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21 maggio 2016
Addio a Marco Pannella
L'importante testimonianza di chi Marco Pannella l'ha conosciuto e tastato con mano che faceva sul serio.
La notizia della scomparsa di Marco si è sparsa
all'improvviso da una cella e da una finestra all'altra e in tutte le sezioni
del carcere di Padova.
Molti detenuti hanno abbassato gli occhi e il tono della voce. Qualcuno
ha scrollato la testa. Altri ancora si sono ammutoliti. Tutti si sono sentiti
come abbandonati a se stessi.
Qualcuno ha urlato dalle sbarre della sua finestra: "E adesso quale sarà quel politico che ci darà voce e lotterà per i
diritti dei carcerati o avrà il coraggio di proporre un'amnistia?". Andrea gli ha
risposto: "Nessuno". Roberto ha
aggiunto: "La stragrande maggioranza dei
politici è d'accordo solo su una cosa: riempire le carceri come delle scatole di
sardine e usare l'emergenza criminalità per continuare a prendere voti e
continuare a rubare." Antonio s' intromette nella discussione: "Non bisogna generalizzare, ci sono anche i
politici onesti". Raffaele si incazza: "Sei proprio scemo, non lo sai che in Italia
essere garantisti e abrogazionisti della pena dell'ergastolo fa perdere i voti e consenso elettorale?"
Lorenzo lo appoggia: "Guarda che fine
hanno fatto quei pochi politici che si sono sempre impegnati per la legalità in
carcere, sono scomparsi dal Parlamento. Gli altri politici lo sanno che il
carcere in Italia non è altro che lo
specchio di fuori, dell'ingiustizia, della sofferenza, dell'emarginazione e la
discarica degli avanzi della società perbene e disumana, eppure non alzano un
dito, perché non hanno il coraggio e
il cuore che aveva Marco Pannella”. Interviene Sandro: "Io penso che il carcere così com'è non dà
risposte, il carcere è una non risposta, il carcere è il male assoluto. Non si
può educare una persona tenendola all'inferno. La si può solo punire, farla
soffrire, distruggerla, e dopo di questo anche il peggiore assassino si sentirà
innocente. Solo un carcere aperto e rispettoso della legalità può restituire
alla società dei cittadini migliori".
Ascolto dalle sbarre della mia finestra i
discorsi dei miei compagni, ma non intervengo perché penso che adesso sia il
momento del silenzio e di trasmettere tutta la nostra solidarietà ai familiari,
ai radicali, (in particolar modo a Sergio D'Elia e a Rita Bernardini) e a tutti
quelli che volevano bene a Marco.
Ciao Marco, eri il mio eroe e mi sei stato
da esempio, ora mi sento un po' orfano. Spero che nel posto dove sei ora non ci siano prigionieri, né
carceri, ma sono sicuro che dovunque tu sia adesso, continuerai a lottare contro
il Dio di turno per migliorare i diritti degli angeli o dei
diavoli.
Un ultimo affettuoso sorriso fra le
sbarre.
Carmelo Musumeci
Carcere di Padova 19 maggio 2016
19 maggio 2016
L’ORIZZONTE A QUADRETTI Esperienze dal carcere
L’ORIZZONTE A QUADRETTI
Esperienze
dal carcere
«La differenza tra noi e voi consiste solo in
questo: noi vediamo il vostro stesso orizzonte, ma a quadretti,» mi risponde un
detenuto. Vi devo raccontare un’esperienza personale che ho avuto modo di
vivere e che è stata decisiva per il proseguo dei miei studi universitari. Si
è, infatti, aperto quel cassetto ove ho riposto e custodito gelosamente il mio
sogno: stare a contatto con coloro i quali, avendo commesso dei gravi sbagli,
sono detenuti, condividendone la realtà quotidiana, le emozioni, le
aspirazioni, la voglia di riscatto, la riabilitazione. Ho avuto modo di
aggiudicarmi una piccola borsa di studio, offerta dall’Università “Insubria” di
Como, il cui contenuto prevedeva un soggiorno di quattro giorni intensi per
introdurre la facoltà di Giurisprudenza, la mia futura facoltà … e quindi,
quale migliore occasione mi si presentò? Iniziarono così quei momenti di
confronto, di condivisioni, di testimonianze dirette, ma soprattutto due
giornate vissute a stretto contatto con la realtà carceraria, quella vera,
quella dura, quella a volte crudele … ma talvolta capace di trarre il meglio
delle persone, di vincere i loro primordiali istinti aggressivi, la loro malvagità,
capace quasi di “trasformare”. Forte è in tutti noi la curiosità di sapere, di
conoscere, di giudicare … ma altrettanto forte deve essere il desiderio di
muovere le nostre competenze, la summa di conoscenze e capacità, per essere
utili a chi ha bisogno di aiuto per correggere il cammino della propria
esistenza. «Cara Persona detenuta, ero curiosa di sapere che cosa avessi
combinato e avevo paura di te, ma oggi mi interessa solo la persona che vuoi
diventare»: è stato questo il pensiero conclusivo di quella avventura, è questo
il pensiero che da allora mi accompagna. Per questo il mio ringraziamento va in
primo luogo all‘Università per la folgorante esperienza e a quelle persone, i
carcerati di Bollate e Opera, che hanno avuto il desiderio, l’umiltà di aprirci
il loro animo, un gesto che per loro rappresenta un contatto con l’esterno e
per me tutto quello che ormai sapete, tanto che, il mio secondo “grazie” lo
rivolgo a me stessa per l’impegno, la responsabilità e la dedizione che metterò
in campo per dare il mio piccolo contributo, affinché questa società possa
essere composta non da individui perfetti ma migliori. Delinquenti non si
nasce, si può rischiare di diventarlo, ma ognuno ha diritto di intraprendere un
percorso di riabilitazione se accompagnato da una voglia autentica di riscatto
e di consapevolezza, dove ognuno di noi può giocare la sua parte. Steve Jobs
diceva: «Investire in comunicazione e in formazione in tempo di crisi
- (anche esistenziale) -, significa costruirsi le ali mentre gli
altri precipitano» … non so se un detenuto alla fine imparerà a volare, di
sicuro avrà almeno fabbricato le sue ali per provarci. “Vigilando redimere”:
può essere sintetizzata in questi due verbi la funzione civile e morale che la
società attribuisce al regime di detenzione. Lasciare per anni in carcere chi
compie un reato, una violenza, un crimine, non è garanzia in sé sufficiente di
presa di consapevolezza di quello che ha compiuto, di pentimento per il dolore
che ha provocato e di impegno e buoni propositi da attuare una volta fuori.
“Non è colpa mia!”: la reazione prima che scaturisce quando si viene accusati,
non perché non ci si renda conto di mentire anche a sé stessi, ma perché la
mancata accettazione di una realtà dolorosa costituisce uno dei meccanismi di
difesa più antichi che la nostra mente utilizza per sopravvivere. E se questo è
vero nelle nostre piccole cose quotidiane, che impatto può assumere nel modo di
pensare, ragionare e vedere la realtà di chi invece compie un’azione illegale e
criminale? Oltre a sottovalutare la gravità e le conseguenze delle azioni, non
curante dei pericoli a cui espone sé stesso e gli altri con il suo
comportamento, l’autore di tali gesti, entrando in un circolo vizioso, si
convince della sua onnipotenza, di poter calcolare e prevedere ogni mossa , di
vivere senza rispettare le regole e le leggi; ma nel momento in cui queste
certezze crollano, il contatto con la realtà è difficile da reggere: non
essendo mai stati disposti ad accettare la presenza di norme prestabilite e non
riconoscendo che il giudicare il proprio comportamento è una funzione svolta
anche da persone esterne a sé, il confronto con il potere giudicante è visto
come un ente senza valore che attribuisce una pena a chi non la merita. In
un’ottica differente da questo ruolo, la detenzione non farebbe altro che
avvalorare l’oppressione che vive il detenuto : il carcere da solo non previene
né scoraggia il detenuto a ricompiere nuovamente il reato una volta fuori. Il
passare tutto il giorno chiuso in una cella, fatta eccezione per “l’ora
d’aria”, senza avere contatto con l’esterno, il fatto che non si è più liberi
di decidere come impiegare il proprio tempo, ma essere soggetti, anche per le
cose più elementari, a dover chiedere il permesso, produce di fatto un ulteriore
inasprimento del sentimento di rivalsa e vendetta nei confronti della società
che l’ha costretto ad essere dipendente dalle decisioni altrui. Ecco perché la
funzione del carcere deve essere un’altra: l’obiettivo ultimo deve essere il
recupero sociale dell’individuo in modo tale che una volta scarcerato non
ritorni a delinquere, ma diventi conscio degli effetti che le sue scelte
sortiscono su di sé e sugli altri. Proprio per offrire un’opportunità di vita
diversa rispetto al passato, in alcune realtà di detenzione italiana vengono
organizzati corsi in cui si insegna un mestiere, da svolgere “dopo” anche come
fine psicologico di orientare la mente del detenuto al futuro, al di fuori
delle sbarre, perché possa pensare in termini propositivi e concentrarsi su uno
scopo che può raggiungere, perché si convincano che da “carnefici” possono
anche loro diventare uomini migliori. Notizie che apprendiamo dai quotidiani,
dai telegiornali, dalle inchieste ci confermano che la situazione pratica nella
quale sono costretti a vivere i nostri detenuti sia molto differente da quella,
quasi idilliaca, descritta nella teoria. La parola “sovraffollamento” è sulla bocca e nelle orecchie di tutti, o
almeno dovrebbe essere così. Dopo la Serbia siamo noi italiani a registrare il
più alto tasso di sovraffollamento. Della popolazione carceraria, secondo dati
ISTAT, il 60% in Italia sono stranieri, che pur commettendo reati minori (a
volte delinquono per mantenersi non trovando lavoro, perché sprovvisti di
documenti e considerati perciò nessuno dalla società) degli italiani restano in
carcere senza concedersi gli arresti domiciliari non avendo reti famigliari,
domicili o documenti. Tutto ciò non
si placa neanche di fronte alla salute. Si legge in un articolo del Corriere
della Sera scritto da un ex carcerato: “se stai male occorrono 10 giorni per
una visita medica e spesso non riceviamo neanche le cure adeguate. I detenuti
di Poggioreale chiamano il famoso Buscopan “la pillola di Padre Pio”, perché
quella ti danno e con quella ti devono passare tutti i dolori”. La nostra “Carta dei diritti e doveri dei
detenuti o internati” sancisce che “il detenuto ha il diritto a non subire
mezzi di coercizione fisica a fini disciplinari”, eppure molto spesso apprendiamo notizie riguardanti “morti in circostanze
sospetti” ma con le denunce portate avanti durante le innumerevoli
inchieste, ben si sa come tali decessi avvengono: il programma “Le Iene” ha
riportato anche la testimonianza di un secondino che ha partecipato a raid
punitivi ai danni di alcuni detenuti “per futili motivi”: forse avevano
risposto male ad una guardia o non si erano alzati in tempo. Quindi se Voltaire diceva “il grado di
civiltà di una nazione si misura sullo stato delle sue carceri” potremmo
rispondere con le stesse parole dell’ex presidente della Repubblica, Giorgio
Napolitano “da noi rappresentano solo vergogna per il Paese”: i nostri
detenuti sognano un volo in una gabbia dentro una gabbia. L’unico potere rigenerante all’interno
delle carceri consiste nell’istruzione e nel lavoro. “L’ignoranza è
l’origine di tutti i mali” ci insegna Socrate, e le persone ignoranti sono
più predisposti a commettere reati, ma la legge non ammette l’ignoranza ed è
giusto che chi sbaglia paghi, ma nel programma rieducativo lo Stato deve
assicurare tale aspetto. La “Carta dei diritti e doveri dei detenuti o
internati “prevede che “negli
istituti penitenziari si svolgano corsi scolastici a livello di scuola
d’obbligo e di scuola secondaria superiore. (…) ed è consentito svolgere la
preparazione da privatista per il conseguimento del diploma e della laurea.”
Il carcere di Bollate rimane
comunque un modello, dove la cella serve solo per dormire, dove si frequentano
scuole, dove si lavora in cooperativa, si fa teatro, tornei sportivi … Certo
all’ingresso avviene la selezione dei detenuti da ammettere al piano
riabilitativo che consente di proporre loro un tipo di pena che lasci libertà
di movimento e di organizzazione della propria giornata: per tale motivo viene
definito “carcere premio” in cui il detenuto diventa coprotagonista affiancato
dagli operatori. L’obiettivo è quello della decarcerazione. Perché: “la pena
non può essere il fine della giustizia. L’obiettivo deve essere la restituzione
del detenuto alla Società. Come può un Paese abolire la pena di morte, se poi
annovera l’ergastolo e il carcere a vita?” Un romanzo che si domanda
come si possa conciliare la sicurezza sociale e la detenzione a vita con il dettato costituzionale del valore riabilitativo
della pena, senza dimenticare l’attenzione al percorso umano di qualsiasi
condannato è “fine pena: ora!”, una storia vera, un’opera che scuote e
commuove, nella quale il giudice Elvio Fassone, autore e protagonista,
intrattiene uno scambio epistolare per 26 lunghi anni con Salvatore che lui
stesso ha condannato all’ergastolo durante il maxi processo alla mafia catanese
tenuto nel 1985 a Torino. Dopo la sentenza il giudice spedisce a Salvatore una
lettera ed un libro: non è pentimento per la condanna inflitta, né solidarietà,
ma un gesto di umanità per non abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere
il resto della sua vita. La legge è stata applicata, ma questo non impedisce al
giudice di interrogarsi sul senso della pena. E non astrattamente, ma nel
colloquio continuo con un condannato. Ventisei anni trascorsi da Salvatore tra
la voglia di emanciparsi attraverso lo studio, i corsi, il lavoro in carcere e
momenti di sconforto, soprattutto quando le nuove norme rendono il carcere
durissimo con il regime del 41 bis. L’ergastolano tenterà più volte il suicidio
per porre fine alla sua condanna: da qui nasce il titolo dell’opera. Per i
condannati all’ergastolo si scrive
“fine pena: mai” oppure “fine pena: anno 9999”, Salvatore con il
suicidio decide che la sua “fine pena” deve essere “ora”. Ognuno di noi gode della grande libertà di vivere, ed
ognuno di noi ha maggiori o minori possibilità di godere dei benefici di questa
esistenza, ma tutti, proprio tutti, abbiamo il diritto di scegliere … ed ognuno
in questa possibilità di scelta può commettere errore, ma in ogni caso tutti
abbiamo il diritto e il dovere di porvi rimedio e di offrire aiuto nel farlo.
Ognuno di noi quale parte integrante e attiva, quale membro appartenente ad una
società evoluta e democratica, quale uomo, può esercitare la propria parte, non
solo ha il compito di “prendere in mano la propria vita per fare un
capolavoro”, ma contribuire a rendere tale anche quella degli altri, benché ben
diversa dalla nostra. Concludo con una
frase che l’ergastolano scrive al suo giudice: «le condanne non
insegno nulla anzi incattiviscono, ma lei, le sue lettere insegnano tanto, sono
come un libro che insegna la vita». Riporto dei versi toccanti scritti da
alcuni detenuti, per il laboratorio di scrittura creativa, rispettando la loro
privacy: «M’illumino di male/ in luce nera,/ non mi confido con nessuno al
mondo/ combatto solitario/ il mio tormento». Ed un altro grida: «A voi ragazzi
e ragazze/ che siete la linfa vitale di questa terra così bella/ possa il
nostro augurio accompagnarvi/ nel cammino che per noi si è interrotto./
Possiate voi ricostruire col vostro impegno e entusiasmo/ tutto quello che gli
illusi hanno sgretolato».
Santi Greta
“CONSIDERAZIONI INATTUALI” SULLA SOCIETA’ ATTUALE L’occultamento della morale nella società della depravazione
“CONSIDERAZIONI INATTUALI” SULLA SOCIETA’ ATTUALE
L’occultamento della morale nella società della depravazione
Il problema della società attuale vuole essere reso inattuale:
mi pare la svalutazione della Morale.
Una para-morale scientifica a posteriori ha sostituito la Morale a
priori, creando quindi una distorsione del Bene, che non può che portare
all’eccesso, alla corruzione, alla deturpazione della Verità. La massa non si
riconosce più nella Stato legiferatore, e quindi non riconosce più le leggi che
questo Idolo Terreno emana, si disinteressa della vita politica e civile,
solamente perché non crede che altri possano dettare morale per questa. Ma dove
sono i veri detentori di Morale? Dove sono i re-sacerdoti? Sono stati uccisi
dalle rivoluzioni delle masse? Dalla Rivoluzione Americana, dalla Rivoluzione
Francese! Sono stati spaventati dall’apparente forza “liberale” di esse? Ma io
dico: non abbiate paura delle masse, è
passata l'era in cui una massa poteva sfidare un potere forte: non otterrà mai
più un risultato un popolo che si schiera contro un oppressore se non viene sostenuto
da chi detiene un potere maggiore dell'oppressore. Ha fallito la religione,
hanno fallito i sindacati, hanno fallito i governi, hanno fallito le masse!
Accettiamolo: tutti abbiamo fallito! Hanno fallito le politiche monetarie
moderne, hanno fallito le politiche etiche, hanno fallito le politiche
liberali. Si destino coloro che vedono con almeno un occhio, emergano dalle
tenebre, si uniscano per rinnovare il mondo: ora è possibile. «In un popolo di ciechi chi ha un
solo occhio è re». Non
abbiano paura della luce, cerchino tra il popolo i nuovi illuminati: non dico
che ce ne siano in moltitudine, tuttavia ancora oggi nascono Uomini. Non
lasciamoci guidare da pochi che hanno una visione distorta della Luce, o
addirittura di una non-luce: il potere temporale è diventato forte annientando
la Morale. Pochi che si credono superiori alla massa cercano di controllarla ma
non si rendono conto che insozzano solamente il loro spirito e lo consacrano al
Demiurgo caduto e oscuro, mietitore di schiavi (che urla a chi è schiavo e
vuole farsi padrone: «Vieni
ti farò lavorare nella mia vigna»,
ma aprite gli occhi e non fatevi confondere dalla materia; l’essenza di quella
vigna non è pura ma lurida e peccaminosa). Vergognatevi delatori della Verità!
Vergognatevi, poiché il desiderio che avete espresso non è quello insito nel
vostro io più profondo: desiderio di amore. Arriverete solo a un abisso di
perdizione e disperazione, oscurità che è abnegazione di amore!
18 maggio 2016
CENT’ANNI DI MEMORIA Elogio dei miei vecchi di MARIO TRUDU
CENT’ANNI DI
MEMORIA
Elogio dei miei
vecchi
di MARIO
TRUDU
prefazione di Natalino
Piras
cura di Francesca de Carolis
ed Stampa
Alternativa
Rimpiange e racconta, Mario Trudu, ergastolano, in carcere da 36
anni con condanna per sequestro di persona, il tempo della sua infanzia e
adolescenza, ad Arzana, paese nel cuore della Barbagia.
Dall’autore di “Tutta la verità, storia di un sequestro” (Stampa
Alternativa) un racconto ricco del fascino che Trudu ragazzino riesce a cogliere
in tutto, nonostante le durezze di un ambiente molto povero e dalle regole
implacabili. Incantato soprattutto dai racconti dei “suoi vecchi”, che sono
trasmissione di sapere, ma anche storie di guerra, di cui si conservano ricordi,
commoventi e crudi.
Spazi onirici si aprono con i sorprendenti disegni, di cui Trudu è
autore, che si intrecciano alla narrazione
Questo il link dove si può ordinare:
Nota del curatore
Ho incontrato Mario
Trudu, curandone il lavoro, mentre si trovava nel carcere di san Gimignano.
Attualmente si trova in Sardegna, ad Oristano.
Quando si incontra qualcuno in carcere, difficile che poi la tua vita
scorra come prima. Quando poi quel qualcuno ha trascorso quasi tutta la sua, di
vita, dentro quattro mura, e in regime di Alta Sicurezza, e per di più con una
pena che non finirà mai…, quando conosci di cosa è fatto il cammino del suo
tempo, e chi non è entrato in un carcere non può immaginare, allora è davvero
difficile, anche solo per poco, scrollarsene di dosso il pensiero. Così, ho
continuato a seguire la vita prigioniera di Mario Trudu, mese dopo mese, prendendo ogni volta che è
stato possibile la via che porta al carcere di San Gimignano. Ogni volta
ritornando verso casa carica dei suoi appunti, delle sue lettere, dei suoi
racconti. Di straordinaria forza. Come mi è subito sembrato anche questo lungo
racconto che tempo fa mi aveva consegnato, un po’ arrossendo e un po’
schermendosi, come sempre fa lui: “Leggi questo, se hai tempo da perdere…”.
Manoscritto
dal paese del sole,
l’aveva intitolato. Perché il ricordo di Arzana, il paese in provincia di Nuoro
nel quale è nato, e della sua gente, davvero è stato per Mario Trudu il sole che
ha scaldato una vita che il nostro sistema giudiziario vuole definitivamente
morta. Con buona pace del tanto sbandierato principio della Costituzione che
vorrebbe le pene tendere alla rieducazione, eccetera eccetera…
Scorrendo le pagine dei ricordi d’infanzia e della prima gioventù, si
ritrovano le radici di quel mondo il cui pensiero gli ha permesso di
sopravvivere ai lunghissimi anni in carcere. Si comprende quanto violento ne sia
il ricordo da percepirne ancora oggi persino gli odori, i sapori, il suono delle
parole… Pagine dai colori forti, che rimandano alle immagini che hanno fatto da
sfondo, ora acceso ora più sfumato, al suo primo libro, “Tutta la verità, storia
di un sequestro”, che ha inaugurato il nuovo progetto editoriale voluto per
Stampa Alternativa da Marcello Baraghini.
Mario Trudu, per chi non lo sappia, è in carcere dal 1978. Due condanne
per sequestro di persona, della prima da sempre si dichiara innocente. Della
seconda si è sempre assunto tutta la responsabilità, ma pure tiene a far sapere
che il reato che ha compito è stata reazione ( ora mi dice sa quanto sbagliata)
alla prima grande ingiustizia subita. L’applicazione retroattiva delle norme
emergenziali degli anni ‘90, diventate, come tutto in Italia, da temporanee
definitive, lo hanno seppellito vivo. E nulla importa quello che nel frattempo è
diventato, se pentimento vero è maturato nel suo animo. Per la giustizia Mario
Trudu è una persona che non ha scelto di essere collaboratore di giustizia. E
questo basta. Dopo 37 anni di carcerazione per il nostro sistema giudiziario
Mario Trudu, che in carcere è entrato giovane, ha trascorso la maturità, e ora
sempre lì si avvia alla vecchiaia, è ancora l’uomo del sequestro di oltre sette
lustri fa. C’è qualcosa, mi chiedo sempre più spesso, che non
va…
Me lo chiedo ogni volta che lo vedo arrivare nella stanza dove avvengono
i nostri incontri: un educato signore, che sulla soglia arrossisce, timido
sembra all’inizio, introverso piuttosto penso ora, che ci tiene moltissimo ogni
volta ad avere qualcosa da offrirmi, e ogni volta si scusa di quel poco (poco
secondo lui, per me sempre troppo) che il regolamento del carcere permette. Ogni
volta mi interrogo sulla sua lunghissima vita fatta di sottrazioni… perché in
carcere per sottrazione si vive.
Difficile persino fargli avere delle matite per i suoi disegni. Sembra una
banalità, ma non potete immaginare quante banalità rendono ancora più afflittiva
la vita di chi è in prigione.
Eppure, a volte penso, basterebbe poco… Non potete immaginare quanta
gioia ha espresso in una sua lettera, raccontandomi dell’albero che riusciva a
vedere dalla sua nuova cella quando è stato trasferito a San Gimignano.
Difficile trovare le parole per spiegare a chi non ne ha esperienza il
carcere e, a chi non ha mai guardato negli occhi un ergastolano, il carcere a
vita. Difficile trasmettere il senso di chiusura al mondo. Ma forse una chiave
Mario, involontariamente me l’ha data. Mi perdonerà se svelo un brano dei nostri
colloqui. Ma ascoltate…
Lo scorso anno, l’ho
incontrato un giorno che si era vicini all’otto marzo. E Mario mi ha portato il
disegno di una rosa. “Avrei voluto- mi ha detto un po’ imbarazzato- regalarti
una mimosa. Ma… non riesco a ricordare… aiutami… com’è fatta una mimosa?”.
Gialla, quei pallini tutti gialli… ho risposto a mezza voce, pensando al buco
nero del tempo che ha ingoiato il colore delle mimose, e all’oscenità della
chiusura definitiva al mondo di “quelli della morte viva”.
Dai nostri colloqui
esco spesso piuttosto triste. Perché, vi assicuro, è straziante lasciare una
persona in carcere quando hai capito veramente dove la lasci. Anche se Mario mi
congeda sempre con saluti sorridenti. Ma so bene che c’è una sola cosa che
illumina davvero la sua anima. Ed è il ricordo della sua terra e della sua casa.
Si capisce bene leggendo queste pagine, guardando i bellissimi disegni di cui il
racconto è tessuto, e gli spazi onirici che sanno dischiudere.
Francesca de Carolis
11 maggio 2016
LILIA CARLOTA LORENZO IL CAPPOTTO DELLA MACELLAIA
IL CAPPOTTO DELLA
MACELLAIA
- Dopo
l’enorme successo in digitale – self-publishing più venduto di Amazon nel 2013
– Il cappotto della
macellaia arriva finalmente in
libreria.
- Lilia
Carlota Lorenzo porta in Italia il carattere più autentico dell’America Latina.
Fonde le atmosfere magiche di Gabriel García Márquez e la passione malinconica
del tango di Gardel per creare una propria voce: ironica, indolente, sboccata e
sanguigna.
- Ci regala
personaggi dalla scorza durissima, situazioni crude e surreali che ricordano i
film dei fratelli Coen e i libri di Daniel Pennac.
IL
LIBRO
Palo
Santo, un paese apparentemente innocuo della pampa argentina. I pettegolezzi
corrono più veloci dell’incessante vento che annuncia la tormenta. Mentre la sarta continua a
cucire e scucire il cappotto per la figlia della macellaia, che a forza di
ingozzarsi non fa che ingrassare, si consuma un insolito e inquietante omicidio.
Quale orribile scena ha visto il bambino della sarta nella cucina della
bellissima Solimana al punto di scappare terrorizzato ogni volta che la vede?
Perché lei attira gli uomini del paese a casa sua? Che inconfessabile
segreto custodisce Marcantonia, la sorella ritardata di Solimana? Ne sa qualcosa la bizzarra
telefonista, che non si fa mai vedere, ma ascolta tutte le telefonate segnandole
in un quaderno. E ancora di più ne sa Zotikos, immigrato greco in pensione, che
dietro la toppa della sua porta tiene sott’occhio l’intero
paese...
L’AUTRICE
“Sono argentina. Ho
una laurea in architettura che mi è servita solo per fare bella figura. Adoro
l’ozio, ma non è colpa mia se sono nata in Sudamerica. Nella mia vita ho
cambiato trentatré indirizzi, fatto i mestieri più disparati, vissuto in
alberghi di lusso, topaie di infima categoria, belle case borghesi. Ho
frequentato gli indios del Chaco ma anche gli smorfiosi radical chic europei.
Adesso non esco più di casa, e ho solo amici virtuali. Di tutti i mestieri che
ho fatto, scrivere è senza dubbio il più divertente: niente male come compagno
della vecchiaia che si avvicina.”
Libro –
Brossura
eBook –
Ebook
MONDADORI
SCRITTORI ITALIANI
E STRANIERI
• euro €
18 • pagine 240
pubblicazione 10
maggio 2016
Federica Bruno
Ufficio Stampa
Mondadori Libri S.p.a.
20090 Segrate (Milano) - tel 02/7542.2023
10 maggio 2016
IL BAZAR DEI BRUTTi SOGNI di Stephen King recensito da Miriam Ballerini
IL BAZAR DEI BRUTTi SOGNI
di Stephen King
© 2016 Sperling & Kupfer
ISBN 978-88-200-6008-4
Pag.500 € 19,90
Nuovo lavoro del maestro.
Una raccolta di racconti che, a
differenza di altre raccolte, non presentano racconti lunghi, ma storie brevi,
per lui.
Il bazar dei brutti sogni
è, come dice il titolo stesso, un insieme di incubi trasformati in tante
storie.
Nell’introduzione King invita il
suo fedele lettore a compiere un viaggio insieme a lui: “Forza, siediti
accanto a me. Avvicinati. Tanto non mordo. Però… ci conosciamo da secoli e
forse sai che non è proprio vero. O mi sbaglio?”
Leggo King dal suo primo libro uscito nel 1970 (ovviamente
ho avuto il piacere di godermelo un bel po’ dopo la sua uscita, visto che il
’70 è il mio anno di nascita!); pochi sono i suoi libri che mi hanno delusa.
Molti li ho letti d’un fiato, senza mai stancarmi di farmi prendere per mano
dalla sua
abilità di narratore.
Anche in questo caso ha delineato
personalità varie, mai banali; amalgamandole con storie incredibili.
Una piacevole particolarità è
che, all’inizio di ogni racconto, King ha scritto una breve lettera, svelando
come sia nata l’idea per quello scritto, o aggiungendo dei particolari. Mentre,
alla fine di ognuno, c’è scritto a chi è dedicato questo o quel lavoro.
Leggerete quindi di macchine
carnivore, o di un bambino veramente cattivo. Ci darà un’immagine dell’aldilà,
tutta sua; oppure avrete modo di leggere delle sue poesie.
I racconti sono molti, svariati
gli argomenti toccati; fra tutti solo un paio non mi sono piaciuti.
Forse questa frase può rimarcare
ancor più il perché del titolo: «Dove prende le sue idee» e «Da dove le è
venuta quest’idea» sono due domande ben distinte. Alla prima non si può
rispondere. Alla seconda qualche volta so dare una risposta, ma il numero di
casi in cui non sono in grado di farlo è sorprendentemente elevato, perché le
storie sono come sogni.
Oltre al piacere della lettura, troviamo sempre più la sua
personalità, quella di un uomo che si svela attraverso le parole scritte e che
non nasconde mai i suoi errori. Con lui funziona la formula che, anche i suoi
sbagli, vengono usati e diventano racconti fantastici. Non si butta via niente!
05 maggio 2016
L’EUROPA DEL FILO SPINATO di Antonio Laurenzano
di Antonio
Laurenzano
L’Europa
che non c’è! E’ questa l’immagine legata al dramma delle migrazioni e alla sua
ingovernabilità. Un’emergenza umanitaria che ha messo a nudo l’ignavia europea,
l’assenza di una identità valoriale affondata da tempo nella ipocrisia e negli
egoismi nazionali. E’ inquietante lo scontro in atto all’interno dell’Unione
che ha creato una profonda lacerazione fra le istituzioni comunitarie e alcuni
Paesi che, disegnando i “loro” confini europei, stanno cancellando Schengen e
la libera circolazione delle persone. Per mettere fine alla crisi dei migranti
che non riesce a gestire, l’Ue rinuncia ai suoi valori fondanti. Fenomeni distruttivi,
non lontani dai fantasmi del passato. Un populismo autoritario che alimenta
derive pericolose favorite dalla crisi economica.
Sono
nove i Paesi che hanno in essere i controlli alle frontiere, comprese Germania
e Francia. Barriere e fili spinati che
potrebbero essere il preludio di limitazioni dei commerci e quindi il
fallimento del mercato comune, il primo storico tassello del progetto
dell’Unione europea. Protezionismo, ostilità per gli accordi di libero scambio,
dichiarazioni di autarchia rischiano di portare l’Europa indietro di un secolo
nel segno di anacronistici nazionalismi! Sarebbe una penosa risposta alle molte
sfide dell’economia globale. E senza Europa unita non si va da nessuna parte!
Dopo
la barriera di filo spinato della Bulgaria lungo i confini con la Turchia, il
vergognoso muro dell’Ungheria lungo quelli con la Serbia, con drastiche misure
detentive per chi … rincorre il diritto alla vita, da qualche giorno frontiere
chiuse e controlli al Brennero, fra Austria e Italia. Un blocco adottato nella
previsione che i disperati respinti in Grecia per effetto dell’accordo con la
Turchia potrebbero ritrovare in massa la via dell’Italia per risalire verso il
Nord. Un’Europa dunque sempre più in balia di Governi incapaci di guardare al
di là dei recinti in cui si rinchiudono, nell’illusione di poter azzerare i
problemi con i quali prima o poi dovranno misurarsi. Mancano strategie unitarie
in un’Unione frammentata e divisa con Paesi preoccupati soltanto degli effetti
e dei costi di casa propria. Ma la storia dei popoli non si ferma con i diktat
dal … “sapore antico”! E’ miopia
politica!
L’Europa
implode, sconfitta dalla sua stessa incapacità di governare un problema
strutturale, i flussi migratori, destinato a crescere per le dimensioni di una
crisi geopolitica che abbraccia il Mediterraneo, il Medio Oriente e l’Africa
sub-sahariana. Senza politiche condivise sarà impensabile arginare la fuga di
milioni di disperati che scappano dalla guerra,
dalla povertà e dal caos destabilizzante dei loro Paesi.
Non
è questa la strada per scrivere il futuro del Vecchio Continente! Nel rispetto
della legalità e dei livelli di vivibilità, ponti e non muri per riaffermare la
civiltà millenaria dell’Europa, la centralità della sua missione storica.
Occorre recuperare le ragioni dello stare insieme nell’Unione, i principi
fondanti della costruzione europea per una risposta univoca alla crisi
migratoria: una combinazione di fermezza di fronte al terrorismo, solidarietà
consapevole, pacificazione e contributi allo sviluppo per i paesi in guerra
sull’altra sponda del Mediterraneo, in Siria e dintorni. Senza una necessaria
identità politica e una comune unità d’azione, responsabilmente coordinata, il
destino dell’Europa sarà sempre più segnato da esodi biblici incontrollabili
che ne cancelleranno nei prossimi decenni ogni aspirazione a svolgere un
ruolo centrale nella gestione dell’ordine politico-economico mondiale per una
pace duratura. E’ tempo di scelte politiche coraggiose e lungimiranti!
www.antoniolaurenzano.it
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