piccolo , a quello fiorentino d’anteguerra , e il premio letterario del Salento ha già risonanza tra i nostri premi letterari nazionali.” Tutto gli piace, perfino il cimitero di Lecce che è – scrive – uno dei più belli d’Italia. “ Si accede ad esso per un lungo viale romantico, tra i cipressi e i fiori violetti degli alberi di Giuda: si direbbe un pacifico, classico, soleggiato giardino pubblico.” E se ne scorrazza , felice , a Lecce, con al braccio la sua bellissima moglie bionda , una fanatica ebrea filo-israeliana. Era una delle sue tante contraddizioni. Dirà Enzo Bettiza , suo allievo , che Piovene portava su di se il peso di tutte le contraddizioni della grande intellighenzia europea fra le due guerre , e vi si avvoltolava dentro non sapendo come uscirne. Intanto , a Lecce, è ovviamente l’ospite d’onore più ambito , viene invitato dappertutto, partecipa a tutto quel che può, con entusiasmo, con un ottimismo radioso, vitale, forse un po’ cinico. Del resto è il suo momento, cavalca l’onda del successo, è celebrato dal pubblico e conteso dagli editori, anche se spesso provoca sentimenti opposti, “quasi sempre oscillanti tra la ammirazione stizzita e la malevolenza pettegola".
Ora decide di voler visitare tutta la Provincia di Lecce , “la terra d’Otranto degli antichi, il vero fondo d’Italia. E’ una terra ancora appartata e statica, in cui la gente è dedita all’agricoltura o sogna l’impiego statale. Ma forse a cagione di ciò è incantevole , è una zona di silenzio, si riprende fiato, si ritrova un’esistenza misurata su un diverso metro. Non è il mondo di ieri, ma non è ancora il mondo di oggi.”

Al limite della terra il faro di Leuca
E ancora: “ Nel Salento si è conservata una civiltà dei poveri, di rado si avverte quello stato di disperazione , che porta alla negligenza di se e che segna il passaggio a una civiltà diversa. Tutto il Salento splende di pulizia , e le sue case si direbbero lavate asciugate dal mare e dal vento” Trova qualche difetto nell’organizzazione. “ Il Salento è stupendo ; con un solo difetto che, ad eccezione di Santa Cesarea , sul lido adriatico, il sistema alberghiero rimane primitivo. Si reca a Otranto , “citta sacra, città tranquilla, dimenticata, è una specie di sintesi della storia salentina…. Tra Otranto e Santa Maria di Leuca , sull’estrema punta, è il tratto più bello di costa, una costa selvaggia, dove un arcobaleno che ho visto splendere al tramonto e tra le luci agitate e le nubi squarciate , che versavano porpora da una piccola casa solitaria tra i fichidindia, dava il senso di essere giunti al limite della terra…. E’ stupendo il faro di Leuca, tra mare e mare, con accanto un santuario, mèta di pellegrinaggi, nel quale , secondo le credenze, occorre essere stati per accedere al paradiso;
sulla costa jonica sorge Gallipoli che è quasi una cittadina d’oriente , tanto sul fronte del porto dalla case bianche, quanto nelle vie tortuose.
Il Salento gli rimarrà per sempre nella memoria come una sorta di viaggio sognato, viaggio dell’anima, e anche nel periodo più buio e tormentato della sua vita , quando dovrà affrontare una malattia devastante che lo porterà rapidamente alla morte in un tunnel senza uscita di atroci sofferenze, di solitudine , di disperazione atea vissuta con religioso stoicismo . E’ il Piovene che scrive con la mano semiparalizzata “Verità e menzogna” , il suo ultimo lavoro, pubblicato postumo, che assume un valore quasi testamentario ( “ la bugia ci fa imputridire, la verità dissecca e brucia” ) ; è il malato terminale in crisi con tutto, il suo passato, la ricerca di una verità ultima che gli sfuggiva, del ripudio totale di tutti i valori in cui fino ad allora aveva creduto, letterari, filosofici, morali, politici, culturali, lo scrittore angosciato , devastato nel corpo e nel’anima , delle “Furie” , delle “ Stelle fredde” , degli “Idoli e ragione”, “l’ateo nostalgico del sacro” che ricorderà Lecce e il Salento come uno di quei ricordi della purezza , e delle illusioni , dei sogni appunto che appartengono alla prima età , quando la vita e la natura promettono tante cose meravigliose.

Le pagliare e i due mari
Lo immaginiamo in quel Salento di 50 anni fa , ancora edenico, guardare dalle finestre dell’albergo di Santa Cesarea Terme , allora l’unico esistente nel basso Salento, prendere la sua Olivetti portatile e battere i tasti: “Il Salento è una terra tutta piana , con le capanne dei pastori dette pagliare, a forma di cappello conico, quasi piccolissimi trulli. Le costruzioni coniche orientaleggianti sembrano essere nella Puglia del Sud la forma più naturale dell’architettura. E la pianura su cui sorgono è tutta marina , spazzata dai venti tra mare e mare . I riverberi, i luccichii , i soffi dei due mari sembrano quasi incontrarsi a mezz’aria; così tutto si presenta lucido , come se fosse avvicinato da un effetto ottico, ed insieme ingannevole .Sembra anche d’essere sul mare se si alzano gli occhi , contemplando le nuvole che galoppano velocemente tra l’Adriatico e l’Ionio...Il Salento è una terra di miraggi, ventosa; è fantastico, pieno di dolcezza; resta nel mio ricordo più come un viaggio immaginario che come un viaggio vero” .

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01 giugno 2008

Recensione: "De Profundis" di Oscar Wilde

'I classici' di A. di Biase
“De Profundis”
Oscar Wilde
Oscar Classici Mondadori – 2003
Pagg. 158
Questo libro racconta la storia di tre uomini: un protagonista e due giovani. Robert Ross fu probabilmente il ‘primo uomo’ di Oscar Wilde e rappresenta - senza che la storia finora scritta sul grande scrittore irlandese ne abbia riconosciuto il pieno ruolo ed i meriti - quella figura di allievo, di autentico intellettuale schivo e fedele al maestro, di ‘prosecutore’ secondo i canoni della scuola classica tanto cara al nostro, che Wilde avrebbe voluto vedere attorno a sé e che, non trovando evidentemente soggetti degni, si forzò di proiettare sull’immagine quanto meno ambigua di Lord Alfred ‘Bosie’ Douglas – il quale doveva essere un bel ragazzo, sebbene non particolarmente fotogenico. “De Profundis” è la lettera che Wilde scrisse in carcere al ‘suo uomo’, giovane, dominante ed assolutamente ribelle nei confronti della propria figura paterna il quale, esacerbato dall’odio – più volte gli verrà ricordato nell’epistola – lo aveva portato ad una denuncia ‘boomerang’ contro il Marchese di Queensberry; una denuncia ed un processo che avrebbero alla fine portato Wilde – l’uomo che si era sempre sforzato di vivere all’altezza delle sue belle porcellane cinesi -, verso una condanna a due anni di lavori forzati. Dalla galera l’autore de “L’anima dell’uomo” uscirà distrutto ed economicamente ‘fallito’, con l’intera sua biblioteca messa all’asta per pochi soldi, assieme a tutto il resto. L’epistola si legge tutta d’un fiato, esattamente come – ben si capisce – è stata scritta; il volume va però letto per intero – compresa l’introduzione -, se si vuole comprendere pienamente il ruolo umanamente ed intellettualmente delicato svolto da ‘Robbie’ Ross sia nella cura e nella trasmissione ai posteri di “De profundis” – rimasta censurata fino al 1960 nella sua versione integrale – sia probabilmente nella ‘oculata‘ divulgazione dell’intera opera del Wilde, oggi giustamente riconosciuto come uno degli autori più significativi della letteratura inglese.
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ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

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