31 luglio 2014

Viaggio nelle carceri di Davide La Cara e Antonino Castorina


IN LIBRERIA

Viaggio nelle carceri di Davide La Cara e Antonino Castorina


Le carceri italiane, nel loro complesso, sono la maggior vergogna del nostro Paese. Esse rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si abbia mai avuta. (Filippo Turati, 1904)
Viaggio nelle carceri, edito da EIR, è il percorso di due giovani del Pd, Davide La Cara e Antonino Castorina, dentro alcuni degli istituti di pena tra i più problematici d’Italia: Rebibbia e Regina Coeli a Roma, Due Palazzi a Padova, Vibo Valentia, Poggioreale a Napoli, San Pietro a Reggio Calabria, l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto e il Coroneo di Trieste.
“Questo libro nasce dall’esigenza di raccontare l’inferno delle carceri italiane, le loro carenze strutturali e di uomini di servizio, le condizioni igieniche disastrose, la solitudine delle persone che le vivono. Tutte le persone.”
Gli autori affrontano i diversi aspetti della vita carceraria e le criticità che la caratterizzano: le modalità della detenzione e le conseguenze del cronico sovraffollamento, la riabilitazione ostacolata dalla grave carenza di risorse economiche ed umane, le difficoltà di gestire la relazione genitoriale da parte dei detenuti e i disagi aggiuntivi dei detenuti stranieri.
Il risultato è una puntuale denuncia delle carenze dell'istituzione carceraria nella realtà italiana, ma anche un'indicazione di nuove prospettive possibili, quali una riforma della giustizia che incida sul ruolo e sul funzionamento del carcere a cominciare dall'abolizione dell'ergastolo.
Il saggio è arricchito dai contributi di Rita Bernardini, segretaria di Radicali Italiani, e Roberto Giacchetti, vicepresidente della Camera dei Deputati e contiene un’intervista esclusiva a Raffaele Sollecito.
DAVIDE LA CARA è nato a Milazzo nel 1984, si è laureato a Palermo in Comunicazione con una tesi sulla comunicazione politica e ha conseguito un master in Editoria, giornalismo e management culturale presso la Sapienza di Roma. Terminati gli studi, ha lavorato a Milano presso la casa editrice il Saggiatore e oggi vive a Roma, dove è stato addetto stampa in varie agenzie di comunicazione. Dal 2012 collabora con i Giovani democratici ed è responsabile comunicazione per alcuni deputati del Partito democratico.
ANTONINO CASTORINA è nato nel 1985 a Reggio Calabria. Dopo il diploma al Liceo Classico Tommaso Campanella, si è laureato in Giurisprudenza all’Università Mediterranea, dove è stato eletto Consigliere di Amministrazione. È stato tra i fondatori dei Giovani Democratici in Calabria e oggi fa par- te della Segreteria nazionale con delega agli Esteri, alla Legalità e agli Enti Locali. Da sempre è in prima linea sul settore giustizia e ha condotto diverse battaglie per la legalizzazione delle droghe leggere e per la modifica del 416ter. Ha lavorato al Parlamento europeo e oggi è stagista per l’Ambasciata di Estonia a Roma. Nel tempo libero fa l’arbitro di Basket, sport di cui è da sempre appassionato, e gli piace viaggiare. Tra le sue passioni musicali ci sono i Beatles e Cesare Cremonini.

Davide La Cara e Antonino Castorina

Viaggio nelle carceri
EIR
p. 111
€ 14,00

25 luglio 2014

Incubo di Mary Higgins Clark


INCUBO                    di Mary Higgins Clark               
                                                                       
copyright © 1984 by M. Higgins Clark
© 1989 Sperling & Kupfer Editori S.p.A.
ISBN 8860612934   Pag. 336  € 9,40


Il romanzo ha inizio con la protagonista, Pat Traymore, che per lavoro si reca a Waschington,
tornando ad abitare in quella che fu la casa della sua prima infanzia.
Assunta da una tv per preparare una trasmissione su una senatrice in lista per la vicepresidenza
alla Casa Bianca, si trova a dover affrontare delle minacce da uno sconosciuto che non vuole
che il documentario venga mandato in onda.
Intorno a tutto questo ruotano i suoi ricordi dell’infanzia, pervasa da un mistero che Pat è
intenzionata a svelare. La storia di un serial killer che uccide le persone anziane nelle cliniche
dove lavora come inserviente. E altre figure ambigue delle quali non si riesce a disegnarne i
contorni se non alla fine.
E’ un buon giallo, ma con forse troppa carne al fuoco. Devo inoltre aggiungere che la seconda
parte del romanzo risulta più avvincente che non la prima, troppo piena di tutti questi personaggi
che cominciano ad assumere un senso solo continuando nella lettura.

© Miriam Ballerini

12 luglio 2014

I POEMI OMERICI FURONO SCRITTI DAI POPOLI SIRINI di Vincenzo Capodiferro

I POEMI OMERICI FURONO SCRITTI DAI POPOLI SIRINI
Sconcertante tesi in un “Viaggio a Costantinopoli” della fine del ‘700


La questione omerica che ha animato tanti secoli di critica letteraria è ancora tutta da definire. Nessuna notizia certa si apprende dagli antichi autori sul cantore dell’Iliade e dell’Odissea. Se si esclude ogni valore storico dalle notizie biografiche delle “Vite omeriche”, non rimane che il nome del poeta e delle sue opere a far luce sulla sua oscura origine e personalità. Al nome “Omero” i Greci davano più di un significato e di etimologia allegorica: egli sarebbe stato “colui che non vede”, il cieco aedo, come cieco è l’aedo dei Feaci nell’Odissea. Sulla patria e sull’epoca, la tradizione comunque oscilla, incerta fra limiti molto ampi: «Sette città della Grecia si contesero il vanto di aver dato i natali ad Omero: Smirne, Chio, Colofone, Itaca, Pilo, Argo ed Atene», così cantava un anonimo in un famoso epigramma. Eppure fin dai tempi vichiani era valsa la tesi che i poemi fossero, più che attribuibili ad un unico autore, una raccolta di scritti poetici e mitici delle antichità greche. In un “Viaggio a Costantinopoli”, pubblicato a Parigi nel 1798 dal conte di Salaberry, l’autore, che evidentemente passa attraverso il Regno di Napoli e attraverso la Lucania, fa delle sconcertanti osservazioni a proposito delle Scuole Omeriche: «Si sa che Smirne, Clazomene, Colofone si sono disputati la gloria di aver visto nascere Omero. Si crede che Smirne sia la sua patria dietro le conclusioni che hanno tratto i viaggiatori, come l’inglese Hood a questo riguardo. Ma ciò che tutto il mondo non sa è che un abate ha fatto una dissertazione per provare che il nome di Omero non è altra cosa che il titolo dei libri sacri dei sacerdoti di Siris in Lucania e che la storia di Troia non è altro che un’allegoria. Le tombe di Achille, di Ettore e di Aiace, ritrovate nella Troade, sono invece trasposizioni mitiche». Il conte non dà chiarimenti su chi fosse questo ecclesiastico, autore di quella dissertazione, ma ne dà il titolo, “L’etimologia del monte Volturno”. È veramente una tesi bella e sconcertante, che andrebbe approfondita e che farebbe luce sugli antichi popoli sirini del Lagonegrese, sui quali ci sono pochissime fonti storiche. Sappiamo che Siri ebbe un territorio ricco e fertile, la Siritide, sul quale si stanziarono proprio degli esuli troiani a partire dal XII sec. a. C., nonché coloni ionici, di Colofone, appunto. È possibile che di lì portarono il culto ed i libri sacri della dea babilonese Siri, o Sini, dea Luna. La città di Siri si trovava presso la foce del fiume Siri, l’attuale Sinni, tra Policoro e Rotondella. La Siritide fu una regione molto contesa dalle colonie vicine per la sua ricchezza, tanto che più volte fu invasa, per cui Siri decadde ed i suoi abitanti si spostarono a Pandosia, l’attuale Anglona, ove sorge un famoso santuario mariano sulle rovine di un antico tempio dedicato alla madre Sini, dopo di che rifondarono la colonia di Heraclea. Siri non è da confondere con Sinis, il piegapini della mitologia greca. Il monte della dea Siri era il Sirino, o monte della Luna, che si abbraccia col monte del Sole, o di Apollo, il Pollino. Il fiume Sinni è il fiume di Sini, mentre l’Agri era l’antico Acheronte. Come riferisce il prof. Vincenzo Labanca nel suo “La leggenda del dio lucano”, dall’unione di Apollo con Siris, Sole e Luna, nasce un bambino di luce, Lucano, donde la Lucania. Come abbiamo ampiamente dimostrato nelle nostre ricerche sul mito dell’Antenna, nonché sui riti della mietitura, la regione del Metapontino rappresentava nell’antica toponomastica, una trasposizione dell’Inferno, o Ade, coi suoi quattro fiumi: l’Acheronte, l’attuale Agri, lo Stige, l’attuale Sinni, colla sua palude, che era ricordata fino a quando non fosse stata abbattuta con la riforma agraria del 1951, la portentosa foresta di Policoro, gioiello del Regno di Napoli e custodita fino a quando fu in possesso del barone Berlangieri, il Piriflegetonte, il Bradano, l’antico Uradanus, e Oceano, il Basento, l’antico Vasentum. Evidentemente si trattava di libri sacri e di un culto dovuta al dio dell’Inferno, o a Persefone. Molto ancora però si deve fare per lo studio archeologico di questa parte tanto trascurata dall’antica magna Grecia, per chiarire anche gli usi ed i costumi degli esuli che portarono il culto di Siri nella terra della bassa Basileia, la terra regale. 

Vincenzo Capodiferro

06 luglio 2014

CARMELO MUSUMECI OTTIENE LA DECLASSIFICAZIONE di Miriam Ballerini



CARMELO MUSUMECI OTTIENE LA DECLASSIFICAZIONE

Sono almeno un paio d’anni che, quasi regolarmente, ho uno scambio di lettere con il detenuto Carmelo Musumeci, sottoposto a ergastolo ostativo.
In questo tempo di mail e sms, noi ancora proviamo l’aspettativa che dà ricevere una lettera cartacea, aprirla e leggere come va la vita di un’altra persona.
Musumeci è da ventitré anni in carcere e non ha nessuna speranza di poterne uscire un giorno. Da anni combatte per raccogliere le firme di personaggi famosi e non (io sono una dei firmatari), per abolire l’ergastolo ostativo.
Circa un tre settimane fa ho ricevuto una sua lettera, con tanto di fotocopia del documento del Ministero della giustizia, con cui mi comunicava di essere stato declassificato dal circuito di alta sicurezza, a quello di media sicurezza.
Per noi profani dell’argomento, può sembrare una cosa da poco; ma per chi vive fra quattro mura, è un immenso passo avanti.
In seguito a questa sua lettera, gli ho spedito la mia intervista che vi riporto qui di seguito:

Ricorda brevemente la tua storia, il perché sei stato arrestato.
Il mio passato è semplice da raccontare: sono cresciuto da solo, senza nessuno. Prima in compagnia delle suore, poi dei preti. Per ultimo con le guardie carcerarie. La mia infanzia non è stata bella, per nulla! Da bambino non ho mai avuto una vera famiglia: da bambino nessuno mi ha mai voluto veramente; da bambino nessuno è mai voluto realmente stare con me. Fin da bambino ho imparato a tenermi compagnia da solo. Solo. L’ ho fatto anche da grande. E questo mi ha portato alla condanna dell’ergastolo.

Quando hai iniziato a lottare contro l’ergastolo ostativo?
Quando ho acquistato stima di me stesso e mi sono accorto che i buoni erano più malvagi dei cattivi. Poi, quando mi sono accorto che i miei governanti, i miei educatori, erano peggiori di me. E anche quando ho iniziato a pensare che, se sapessi il giorno, il mese e l’anno che potessi uscire, forse riuscirei a essere una persona migliore; a essere una persona più buona, a essere una persona più umana e non più una belva chiusa in gabbia.

Come ti sei sentito di fronte all’adesione di persone famose che hanno dato il loro apporto alla tua causa? Cosa ti senti di dire loro ora che qualcosa s’è mosso?
Mi hanno fatto sentire che, nonostante sia stato condannato a essere maledetto, cattivo e colpevole per sempre, qualcuno, là fuori, nel mondo dei vivi non è d’accordo.  Mi sento di dire che ci vuole tanto coraggio e grande amore sociale a difendere i diritti, i sogni e le speranze dei cattivi.

Come cambia ora la tua situazione carceraria? Cosa è cambiato in effetti?
Ora che dopo ventitré anni di carcere il Ministero di Giustizia mi ha declassificato da un regime di alta sicurezza, a quello di media sicurezza, la mia vivibilità interna è migliorata. Sinceramente, però, preferivo che mi dessero un calendario in cella per segnare i giorni, i mesi e gli anni per poter un giorno sperare di uscire.

Hai ancora l’ergastolo, oppure adesso sai che un giorno potrai uscire?
Ho ancora l’ergastolo. Continuo a non avere nessun futuro. Per lo Stato continuo a non esistere, a essere considerato come morto. Purtroppo continuo a essere considerato carne viva immagazzinata in una cella, a morire. Eppure, a volte, mi dimentico di essere un ergastolano, io mi sento ancora vivo. E questo è il dolore più grande per un uomo condannato a essere morto; a che serve essere vivo se non hai nessuna possibilità di vivere? Se non sai quando finisce la tua pena? Se sei destinato a essere colpevole e cattivo per sempre?

Adesso puoi usufruire di permessi premio?
No!

Vuoi aggiungere qualcosa?
Il mondo ci ha rifiutato, ma noi non abbiamo del tutto rifiutato il mondo. Molti di noi non hanno più né sogni, né speranze, ma sperano lo stesso in un mondo migliore per i nostri figli e i nipoti.
Per molti di noi il mondo non va oltre il confine della nostra cella, ma non rinunciamo lo stesso a interessarci del mondo.
Molti di noi si sono piegati, ma non si sono ancora spezzati e hanno ancora la forza di sperare e di amare il mondo là fuori.
Io, però, preferisco lottare che sperare, perché la speranza è un’arma pericolosa e ti si può ritorcere contro.

Musumeci è consapevole dei suoi errori, entrato in carcere con la sola quinta elementare, ha preso due lauree e scritto diversi libri. Ha compiuto un percorso di rieducazione e di consapevolezza.
Lui, con altri ergastolani ostativi, consapevoli del male fatto, hanno chiesto di avere la possibilità di pagare i propri errori, anche mettendosi al servizio delle vittime, o facendo congressi per far comprendere ai giovani di non commettere i loro errori.
Dopo vent’anni e più di carcere, un essere umano cambia, spetta alla società decidere in quale direzione inviare questo cambiamento: se verso il bene o il male.

© Miriam Ballerini

LA PROFONDA RELIGIOSITÀ DEL MAZZINI Apostolo della “Giovine Italia” e missionario della Patria di Vincenzo Capodiferro


LA PROFONDA RELIGIOSITÀ DEL MAZZINI

Apostolo della “Giovine Italia” e missionario della Patria


Giuseppe Mazzini fu agitatore politico e delle coscienze, apostolo della Giovine Italia, che nonostante tutte le sue vicissitudini si mantiene ancor giovane, nonché della Giovine Europa, di cui oggi tanto ci si gloria, intrepido missionario della Patria e dell’umanità. Nasce a Genova il 22 giugno di quel secolo novello che appena cominciava, nel 1805 e vi vive fino al 1872, quando muore a Pisa il 10 di marzo. Dio e popolo, pensiero e azione sono i capisaldi della sua religiosità profonda e sentita. Mazzini vagheggiava il superamento dei moti carbonari e l’inveramento della teoria dei doveri, e della missione religiosa della vita umana. L’uomo, vagheggiato dal patriota genovese, da un alto era l’erede dell’Illuminismo e della Rivoluzione Francese, e dall’altro era il nascituro dei Risorgimenti e delle rivoluzioni nazionali. Al di là di tutte le rivoluzioni però la rivoluzione vera dell’individuo, delle sue libertà e dei suoi diritti, non ha ancora concluso il cammino progressivo dell’umanità. Con la Rivoluzione Francese si chiude un’epoca e se ne apre un’altra, con altri problemi, con altre esigenze. Conquistata la libertà si rivela necessaria l’esigenza della legge, che impedisce alla libertà di degenerare nell’arbitrio e nel caos: «Conoscere la legge e ottemperarvi le opere: è questo, infatti,» scrive il Mazzini, «il vero modo di porre il problema. Or la legge dell’individuo non può chiedersi che alla specie. Soltanto da un concetto dell’Umanità può desumersi il segreto, la norma, la legge di vita dell’uomo». Un’idealità religiosa può superare e completare la rivoluzione dei diritti: «Il pensiero religioso è la respirazione dell’Umanità: Anima, Vita, Coscienza e manifestazione ad un tempo. L’Umanità non esiste che nella coscienza della propria origine e nel presentimento dei propri fati». Questa idealità completa, infatti, la teoria dei diritti in quella dei doveri: «Il Diritto è fede dell’individuo: il Dovere è fede comune. Il Diritto non può che ordinare la resistenza, distruggere, non fondare; il Dovere edifica e associa, scende da una legge generale, laddove il primo non scende che da una volontà». L’elevatissima idealità religiosa si esprime nel Mazzini come fede in Dio, nell’umanità e nel progresso: «Crediamo in un’unica legge generale, immutabile, che costituisce il nostro modo di esistere, abbraccia ogni serie di fenomeni possibili, esercita continua un’azione sull’universo, e su quanto vi si comprende, così nel suo aspetto fisico, come nel morale.  Ogni legge, esigendo un fine da raggiungersi, crediamo nello sviluppo progressivo, in ogni cosa esistente, delle facoltà e delle forze, che sono facoltà in moto, verso quel fine ignoto, senza il quale la legge sarebbe inutile, e l’esistenza inintelligibile. E dacché ogni legge ha interpretazione e verificazione nel proprio soggetto, noi crediamo nell’Umanità, ente collettivo e continuo, nel quale si compendia l’intera serie ascendente delle creazioni organiche e si manifesta più che altrove il pensiero di Dio sulla terra, siccome unico interprete della Legge. Crediamo nell’Associazione, che non è se non la credenza attiva in un solo Dio, in una sola Legge e in un solo Fine, come nel solo mezzo posseduto da noi per tradurre il Vero in realtà, come in metodo nel Progresso. Crediamo quindi nella Santa Alleanza dei Popoli, come quella che è la più vasta formula di associazione possibile nell’epoca nostra, nella libertà e nell’eguaglianza dei popoli, senza le quali non ha vita associazione vera, nella nazionalità, che è la coscienza dei popoli e che assegnando ad essi la loro parte di lavoro nell’associazione,  il loro ufficio nell’umanità, costituisce la loro missione sulla terra, cioè la loro individualità, senza la quale non è possibile libertà, né eguaglianza, nella santa Patria, culla delle nazionalità, altare e lavoreria per gli individui, che compongono ciascun popolo. E come noi crediamo nell’umanità, sola interprete della legge di Dio, così crediamo, per ogni Stato, nel Popolo, solo padrone, solo sovrano, solo interprete della Legge dell’umanità, regolatrice delle missioni nazionali: nel Popolo, uno ed indivisibile, che non conosce caste o privilegi, se non quelli del Genio e della Virtù, né proletariato, né aristocrazia di terre o finanze, ma solamente facoltà e forze attive, consacrate per utile di tutti all’amministrazione del fondo comune che è il globo terrestre. Dio e la sua Legge, l’Umanità ed il suo lavoro di interpretazione, progresso, associazione, libertà, eguaglianza e il dogma del popolo, tutto si collega sul terreno della nostra credenza». Mazzini mosse le masse con le onde della fede. Vero è che il popolo fu sordo alla voce del profeta. Ma che cosa potevamo aspettarci? Si sono sottomessi ai capibanda. Hanno ascoltato, dopo tanto, la voce di Marx e di Nietzsche. Hanno calpestato la loro dignità di popolo e si sono ridotti a plebe, a massa. Alla Santa Alleanza dei principi il profeta voleva sostituire la Santa Alleanza dei popoli. Ma quei popoli caddero ai piedi dei tiranni e così fecero nel Novecento coi Fascismi, i nazismi e gli Pseudocomunismi. Mentre una voce clamante nel deserto gridava: «Abbiate dunque fede, o voi che patite per la nobile causa, apostoli di una verità anche oggi ignorata dal mondo. Credete ed operate. L’Azione è il Verbo di Dio: il pensiero inerte non ne è che l’ombra. Quel che disgiungono il Pensiero e l’Azione, smembrano Dio e negano l’eterna Unità». E questa autentica fede portava a dire al Mazzini: «Dio esiste. Noi non vogliamo, né dobbiamo provarvelo. Tentarlo ci sembrerebbe bestemmia, come negarlo follia. Dio esiste perché esistiamo noi. Dio vive nella nostra coscienza, nella coscienza dell’umanità, nell’universo che ci circonda. La nostra coscienza lo invoca nei momenti più solenni di dolore e di gioia. L’umanità ha potuto trasformarne, guastarne, ma giammai sopprimerne il santo nome. L’universo lo manifesta con l’ordine, con l’armonia delle sue leggi. Non vi sono atei fra di voi: se ve ne fossero sarebbero degni non di maledizione, ma di compianto. Colui che può negare Dio davanti ad una notte stellata, davanti alla sepoltura dei suoi più cari, davanti al martirio è grandemente infelice, o grandemente colpevole! Il primo ateo fu senza alcun dubbio un uomo che aveva celato un delitto agli altri uomini e cercava, negando Dio, di liberarsi dell’unico testimone a cui non poteva celarlo». Se oggi l’Europa, anche se sta perdendo la fede, che è la cosa più importante, ha visto, però, la grazia della democrazia, della libertà, dell’eguaglianza, non solo a parole, ma nei fatti, dopo secoli di tirannie e non da ultimo di tragedie belliche e di totalitarismi, lo deve anche a queste voci che sono risuonate profondamente nei solchi della storia. Grazie a questa sordità l’Italia è potuta essere schiava per secoli e secoli, tanto da far esclamare al Machiavelli: «E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il popolo d’Israel fusse schiavo in Egitto, ed a conoscere la grandezza e l’animo di Ciro, che i Persi fussero oppressi dai Medi, ed ad illustrare l’eccellenza di Teseo, che gli Ateniesi fussero dispersi; così, al presente, volendo conoscere le virtù di uno spirito italiano, era necessario che l’Italia si conducesse nei termini presenti, e che la fusse più schiava che gli Ebrei, più serva che i Persi, più dispersa che gli Ateniesi, senza capo, senz’ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa ed avesse sopportato di ogni sorta rovine» (N. Machiavelli, Principe, XXVI). In nome di quel comune senso religioso lo stesso Gioberti esortava il Mazzini: «Strappate la maschera dell’ipocrisia ai principi, che con bestemmie nefande osano chiamarsi cristiani, cattolici, padri del popolo, stabiliti da Dio; e oltraggiano la santità della religione col vituperoso omaggio che le rendono. Penetrate nelle corti dei re e dipingete al vivo quelle fogne di malvagità e di bruttura; chiedete qual sorta di cristianesimo  sia quello tenuto dai governi assoluti, ponete mano al vero e al vivo cristianesimo, chiaritelo, divulgatelo, proclamate le sue dottrine per impedire che esso si confonda con quella religione di servitù e di barbarie che oggi regna. Scrivendo sulla bandiera italiana, che avete inalberata, le sublimi e portentose parole: «Dio e popolo» significate qual culto sia il vostro e quale civile riforma vi propiniate. Io vi saluto, precursore della nuova legge politica, primo apostolo del rinnovato Evangelico». Mazzini e Gioberti avevano una profonda concezione religiosa della vita: «Essi erano convinti,» scrive Edmondo Solmi, in Mazzini e Gioberti, Milano 1913, «che non si può parlare di libertà, di unità, di indipendenza, di civiltà e di progresso, senza una rigenerazione religiosa dell’umanità. Sentivano che la religione ispira e consacra i pensieri e le azioni umane, nobilita, consola, fortifica l’individuo e la fratellanza di ogni uomo». Mazzini credeva che «Alla Roma dei Cesari e dei Papi deve succedere la Roma del Popolo che armonizzando terra e cielo, Diritto e Dovere, parlerebbe non agli individui, ma ai popoli una parola d’assicurazione insegnatrice ai liberi e agli eguali della loro missione» (G. Mazzini, La missione dell’Italia). Gioberti similmente credeva che se «L’Italia ha creato l’Europa cristiana e moderna, l’Europa deve ritornare all’Italia… Veggo in questa futura Italia risorgente fissi gli occhi di Europa e del mondo; veggo le altre nazioni, prima attonite e poi ligie e devote, ricevere da lei un moto spontaneo i principi del vero, la forma del bello, l’esempio e la norma del bene operare e del sentire altamente…» (V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, Torino 1925). Entrambi credevano fortemente nella patria, un termine che pare ormai caduto in disuso, tranne nell’assistere alle partite dei Mondiali di calcio, ove ritorna in mente l’inno nazionale. Eppure - e concludiamo con queste parole tratte da I doveri degli uomini di Silvio Pellico - : «Essere schernitori della religione, dei buoni costumi ed amare degnamente la patria è cosa incompatibile, quanto sia incompatibile esser degno estimatore di una donna amata e non riportare che vi sia l’obbligo di esserle fedele. Se un uomo vilipende gli altari, la santità coniugale, la decenza, la probità e grida: Patria! Patria! Non gli credere! Egli è un ipocrita del patriottismo. Egli è un pessimo cittadino. Non vi è buon patriota, se non l’uomo virtuoso, l’uomo che sente ed ama tutti i suoi doveri e si fa studio di seguirli. Ei non si confonde mai né con l’adulatore dei potenti, né con l’odiatore maligno di ogni autorità: essere servile ed essere irriverente sono pari eccesso». Credo che non vi sia più bella immagine per descrivere la grandezza della figura del Mazzini di questa nobile descrizione che un patriota fa del Patriota. 

Vincenzo Capodiferro

IL SEMESTRE ITALIANO DI PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DELL’UE LA CRESCITA PER IL FUTURO DELL’EUROPA di Antonio Laurenzano

IL SEMESTRE ITALIANO DI PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DELL’UE LA CRESCITA PER IL FUTURO DELL’EUROPA
                                 di  Antonio Laurenzano


“Se l’Europa accetterà di dare un futuro alle sue ambizioni, sarà bello sfidare l’avvenire insieme”. E’ l’appello lanciato dal premier Matteo Renzi a Strasburgo, al Parlamento europeo, in occasione del discorso di apertura del semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione.  E’ partita così la sfida per rilanciare una immagine diversa  dell’Europa: non più quella della stanchezza e della noia che appare da un selfie , ma quella di un nuovo Rinascimento legato al protagonismo economico europeo, perché “senza crescita l’Europa non ha futuro”. Un’Europa che deve fare “uno scatto  in avanti” , superare gli egoismi nazionali e recuperare  la sua anima, i suoi valori, l’originario spirito comunitario dei Padri fondatori, per dare una risposta all’euroscetticismo uscito dalle urne, alle ultime elezioni europee votazioni, con una diffusa richiesta  di cambiamento.
La strada è tracciata: “coraggio ed orgoglio” per riavvicinare le istituzioni europee ai cittadini e risolvere i problemi della lunga crisi finanziaria ed economica. Puntare su una politica economica espansiva che possa evitare che dalla recessione si passi alla deflazione. Crescita e sviluppo sono le parole d’ordine del semestre italiano. Dalla sua, Renzi ha l’apertura del Consiglio europeo. Un’apertura importante arrivata dall’ultimo vertice dei Capi di Stato e di governo della Ue che fa presumere una larga convergenza sull’agenda dei lavori annunciata da Roma per i prossimi sei mesi di guida europea. Una più ragionevole ed equilibrata applicazione del Patto di stabilità che, rigore tedesco e olandese a parte, troverà ampi consensi al Parlamento di Strasburgo.
L’Italia farà del rilancio dell’economia europea il suo principale obiettivo per realizzare il quale occorre unità politica e integrazione a tutti i livelli per disegnare un’altra Europa, più coesa, più solidale, capace di coniugare rigore e crescita. Da tempo l’ Europa, priva di una sua precisa identità, vive  una profonda crisi istituzionale esasperatasi nel quinquennio di euro-crisi. Commissione e Consiglio Ue si sono progressivamente indeboliti fino a ritrovarsi di fatto agli ordini dei Governi nazionali e del metodo intergovernativo che muovono sempre più l’Unione a scapito del metodo comunitario. Si tratta ora di  “ri-orientare” insieme il cammino europeo per fronteggiare una pericolosa disgregazione (Regno Unito), con il rischio di riportare indietro le lancette della storia, nel ricordo dei tragici lutti e distruzioni del passato.
 Sono ben delineati gli elementi centrali del “Programma di presidenza italiana” : flessibilità nei vincoli di bilancio (per i cofinanziamenti legati ai fondi strutturali) in cambio di riforme rivolte allo sviluppo e all’occupazione, investimenti a supporto della ripresa (con l’auspicabile ricorso agli eurobond), sviluppo di una comune politica migratoria a livello europeo (potenziare mezzi e risorse), lotta alla disoccupazione giovanile. Con 26 milioni di disoccupati in Europa, la creazione di posti di lavoro è un fattore chiave per riconquistare il sostegno dei cittadini al processo di integrazione europea.
L’Europa ha bisogno di riforme e di innovazione per la crescita. Una risposta europea efficace alla crisi economica e finanziaria che deve tener conto in primis dell’importanza dell’economia reale e poter contare su solidi settori manifatturiero e dei servizi. Migliorare la competitività industriale sarà una delle attività prioritarie della Presidenza italiana. “Il settore industriale europeo, comprese le piccole e medie imprese, è un fattore importante per la crescita, la produzione, l’occupazione, l’innovazione e le esportazioni”.
Un’Europa dunque più vicina ai bisogni dei cittadini, alle aspettative di crescita solidale e a uno sviluppo sostenibile all’interno di “uno spazio di democrazia, diritti e libertà”, che presuppone il buon funzionamento delle istituzioni europee, una governance efficace. Malgrado sia emersa negli ultimi anni una certa disillusione per la moneta unica, rimane intatto, secondo il documento programmatico della Presidenza italiana, il potenziale dell’Unione economica e monetaria (UEM) di creare benefici condivisi e un ambiente economico solido per imprese e famiglie.
Saprà la “Generazione Telemaco” di Matteo Renzi rilanciare il progetto europeo e riannodare il filo della storia a favore della integrazione politica del Vecchio Continente, smentendo i profeti di sventura che si aggirano in Europa? Ne riparliamo fra sei mesi.


ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

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