28 giugno 2007

“Opera sull’acqua e altre poesie” di Erri De Luca

a cura di Antonio V. Gelormini

Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.

Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle.

Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano.

Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale ancora poco. Considero valore tutte le ferite.

Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere ad un grido, chiedere “permesso?” prima di sedersi, provare gratitudine senza ricordare di che.

Considero valore sapere in una stanza dov’è il Nord, qual è il nome del vento che sta asciugando il bucato.

Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del condannato, qualunque sia la colpa.

Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che esista un creatore.

(Molti di questi valori non ho conosciuto).

Tratto da: E. De Luca “Opera sull’acqua e altre poesie” ed. Einaudi

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27 giugno 2007

Un classico della filosofia

PLATONE
Fedone
Armando Editore, Roma 2007
Pagg 144, Euro 12,00
ISBN 88-6081-149-3
Introduzione e note di Maurizio Schoepflin

Pochi altri concetti hanno avuto tanta importanza e fortuna nella storia della filosofia occidentale quanto quello di "anima", e in ogni fase di questa lunga storia sono stati dedicati significativi contributi all'approfondimento di tale concetto. Uno dei momenti cruciali dell'intero percorso è rappresentato dalla sua fase iniziale, quando il genio greco elaborò una riflessione straordinariamente feconda intorno alla questione della "psiche". Al vertice di questa elaborazione possiamo collocare la dottrina di Platone che, in particolare nel Fedone, seppe sviluppare un discorso sull'anima di impareggiabile suggestività, che per un verso sintetizza il ricco lavoro svolto dai filosofi precedenti e per un altro pone le basi di tutti i successivi ampliamenti che la speculazione occidentale realizzò intorno a questo decisivo argomento. Il curatore, docente di filosofia, saggista e autore di numerosi volumi, nell'agile quanto esauriente parte introduttiva delinea la storia del concetto di anima a partire dagli albori della riflessione filosofica: così presenta la dottrina psicologica presente nei testi orfici, dopodiché segue il percorso tracciato dai presocratici, per giungere poi a Socrate, il primo che definì l'anima come essenza dell'uomo. L'approdo è la trattazione della speculazione platonica sulla psiche, presentata come uno snodo fondamentale, particolarmente complesso e articolato, e come un'elaborazione decisiva per lo sviluppo successivo del dibattito ma nel contempo mai del tutto conclusa, in quanto disseminata lungo l'intera produzione dell'Ateniese, seppure il Fedone ne rappresenti il momento più significativo. L'apparato di note rende la lettura e la comprensione del testo piuttosto agevoli, fornendo riferimenti culturali e chiavi interpretative che ne semplificano l'approccio.

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22 giugno 2007

Whitman, sogno di un carpentiere americano


di Augusto da San Buono


In "Camden 1892", Borges descrive il vecchio Walt Whitman, morente, che giace prostrato e bianco nella sua dignitosa e povera abitazione di Camdem (fu povero per tutta la sua esistenza), e noi lo osserviamo, come dietro uno schermo, mentre "stancamente guarda il suo volto nello specchio", con la mano distrutta dai tremiti del parkinson. Sa che "non è lungi la fine e la sua voce dichiara: /quasi non sono, ma i miei versi ritmano la vita e il suo splendore. Io fui Walt Whitman". E Walt Whitman era l'America, - dirà Pound - con la sua crudezza e il suo fetore enorme. E' la cavità nella roccia che rimanda l'eco del suo tempo. Egli cantò l'era cruciale dell'America, egli ne è stato la voce trionfante. Disgustosa. Orribilmente nauseante. Ma porta a compimento la sua missione fino in fondo. Fu un vero genio, perché ebbe sempre un'esatta visione di che cosa egli rappresentava, di quali fossero le sue funzioni. Sapeva di essere un inizio e non un'opera classicamente compiuta, come dirà nella prefazione ad una delle tante edizioni di "Leaves of Grass" (Foglied'erba): "Questo è il canto che io non vi offro completo, ma che vi accenno appena perché, con robusto esercizio, lo facciate vostro. Io non ho fatto il lavoro, né posso farlo. Siete voi a doverlo compiere e a fare del canto che segue quello che esso è." Ma prima aveva enunciato con chiarezza la propria tematica: "Fra tutte le nazioni comparse in ogni tempo sulla terra, l'americana ha probabilmente la più ricca natura poetica. Qui vi è qualcosa nelle azioni degli uomini che corrisponde ai vasti moti del giorno e della notte. I poeti americani dovranno assommare in sé così i vecchi poeti e i nuovi, poiché l'America è la razza delle razze." E' con lui che nasce il sogno americano, è con lui che nasce la poesia americana, con questo autodidatta, educato ai princìpi della democrazia jeffersoniana, questo illuminista con lo sguardo rivolto a terra, che abbraccia e canta il 'sogno americano' Niente è mai veramente perduto, o può essere perduto. Ma deve affrontare la terribile esperienza della sanguinosa guerra civile, in cui sarà infermiere efficiente dolente e partecipativo, oltre chè cantore. Un 'democratico' costretto ad abbandonare il partito che ha tradito i suoi ideali e che trova nel repubblicano Lincoln una risposta positiva, subito messa alla prova dall'assassinio del presidente (una delle più belle elegie scritte in morte di un presidente), che aveva ristabilito l'unità della nazione. Cresciuto nell'età di Emerson e Thoreau, in un'america agraria che sotto i suoi occhi diventa la terra dei Carnegie e dei Mellon, del capitalismo rampante, e mette alla prova i suoi sogni egualitari. Il "free verse", il verso libero di Whitman - scrive Carlos Williams - era un assalto alla fortezza della poesia in se stessa, una sfida rivolta a tutti i poeti viventi, a spiegare per quali motivi non dovessero anche loro scrivere allo stesso modo. Una sfida che ancora dura, dopo centocinquant'anni, che fa proseliti come Allan Ginsberg: "Dove andiamo, Walt Whitman? Tra un'ora chiudono le porte? Dove si volge questa sera la tua barba?


"Walt Whitman ha voluto fare per l'America - dice Pavese - quello che i vari poeti nazionali hanno fatto nei tempi dei loro popoli, e tutto invasato di quest'idea romantica, che lui per primo ha trapiantato in America, egli vede l'America e il mondo soltanto in funzione del poema che li esprimerà nel secolo XIX e tutto il resto al confronto non conta. Egli vive intensamente solo per questa idea, per questa missione. Egli non fece il poema primitivo che sognava, non fu il dio Pan in persona, né il novello Adamo rinato tra noi, ma scrisse il poema di questo suo sogno. Il Song of Myself ( Io canto me stesso) non è forse affatto poesia, ma una delle più stupefacenti espressioni di energia vitale che siano mai entrate in un libro. Io celebro me stesso, io canto me stesso,/ e ciò che io vi presumo devi pure tu presumere.


E in te stesso - gli fa eco Ginsberg - tu celebri l'America, caro vecchio Walt. "Io sfioro il tuo libro e sogno la nostra odissea al super-market e mi sento assurdo. Passeggeremo tutta notte per strade solitarie? O gli alberi aggiungono ombra all'ombra, luci spente nelle case, ci sentiremo soli. Cammineremo sognando la perduta America dell'amore lungo automobili azzurre nei viali, verso casa nel nostro cottage silenzioso? Ah, caro padre, grigio di barba, vecchio solitario maestro di coraggio, che America avesti quando Caronte smise di spingere il suo ferry e tu scendesti su una riva fumosa a guardare la barca scomparire sulle acque nere del Lete?" E' tornano alla mente i suoi canti dei mestieri, i poemi del lavoro quotidiano, le ballata di Boston, i canti democratici, i Rulli di tamburo, l'elegia in morte del presidente Lincoln, e tutta la sua unica vastissima raccolta di poesie, "Foglie Verdi", quel suo unico libro circolare, in cui, - attraverso lui, questo suo profeta di Long Island, questo carpentiere, tipografo (stampò il libro a sue spese e lo fece con le sue mani), questo predicatore, giornalista, straordinario infermiere della guerra di secessione - l'America canta se stessa. E' un inno appassionato e audace, tumultuoso e veemente, che ha ritmi e cadenze di vasto respiro, tali da esprimere quel senso di libertà assoluta, di comunione con la natura e l'umanità, di esaltazione delle forze fisiche e spirituali dell'uomo ("Ascolta, disse l'anima, scriviamo per il mio corpo"), che racconta dell'aquila e della nuvola ambigua, delle ali imperiose e dello spazio istantaneo sorrisi elampi e lacrime. E sogni, atomo di felicità e lenzuoli funebri , dell'uomo che ode se stesso motore in una nuvola, torri altissime e spettri di fumo. Questo è anche il libro dell'esplodere dell'eros, della la vita e della morte viste da vicino, in cui nasce una poesia nuova che forse non è poesia, ma è vita, vita profondamente radicata nelle vaste pianure nordamericane da cui ogni singola "foglia d'erba" trae energia, una poesia non poesia, intensa, profonda, mistica, che ci dice delle possibilità ideali dell'individuo e del mondo in cui vive, che celebra la divinità della natura umana e il miracolo della realtà quotidiana.


Un libro circolare, dicevamo, che era, anche fisicamente, l'autore medesimo, Walt Whitman (chi tocca questo libro, tocca un uomo), un libro che egli scrisse vivendo la propria vita, un libro che sarebbe cresciuto parallelamente al suo paese ("Alla lunga, il mondo farà quel che vuole del libro"), anche se allora, appena stampato, (siamo nel 1855, centocinquanta anni fa) se ne vendettero trenta copie. I critici lo ignorarono. Solo Emerson gli scrisse una lettera entusiasta, ma lo rimproverò poi per averla resa pubblica. Pensate che in quello stesso anno furono invece vendute 50 mila copie di Longfellow, e un milione di copie vendette il signor Thimoty Shy Arthur, autore di storie edificanti e di appelli contro l'uso degli alcoolici. Walt fu sempre visto dai contemporanei con fastidio, sospetto e scandalo (era omosessuale, e il suo linguaggio era costellato di metafore sessuali). Ho mangiato e dormito con te, il tuo corpo non è più solo tuo né ha lasciato il mio corpo solo mio. Mi dai il piacere dei tuoi occhi, del tuo viso, della tua carne, passando, in cambio prendi la mia barba, il mio petto, le mie mani. Walt, inoltre, era uno che si presentava senza cravatta e in tenuta da lavoratore, un oratore-poeta che denunciava l'instabilità politica del paese e difendeva gli ideali democratici, ma nell'intimo viveva la crisi dell'isolamento, dell'idea della morte e arrivava a prendere coscienza delle sue tendenze omosessuali e autoerotiche, che riuscì a canalizzare , o meglio a sublimare in sentimenti di fratellanza umana, compassione e comprensione. Ma il fastidio e sospetto perdurano a lungo, come aveva previsto Williams: infatti il suo centenario della morte (1992) fu festeggiato in sordina nel suo paese, e solo una esigua parte della critica accademica, pur restando le sue poesie nelle antologie scolastiche, continuò ad occuparsi di lui. E nemmeno oggi, a centocinquant'anni dalla pubblicazione di Leaves of Grass, esattamente il 4 luglio 1855, la Independence day, la festa nazionale degli Stati Uniti questo libro che avrebbe segnato la presa di coscienza della letteratura americana, il poema americano per eccellenza, che segna la nascita della nuova poesia americana, dell'età moderna, uno squillo di tromba che avrebbe echeggiato attraverso l'immenso accampamento dell'America, il libro insomma più liberatorio della letteratura americana, che finalmente si svincolava da quella inglese, è pienamente compreso, tenendo comunque conto che l'arte di Whitman non è affatto facile e sfugge a troppo precise definizioni.

Questo bardo visionario e inquieto poeta dell'io e della collettività, del presente e della democrazia cosmica e panteista, questo poeta della natura e dei sensi, questo autodidatta che aveva smesso di andare a scuola all'età di 11 anni e aveva fatto tutti i mestieri, incontrò allora (e anche in parte oggi) l'ostilità degli accademici, accaniti a guardare con una lente di ingrandimento le tessiture strofiche delle sue odi che andavano guardate invece come strade maestre, distese marine, conglomerati urbani. Dai campi lunghi ai primi piani, dalle montagne rocciose ad una culla dondolante, egli seppe rendere qualsiasi cosa poetica, semplicemente elencandola, come disse Ruben Dario, che l'aveva conosciuto: nel suo paese di ferro vive il grande vecchio, il bel patriarca, santo e sereno, il corrusco cipiglio, d'olimpico splendore comanda e conquista con nobile incanto. La sua anima pare specchio dell'infinito, le sue stanche spalle sono degne di manto, come arpa scolpita da una vecchia quercia, come nuovo profeta canta il suo canto. Sacerdote che il divino soffio alimenta annuncia nel futuro un tempo migliore dice all'aquila: «Vola», e, «Voga» al marinaio e «Lavora» al robusto lavoratore, così va il poeta sulla sua strada con superbo rostro imperiale! I sogni, i sentimenti, i progetti, il camiciotto da carpentiere, il verme e la farfalla, la lucciola e le stelle, gli attrezzi degli operai, le carrozze, i battelli i fiumi, le città e i bambini, gli amanti che si abbracciano e il miracolo quotidiano del filo d'erba che si erge verso il cielo in sintonia con l'universo e in contraddizione con tutto ciò che cade e muore, anche se è solo apparenza, perché tutto è un eterno presente e un eterno divenire.
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18 giugno 2007

I tre tavoli di Pascoli

di Augusto da San Buono

Come sempre, ogni anno, nella casa Pascoli, in località Caprona (Lucca), a Castelvecchio Pascoli, in Garfagnana, vengono allestite una serie di manifestazioni in omaggio al grande poeta romagnolo, che continua a trovare estimatori anche nelle nuove generazioni, in un contesto sociale quanto mai cinico e nichilista, dove sembrava per sempre bandito quel suo quasi costante “lacrimare” nella “Valle del buono e del bello”.

Uno dice Pascoli e pensa alla cavallina storna, al grembiule nero e al colletto bianco, alla notte di san Lorenzo, col tremolio di stelle, o di uno stelo sotto una farfalla, alle illusioni finite in fretta e al ronzio di un’ape attorno al fiore, ai campi che svaniscono nell’onda sonora delle campane, ai silenzi, ai pezzetti di nulla e allo stormire di cipressi, alle voci e ai canti assorbiti nella malinconia del paesaggio, la piuma che esita o che palpita leggera nel nido abbandonato, il vento che piange nella campagna solitaria, alla panchetta e alla tessitrice che piange, ai versi come spartiti musicali e alle sere magiche e tenere, con i temporali che muoiono in dolce singulto, ai vespri odorosi di fieno; uno dice Pascoli e pensa a una serie di gadget dell’anima e della nostra lontana infanzia, tutte cose che saranno pure prodotte – come afferma Sanguneti - da una sorta di “macchinetta sadica di produzione liriche per lacrime ad usum infantis”, ma che tuttavia ti arrivano per le scorciatoie del cuore, come avviene per tutte le cose romantiche. Uno dice Pascoli e rivede Aldo Vallone da Galatina, una sera d’estate di tanti anni fa all’Anmi di Gallipoli, dove aveva tenuto una magistrale, memorabile “lectio Dantis” , che ti sorride e dice bonario: tutti i poeti italiani contemporanei, non solo i crepuscolari, devono qualcosa a Pascoli (Ungaretti, Betocchi ,Gatto, Saba e perfino Montale) per quel procedimento stilistico che si definisce nel caricare di un senso cosmico, di male cosmico, illuminante, un umile oggetto.

Pascoli non è un piagnone, come viene dipinto, è uno che sta sul limite di un dramma altissimo, n’è anzi la voce o la coscienza più proba e veritiera. Il suo – più che privato - è un dramma di civiltà e di cultura, tanto più sofferto e cupo quanto più ingenuo e intemperante si mostrò il poeta nell’assumerlo”. Ero poi andato a trovarlo nella sua casa-biblioteca-museo di Galatina (c’erano almeno diecimila volumi, moltissimi su Dante, in tutte le lingue) insieme al suo vecchio amico Felice Leopizzi. Il prof. Vallone mi accolse con una antica preziosa edizione dei “Canti di Castelvecchio” (una rarità), facendomi una lectio tutta pascoliana: “Pascoli non è Dante, la cui poesia giganteggia proprio dinanzi alle inquietudini e ai contrasti del suo tempo; né Leopardi che, pur nella sventura e nella miseria, respinge ogni compromesso; Pascoli è il poeta di questo limite, il poeta di quel momento storico tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento della nostra civiltà, con una concezione straordinariamente primitiva e ingenua del mondo e dell’umanità. Per lui non ci sono che buoni o cattivi, onesti o disonesti, infelici e gaudenti, miseri e ricchi. Il male è là pronto a distruggere il bene, a soffocarlo e a dominarlo. Il male è un grande residuo della crudeltà che circola per tutte le vene della società umana. Gli uomini non sono nati belve, ma lo divengono. E’ la società che lo esige. E il male è un po’ ovunque, colto più come imminente insidia che come forza cieca, più come offesa che bruta violenza, ma colpisce sempre dove l’innocenza è più mite, la fiducia più serena. Il grande male dell’universo-mondo è tutt’uno, nel sentimento e nella voce del poeta, col male che lo ha colpito negli affetti domestici. La poesia, secondo lui, tanto è più valida e operante quanto più giunge a migliorare e non a guastare, a creare amore e bontà comprensione… E’ per questo che la sua poesia, il suo genuino pathos, l’ingenua commozione delle cose, la sorpresa felicità dell’umile, rimarranno ancora come strumento pedagogicamente efficace e insostituibile per gli studenti di tutte le classi e le età. Ma per mettere in versi il mondo che ci circonda, cogliere il battito oscuro dell’universo in una sorta di improvvisa immedesimazione dell’anima, per risuscitare in noi l’emozione, la meraviglia di memorie ancestrali, far uscire fuori quella voce nuova della fanciullezza, non poteva adoperare le parole vecchie , convenzionali, sclerotizzate, trite e ritrite, bolse, arcadiche, di una lingua poetica in estrema decomposizione, schiava com’era del peggiore petrarchismo.

Ed ecco allora che Pascoli decide di costruire lui una nuova teoria linguistica basandosi sui manuali di Max Muller e Spencer, eccolo dare uno scossone a tutto il vecchiume della cultura italiana, con un linguaggio nuovo, che liquida definitivamente il vocabolario aulico e raffinato della tradizione lirica italiana, rendendolo più immediato e aderente alle cose, costruito spesso su termini tecnici e dialettali, su onomatopee, su modi usuali e discorsivi, un linguaggio all’apparenza dimesso, ma che intende invece farsi allusivo e mira a suggerire più che a dire, e che si carica di significati simbolici”.

Grazie, Professore. Però, certo che a vederlo nelle foto d’epoca, tarchiato, con l’epa sporgente, il collo taurino, la testa forte sotto il cappello largo e molle, i baffoni spioventi, vestito come un bonario fattore della bassa padania, Giovannino Pascoli somiglia più a Peppone di memoria guareschiana che non a uno che ha vinto per ben tredici volte il prestigioso Premio Certamina hoeufftiana di Amsterdam per carmi in versi latini (con quei soldi ci si è comprato un poderuccio e una casa a Barga); uno che sa tutto di Omero e dei lirici greci, di Virgilio e Dante, dei maudit francesi, di Baudelaire e Mallarmeè, che conosce i trattati d’astronomia,di psicologia e di botanica; uno che ha elaborato una lingua tutta speciale, inconfondibile, “una koinè, un fior fiore di linguaggi materni, sorta di volgare trascendentale“ (Garboli) e “che dimostra come l’arte sia magia pratica”, parola di Gabriele D’Annunzio. Per paradosso – dirà Sansone - un poeta tutto italiano come lui diventerà una delle espressioni più significative della nuova coscienza europea.

Ed eccolo, il letterato, l’umanista Pascoli, - seduto ad uno dei tre leggendari tavoli, che si è fatto appositamente costruire nella sua casetta di Barga, quello della “poesia in lingua italiana” (gli altri due sono per il latino e per gli studi danteschi e ognuno ha i suoi ferri del mestiere), - che diventa il più deciso eversore della nostra vecchia lingua poetica. Fa il come il cacciatore di Hugo, cerca di prendere pensieri, o il maestro del bricolage, con una strategia consapevole, da conoscitore di scienza, antropologia, mito e religioni. Ma fa poesia come il contadino che fa il vino, o un buon artigiano, un falegname, un fabbro, una ricamatrice, alle prese con la magia della loro creatività. Costruisce un tessuto ritmico e timbrico tra i più sapienti e sottili, dove la trama e l’ordito sono allusivi, simbolistici, e il gioco delle allitterazioni e delle anafore, non è mai fine a se stesso, ma è sempre teso all’espressione di qualcosa che altrimenti non potrebbe essere detto, puntando quasi tutto sopra il registro onirico, ipnotico e visionario, che sa dar voce alle ombre, al silenzio e alla tristezza che è nelle cose. E via via, s’accentua in lui questo sentimento doloroso della vita col suo mistero immenso, lo smarrimento, lo sconforto, la sofferenza che è alla radice del nostro vivere.

Pascoli ripiega in se stesso, s’isola nella sua “casetta” in campagna, nel “nido”, dove trova rifugio contro le minacce degli uomini a lui ostili, ed è sempre più costretto a vivere con le sue metafore ossessive: parla sempre più spesso con i morti – soprattutto la madre, figura immanente, - e accentua il rapporto nevrotico e di repressioni sessuali sublimate con le sorelle Mariù e Du, (Maria e Ida) , alle quali scrive lettere da innamorato: “ Vi mando una delle foglioline mandate da voi, alla quale ho dato un bacio. Baciatela e le nostre labbra si incontreranno”. Ma con l’andar del tempo quella situazione, accettata da Maria, futura custode della memoria di Giovannino, risulta gravosa per Ida, che scappa di casa e se ne va a Sogliano, per tornare con il fidanzato, che sposerà l’anno dopo, nel settembre 1895, procurando al fratello forse la più grave tempesta psichica della sua vita. Costretto a Roma da un incarico ministeriale, Pascoli è preda di continue crisi di sconforto e di pianto, abbrutito dall’alcool, piomba nella più cupa disperazione per la distruzione del “nido” operata dal “tradimento” della sorella e nulla sembra ricondurlo alla ragione. Scrive da Roma nel giugno del 1895: “Come farò a dormire questa notte? Queste altre notti? come passerò questi giorni? Oh, povero Giovanni! Un bacio, Du, un bacio Mariù. Addio, cara Du. Perdonate la mia breve lettera. Non posso farmi vedere a piangere… ”Siamo ora all’uscir dall’infanzia, si può dire, e io sono vecchio e malato”. Giovannino esplode in un pianto, in un parossismo d’angoscia che rivelano la consapevolezza di un irreparabile fallimento esistenziale. Quella religione domestica e solipsistica su cui aveva fondato i fragilissimi equilibri della propria esistenza, andava in disfacimento. “C’è un gran dolore e del gran mistero nel mondo, e non basta a consolarci la vita semplice e familiare, né basta la contemplazione della natura in campagna per liberarci dal nostro immutabile destino”…

Si riaffaccia in lui il sentimento del nulla, il silenzio, l’assenza, il vuoto pauroso che tutto avvolge, di matrice leopardiana e “ mallarmeana”. Giovannino avverte il peso della grande solitudine, quella solitudine che non può essere consolata neppure dall’affetto dell’ultima sorella rimastagli accanto, l’adorata Maria: “Ti splende su l’umile testa la sera d’autunno… Stringiamoci e facciamo in modo che la nostra unione non abbia neppure un minuto di malcontento… Con te vivere, con te morire!..Una cordina al tuo destino, una camerina vicina a me, e sempre insieme… La mia felicità sta in te. Tu mi ami, io t’amo… Mi resti solo tu…” .

A Maria, che appare in fotografie accanto al fratello, quasi in disparte e di contrariata, con un fazzoletto bianco in testa, che copre e mortifica le sue abbondanti chiome nere, sempre vestita da massaia rurale, con veste larghe che mortificano le sue forme prosperose; a Maria che amò talmente il fratello non solo da sacrificargli la sua vita famigliare, ma fino al punto da studiare latino e greco per seguirne la sua attività, - Giovanni dedica una delle poesie più belle (e sensuali) della sua produzione, la “Digitale purpurea”. Ma neppure Maria lo salva dal fallimento, dallo scacco, dalla sconfitta della vita, né il forzato itinerario di chi, come lui, ha scelto la contemplazione e la purificazione piuttosto che la vita attiva. Ed ecco allora che accanto al bonario professore cordiale, versatile, sorridente, agreste, all’uomo che sorride ai fotografi e sembra in pace con il mondo, che contempla con serenità l’orizzonte limitato del proprio campo e si gode placidamente la sua quiete domestica, profilarsi l’altro Pascoli, quello “cosmico”, che guarda con angoscia l’immenso cielo stellato, infinita ombra costellata, popolata di spazi silenziosi che ruota perennemente e paurosamente con il piccolo globo opaco della Terra; sente di girare nello spazio, con la propria mortale fragilità, in una profonda, insondabile solitudine che non si riesce a sopportare: “Io sono molto afflitto. Sempre solo! solo! solo! solo, colmo di pensieri…! Solo ad ascoltare i battiti del mio cuore”. Cosmo e umanità, questi i due termini essenziali di gran parte delle sue ultime meditazioni: “E la terra fugge in una corsa/vertiginosa per la molle strada / e rotolava tutta in sé attratta / per la puntura dell’eterno assillo.”

Crolli terrificanti, cataclismi paurosi dell’universo, corse folli degli astri, scontri spaventosi, incendi immani, pietrificazioni ed esplosioni astrali… Non è il Pascoli consueto del fanciullino quello che ci viene incontro sul volgere della sua esistenza, ma un poeta ossessionato dalla presenza dell’abisso cosmico. Lo spalancarsi dell’universo in vastità sconfinate, in cui la terra sprofonda e scompare, comunica al poeta un senso di smarrita infinita solitudine, che sembra sfociare in una nostalgia di cieli spirituali, in inquieto desiderio di Dio. Gli incontri con la figura centrale della madre morta si fanno più frequenti: Mia madre era al cancello/. Che pianto fu! Quante ore!/ Lì, sotto il verde ombrello/ della mimosa in fiore. L’abisso spaziale a cui guarda Pascoli con terrore diventa la misura dell’assenza di Dio: o quanto meno dell’inappagata ricerca di Dio. “E’ inutile che noi discutiamo di religione – aveva detto all’amico Lorenzo Saponaro - Noi crediamo tutte e due alle stesse cose, con questa differenza che tu credi per il dogma e io no”. .Ma non era vero. Aveva smarrito il conforto della religione tradizionale, ed era privo di ogni energia speculativa.

E’ un’anima nella penombra, preso da questa sconsolata paura cosmica, che ricorda una sorta di profezia di Merezskovskij: “Tutta la nostra stirpe all’alba del secolo aspetta la morte “. Ora Giovannino contempla il deserto leopardiano che illumina la rovina e la morte. Aspetta ormai solo la morte, per un male inesorabile, ma s’interroga ancora sul “dopo”.

Invoca - inutilmente - la madre:“O madre , fa ch’io creda ancora/ In ciò ch’è amore, in ciò ch’è luce! O madre, a me non dire Addio, /se di là è, se teco è Dio!. Sfioriva il crepuscolo stanco/ Cadeva dal cielo una rugiada. Non c’era avanti a me, che il bianco/Della silenziosa strada”.

E‘ a Maria, unica fedele compagna di tutta una vita , sorella-madre-madonna, che pochi giorno dopo, il 6 aprile del 1912, alle 1 7,30, vengono rivolte le ultime rotte accorate parole di Giovannino, consumato dalla cirrosi epatica, ormai morente:“Sotto terra… sotto terra… peccata… peccata… prete… prete…prete… Dio mio!...Dio Mio… madre!... madre!... madre!... Mariù… Mariù… Mariù…”.

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"Foglie d'erba" di Walt Whitman

W. Whitman
Foglie d'erba
Mondadori
Ieri pomeriggio sono andato all’Iper di Varese e lì, vicino alla frequentatissima sezione DVD, ho trovato (con lo sconto riservato ai libri che nessuno legge più) una vera pietra miliare della letteratura americana: l’edizione Mondadori della raccolta di liriche “Foglie d’erba” di Walt Whitman, giornalista del “Long Island Star”, poeta fra i massimi esponenti del XIX secolo, e fondatore della testata “Brooklyn Freeman”. Whitman si dice raggiunse la maturità intellettuale solo dopo un lungo viaggio intrapreso verso il sud degli Stati Uniti, che nella sua attività di cronista lo portò fino a New Orleans, fra le colonne del “Crescent”.

Mi permetto di suggerire questo acquisto insolito – magari per un regalo da farsi ad amici che lo possano apprezzare - perchè in “Foglie d’erba” si respira veramente l’aria di un’America con il punto esclamativo!

Le liriche, con testo a fronte tradotto da Giuseppe Conte, hanno l’afflato potente di un uomo che visse in un periodo già di piena espansione capitalistica, ma che non esitò a ritagliarsi un angolino di spiaggia della sua isola natia – Long Island – per immergersi nella lettura del Vecchio e del Nuovo Testamento, di Dante, Omero, Ossian, Shakespeare, come se in queste letture trovasse davvero qualcosa di eterno ed al tempo stesso di assolutamente banale, oserei dire quotidiano, ritmico e scontato.

Gli argomenti della poesia di Whitman sono diversi, ma noterete che il filo conduttore è sempre lo stesso. Io ve ne propongo una, bellissima fra quelle che vale la pena di leggere ad alta voce, ma vi assicuro che alcuni passi – sparsi qua e là nel volume - vi toglieranno la parola per la bellezza e le verità che nascondono. Non ci vogliono più di due giorni a leggere tutta la raccolta, ma se lo farete con lo spirito giusto alla fine concorderete con Wittgenstein quel giorno che scrisse “su ciò che non si può dire bisogna tacere”.

For You O Democracy

Vieni, renderò il continente indissolubile,
creerò la più splendida razza su cui il sole abbia mai brillato,
renderò le terre divine e magnetiche,
con l’amore dei compagni,
con l’eterno amore dei compagni.

Pianterò la fratellanza, folta come gli alberi lungo tutti i fiumi d’America,
sulle sponde dei grandi laghi e ovunque nelle praterie,
renderò inseparabili le città con le braccia l’una al collo dell’altra,
con l’amore dei compagni,
con il virile amore dei compagni.
Per te questi versi da parte mia, Democrazia, per te o donna mia!
Per te, per te io canto.

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(A. di Biase)

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15 giugno 2007

I racconti di Versailles – 8 – di Bruna Alasia

LA ROSA E LE SPINE
Racconto ottavo

A partire dal 1772 il Beneamato, che aveva più di sessant’ anni ed era per l’epoca un signore davvero anziano, abbandonò i pranzi in pubblico, relegandoli a rare cerimonie ufficiali, e si ritirò in pace nei suoi “piccoli appartamenti” al Petit Trianon, in mezzo al verde con l’entrata principale sul giardino, costruito dall’architetto Gabriel per la precedente favorita, la marchesa di Pompadour. Ora, lontano da occhi indiscreti, da una servitù troppo numerosa e pettegola, dalle fatiche mattutine e serali del “lever” e del “coucher”, il re si apprestava, in questa dimora perfettamente regale ma raccolta, a trascorrere l’autunno della vita sotto le carezze di Madame du Barry, la quale lo venerava come un santo protettore. Luigi XV aveva nel suo studio il primo secretaire a cilindro mai realizzato, iniziatore di una moda e di uno stile nel suo nome, ma accadeva sempre più raramente che ricevesse i ministri e firmasse missive e documenti e quando avveniva non ci metteva granché impegno.
Ritta di fronte a lui, accanto al camino in marmo violaceo, ben assortita tra mobili e suppellettili rococò, quel giorno madame du Barry lo apostrofò amabilmente:
- Le pratiche per il mio divorzio a che punto sono cheri?
- Non c’è da preoccuparsi se ritardano un po’… farò il possibile per il matrimonio che io desidero quanto voi… - rispose guardandola rapito, con occhio che faceva pensare a una demenza appena accennata tra le pieghe di un sorriso sempre più esangue.
Madame du Barry gli andò vicino, si inginocchiò, posò il capo sulle sue gambe baciando quel ginocchio ossuto: “Tra poco sarò regina di Francia”, pensò sentendo che a Luigi doveva tutto, più che alla stessa madre. Il quel momento il suo potere era infatti all’apice e sul viso dei sudditi leggeva lo stupore e la paura di trovarsi all’improvviso di fronte a una sovrana. A riprova, il padiglione che il Beneamato, dopo averle regalato il castello di Louvaciennes, stava allestendo per lei era di un lusso impensabile e mai eguagliato dalle altre favorite. In quel momento la cagnetta di madame, una graziosa blenheim spaniel bianca e bionda, venne ad accucciarsi accanto.
- Dorina… - la du Barry la sollevò – vieni da maman su…
Le accarezzò la punta umida del naso controllando che il collare d’oro tempestato di pietre preziose, dono del re Gustavo di Svezia, fosse sempre al posto suo.
- Il mio boudoir è magnifico… - disse la giovane – è quasi ultimato sapete? C’è una tappezzeria bianca, tutta di broccato… dovete venire a vederla.
- Lo farò… - rispose il sovrano che in realtà preferiva la vita sedentaria e gli bastava l’estasi dell’amante di fronte ai regali.
- Quando il padiglione sarà finito daremo una festa, voglio che tutti ammirino quello che voi avete fatto… sarà grandiosa e degna del re Sole!
- Lo ritenete proprio necessario?
- Certo, perché no?
- Non sarebbe meglio aspettare il vostro divorzio?
- Cosa c’entrano le due cose?
- Pensavo…
- Vi prego Maestà, permettetemi di dare una festa e poi… poi ci ritireremo nel nostro amatissimo Lucien… - con tale vezzeggiativo lei definiva la residenza principesca di Louvaciennes.
- Non me la sento di spostarmi da Versailles…
- Vi prego Maestà… - insisté dolcemente - diamo una festa grandiosa e fuggiamo a Lucien…
- Lucien Lucien… - il vecchio re le fece una carezza con un sorriso così stanco da sembrare ebete.
***
Accanto alla finestra che illuminava le pagine e lasciava entrare la primavera nel candido e sontuoso boudoir della du Barry, quel pomeriggio una lettrice recitava alla contessa la “Relazione della festa di Versailles del 18 luglio 1668” scritta da André Felibien, accademico del re Sole.
- … sulla scena del teatro – interpretava con enfasi – fu allestito un magnifico spuntino, con arance del Portogallo e ogni sorta di frutti sistemati a piramide e pressati all’interno di trentasei cesti, che furono serviti a tutta la corte… Nel frattempo, il signor Launay, intendente dei Minuti Piaceri e degli Affari della Camera, distribuiva a tutti dei libretti stampa che descrivevano il soggetto della commedia e del balletto…
Madame du Barry alzandosi di scatto e schioccando le dita la interruppe:
– Voglio qualcosa di più, voglio centinaia di ballerini, di cantanti, i trucchi migliori dei teatri di Parigi! L’inaugurazione del mio padiglione dev’essere qualcosa di memorabile… - col pensiero al divorzio aggiunse piano - di più adatto a una regina di Francia…
Solo quando il gran cerimoniere le illustrò lo spettacolo finale, dove troneggiava una sorta di enorme uovo pasquale che si schiudeva lasciando fuoriuscire un cupido munito di arco e frecce, si calmò e si ritenne soddisfatta. La festa rappresentava la consacrazione di ciò per cui aveva lottato, significava per lei il trionfo della sensualità, della bellezza, del piacere, delle qualità individuali sul lignaggio e dell’amore sul potere: l’apice del suo riscatto sociale. Al ricevimento erano attesi gli esponenti più eminenti della corte e con essi anche le dame che solo fino a qualche mese prima la denigravano. Madame du Barry seguì i preparativi da vicino, volle che le riferissero su tutto, nell’attesa, come aspettasse l’ incoronazione, le parve che i giorni fossero lentissimi.
Ma la vita ha i suoi cicli e i fasti effimeri non resistono a lungo: in quel mese di marzo del 1772, quando tutto fu pronto, all’ora fissata, malgrado il cielo limpido, l’aria non fredda e la giornata senza imprevisti, delle centinaia e centinaia di invitati ce ne erano solo una trentina tra i più intimi e meno importanti. “Che stranezza!” penso la du Barry, aggirandosi nervosamente per le splendide sale appena inaugurate, dando ordine comunque ai musicisti di iniziare nella speranza che movimento e allegria facessero da richiamo per i ritardatari, ma non fu così. Ora vedendo che anche Luigi XV non compariva cominciò ad allarmarsi. Chiamò le dame fidate, i dignitari favorevoli alla sua ascesa. Nessuno. Decise di mandare al sovrano un messaggio per riferirgli quanto stava accadendo ma un’idea la bloccò: e se fosse stato il segnale di una caduta non considerata? Un complotto contro di lei? E di colpo, cosa mai presa in considerazione, l’idea che il re, suo unico scudo, fosse mortale come ogni uomo, gelò le sue vene.
***
La festa non riuscita recava la premonizione che Jeanne Beςu, in arte contessa du Barry, passata dalle braccia di un seducente “maquereau” a quelle del re, con l’avanzare della vecchiaia e della malattia di Luigi XV avrebbe perso i sostenitori: il suo smacco fu presto sulla bocca di tutti e influì sugli equilibri politici. Percorsi dal vento del “si salvi chi può” i cortigiani, come i moderni parlamentari, cambiarono bandiera indirizzandosi al più forte: in quel momento i giovani delfini. Si rafforzarono così le loro fazioni e Maria Antonietta, che aveva dovuto umiliarsi a superare antipatie personali, non poté che rallegrarsene. “La du Barry è agli sgoccioli!” pensò. Costatando per di più come il conte di Provenza, malgrado le ripetute vanterie sessuali, non avesse messo al mondo eredi, cominciò a prendere la sua condizione di illibata con più fatalismo e a sperare in segreto che anche il matrimonio dell’ultimogenito, il bel conte di Artois, si rivelasse sterile.
Il grasso e spocchioso Luigi Stanislao Saverio conte di Provenza, trascorreva molto tempo con il fratello e la moglie, spesso giocando a carte con Maria Antonietta. Un pomeriggio, durante una partita a “piquet” se ne uscì trionfante:
- Sapete cosa scrivono i libellisti della du Barry?
- Cosa? – chiese ansiosa la delfina.
- Parlano dei suoi più grandi piaceri…
- Quali?
- Il non far proprio niente o l’essere impegnata a imbellettarsi!
Scoppiarono in una risata divertita.
- L’avete letto sulla Gazzetta? – domandò Maria Antonietta
- Ma no… si dice in giro…
- Il re che ne pensa ?
- Il re – sbuffò il conte di Provenza – ormai non c’è più col cervello…
- Già… proprio negli appartamenti che ha donato alla du Barry è stata sbandierata una lettera del principe Rohan al duca d’Aiguillon, nella quale si parlava malissimo di mia madre e della spartizione della Polonia!
- Comunque il divorzio non le è stato concesso – s’intromise il futuro Luigi XVI che fino a quel momento aveva seguito in disparte la conversazione.
- Per fortuna… – sospirò Maria Antonietta senza staccare gli occhi dalle mani del cognato, come colta da un pensiero - vedo che non avete più segni sulle dita… state guarendo?
- Sto bene… - si ritrasse imbarazzato Luigi Stanislao, che in realtà da mesi soffriva di sfoghi misteriosi sulla pelle e “umori al sangue”.
- Fate vedere…
Prese tra le sue quelle tozze falangi, contenta di saperlo impotente e malato, finse grande tenerezza e gliele accarezzò.
- Siete in ottima forma! Vostra moglie ne godrà… - fece civettuola.
Il conte di Provenza diventò di brace. Luigi Augusto sentendosi escluso da quelle confidenze complici, sempre più geloso e irritato verso colui che non perdeva occasione di rimarcare la sua mancata virilità, colpì il fratello sulla spalla con il frustino.
- Ahia! – esclamò Provenza ma, accorgendosi di aver fatto una buona mossa, raccolse le carte rivolto alla cognata - Sto vincendo, graziosissima madame…
Di nuovo un colpetto sull’ omero.
- Che vi prende? – sbottò Provenza fissando adirato il delfino.
- Smettetela… - si intromise Maria Antonietta.
- State irritando vostra moglie – si accodò l’altro.
Improvvisa una terza frustata. A questo punto Luigi Stanislao si avventò sul maggiore: entrambi ruzzolarono avvinghiati sul pavimento mentre la delfina gridava. Provenza sferrò un pugno micidiale: il futuro re si toccò il naso accorgendosi che sanguinava e inferocito glielo restituì.
- - Basta! Basta! – frapponendosi tra i litiganti con il frustino in mano, Maria Antonietta lo torse e lo spezzò. Si fermarono – Vergognatevi! - prima di andarsene strillò al marito - Con voi i conti li faremo dopo!
***
Alla morte del duca di La Vauguyon, Luigi Augusto si era preso la libertà di far installare nei suoi appartamenti una vasca da bagno: il suo tutore, così come l’aveva messo in guardia dall’abbandonarsi al sesso gli aveva istillato la paura e la vergogna della propria nudità e detestava l’igiene, anche la più elementare. Se La Vauguyon fosse stato vivo Luigi non avrebbe indugiato, come in quel momento, nella grande tinozza foderata d’argento piena di acqua calda, schiumosa di sapone di Marsiglia e di Savona, non avrebbe chiuso gli occhi con il capo sul bordo, rilassato, col camicione incollato alla pelle. Faceva il bagno solo prima di coricarsi con Maria Antonietta: il suo corpo bianco, con le natiche pesanti e il ventre sporgente, non gli piaceva, si sentiva brutto e profumandosi trovava sicurezza. Quella notte la Delfina sarebbe venuta in camera sua: incombenza angosciante perché la corte, ormai da quasi tre anni, era in trepidazione per un erede. Quando ai medici aveva detto che i tentativi di “consumare il matrimonio” fallivano a causa di sensazioni dolorose al pene, la diagnosi fu “fimosi” e gli si prospettò la circoncisione. Rabbrividì pensando ai decessi per interventi non riusciti, al dolore fisico di un taglio nella carne viva. Provò rifiuto della moglie ed evitò di incontrarla. Quel giorno però aveva deciso di convocarla nel suo letto perché c’erano novità importanti. Dopo aver preso la limatura di ferro, prescritta dal medico per diventare focoso, dopo quel bagno piacevole come liquido amniotico, Luigi Augusto sprofondato tra cuscini, avrebbe dormito volentieri ma si rizzò a sedere all’apparire della consorte.
- Buonasera madame…
Allontanata la cameriera, lei salì sull’alto talamo e si distese accanto al marito. Rimasero alla luce fioca di una candela galleggiante sull’acqua di un recipiente chiamato “mortaio” per la forma.
- Spegniamo? – chiese la giovinetta
- Sì.
La delfina si alzò, soffiò sulla fiamma, tornò a letto. Erano stati giorni faticosi tra lei, il delfino e Provenza, al quale il primo aveva anche rotto un vaso di porcellana.
- Farete pace con vostro fratello?
- Non perde occasione di ferirmi.
- Migliorerete la situazione con la frusta?
- Ce l’avete ancora con me?
La Delfina non rispose: era solo un modo di predisporsi a una conversazione più importante, che temeva. Ultimamente avrebbe fatto a meno di dormire con Luigi: così stanca, umiliata dal suo rifiuto, timorosa del futuro e nello stesso tempo terrorizzata dall’idea che lui subisse un’operazione. Sapeva che il marito, proprio quella mattina, era stato visitato da Lassonne , il suo primo medico, il quale doveva confermare o smentire i dettami del collega La Martinière, che riguardo all’intervento si era già dichiarato assolutamente contrario.
- Allora? Cosa ha detto Lassonne? – chiese Maria Antonietta in un soffio
- Non c’è bisogno di operazione, non c’è ostacolo fisico al mio problema.
- Davvero?
- Davvero.
Si abbracciarono: che sollievo! Se lo avessero obbligato a un intervento, la ferita psichica sarebbe stata più grave di quella fisica: tutti e due si erano ricordati di Borgogna, il delfino morto in seguito ad infezione dopo un taglio chirurgico. Rimasero in silenzio, l’uno nelle braccia dell’altro: desideravano solo riposare ora e scivolarono senza accorgersene nel sonno.
***
L’abate di Vermond fu raccomandato a Maria Teresa e inviato in Austria quale istitutore di Maria Antonietta attraverso il ministro degli esteri decaduto Choiseaul. Divenuto suo precettore, Vermond aveva seguito la delfina alla corte di Luigi XV dove continuava a non occuparsi della sua istruzione perché il suo massimo interesse, che a Vienna era la partecipazione serale alle riunioni della famiglia reale, gli sottraeva tutte le energie anche in Francia. Figlio del chirurgo di un villaggio, fratello di un ostetrico, si era fatto valere trattando tutti come pari e spesso e volentieri adottando il metodo, incivile ma apprezzato, di relegarli a inferiori. Pian piano era divenuto confidente e consigliere della futura regina e aveva stretto con il conte Mercy, ambasciatore degli Asburgo a Versailles, un’alleanza nota e temuta. In biblioteca, dove si erano trovati quel pomeriggio, il brutto abate Vermond e l’elegante Mercy-Argenteau parlavano della loro protetta. Il profilo del religioso risaltava sgradevolmente contro luce mentre accanto alla finestra diceva a Mercy:
- L’imperatrice Maria Teresa mi ha chiesto di farle avere tutti i mesi una lista di quello che la figlia legge… ma lei non ama applicarsi, vale poco che la si sproni…
- Sapeste quante volte le ha raccomandato di non montare a cavallo e lei continua a farlo…
La luce pomeridiana calava e i fregi dorati sulle pareti bianche, i libri allineati dietro le vetrine, i lampadari come colliers, dissolvevano.
- Sua maestà – spiegò Mercy prendendosi il mento tra le mani – teme che la figlia cavalcando possa compromettere una gravidanza.
- Eventualità che vedo lontana…
- Purtroppo – annuì l’ambasciatore
- Eppure lei sta cercando di avvicinarsi al marito – si scaldò il prelato - pensate che si applica al suo libro preferito “Storia d’Inghilterra” di Hume…
- Mah… - Mercy-Argenteau si fece silenzioso. Florimond Claude conte di Mercy d’Argenteau, dopo aver provato la dolce vita di Torino, San Pietroburgo e Varsavia, aveva scelto Parigi come città ideale. Scapolo impenitente, disdegnava gli sforzi delle suore per combinargli un matrimonio consacrato perché amava la cantante lirica Rosalie Levasseur: alla vista melodiosa del suo seno andava in estasi e si chiedeva come potesse quel tonto di Luigi non cogliere il bocciolo avuto in sorte. Era preoccupato: adorava il lusso e non voleva rinunciarvi solo per colpa di un delfino che non metteva incinta la moglie!
Si volse verso l’abate sospirando:
- – Maria Antonietta è così graziosa… non capisco come non colga questo fiore…
- So che Luigi si sforza, soprattutto da quando non teme di essere operato… - Vermond alzò gli occhi al cielo - preghiamo perché colga la rosa anche se per il momento non ci sono che spine…
La sera avvolgeva il castello che si svegliava con il canto del gallo e si ritirava con la luce. Le candele venivano accese in continuazione solo negli appartamenti reali e il buio incuteva paura.
- Meglio tornare nelle nostre stanze… - disse Mercy Argenteau. Prese l’abate sottobraccio e si incamminarono conversando mentre a Versailles un altro giorno finiva.

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14 giugno 2007

Carlo Bergamini e l'affondamento della corazzata Roma

di Augusto da San Buono

La mattina dell’8 settembre 1943, nell’arsenale di La Spezia, nessuno degli Ufficiali, Sottufficiali e marinai che erano a bordo delle navi della Flotta italiana – ivi compreso il Comandante delle Forze Navali - sapeva che già da cinque giorni, a Cassibile, in Sicilia, il generale Castellano aveva firmato la resa senza condizioni. L’Ammiraglio d’Armata Carlo Bergamini, cinquantacinque anni, uomo colto, intelligente, sensibile, marinaio vero, giunto ai vertici dopo una splendida carriera (aveva fatto la prima guerra mondiale comportandosi con il massimo dell’onore; era stato comandante della corazzata “Cavour”, poi del “Duca degli Abruzzi”, indi della “Giulio Cesare” e della “Vittorio Veneto”, le nostre navi più importanti), era stato nominato Comandante in Capo delle Forze Navali da Battaglia pochi mesi prima, il 5 aprile 1943, in sostituzione del discusso Ammiraglio Iachino, ed aveva issato le proprie insegne sulla grande e moderna corazzata “Roma”, varata nel 1940, con grande fasto, nei cantieri di Trieste. Bergamini era perfettamente consapevole che quell’incarico sarebbe stato terribile e di breve durata, ma forse non immaginava che il destino gli avrebbe riservato il ruolo più duro, più ingrato, crudele e amaro che possa darsi ad un uomo di mare: quello di lasciarsi affondare senza combattere, o quasi. Bergamini non si era affatto esaltato per aver raggiunto il prestigioso e massimo incarico; era un uomo intelligente e molto equilibrato, sapeva benissimo che, in quel difficile momento storico, la scelta su di lui era stata quella “disperata”. Non gli avevano di certo fatto un favore, ma aveva accettato con orgoglio e fierezza la nomina. A Supermarina tutti conoscevano il suo background, sapevano che proveniva da un’antica famiglia di patrioti veneti, anche se era nato nella provincia di Modena, sapevano che suo nonno e i suoi zii avevano cospirato contro l’Austria, che suo padre era stato con Garibaldi a Bezzecca, sapevano che aveva ricevuto un’educazione spartana, dedita al sacrificio e all’amor di Patria. Era l’uomo giusto nel momento giusto, quello più difficile e delicato di una guerra che volgeva al peggio. Era uno studioso (suo il progetto si una centrale di tiro e antiaereo, realizzata in collaborazione con la Società Galileo di Firenze) che sapeva combattere, un uomo di cultura che sapeva comandare, un uomo di carattere e d’iniziativa che sapeva però anche obbedire, un comandante amato dai suoi uomini per la profonda umanità, che avrebbe saputo dare l’esempio anche nel saper morire con dignità, con onore, con fierezza. In realtà, Bergamini era soprattutto un uomo solido, realista, pragmatico, dotato di raro equilibrio e lucido buon senso, che sapeva leggere quelli che erano i segni del destino per l’Italia. “Ormai la guerra è perduta – confidò alla moglie – si tratta solo di perderla nel migliore dei modi, cercando almeno di salvare l’onore. Per questo, forse, hanno scelto me.“ Intanto, a bordo della corazzata Roma, dove si trovava, alle 19,45 la radio lanciò il famoso (famigerato) messaggio di Badoglio. E Bergamini ci rimase malissimo, di merda. Gli sembrò una cosa assurda, incredibile. “Cristo Santo, - si sfogò con il Comandante della “Roma”, Capitano di Vascello Adone Da Cima - possibile che nessuno si sia peritato di avvertire il Comandante della Flotta italiana di quel che stava per succedere, possibile che una cosa di tale importanza e gravità io l’abbia dovuta apprendere dalla radio, come fossi un qualsiasi cittadino... Qui siamo proprio allo sbando più completo... Ora dovremo autoaffondore le navi, non c’è altra soluzione che questa“. “Perfettamente d’accordo, ammiraglio”, disse il comandante Da Cima. “Presto, mettetemi in contatto con Supermarina.” Bergamini parlò poco dopo con l’ammiraglio De Courten, Ministro della Marina, ed era incazzatissimo, l’indignazione correva lungo la linea telefonica e faceva vibrare i fili. “Ma come è possibile che voi non mi abbiate informato di una notizia del genere. E’ una cosa inaudita... ”De Courten cercò di spiegargli che, come ministro, era legato al segreto e che la comunicazione dell’evento era stata fatta dagli alleati in anticipo rispetto al previsto, ma Bergamini lo tempestò di represse contumelie e gli disse papale papale che non avrebbe mai condotto le navi nei porti inglesi, dove si sarebbero dirette , per dare battaglia, fino a poche ore prima. Gli disse che avrebbe dato l’ordine di autoaffondare l’intera flotta. Era l’unica cosa onorevole da farsi. De Courten aspettò che sbollisse, poi gli disse che il re e il Paese chiedevano a lui e a tutta la Marina un sacrificio più grande, un sacrificio amarissimo, quello di adempiere, - e a qualunque costo - alle dure condizioni dell’armistizio e di anteporre ai sentimenti l’interesse supremo della Patria. Occorreva perciò non affondare le navi, ma portarle a Malta entro l’indomani mattina . Ma poiché ormai era tardi, per evitare le reazioni tedesche, l’ordine era di salpare subito e dirigersi a La Maddalena, dove sarebbero giunte poi ulteriori disposizioni. Bergamini non ne volle sapere e insistette nel suo proposito di autoffandore la flotta. Questa era l’unanime decisione di tutta la flotta, ufficiali e marinai compresi, e questo lui avrebbe fatto. Allora De Courten disse che ne avrebbe parlato con Vittorio Emanuele in persona, si recò subito dal re e riferì a Bergamini i termini del colloquio. “Fate sapere a Bergamini che si tratta di un mio ordine personale”, questo aveva detto il re. A questo punto Bergamini tentennò. Un silenzio mortale. “Ammiraglio, so quel che vi costa, - concluse De Courten – ma vi assicuro che ciò che farete porterà in futuro molto giovamento al nostro Paese”. A Carlo Bergamini ora gli si torcevano le budella, fitte di crampi terribili allo stomaco, come sempre gli accadeva quando doveva far violenza a se stesso, al suo modo di essere, ai suoi principi, al suo spirito di purissimo marinaio e soldato. Anche il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, sessant’anni dopo, nel 2003, - nella ricorrenza dell’affondamento della corazzata “Roma”, - disse di aver rivissuto “con passione e sofferenza” quelle ore terribili del 9 settembre, leggendo la documentazione raccolta dall'Ufficio storico della Marina e le testimonianze dei pochi sopravvissuti alla catastrofe. “E' una tragedia che costituisce uno degli eventi più significativi della nostra memoria comune. Immagino il tormento interiore, il dramma che in quelle ore sconvolse l'animo dell’ammiraglio Bergamini che aveva pensato all’auto affondamento della flotta e dopo ore drammatiche decide di ubbidire”. “Obbedisco alla volontà del re”, disse Bergamini all’Ammiraglio De Courten, e fu come se si fosse frustato. Disfatto dalla amarezza, ma ormai risoluto a ottemperare, fece chiamare a bordo della Roma gli ammiragli e i comandanti delle altre navi, e con voce profonda oscura, mortale, ma ferma, disse: “Eseguiremo gli ordini del re. Parlate ai vostri marinai e dite loro che dovranno trovare nei loro cuori generosi la forza di accettare quest’immenso sacrificio.” Alle due e mezza di notte del 9 settembre 1943 la flotta lasciò silenziosamente il porto di La Spezia. Erano 3 corazzate, 6 incrociatori e 9 cacciatorpediniere dirette alla Maddalena. Alle 13 erano già in vista dell’Asinara, ma Supermarina fece sapere che i tedeschi avevano occupato l’isola di La Maddalena e avevano dispostro una trappola per catturare la squadra navale… Bergamini ricevette l’ordine di raggiungere il porto Bona. Allora l'Ammiraglio fece l’inversione di manovra e diresse verso il porto tunisino, ma i tedeschi con una nutrita formazione di Junker 77 preannunciavano l’attacco alle navi. Bergamini volle eseguire alla lettera fino allo scrupolo, le disposizioni contenute nel proclama, e cioè che bisognava reagire solo a eventuali attacchi…. E al momento i bombardieri tedeschi volavano alti, non sembravano affatto prepararsi alla picchiata. Nessuno pensava ad un pericolo imminente. Le navi procedevano zigzagando, con tutte le armi contraree puntate, ma senza sparare. Nessuno poteva sapere che quegli aerei non avevano alcuna necessità di avvicinarsi molto alle navi. Disponevano bombe di nuovo tipo, le “Fritz-X-1”, munite di propulsione a razzo, di radiocontrollo e di un altissimo potere perforante che potevano essere lanciate da grande distanza, fuori dalla portata controarea. Quelle bombe radiocomandate a spoletta ritardata avevano la capacità di scoppiare dopo aver attraversato i ponti corazzati. E alle 15,30 del 9 settembre, due di queste bombe erano state lanciate sulla nave ammiraglia, la corazzata “Roma”. Quando le vedette scorsero una strana fiammata, il fuoco contrareo si scatenò, e furono abbattuti due junker, ma le due bombe, da 1500 Kg ciascuna, - una sotto la chiglia della nave, l’altra tra il torrione di comando e la torre trinata 381, deflagrarono insieme alla Santa Barbara, e per la supercorazzata di 47mila tonnellate, vanto della flotta italiana, non ci fu nulla da fare. Fu la fine. Un’immensa fiammata, una vera e propria colonna di fuoco, avvolse tutta la nave, inghiottì il torrione di comando, salì al cielo in nere volute di fumo fino a quattrocento metri di altezza, mentre lo scafo, squarciato e diviso in due tronconi, affondò poco dopo. Bastarono pochi minuti per la scomparsa della nave Ammiraglia, la grande corazzata “Roma”, al cui varo avevano assistito migliaia e migliaia di persone. Morirono 1393 uomini: marinai, ufficiali e Comandante della Squadra Navale, ammiraglio Carlo Bergamini, che seppe affrontare ogni rischio – dice la motivazione della Medaglia d’Oro concessagli alla memoria – pur di obbedire , per fedeltà, al re e a per il bene della Patria, al più amaro degli ordini.” Chissà, forse le cose sarebbero andate diversamente se Bergamini, invece di attenersi a quell’idiota disposizione badogliana, avesse dato l'ordine alla contrarea di sparare un attimo prima, quand'era più che palese che gli aerei tedeschi avrebbero bombardato le navi... Così aveva fatto, ad esempio, lo stesso giorno, nelle acque antistanti Bastia, il Capitano di Fregata Carlo Fecia di Cossato, con la sua torpediniera “Aliseo”, quando aveva scorto dinanzi a se sette unità tedesche, due caccia e cinque cannoniere ben armate, e non aveva esitato neppure un istante ad attaccarle con fredda determinazione, e ad affondarle tutte e sette, una dopo l’altra dopo due ore di combattimento” Aveva sparato per primo, Fecia di Cossato, ed era stato giusto farlo… Ma si sa che con i se e i ma non si fa la storia… e poi Bergamini, come tutti gli ufficiali della Marina era fedele al suo re, quella fedeltà l’aveva giurata nella sue mani, in Accademia, a Livorno. E si dimostrò, seppur con grande riluttanza, fedele fino in fondo, “fino all’amaro calice”, agli ordini del suo re, per quanto imbelle fosse quel re e sbagliati quegli ordini. Forse, come disse anche Ciampi nella già ricordata ricorrenza del sessantesimo anniversario, celebrata nelle acque in cui la nave fu affondata, quei minuti dell'affondamento furono da Lui vissuti come una liberazione: inabissarsi con la sua nave sotto la sua bandiera, era quello che da sempre aveva desiderato. “Era uno degli ultimi uomini – concluse Ciampi - di quella epopea dell'onore e del sacrificio estremo, che oggi ricordiamo e celebriamo in questo mare di Sardegna. Sappiamo che qui nel suo profondo hanno trovato sepoltura gli uomini della gloriosa corazzata "Roma". Ma in quanto ai benefici successivi per il Paese , come gli disse De Courten, non ci fu neppure l’ombra, anzi ci fu campo aperto per gli sciacalli, gli avventurieri, i ladruncoli, gli opportunisti, i traditori, come denunciò il comandante Fecia di Cossato, l’eroe dei sommergibili, quando fu formato il nuovo Governo a cui si rifiutò di obbedire e per questo fu destituito e messo agli arresti in attesa di processo, poi rientrato. Poco prima di suicidarsi, Di Cossato scrisse una tristissima lettera alla madre. ”Da mesi ho soltanto pensato alla tristissima posizione morale in cui mi trovo, in seguito alla resa ignominiosa della Marina, resa a cui mi sono rassegnato solo perché ci è stata presentata come un ordine del Re, che ci chiedeva di fare l’enorme sacrificio del nostro onore militare per poter rimanere il baluardo della Monarchia al momento della pace. Tu conosci che cosa succede ora in Italia e capisci come siamo stati indegnamente traditi e ci troviamo ad aver commesso un gesto ignobile senza alcun risultato. Da questa triste constatazione me ne è venuta una profonda amarezza, un disgusto per chi mi circonda e, quello che più conta, un profondo disprezzo per me stesso." Le altre navi della squadra raggiunsero il giorno dopo la Valletta, ma invece di combattere o comunque essere utili a qualcosa, furono relegate sui Laghi amari, come oggetti inservibili e simbolo della nostra sconfitta e, forse, della nostra resa vergognosa, come aveva detto lo stesso Fecia di Cossato. Successivamente Stalin pretese la spartizione della flotta italiana e la Giulio Cesare e la splendida nave scuola Colombo cambiarono nomi, divennero Navi sovietiche. Gli anglo-americani, meno esigenti, si accontentarono di far segare i cannoni alla Vittorio Veneto e all’Italia. Le due corazzate, ormai inservibili, furono successivamente vendute come ferrovecchio e quindi demolite nei cantieri di La Spezia. L’Italia fu pagata duecento milioni di lire, la Vittorio Veneto poco più di quattrocento.
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03 giugno 2007

Il Settecento di Ladyreading.net

Link consigliati – servizio di Bruna AlasiaLADYREADING.NET, CHE
PASSIONE IL SETTECENTO!
Un sito su Maria Antonietta
e un forum di creativi ideato
da Claudia Solacini

Il film su Maria Antonietta di Sofia Coppola, non osannato da francesi e tedeschi ma andato meglio nel nostro paese, ha soltanto risvegliato una curiosità che si palpa in giro e che sorprende se si sonda il mare magnum di internet. Da un anno sulla sventurata regina di Francia esiste addirittura un sito e un forum italiano che ha collegamenti con giovani dell’intera Europa, ideato da Claudia Solcini. Che sia un link d’autore lo conferma Benedetta Craveri, celeberrima autrice di appassionanti studi sull’ancien regime, la cui intervista balza agli occhi sulla home page: per trovarlo digitate http://www.ladyreading.net/.
Claudia ricorda vagamente uno di quei personaggi delicati ritratti da Elisabeth Vigée Le Brun, pittrice di corte al tempo di Luigi XVI e si presenta così: “Adoro Parigi, le montagne, la fotografia, i film di Woody Allen e Stanley Kubrick, le canzoni di Tori Amos e dei Coldplay, la musica di Mozart, il suono dell’arpa, i girasoli, i libri di banana Yoshimoto, le fragole e… il colore giallo!” Dottoranda in storia dell’arte all’università di Bologna, si è laureata in conservazione dei beni culturali con una tesi su “Il ritratto in veste mitologica nel XVIII secolo”. Ha frequentato un master in Storia e conservazione dell’arte orafa presso Ca’ foscari a Venezia, ha lavorato in biblioteche e ha creato parecchi siti d’arte di rara raffinatezza.
Ladyreading.net, molto elegante, tra i più belli nella rete, rivela il talento della webmaster - pagine bordò e rosa antico, qua e là punteggiate di azzurro o di giallo – è un vero e proprio archivio di documentazione pittorica, letteraria, cinematografica, giornalistica, oltre a offrire informazioni sui link del settore e sulle curiosità legate a questa figura storica. Si va dal profumo alle musiche preferite di Maria Antonietta, all’abbigliamento, alla stravagante moda delle pettinature. Espone ritratti e bambole di artisti odierni e invita a inviare nuove creazioni. Ha anche un forum che ha raccolto centinaia di utenti, giovanissimi e meno, che si scambiano opinioni, informazioni, immagini del settecento, persino disegni: l’adolescente Christine regala i suoi graziosi e peculiari ritratti; dietro lo pseudonimo di Marie Antoinette Reine si cela una grande divulgatrice di immagini di ambienti, mobili e gioielli; Marie_83 discute su mademoiselle de Lorraine; Alessandra81 navigando trova “I racconti di Versailles”, Estella li segnala, Enry1973 è simboleggiato da un nobile di toga. Ciascuno dei chattanti ha un titolo: duca, arciduca, principe, barone, conte e così via. Un vero e proprio salotto di blasonati con migliaia e migliaia di contatti!
Se è vero che molte ragazze indosserebbero volentieri un abito del secolo XVIII, che non esiste periodo più glamour e ricercato nelle sue manifestazioni estetiche, che fu un’epoca libertina e che i drammi di chi lo ha vissuto possono apparire avventure romantiche; é però vero che a un sondaggio del forum di ladyreading la maggiorparte degli utenti non ha dubbi: quello che colpisce di Maria Antonietta è soprattutto la tragica e impietosa fine.
E’ azzardato dire che, al di là dei fasti e dei risvolti artistici del settecento, nelle giovani generazioni c’è anche il desiderio di conoscere le radici da cui è nato il nostro continente? Nell’Europa unita la fine dell’ancien regime è un passaggio fondamentale, occuparsene con piacere e intelligenza è segno dei tempi.
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Rev. 31-01-13 AdB

02 giugno 2007

L'Oceano












C'è un oceano
nel cuore dell'Uomo

e la ragione
non è la barca.
Ci vuole il coraggio delle lacrime

per mettersi in viaggio

perchè di questo si tratta.

Iniziare il viaggio

o chiudersi dentro per sempre.


A. Marcucci
Noi lo conosciamo bene. Marcucci, autore anche della bellissima raccolta "Passaggi d'anima" (Libroitaliano, p.48, 2001), è un buon marinaio.
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