31 maggio 2023

Le luci e le ombre del deserto nelle opere di Guido Mannini. A cura di Marco Salvario

Le luci e le ombre del deserto nelle opere di Guido Mannini.

A cura di Marco Salvario

Il pittore Guido Mannini è nato nel 1970 a Borgomanero, in provincia di Novara; il suo atelier è in Via Biamonti a Torino, sul lato destro del fiume Po, tra la chiesa della Gran Madre di Dio e Villa della Regina, dove la mia città sale dolcemente verso le colline.



La sua produzione si può distinguere in tre distinti filoni:

Nel primo, Mannini si è perfezionato nella copia di opere dei grandi Maestri contemporanei, realizzando con crescente abilità tecnica quelli che vengono comunemente definiti Falsi d'Autore o Autentici Falsi. Sono raffigurazioni che ovviamente non possono esprimere novità e freschezza, tuttavia per l'attenzione dei dettagli riescono a essere persino più curati e vivi degli originali. Il nostro artista sa riprodurre opere di Picasso, Dalí, de Chirico, Modigliani ecc, con un virtuosismo davvero stupefacente, e da quei grandi è stato capace di assimilare con umiltà e perseveranza, oltre che con innegabile talento, gli insegnamenti e i segreti.

Il secondo Mannini ha le radici nel deserto, in quell'Algeria dove ha vissuto a lungo. Quelle che dipinge non sono immagini di sogno o nostalgia, sono ricordi pieni di luci e ombre, semplici da un lato, complessi e densi di allegorie e significati dall'altro; chi ammira le tele, viene preso per mano e portato nell'opera, a condividere il sole infocato, le morbide curve delle dune, il procedere maestoso dei dromedari.

L'ultimo Mannini condivide e sviluppa con la propria raffinata sensibilità al tratto e al colore, quella ricerca astratta tanto intimamente sentita nell'arte contemporanea, che porta a bramare spazi nuovi, dinamici, in trasformazione. Sembra di percepire in quasi tutte le creazioni di questo ricco filone, un movimento di evoluzione dal centro della tela verso l'esterno, il respiro vitale, il Big Bang creazionale che espande la propria energia per permeare il vuoto freddo dell'universo.



Basandomi sulla mostra ospitata a inizio aprile 2023 negli spazi del Chiosco della SS. Annunziata in Via Po, dove per altro l'artista ha esposto più volte negli anni passati, vorrei tornare e soffermarmi sul secondo periodo.

Il deserto delle tele di Mannini è una fonte inesauribile di ispirazione, poesia e racconto, ma questo non è che l'inizio. Oltre c'è la magia, la favola, l'allegoria.

Nelle tele c'è poco e c'è tutto. La meraviglia del cielo, dei cento colori con cui il sole lo illumina: ora rosso fuoco, ora giallo come la sabbia, bianco di nuvole e di vento, nero nella notte e nella tempesta, azzurro o violentemente blu. Il mare di sabbia delle dune si riflette in esso oppure ne è riflesso. Questa armonia/contrasto è oltre la descrizione, diventa sentimento, pensiero, abbandono all'ambiente.



Gli uomini nei loro vestiti tradizionali sono una sola natura con i dromedari, condividendone la vita, il destino, la meta che sembra misteriosa e confusa, ma che loro conoscono e seguono sulla base di riferimenti a noi indistinguibili. Il percorso lento e continuo delle carovane con il loro carico, è una visione della vita umana difficile, quasi impossibile da condividere per noi europei. Sono ritmi e tempi che abbiamo perso, che non ci appartengono più, e che pure si ripetono uguali da secoli, da millenni. Improbabilmente è una vita a cui potremmo di nuovo adattarci, nonostante sotto molti aspetti sia migliore della nostra, frenetica e prigioniera di troppi doveri. Il deserto è contatto con la natura, immersione completa, conoscere se stessi, armonizzarsi con l'ambiente e rispettarlo. Tutto è equilibrio, conservare le energie, accettare stoicamente la fatica, il caldo terribile; ogni errore può essere la morte. Siamo di fronte a popoli che forse troppe volte disprezziamo senza ragione, ma dai quali dovremmo imparare molto, ritrovando valori perduti.

Nei dipinti, ogni uomo, ogni cammello, sembra sdoppiarsi in un gioco tra sé e la propria ombra, una presenza amica che si affianca, oppure precede indicando la via o segue allungandosi e distorcendosi tra le dune.

La nostra angosciata smania occidentale che mai trova un traguardo e una fine se non nella morte, si dissolve all'improvviso, mostra la sua vuota e patetica inutilità. Non è il mondo che deve correre verso il disastro al nostro ritmo feroce e aggressivo, siamo noi che dobbiamo seguire con rispetto i grandi spazi dell'Africa sahariana, se vogliamo che l'umanità abbia un futuro.



Ritenuto a lungo un promettente artista emergente, da alcuni anni Guido Mannini è una realtà autorevole della pittura contemporanea. Al bisogno di lacerare la tela, realmente o virtualmente, Mannini risponde con una sensibilità coerente e al tempo stesso capace di non ripetersi, regalando il piacere di emozioni intelligenti e raffinate.


FONTE: "Guido Mannini: le luci e le ombre del deserto - OUBLIETTE MAGAZINE"

29 maggio 2023

SPAZIOARTE Ignazio Campagna Cromie formali dal 20 Maggio al 30 Settembre 2023 a cura di Luca Scarabelli

                                                                          SPAZIOARTE



Ignazio Campagna

Cromie formali


dal 20 Maggio al 30 Settembre 2023



La scultura di Ignazio Campagna lavora sui fondamentali: scolpire è levare, eliminare delle parti, sottrarre e facendolo, considerare lo spazio mancante come ricettacolo di una forma vuota che pur non essendoci si sente come parte importante, quindi un eliminare che non fa sentire la sua mancanza, perché il pieno e il vuoto sono sempre in efficace dialettica. Dialogano attraverso l’intercessione delle ombre e nella sua opera più recente anche attraverso la presenza della coloritura. Il colore come mediatore, una pittura che a volte sottolinea la dinamica della forma, altre volte ne evidenzia la forza che fa vibrare la forma, a seconda dei toni e dei timbri coloristici utilizzati. Nel levare c’è sempre una sapienza, ed è anche quella della storia della scultura con cui Campagna si relaziona. La scultura come mestiere antico, con le sue specificità e artigianalità che è maestranza del fare.




Ci sono delle tematiche a lui molto care e alcune si ritrovano anche nelle opere in mostra: l’ascensione, Marsia, Icaro, l’Albero dai Frutti dorati, i Pilastri viventi. La sua pratica si sviluppa con l’utilizzo di materiali duri, pesanti, faticosi: pietre, marmo ma anche il legno, per un rapporto con la natura delle cose a cui Campagna tiene molto, materiali che sceglie con attenzione e cura nel tempo, seguendone la temporalità della stagionatura ad esempio, come quella del ciliegio, del il tiglio o del noce, per utilizzarli al momento giusto. È il lavorio sulla superficie la porta di ingresso nella scultura, per interrogare i materiali sulle loro potenzialità di diventare forma significativa. La sua scultura è un “luogo” costruito, luogo del segno che diventa traccia, impalcatura di forme espressive che anche all’interno della potenzialità immaginifica dell’astrazione, racconta di miti e di fioriture di pensieri.

La sua ricerca parte da una progettualità intuitiva, l’esecuzione indaga poi la potenzialità della materia in favore di forme tra loro sempre dialoganti, messe in tensione con bilanciamenti meditati oppure con decise opposizioni di volumi e misure sviluppati in rapporti sinuosi, o con voli aggettanti, in cui le rette e le ortogonali si intrecciano con le curve, e iniziano così a fluttuare, o ancora con i piani che si modellano allo sguardo dispiegandosi in campi dinamici, giochi di movimento, intrecci. All’interno di questi “luoghi” le superfici e lo spazio si rafforzano o si alleggeriscono con il colore, come forme colorate, cromie che sono il “colorito” del mondo. È anche un fare, questo dipingere le forme, che serve a svelare una certa loro tattilità, che è anche quella delicata del pigmento utilizzato. Le proprietà materiche e luminose si incontrano; è l’incanto del mondo che ci fa “vedere” il visibile. Quindi il colore non è solo una consapevole aggiunta, uno scollamento percettivo, ma il particolare manifestarsi di un medium che diventa anch’esso parte della scultura come “luce luminosa” adagiata sulle forme per assecondarle, sottolinearle, come accento della dimensione emotiva ed espressiva che aiuta la terza dimensione a dare movimento visibile all’energia dell’apparire delle forme stesse nello spazio.

Luca Scarabelli

 

 

Nasce a Bagheria (Pa) nel 1956. Vive ed opera a Viggiù (VA). Il padre Pietro, cavatore di tufo nelle Pirriere”, si trasferisce a Viggiù nel 1969. Qui, apprende i primi passi nell’arte della scultura, grazie all’insegnamento degli scalpellini viggiutesi. Frequenta il Liceo Artistico Angelo Frattini di Varese dove con il prof. Pasquale Martini creativamente consolida la conoscenza della scultura. Nel 1981 il diploma di scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Lavora dal 1979 al 1981 presso lo studio dello scultore Vittorio Tavernari, eseguendo opere in pietra. Dal 2012 al 2019 è stato Conservatore dei Musei Civici Viggiutesi Enrico Butti. Al suo attivo ha numerose mostre personali, concorsi per idee, collettive in Italia e all’estero.



26 maggio 2023

Carlo Fruttero e Franco Lucentini A che punto è la notte a cura di Marcello Sgarbi


Carlo Fruttero e Franco Lucentini

A che punto è la notte – (Edizioni Mondadori)


Collana: Il giallo Mondadori

Formato: Copertina flessibile

ISBN: 8804724226

Pagine: 688


La premiata ditta Fruttero e Lucentini ci ha abituato a gialli condotti con assoluta maestria. Penso a La donna della domenica, che come in questo noir ha per protagonista il commissario Santamaria, e dal quale è stato tratto il film omonimo interpretato da Marcello Mastroianni. Ma penso anche a Donne informate sui fattiil cui registro narrativo si fa apprezzare soprattutto nella costruzione dei dialoghi.

Una costante della famosa coppia, del resto, che nella giallistica sembrano sempre scrivere con un taglio cinematografico. Con risultati eccellenti, degni delle migliori firme della sceneggiatura italiana fra cui Age e Scarpelli, Flaiano o Tonino Guerra.

In A che punto è la notte, Santamaria si trova a indagare sullo strano omicidio di don Alfonso Pezza, ucciso da una bomba mentre tiene un’omelia a dir poco inconsueta. Il commissario scopre così che il parroco era un prete dallo stile sacerdotale discutibile, ma è solo l’avvio di un’indagine che si allarga al mondo industriale e in particolare alla Fiat, simbolo di una Torino a cavallo fra gli anni Sessanta e i Settanta già descritta egregiamente da Fruttero e Lucentini proprio in La donna della domenica.

Ricco di una galleria di personaggi tratteggiati in modo mirabile e di uno humour sottile, di vena ironica, che stempera la tensione del narrato anche in una serie di gustose digressioni, spesso fra il serio e il faceto, il romanzo si fa apprezzare soprattutto nei botta-e-risposta del parlato.

Così come per La donna della domenica, anche da questo noir è stata tratta una riduzione, in questo caso una miniserie televisiva andata in onda in due puntate nel 1994 su Rai2, con la regia di Nanni Loy.

© Marcello Sgarbi

"LUCANITA' SARACENA" AL SALONE DEL LIBRO


 "LUCANITA' SARACENA" AL SALONE DEL LIBRO

E' stata presentata al Salone del Libro di Torino sabato 20 maggio, alle ore 16,30, presso lo stand del Consiglio Regionale di Basilicata al Padiglione Oval del Lingotto Fiere, la silloge poetica “Lucanità Saracena. Tra poesia e fotografia” di Prospero Cascini e il cugino Valerio Cascini. Sono intervenuti i poeti, insieme all’editore e scrittore Salvatore Monetti di Battipaglia. L'editore ha ripercorso il viaggio del libro attraverso l'Italia, e soprattutto attraverso la Basilicata, una regione ancestrale e sconosciuta, che affascinò Levi, antropologi, come De Martino, scrittori, poeti e registi, da Pasolini a Gibson, viaggiatori di ogni tempo. Come ha sottolineato Monetti: "è stato un susseguirsi di emozioni, un intensificarsi di rapporti umani, affettivi e di studio". I poeti hanno evidenziato che questo è stato un sogno, ma soprattutto un omaggio alla loro terra, con le sue tradizioni popolari, i riti arborei, il dialetto, le espressioni linguistiche e fotografiche.

Vincenzo Capodiferro

25 maggio 2023

Federica Ferzoco ARTE # ANTIDOTO 20 Maggio - fine Aprile 2024 SCULTURA -


 Federica Ferzoco ARTE # ANTIDOTO 20 Maggio - fine Aprile 2024 SCULTURA - 

Arte e tecnica dello scolpire, cioè di raffigurare il mondo esterno, o meglio di esprimere l’intuizione artistica per mezzo di materiale opportunamente modellato; con valore concreto, l’opera stessa. Nella denominazione di s. si comprende ogni opera plastica (…), sia essa scolpita (…), plasmata in materia cedevole (…), fusa (…) o ottenuta dalla saldatura di pezzi metallici o dall’aggregazione di materiali diversi tridimensionali. (treccani.it/enciclopedia/scultura) Federica Ferzoco presenta un gruppo scultoreo apparentemente immateriale, dove un velo sottile divide lo spazio vuoto in due parti, senza toglierne la visibilità e contemporaneamente facendoci percepire delle presenze. Le figure emergono nelle loro forme umane palesemente riconoscibili, delicate nella loro leggerezza e trasparenza. Una tecnica plastica innovativa riconducibile all’azione di plasmare una garza; quindi non attribuibile alla scultura classicamente scolpita o modellata, ma un calco. Un calco come testimonianza di qualcosa di reale, figure umane od oggetti. Come fotografie tridimensionali dove il filtro è il materiale stesso, che nella sua trasparenza ci fa continuare con l’occhio all’interno del volume e contemporaneamente, con la sua delicatezza ci ricorda l’impossibilità dell’autore di gestirne la durata nel tempo o la precisione delle forme analizzate. Nella superficie del velo si sviluppano figure che abitano lo spazio di the black hole, diventando un tutt’uno con la pienezza di questo luogo. Uno spazio espositivo completamente visibile all’occhio del fruitore, sopra e sotto, dentro e fuori la garza. Garza che diventa un piano impalpabile, materialmente quasi “un niente”. Un niente che riempie la fisicità di the black hole facendola diventare essa stessa opera. La visuale dall’alto e gli scalini presenti obbligano l’artista alla progettazione di una forma installativa ben precisa e ad abitare il luogo espositivo con figure in posizioni determinate, creando un’opera site specific che ha senso solo qui. Oltre alle specificità formali dello spazio, altri elementi entrano in gioco nella realizzazione del progetto, come la luminosità (quasi assente quella naturale) e l’umidità che influirà sicuramente nell’arco del periodo di apertura della mostra pari ad un anno. In questa installazione, l’artista ci racconta un intero percorso intimo. “L'arte era un alibi che spostava il punto dell'attenzione da me a lei”. A partire dal 2012, dopo almeno sedici anni di sperimentazione di calchi con la garza fatte su parti del corpo, Federica Ferzoco riconosce che l’arte è stata, fino ad allora, il suo rifugio per riporre ed affrontare il proprio vissuto personale, comprese debolezze, stranezze e fragilità rappresentate molto bene dalla trasparenza di questo materiale. Un antidoto per il dolore composto da metodo, procedimenti, tecnica, conoscenza dei materiali, trasparenza, leggerezza, fragilità, delicatezza e relazioni. Relazioni inevitabili sia con i luoghi di realizzazione delle sculture per le loro caratteristiche di umidità, aerazione, luminosità; e relazioni soprattutto umane, in quanto le opere sono spesso calchi di persone, amici ma non solo, che si prestano a questa esperienza. Relazioni che si basano sulla fiducia che si dà all’artista magari conosciuta quasi trent’anni prima oppure tre giorni fa. Chi decide di farsi fare il calco con la garza, accetta di stare quasi un’ora sotto questo velo matericamente leggero ma simbolicamente forte; accetta di restare immobile e bagnato per qualche decina di minuti, decide di farsi asciugare con fonti di calore con la speranza che non diventino troppo eccessive all’improvviso. E anche questa relazione nata dalla necessità di un procedimento tecnico/artistico, diventa antidoto per entrambi. L’antidoto sotto forma di arte, o la sua consapevolezza, ha portato ad altri dieci anni di attività artistica caratterizzata da questa forma espressiva e nel 2022, Federica Ferzoco accetta e trasforma le sofferenze e gli sconforti “guariti dal fare arte” riconoscendo il suo percorso di crescita e di conclusione di un periodo; sentendosi pronta a partire dall’installazione/ azione per la mostra “ARTE#ANTIDOTO - Biblioteca di Viganò - Luglio 2022” a condividere questo percorso con studenti e studentesse lasciando loro, come un maestro lascia in eredità un sapere, una competenza tecnica che racchiude simbolicamente molti altri contenuti. “Tutto è portare a termine e poi generare. Lasciar compiersi ogni impressione e ogni germe d’un sentimento dentro di sé, nel buio, nell’indicibile, nell’inconscio irraggiungibile alla propria ragione, e attendere con profonda umiltà e pazienza l’ora del parto d’una nuova chiarezza: questo solo si chiama vivere da artista: nel comprender come nel creare” (Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, 1903/1908 – Adelphi 1999) In questa occasione Federica Ferzoco, ha condiviso l’azione artistica con gli studenti del Liceo Artistico Angelo Frattini, che nella giornata di Giovedì 18 maggio, hanno posato sotto la garza, e quindi realizzato l’opera plastico/scultorea, realizzando anche una documentazione dell’intera performance. Un nuovo appuntamento sarà tra un anno, dove insieme agli stessi studenti, l’artista riavvolgerà l’opera inevitabilmente mutata dal tempo, memoria di relazioni e condivisioni come antidoti alla sofferenza. Claudia Canavesi Federica Ferzoco, nata a Milano nel 1974, ha conseguito il Diploma di Maturità Artistica e il Diploma di Scultura presso l’Accademia delle Belle Arti di Brera. Ha partecipato a diverse esposizioni collettive e personali in Italia ed all’estero dal 1995 ad oggi. L'elenco delle esposizioni ed altre informazioni sono disponibili al link: www.federicaferzoco.it

24 maggio 2023

Eve Arnold e la fotografia come verità. A cura di Marco Salvario

Eve Arnold e la fotografia come verità.

A cura di Marco Salvario


Nel 1952 Eve Arnold ha l'opportunità di fotografare Marlene Dietrich. L'attrice tedesca è una diva bella e famosa che, però, ha superato i 50 anni e deve fare i conti con i segni del tempo; quando esamina i provini del servizio, si intromette pesantemente con annotazioni, commenti e chiedendo interventi di ritocco. Eve non si piega e lascia le proprie immagini così come sono state riprese, fedele alla convinzione che la fotografia sia documentazione della realtà e non alterazione o falso.

Una volta pubblicato, il servizio riscuoterà pareri favorevoli, compreso quello della stessa Dietrich.


Il centro espositivo Camera ha dedicato a questa fotografa dalla forte e coraggiosa personalità, una mostra visitabile dal 25 febbraio al 4 giugno 2023 dal titolo: “Eve Arnold. L'opera 1950-1980.”; un felice ritorno a Torino che, nel 2014, aveva ospitato: “Eve Arnold: Retrospettiva.”



Eve nasce nel 1912 a Philadelphia da una famiglia ebraica di immigrati russi, fuggiti dalle persecuzioni in atto nei travagliati e poveri territori che, nel 1917, sarebbero diventati la Repubblica Popolare Ucraina, uno degli stati fondatori, cinque anni dopo, dell'Unione Sovietica.

Nonostante le difficoltà economiche, Eve frequenta la facoltà di medicina, ma lascia gli studi senza arrivare alla laurea. Si trasferisce a New York e comincia a lavorare per una società di pellicole fotografiche, passando da uno stato all'altro. Ha 28 anni, quando riceve in dono la sua prima macchina fotografica. Nel 1943 frequenta un corso di fotografia e si fa notare per le sue qualità. Si sposa con un ebreo tedesco fuggito durante il nazismo e nel 1948 avrà un figlio; una seconda gravidanza si concluderà con un aborto. Il matrimonio non durerà, anche se Eve conserverà sempre il cognome del marito, Arnold.

Le sue foto dietro le quinte delle sfilate di moda ad Harlem, dove modelle afroamericane presentano capi per una clientela di colore, creando scandalo in un'America conservatrice, che ritiene le riviste di moda destinate a un pubblico esclusivamente bianco.

Nel 1950 ottiene i suoi primi incarichi editoriali e il suo stile diretto, senza censure e senza pregiudizi, ancora più difficile da accettare, allora, perché proveniente da una donna, crea spesso imbarazzi e rifiuti. Eppure, nel '51, Eve Arnold è scelta per diventare la prima donna membro associato della prestigiosa agenzia Magnum Photos.

Decisa, ma sempre rispettosa delle persone, instaura rapporti di professionale amicizia con le mogli dei principali uomini politici statunitensi, a cominciare dalla first lady, Mamie Eisenhower.

Nel '54 è a Cuba per un reportage e fotografa i momenti di un rito voodoo. Tra le foto esposte alla Camera, non posso non ricordare il bianconero “Barista di un bordello nel quartiere a luci rosse”, dove una giovane donna dallo sguardo perso nel nulla si appoggia al bancone con le mani giunte, quasi in preghiera; forse è ubriaca o solo stremata dalla fatica, avvolta dalle luci e dai riflessi del locale. Sembra che solo lei sia ferma, al centro di un turbine frenetico di cui non è cosciente. L'Avana sarà, così è il titolo del servizio, “La città più sexy del mondo”, ma è anche povertà, degrado e sfruttamento.

Eve Arnold sta raggiungendo la fama e dal suo obiettivo si fanno riprendere gli attori Paul Newman, Marilyn Monroe, Laurence Olivier, Joan Crawford, Clarck Gable ecc. Resta però una fotografa impegnata, che ritrae personaggi religiosi come il predicatore Oral Roberts, segue la vita degli italoamericani nel New Jersey, documenta le attività di integrazione tra studenti bianchi e neri in Virginia.

Nel 1961 riesce a essere presente ai convegni di Malcom X, leader complesso, impegnato nel sostenere le rivendicazioni degli afroamericani, che si definisce comunista, aderisce all'Islam e stringe alleanze con gruppi strettamente legati al nazismo. Proprio uno dei capi di quei movimenti, infastidito dagli scatti della fotografa, la minaccia: “Farò di te una saponetta.” Chiaro e tragico è il riferimento ai forni crematori e alle origine ebraiche di Eve, che continua il suo lavoro e si limita a commentare: “Purché io non diventi un paralume”; in italiano si direbbe meglio “un soprammobile”. Una risposta splendida, dove la fotografa dichiara la sua vocazione per documentare la verità ad ogni prezzo, sia anche quello della vita, senza permettere a nessuno di fermarla. Lei non giudica, semplicemente mostra la realtà, senza ipocrisie, senza abbellimenti, senza compromessi. Minacce e lusinghe non la piegano.

Sempre nel 1961 si trasferisce in Inghilterra con il figlio e segue la vita dei giovani britannici.

Nel 1962 ritrae l'ex attrice, diventata principessa, Grace Kelly nella sua residenza di Monaco.

Nel '64 realizza un altro servizio scomodo, che crea molte polemiche, “The Black Bourgeoisie”, dedicato alla nuova e ricca borghesia nera, sempre più ambiziosa e potente. Per molti lettori bianchi, il servizio è uno sgradevole e inaccettabile schiaffo, una finestra aperta su un nuovo mondo, che non riescono ad accettare.

In questo periodo stare dietro a tutti i servizi realizzati da Eve Arnold, è quasi impossibile.

La troviamo nel Caucaso, a Windsor col principe Filippo, in Vaticano, sul set di decine di film, in Russia, nel North Carolina a seguire l'addestramento dei marines che si preparano per combattere in Vietnam, poi in Afganistan, Pakistan, Egitto e negli harem degli Emirati Arabi Uniti. Nel 1972 è presente a Monaco durante le Olimpiadi più tragiche della storia. Nel '75 è in Russia, poi in Marocco. Nel '78 ci presenta una sorprendentemente tenera Margaret Thacher, futura Lady di ferro, con la piccola figlia, e viaggia in India per seguire la campagna elettorale di Indira Gandhi.



Per due anni vive in Cina e la percorre per decine di migliaia di chilometri, attraversando Tibet e Mongolia. Ormai Eve ha più di 60 anni, ma conserva la voglia e l'energia di mettersi in gioco. Le immagini che ci regala della Cina, sono belle e interessanti; un documento unico per valore artistico e storico.

Nel 1981 ritorna negli Stati Uniti e racconta come la grande potenza stia cambiando, visitandone ben 36 stati; successivamente è al lavoro in Messico, poi nuovamente in India e a Medjugorje, per indagare sulle miracolose apparizioni della Madonna.

Pubblica con successo numerosi libri con le sue opere e i suoi reportage.

La sua attività rallenta per l'età, ma non si ferma. Nel 1988 ritorna in Russia. Nel 1997 è a Cuba, e incontra una bambina che aveva fotografato più di 40 anni prima.

Ovunque riceve riconoscimenti; nel 2003 è insignita dell'Ordine dell'Impero Britannico.

Nel 2012 muore a Londra, a un passo dai cento anni. La sua vita e le sue foto sono state raccolte dai suoi amici in un volume: “All about Eve”.



Nel 1987 Eve Arnold aveva pubblicato “Marilyn Monroe: An Appreciation” e, poco prima di morire, “Marilyn Monroe”.

Quello tra Marilyn e Eve è un rapporto di stima reciproca, che va ben oltre l'ambito professionale. Le due donne si conoscono quando sono a inizio carriera, e d'istinto, colgono e apprezzano le rispettive capacità; entrambe hanno nella propria arte un dono naturale che riescono a valorizzare e le rende uniche. È l'attrice a chiedere per prima a Eve di ritrarla e la inviterà più volte sui set dei suoi film.

L'obiettivo di Eve la segue dopo un ricovero per uso eccessivo di stupefacenti, nella crisi del matrimonio con Arthur Miller, nei momenti di fatica in cui cerca di memorizzare la propria parte prima di recitarla sul set. La diva non si nasconde davanti all'obiettivo e spesso lascia intravedere la propria fragilità psicologica, che la porterà alla morte prematura nel 1962.

Di Marilyn ci viene mostrata non la nudità del corpo ma quella dell'anima, senza velature, come è nello stile di Eve, e con la partecipazione emotiva di un'amica per un'amica.


FONTE: "Eve Arnold: la biografia della fotografa che viaggiò in tutto il globo cercando verità - OUBLIETTE MAGAZINE"

Eventi presso la fondazione Valle Bavona - Svizzera

cliccare sulla locandina per ingrandirla 

 

23 maggio 2023

NATALIE MACMASTER & DONNELL LEAHY – Canvas – 2023 a cura di Claudio Giuffrida

NATALIE MACMASTER & DONNELL LEAHY – Canvas – 2023

Quando ci si imbatte in dischi come questo realizzato da due violinisti si pensa subito ad un lavoro di nicchia per gli appassionati dello strumento o di un genere, ma non è questo il caso.

Natalie MacMaster e Donnell Leahy sono si violinisti virtuosi della scena celtica canadese ma in questo loro lavoro, sviluppato durante la pandemia ed il lockdown, hanno cercato di allargare i confini del folk celtico sperimentando con suoni contemporanei e arrangiamenti innovativi. E’ un disco che esprime tanta gioia, molto energico e coinvolgente.

Canvas è il loro terzo album insieme, dopo One del 2015 che vinse il Canadian Folk Music Awards come album strumentale dell’anno e A Celtic Family Christmas del 2016.

Natalie è un’artista pluripremiata di Cape Breton che incide da 25 anni ed è virtuosa anche nella step-dance che ha insegnato anche ai suoi figli, suo marito Donnell è dell’Ontario ma con i suoi avi che nel 1825 arrivarono in Canada dalla contea irlandese di Cork, sono sposati dal 2002 e tutti i loro figli sono stati educati per essere musicisti e spesso appaiono insieme sul palco nei loro concerti.

Nel titolo Canvas, traducibile in tela, c’è il significato simbolico di questo loro lavoro inteso come progetto di fare tabula rasa, partire da una tela vuota appunto, su cui aggiungere alle loro radici della tradizione celtica una vasta varietà di influenze: dalla musica classica al rock, dal country al nuovo flamenco, dallo swing al jazz. Ne è venuta fuori una miscela esplosiva, un viaggio attraverso i territori della Scozia, della Spagna e dell’America latina in cui i due violini aggiungono i colori che servono per emozionarci e travolgerci con melodie infuocate.

Dei 13 brani del disco due hanno i testi: Woman of the House che è cantata da Rhiannon Giddens in Gaelico mentre Wish You Were Near è cantata dallautrice Robyn Cunningham, tre brani sono retti dai cori e gli altri 8 sono strumentali. Importanti le collaborazioni musicali che contribuiscono ad apportare le diverse colorazioni di suoni e stili: dal musicista classico di violoncello Yo-Yo Ma, alla apprezzata musicista americana con il suo banjo degli Appalacchi Rhiannon Giddens, e il flautista irlandese Brian Finnegan  in Colour Theory; in questo video una sua versione spettacolare ma che non ricalca esattamente quella del disco:

https://youtu.be/v6JEbI2DJU4

Il disco che inizia con Canvas ha il suo incedere a ritmo veloce con un esplosione di violini accompagnati da atmosfere supportate dal banjo e da un vocale accattivante. Si capisce subito che qui si fa sul serio con performance stratosferiche.

Colour Theory e Choo Choo sono stati composti dalla loro figlia più grande Mary Frances, diciassettenne. al piano e dove i violini e le percussioni ben si amalgamano.

https://youtu.be/nm-pyoYnACQ

C’è il ragtime squillante e indiavolato di Dance Arnold Dance ed il brano

Woman of the house che si avvale del contributo canoro di Rhiannon Giddens e che fonde molto bene il sound country del suo banjo con i violini irish.

Eccone la versione ufficiale:

https://youtu.be/vEOODdLbSN0

In So you love c’è il prezioso contributo del violoncellista classico Yo-Yo Ma, una sonata romantica che inizia con un’introduzione del piano della figlia Mary Frances e diventa un crescendo quasi sinfonico con un’imponente sezione d’archi e di violini in contrappunto.

Galicia è un brano raffinato dagli accenti balcanici e sonorità in stile flamenco, incalzanti i cambi di ritmo dove i figli della coppia sono ai cori nel sottofondo musicale.

The case of the Mysterious Squabbysquash vede la partecipazione del musicista cubano Elmen Ferrer, dal tempo veloce che imita l’incalzare del ritmo di un treno tra sonorità rock (Hammond e wha-wha guitar) e violini country-style.

Caramelo presenta il chitarrista Josemi Carmona che con il suo gypsy flamenco iimpreziosisce questo brano molto delicato, quasi un valzer.

East Neuk of Fife molto ritmico è caratterizzato da un marcato stile country & western,

The laird O’Bernersyde è un brano folk tradizionale di James Scott Farmer di particolare bellezza, una sorta di lament tune ben sorretto dal violino di Natalie.

Wish you were near con la suadente voce di Robyn Cunningham invitata a partecipare dopo una richiesta di sottoscrizione da parte dei fans attraverso i social dove fu scelta tra i 200 brani ricevuti e a cui furono invitati a suonare Mike Manny e Kyle Burghout.

Il disco finisce con lo strumentale Voice Memo 3049.

Claudio Giuffrida 


https://www.giannizuretti.com/articoli/natalie-macmaster-donnell-leahy-canvas/

Buona Pasqua

  Auguri di Buona Pasqua ai collaboratori, ai lettori, a chi passa per curiosità! A rileggerci dopo le festività!