19 dicembre 2016

FEDRA E OCNA Due tragedie di Capodiferro Egidio a cura di Vincenzo Capodiferro

FEDRA E OCNA
Due tragedie di Capodiferro Egidio

Fedra e Ocna. Due tragedie. Scritture verticali, è l’ultima opera di Capodiferro Egidio, edita da Ibiskos, nel 2016. Egidio Capodiferro vive in Basilicata, dove insegna nella scuola dell’infanzia. Sin dall’infanzia è stato un “ispirato” in letteratura. Si è dedicato alle passioni del verso, della rima e della prosa. Ha scritto molto. Nel solo 2016 ha pubblicato con Italic Pequod una raccolta di racconti, con Puntoacapo una raccolta di prose poetiche, dal titolo “Acquerelli”, con Limina Mentis “Incastri Lirici”. Le protagoniste di queste due tragedie sono due giovani donne: Fedra e Ocna, vittime dell’amore. Mentre la tragedia “Fedra” è un’ambientazione del passato e si inquadra nel contesto classico, la tragedia “Ocna”, invece, si inquadra nel presente. Passato, presente e futuro, le tre estasi del tempo, vengono intrecciati nello spirito tragico. Pur cambiando le epoche non cambia il cuore dell’uomo e le sue passioni, mentre cambia solo la parte superficiale, quella razionale. In termini nietzschiani diremmo che lo spirito dionisiaco rimane immutabile, mentre quello apollineo cambia col tempo: veritas filia temporis. Le tragedie del Capodiferro riprendono i miti greci. Il mondo greco, d'altronde, è la culla del teatro universale. Fedra ama Ippolito, il suo figliastro, che Teseo aveva avuto da un’amazzone, Ocna, invece, si è perdutamente innamorata di Eunosto, un amico di suo fratello. Entrambe queste donne soffrono per amore. L’amore non corrisposto le porta alla rovina, al suicidio. E torna il tema classico e funesto: si può morir d’Amor! Questi due piccoli gioielli del Capodiferro riprendono questo forte tema dell’amore con intenso introspettivismo psicologico e di escavazione dell’animo umano. Dall’amore provengono tutti i beni e tutti i mali. Come direbbe Scheler, non si può odiare senza prima aver amato. L’amore è un atto originario: ogni atto di odio è fondato su di un atto di amore (Ordo Amoris, p. 99). Tutte le malattie mentali hanno origine venerea: questo principio aveva compreso bene Freud. Tra l’altro possiamo rileggere il mito di Fedra come un correlativo indiretto del complesso di Edipo. Come il figlio ama la madre, la madre ama il figlio. E come la figlia ama il padre, il padre la figlia. Il superamento dei complessi incestuosi reciproci segna la formazione delle personalità. Ma l’infrangere le leggi dell’amore comporta spesso la disperazione e la morte. È questa la punizione che provoca il dolore. E amore è dolore e dolore è amore. Quest’opera in fin dei conti costituisce una celebrazione del senso tragico della vita. E come afferma Aristotele, la tragedia è catarsi: «La tragedia è l’imitazione di un’azione seria e completa, avente una certa ampiezza di svolgimento, espresso in bella lingua, che, suscitando la pietà e il terrore, giunge a placare questi due sentimenti, sublimandoli» (Poetica IV).


Vincenzo Capodiferro

IL CARCERE TI HA FATTO BENE? Carmelo Musumeci

IL CARCERE TI HA FATTO BENE?


Molte volte il prigioniero è ciò che gli viene permesso di essere.
(Diario di un ergastolano: www.carmelomusumeci.com)

Spesso chi conosce la mia storia e viene a sapere che sono entrato in carcere solo con la quinta elementare, ma che ho preso tre laure, che pubblico libri, che ho ricevuto vari encomi, che svolgo attività di consulenza ai detenuti e agli studenti universitari nella stesura delle loro tesi di laurea sul carcere e sulla pena dell’ergastolo,  mi chiedono: “Quindi, il carcere ti ha fatto bene?”.
 Quanto odio questa domanda! Prima di rispondere penso ai pestaggi che ho subito all’inizio della mia carcerazione. Ricordo i compagni che si sono tolti la vita impiccandosi alle sbarre della finestra della loro cella perché il carcere induce i più deboli alla disperazione. Rammento i lunghi periodi d’isolamento nelle celle di punizione dove sono stato rinchiuso con le pareti imbrattate di sangue ed escrementi. Mi vengono in mente le botte che una volta avevo preso per essere rimasto più di qualche secondo fra le braccia della mia compagna nella sala colloqui. E di quando avevo dato di matto perché avevo trovato le foto dei miei figli per terra calpestate dagli anfibi delle guardie. Penso ai numerosi trasferimenti che ho subito da un carcere all’altro sempre più lontano da casa. Ricordo tutte le volte che venivo sbattuto nelle “celle lisce” perché tentavo di difendere la mia umanità. In quelle tombe non c’era niente. Nessuno oggetto. Neppure un libro.  Nessuna speranza. Non vedevo gli altri detenuti. Li riconoscevo solo dalle grida e dal ritmo dei colpi che battevano sul blindato. Mi ricordo che avevano degli sbalzi di umore: da un’ora all’altra, improvvisamente, piangevano e ridevano. Rammento i lunghi anni trascorsi nel regime di tortura del 41 bis nell’isola degli ergastolani dell’Asinara. Spesso le guardie  arrivavano ubriache davanti alla mia cella ad insultarmi. Mi minacciavano e mi gridavano: “Figlio di puttana.” “Mafioso di merda.” “Alla prossima conta entriamo in cella e t’impicchiamo”. Dopo di che, mi lasciavano la luce accesa (che io non potevo spegnere) e andavano via dando un paio di calci nel blindato. Mi trattavano come una bestia. Avevo disimparato a parlare e a pensare. Mi sentivo l’uomo più solo di tutta l’umanità.
Per alcuni anni mi ero distaccato dalla vita, lentamente, quasi senza dolore. Non desideravo e non volevo più niente. Cercavo solo di sopravvivere ancora un poco. Mi sentivo già morto. E pensavo che non mi poteva capitare nulla di peggio. Ma mi sbagliavo perché non c’è mai fine al  male.
I giorni, le settimane, i mesi e gli anni passavano e io continuavo a maledire il mio cuore perché, nonostante tutto, lui insisteva ad amare l’umanità. M’inventai cento modi per sopravvivere.
Adesso posso dire: “Ce l’ho fatta!”. Ma a che prezzo! Scrivevo per vivere e vivevo se scrivevo. A distanza di venticinque anni, mi domando a volte come ho fatto a resistere e non riesco ancora a darmi una risposta. Mi vengono in mente le ore d’aria trascorse nei stretti cortili dei passeggi con le mura alte e il cielo reticolato, ghiacciati d’inverno e roventi d’estate. Ricordo gli eterni andirivieni, da un muro all’altro nei cortili, o dalla finestra al blindato nella cella, sempre pensando che solo la morte avrebbe potuto liberarmi. Ricordo i topi che mi giravano intorno, gli indumenti, i libri e le carte saccheggiate. Stringevo i denti per non diventare una cosa fra le cose. È difficile pensare al male che hai fatto fuori se ricevi male tutti i giorni. Ti consola poco capire che te lo sei meritato. È vero! Bisogna pagare il male fatto, ma perché farlo ricevendo altro male?
Dopo aver ricordato tutte queste cose, alla domanda se il carcere mi ha fatto bene rispondo che il carcere non mi ha assolutamente fatto bene. Se mi limitassi a guardare solo carcere, posso  dire che non solo mi ha peggiorato, ma mi ha anche fatto tanto male.
Ciò che mi ha migliorato e cambiato non è stato certo il carcere, ma l’amore della mia compagna, dei miei due figli, le relazioni sociali e umane che in tutti questi anni mi sono creato, insieme alla lettura di migliaia di libri di cui mi sono sempre circondato, anche nei momenti di privazione assoluta. Ed è proprio questo programma di auto-rieducazione che mi ha aperto una finestra per comprendere il male che avevo fatto e  avere così una possibilità di riscatto. Molti non lo sanno, ma forse la cosa più terribile del carcere è  accorgersi che si soffre per nulla. Ed è terribile comprendere che il nostro dolore non fa bene a nessuno, neppure alle vittime dei nostri reati. Spesso ho persino pensato che il carcere faccia più male alla società che agli stessi prigionieri perché, nella maggioranza dei casi, la prigione produce e modella nuovi criminali.
Se a me questo non è accaduto è solo grazie all’amore della mia famiglia e di una parte della società.

Carmelo Musumeci
Dicembre 2016

15 dicembre 2016

LA FIGURA STRAORDINARIA DI BIAGIO TERZI Cavaliere dell’Ordine Gerosolimitano di S. Giovanni e Vescovo di Isernia nel ‘700 a cura di Vincenzo Capodiferro

LA FIGURA STRAORDINARIA DI BIAGIO TERZI
Cavaliere dell’Ordine Gerosolimitano di S. Giovanni e Vescovo di Isernia nel ‘700

Lauria, patria di condottieri e di santi, da Ruggiero al Lentini, al Cardinale che porta glorioso il nome della città lucana, annovera tra i suoi figli anche il vescovo Biagio Terzi, vissuto a cavaliere tra il ‘600 ed il ‘700 ed appartenuto all’Ordine Gerosolimitano dei Frati Ospedalieri di S. Giovanni Battista. Non dimentichiamo che l’ordine dei monaci cavalieri ha svolto fin dal secondo Medio Evo una funzione sociale di grande estensione ed importanza. Neanche oggi, con tutta l’organizzazione assistenziale che c’è, nei nostri paesi ci sono tanti ospedali quanti, dal secolo XII al XV ce n’erano diretti dai frati cavalieri. Nel Regno di Napoli due priorati, quello di Capua e quello di Barletta, inquadravano l’attività delle commende. La Lucania fu loro patria e meta prediletta di un altro Ordine mitico, quello dei Templari. Pare infatti, secondo alcune leggende, che Ugo dei Pagani fosse di origine lucane, e quindi italiane e non francesi. Si novera tra l’altro il triangolo dei Templari, composto da tre centri equidistanti. Inoltre nel castello di Melfi di Federico II c’è una sala, che secondo la leggenda ha ospitato il Santo Graal. Forse venutone in possesso Federico raggiunse la sua nobile grandezza. E quando fu ripreso dai Templari e portato via, perdette tutta la sua fortuna. Ma torniamo al nostro!  Questo nobile cavaliere, Biagio Terzi di Lauria, che è menzionato nell’ “Itinerario per lo Regno delle Due Sicilie” di Giuseppe Frangioni Vespoli, Napoli 1828, fu vescovo di Isernia dal dicembre del 1698 e morì nella sede episcopale nel maggio del 1716. Fu egli a far costruire la Chiesa parrocchiale della città nel 1712. Nel 1699, sotto pressione di Innocenzo XII, cedette il monastero di S. Vincenzo al Volturno alla Badia di Montecassino, in cambio del Tenimento di Pesche. Nella sua “Storia d’Isernia”, l’autore Antonio M. Mattei ne rammenta il suo apostolato, accennando alle confraternite, tra cui quella di «S. Maria del Suffragio», la quale «risulta fondata nel sec. XVII nella chiesa di S. Elena (comunemente detta del Purgatorio), ma definitivamente approvata da Mons. Biagio Terzi il 20 ottobre 1712; per decreto del Vescovo Merola venne poi trasferita in S. Maria delle Monache». Il nostro fu insigne studioso e scrisse una descrizione geografica del patriarcato di Gerusalemme, “Patriarchatus Hierosolimitani Geographica descritio”, Roma 1695, opera ormai divenuta rara ed introvabile e meglio nota come “Siria sacra”. Qui vi descrive i luoghi di Terra Santa che accomunarono la romantica difesa e la strenua attività caritativa di tutti gli ordini cavallereschi sorti nel medioevo. La “Siria sacra: Descrittione, istorico-geografica cronologico-topografica delle due Chiese Patriarcali di Antiochia, e Gervsalemme, Primatie, Metropoli, e Suffraganee, Colegij, Abbadie, e Monasteri; notitia de concilij, ordini equestri, e di tutte le nationi christiane orientali; con dve trattati nel fine delle patriarcali d'Alessandria, e Costantinopoli, de primati di Cartagine, e d'Etiopia; con dve tavole de luoghi, e nomi memorabili appartinenti alla Siria, e delle materie dell'opra: aggiunteui quattro carte geografiche opera”, Roma. Nella stamperia del Bernabò alle Muratte, nel vicolo detto de' Chiodaroli 1695, fu poi ristampata sempre a Roma nel 1719 nella stamperia di Giovanni Francesco Buagni, con l’aggiunta delle «notitie historiche del Vecchio, e Nuovo Testamento, e degl'annali Sacri, e profani, de' concilij, canoni, & ordinationi ecclesiastiche, delle religioni & ordini equestri, e di tutte le nationi christiane orientali appartenenti alle suddette due patriarcali chiese, e luoghi subordinati a medesimi”, composta dall'abbate Biagio Terzi di Lauria. Si aggiunge alla lista dei laurioti illustri, insieme ad un altro grande letterato, che visse alla corte del grande Federico II di Svevia, Nicola da Lauria, insieme al famoso storico Specialis Nichola di Noto, Viceré di Sicilia, entrambi inviati in ambasciata presso papa Benedetto XII, che era succeduto a Giovanni XXII, morto nel 1334. Nicola da Lauria, tra l’altro, è citato insieme ad altri autori della corte federiciana dal Muratori nella sua opera.

Vincenzo Capodiferro

14 dicembre 2016

Medicine sciamaniche in sinergia di Giovanni Lattanzi Kambo e Iboga

Presentazione del libro di Giovanni Lattanzi Kambo e Iboga. Medicine sciamaniche in sinergia (Bibliosofica Editrice)

 




Sarà presentato lunedì 19 dicembre 2016, ore 19.30, presso il Centro Spazio Interiore (Via Vincenzo Coronelli, 46 - Roma, zona Pigneto), Kambo e Iboga. Medicine sciamaniche in sinergia (Bibliosofica Editrice), il libro di Giovanni Lattanzi che per la prima volta in Italia tratta, in modo dettagliato ed esaustivo, dei due enteogeni e del loro uso combinato. Oltre all'autore, interverrà anche Lella Antinozzi, curatrice del volume e critico d'arte e Giovanni Feliciani, direttore editoriale di Bibliosofica.
 


Nota semplicemente con il nome di Kambo, la secrezione di una rana dal nome scientifico di Phyllomedusa bicolor, ha svolto per millenni un ruolo decisivo nella cultura sciamanica delle tribù dell’Amazzonia. Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, nell’Africa centro occidentale la corteccia della radice di una pianta sacra, la Tabernanthe Iboga, viene usata da tempi immemorabili dai Pigmei del Gabon e del Camerum.
In questa raccolta di ricerche antropologiche e scientifiche, interviste e testimonianze, oltre ad un’estensiva trattazione riguardante questi due enteogeni ancora poco conosciuti in Italia, Giovanni Lattanzi offre informazioni sulla sua innovativa metodologia.
Giovanni Lattanzi è il primo sciamano europeo ad aver elaborato un metodo di guarigione spirituale usando una sinergia di Kambo e Iboga applicando il Kambo sui Meridiani secondo le indicazioni della Medicina Tradizionale Cinese e somministrando la corteccia di Iboga ad alto e basso dosaggio. Particolare attenzione viene rivolta agli studi sui peptidi presenti nella secrezione del Kambo effettuati dal Professor Vittorio Erspamer, nominato al Nobel per la Medicina e la Fisiologia da Rita Levi Montalcini; agli studi sull’Ibogaina, un alcaloide della corteccia di radice di Iboga divenuto noto per la sua sorprendente capacità di risolvere problemi legati alla tossicodipendenza, ADHD e ADD; agli studi sull’attivazione da parte dell’alcaloide Ibogaina di stati di coscienza quali il sogno lucido e il sonno attivo; all’esempio di Nikola Tesla che testimonia come sogni e visioni abbiano cambiato il nostro mondo. Un intero capitolo del libro è dedicato alla tradizione tolteca di Don Juan e Carlos Castaneda, ai segreti che questa ancora cela e all’inquietante universo de los voladores.
In un'era in cui la salute pubblica viene sempre più monopolizzata dagli interessi delle big farmas, l'autore ci mostra come le più recenti ricerche effettuate sugli enteogeni stiano apportando un contributo decisivo verso la comprensione dell'universo del cervello umano e della sua intrinseca capacità di 'risettare' sé stesso e ci aiuta a comprendere come l'affascinante universo degli enteogeni sia ben lontano dai pregiudizi con i quali viene sbrigativamente liquidato in Occidente.
 


Giovanni Lattanzi è nato a Roma nel 1962. Si è laureato in Religioni e Filosofie dell’India e dell’Estremo Oriente con il professor Corrado Pensa che lo ha iniziato alla meditazione Vipassana. Per più di dieci anni ha praticato meditazione Zen in Francia, nella comunità buddhista di Plum Village fondata dal Maestro Thich Nath Hanh e dal 2005 è fardado della chiesa olandese del Santo Daime, il Ceu da Santa Maria. Pittore e poeta, ha tenuto mostre – personali e collettive – e performance d’arte in Europa; ha pubblicato due libri di poesie spirituali, Dall’acqua e dal Fuoco (2006) e Door Water en Vuur (2007). Dal 2009 facilita cerimonie di Kambo e Iboga in vari paesi tra cui Olanda, Italia, Repubblica Ceca, Finlandia, Messico e Perù e conduce workshop per aspiranti facilitatori di Kambo interessati ad imparare il suo metodo di applicazione. Vive e lavora ad Amsterdam. 

07 dicembre 2016

Letture natalizie a cura di Antonio Laurenzano

LETTURE   NATALIZIE

(LAU) - Quale migliore occasione di Natale per regalare un libro? Un libro speciale “Favole da leader per leader da favola”  riservato ai … leader di domani, ai bambini di oggi che, attraverso i racconti fiabeschi dei genitori, cominciano a disegnare idealmente il loro futuro. Favole provenienti da tutto il mondo, rivisitate e interpretate in chiave motivazionale dal suo autore, Mario Sparacia di Gallarate, affermato Beauty Mental Coach, collaboratore di importanti trasmissioni radiofoniche e televisive.
“La favola, ci dice con contagioso entusiasmo Sparacia, è uno strumento potente che permette non solo ai genitori di ristrutturare alcune convinzioni limitanti, ma soprattutto consente di trasferire questo processo evolutivo ai propri figli, regalando momenti intimi costruttivi e ricchi di contenuti”.
Il libro, pubblicato lo scorso anno, ha riscosso finora qualificati apprezzamenti anche da parte di numerosi  educatori che ne hanno evidenziato la semplicità del linguaggio e la peculiarità del messaggio finale: dare forza emotiva e continuità al rapporto genitore-bambino. Sono in programma alcuni incontri con l’autore nelle librerie di Gallarate mentre per il 17 gennaio è in fase di organizzazione una tavola rotonda in Provincia di Varese per approfondire il tema conduttore del libro e diffonderne la conoscenza fra le famiglie. In attesa del suo arrivo in tutte le librerie, il libro è attualmente reperibile su Amazon, nella duplice versione cartacea ed elettronica  Kindle, per una piacevole lettura natalizia. Una vera magia!

05 dicembre 2016

ALESSANDRO COLLI, TESTIMONE DELLA GRANDE GUERRA Memorie di vita militare (1914-1919) di Vincenzo Capodiferro

ALESSANDRO COLLI, TESTIMONE DELLA GRANDE GUERRA

Memorie di vita militare (1914-1919)

Molto bello, intenso e significativo il libro “Alessandro Colli. Quel che fu 1914-1919. ricordi di vita militare e mia prigionia”; a cura di Beppe Galli, Induno 2016. Alessandro Francesco Colli, figlio di Pietro e di Martina Bianchi, nasce il 28 novembre 1896. Sebbene fosse orfano di padre e suo fratello Pietro già arruolato, fu inviato alle armi nella Prima Guerra Mondiale. Come descrive il Galli nella prefazione: «Ora le figlie Eugenia e Maria Gabriella, rompendo gli ormai secolari e timorati indugi, han voluto, in sua memoria, dare alle stampe “ogni cosa” per rendere partecipe il curioso, ma paziente lettore, di come il “fante” Alessandro Colli, riuscì con le sue forze, sostenute da una Fede mai venuta a meno né tradita, a vivere con “umanità” tutti quei mille e novantanove giorni della sua «vita militare (dall’8 dicembre 1915 al 27 marzo 1916), della guerra (dal 28 marzo al 14 maggio 1916), della lunga e dura prigionia sofferta nelle mani nemiche (dal 15 maggio quando fu catturato nel fatto d’armi di Corna Gadda, al 4 novembre 1918), e del rimpatrio al termine della prigionia (dal 5 al 18 novembre 1918»». Il giovane Alessandro così esordisce queste sue nobili memorie: «Io con questo manoscritto non intendo odiare lo Stato oppure essere interventista nazionale. Nemmeno voglio coltivare l’odio di razza; anzi detesto e disprezzo coloro che mirano a vendetta contro questa o quest’altra nazione, e che di ciò ne fa propaganda». E poi spiega caldamente le motivazioni profonde: «Questi miei ricordi devono servire unicamente per istruzione e per eterna memoria ai miei discendenti, cui spero Iddio mi faccia la speciale grazia di tenerli e farli vivere nella retta e giusta Dottrina Cristiana, unico mio conforto durante i miei più severi disagi». Alessandro fa un’analisi molto acuta poi delle cause del conflitto, oltre alla scintilla dell’eccidio del 28 giugno del 1914, perpetrato dallo studente bosniaco Princip, membro dell’organizzazione “Unità o Morte”, ai danni dell’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria e della sua consorte. Riportiamo, solo per renderci conto della oculatezza storica con cui questo giovane testimone interpreta i fatti, solo alcune motivazioni da lui stese: «I. Gli imperatori e Regnanti non abbastanza pingui della loro posizione, aspiravano a diventar potenti e temuti; mentre si facevano amare dai sudditi li conducevano alla morte, rovina e disperazione. II. Lo squilibrio finanziario commerciale di alcune nazioni, che febbrilmente, all’insaputa delle altre, si preparavano alla guerra. Credendosi al punto giusto e sicuro, scatenarono il demonio che da molto tempo premeditavano, contro gl’inavvertiti». Ma soprattutto - e passiamo alle ultime motivazioni -: «VI. L’Italia poi. La causa principale della sua guerra fu prodotta dalla Massoneria, partito fiero ed inespugnabile in Italia. Temendo che essa avesse a far guerra alla Francia, e quindi portare agli Imperi Centrali una vittoria repentina e sicura, promuove il popolo a dimostrazioni proponendo questo ed altro affinché si avesse a schiacciare detti imperi i quali proteggevano e molto la religione cattolica, che è uno dei più fieri nemici della Massoneria. VII. L’idea di conquista, l’odio di razza, aiuto ai provocati e molte altre condizioni ci trascinarono alla guerra anche noi!». Allo scoppio delle ostilità, l’Italia per gli articoli I e VII della Triplice Alleanza, che richiedevano funzione difensiva in caso di guerra, consultazioni generali e compensi, dichiara la neutralità. Neutralista era il popolo per spontaneo atteggiamento. Neutralisti erano i due maggiori partiti di massa: quello cattolico e quello socialista, ma per motivi diversi. I popolari si esprimevano per un neutralismo contratto, i socialisti, invece per un neutralismo incondizionato, ispirandosi agli ideali internazionalisti e pacifisti. Neutralista era pure Giovanni Giolitti, che così annota nelle “Memorie della mia vita”, Milano 1922, II: «Io avevo la convinzione che la guerra sarebbe stata lunghissima, e tale convinzione manifestavo liberamente a tutti i colleghi della Camera. A chi mi parlava di una guerra di tre mesi rispondevo che sarebbe durata almeno tre anni, perché si trattava di debellare i due Imperi militarmente più organizzati del mondo, che da oltre quarant’anni si preparavano alla guerra, i quali avevano una popolazione di oltre centoventi milioni di uomini e potevano mettere sotto le armi sino a venti milioni di uomini». Il grande statista aveva visto giusto! Ma nessuno volle ascoltarlo. Interventisti, invece, furono i conservatori, i riformisti, i nazionalisti, i democratici, i repubblicani ed i socialisti rivoluzionari. Democratici, repubblicani e radicali erano a favore della guerra ispirandosi ai principi del Risorgimento. I nazionalisti, come Corradini, Papini e D’Annunzio, volevano la guerra per temprare il popolo d’Italia. Interventista fu Benito Mussolini, che per la sua posizione fu espulso dal Partito Socialista e nel suo nuovo giornale il “Popolo d’Italia”, esaltava la guerra, per non essere some mummie perennemente immobili con la faccia rivolta allo stesso orizzonte. In pratica la guerra fu decisa da una minoranza ed imposta a tutto il resto. Nessuno voleva la guerra, né il popolo, né i partiti maggiori. Il rifiuto austriaco di cedere le terre irredente in cambio della neutralità induce il governo Salandra a firmare il Patto di Londra il 26 aprile del 1915. il resto è storia! L’Italia era, come sempre, impreparata: così si giunge al crollo di Caporetto il 24 ottobre del 1917. Da Caporetto a Vittorio Veneto tuttavia, quel popolo pacifico costretto alle armi, ad una guerra che non avrebbe mai voluto, riuscì a realizzare una delle più brillanti vittorie della sua storia. È il popolo che ha vinto, non i dirigenti miopi e sprovveduti, come Orlando e Sonnino, i quali tradirono l’Italia nella trattative di pace. Il simbolo della Grande Guerra diviene la trincea, che fa esclamare ad Ungaretti: «Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie». Questo senso di precarietà dà il via all’esistenzialismo, la fase di smascheramento delle illusioni positiviste del progresso infinito. Il progresso non può che condurre a guerre, a distruzione, perché ha bisogno di distruggere per poter ricostruire. La macchina del progresso è un mostro abnorme, è il Moloch, che brucia i fanciulli, gli adolescenti nella trincea: se non si sacrifica a questo dio malvagio non vi può essere crescita. Lo stesso avviene nel 1939, dopo la Grande Depressione del 1929. Abbiamo scelto una pagina veramente forte in cui Alessandro descrive questo dramma della trincea e della fuga: «Impossibile definire il numero delle volte che mi gettai a terra come morto e rialzato intraprendere la corsa fra una strada serpeggiante mascherata da rami, frascate e pini, sempre accompagnato dagli strapnel e cannonate a calibri grossi e piccoli, di cui la strada ne era coperta di bossoli scoppiati. Molti erano i morti che trovai a terra stesi e posti in tutti i modi, malconci e colle membra rovinate e fracassate. Arrivai a metà monte su un dosso e per terribile meraviglia mi accorsi che le cannonate venivano non solo dal monte Finocchio, a noi di fronte, ma anche dal monte Baviena, formano il fuoco intrecciato. Un soldato di Cuirone ci insegnò la via da seguire. In un lampo posi la mente alla mamma a casa e a Maria Ausiliatrice, e con una corsa sfrenata feci la discesa un po’ in piedi, chino e in mille modi accompagnato da una grandine di granate e cannonate. Posto in salvo dalla roccia quota 750, mi volsi a vedere da dove passai e con qual pericolo. Scorsi un vero macello umano. Chi veniva tranciato e mandato per aria, chi rimase colla testa fracassata, un braccio di qua, una gamba di là. Passai proprio sopra un mucchio di poveri sodati morti mescolati a bossoli, fucili e mitragliatrici. (Qual orrore, ancora ora che sto descrivendo simili momenti, dalla fronte mi sgorga un sudor freddo). A quello spettacolo la vista mi si offuscò. Pensavo a tutti quei poveretti che erano costretti a passare proprio di là. Spossato mi rifugiai in una baracca di salvataggio posta sotto una roccia a picco e riposai per circa mezz’ora. Fuori il fuoco continuava senza tregua. La baracca era piena di feriti e sempre ne arrivavano». Fa eco Ungaretti: «È il mio cuore il paese più straziato»! Ed infine, dopo la prigionia, a conclusione, rileggiamo con commozione il tenero rimpatrio: «Arrivai a san Pancrazio, il portone del palazzo mi fu di fronte. Al portello mi fermai. Baciai la porta della chiesa e dissi: «Che faranno i miei, che penseranno?». Con uno slancio di impazienza suonai al campanello. Una bambina mi aprì la porta e subito la baciai. Essa si impaurì e pianse. Due cani arrivarono abbaiando in difesa della bambina. Fatti pochi passi mi trovai abbracciato dalla mamma e cognata e si pianse». E si pianse! Un finale maestoso e mesto che ci ricorda per sempre il dramma della guerra da chi la ha vissuta di persona. Eraclito profetava: la Guerra è la regina di tutte le cose. Fin quando faremo comandare a lei non ci sarà mai pace tra gli uomini! Dobbiamo opporci alla Guerra, ma non con le sue stesse armi, con la Pace, con la non violenza! Non possiamo essere come Giani bi-fronti! L’uomo è un Giano. Noi non possiamo dimenticare! Non dobbiamo dimenticare ciò che ha prodotto questa forza distruttiva ed aggressiva all’umanità. Noi non possiamo dimenticare le Shoah di tutti i popoli. L’Europa dal 1945 non ha visto più una guerra. Stiamo attenti, che non possa tornare, mai più! L’orrore è sempre alle porte. Può vivere l’uomo senza guerra? Risponde Quasimodo: «Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo.»!
Vincenzo Capodiferro

IL DIFFICILE RAPPORTO FRA FISCO E CONTRIBUENTE di Antonio Laurenzano

           di Antonio Laurenzano

Sempre in salita, con reciproca diffidenza,  il rapporto fra Fisco e  contribuente dopo l’approvazione del  recente decreto fiscale collegato alla Legge di bilancio 2017. Un provvedimento complesso, molto articolato, con una lunga serie di misure finalizzate, almeno nell’ intento del Legislatore, a rendere  la vita meno difficile a imprese e famiglie.  Ma la strada verso un Fisco più semplice è lunga!
Ancora una volta è caduto nel vuoto l’appello di Ezio Vanoni, storico Ministro delle Finanze degli Anni Cinquanta per “un ordinamento tributario conoscibile nelle forme e comprensibile nei contenuti”. Da anni si opera con una frantumazione della legislazione tributaria e  un confuso proliferare della normativa  che è causa non solo di uno scadimento qualitativo della legislazione ma anche della potenziale ignoranza della legge, con grave pregiudizio della certezza del diritto, divenuta una chimera!
E il decreto fiscale approvato dal Parlamento a supporto della manovra finanziaria è l’ennesima … opera incompiuta!  Si colgono pochi timidi segnali di semplificazione: dalla “tregua estiva” per atti e scadenze alla soppressione del tax day  del 16 giugno, con il solo pagamento di Imu e Tasi e lo spostamento a  fine mese dell’acconto Irpef, Ires, Irap. Ma lo spacchettamento del tax day non elimina il … rischio ingorgo perché  sembra mancare un disegno organico di razionalizzazione della intrigata giungla di balzelli e tasse e relativi vincoli amministrativi.  Parlare infatti di semplificazione fiscale e introdurre per i soggetti Iva otto fastidiosi adempimenti (lo “spesometro trimestrale” con quattro invii delle fatture emesse e ricevute oltre a quattro invii trimestrali delle liquidazioni Iva) significa frapporre altri ostacoli sulla strada della “efficienza, trasparenza e certezza”, principi amministrativi affermati nello Statuto del contribuente.
Cresce il disagio degli operatorii, mobilitati a Roma per il 14 dicembre, per obblighi fiscali che non solo disattendono le numerose e continue promesse di semplificazione ma  “contribuiscono a complicare ulteriormente il funzionamento del  sistema fiscale in Italia”. Un aggravio notevole di lavoro che pone la questione di un  “bilanciamento” tra l’eliminazione di adempimenti palesemente privi di efficacia operativa (intrastat, black list, ecc.) e l’introduzione di nuove dispendiose misure. Non c’è dubbio che l’evasione in Italia, soprattutto per quanto riguarda l’imposta sul valore aggiunto, abbia raggiunto livelli da maglia nera in Europa. Siamo il Paese con maggior numero di partite Iva aperte, oltre mezzo milione all’anno, molte delle quali dedite alla …  “finanza creativa” con  rilevante  imponibile sottratto a tassazione, anche sul versante delle imposte dirette. La lotta all’evasione fiscale è la ragione d’essere di un sistema tributario e, più in generale, di una sana economia. Chi non paga il debito d’imposta fruisce di una rendita che altera la concorrenza e il mercato. Ma è pur vero che un serio contrasto all’evasione fiscale non va condotto con una strategia moltiplicatrice degli adempimenti. Aumentare gli obblighi non frena l’evasione! E cancellarli dopo il loro esito negativo mina la credibilità di ogni intervento.      
Ciò di cui il Paese ha bisogno, soprattutto in un periodo di stagnante ripresa economica, è un fisco semplificato che oltre a ridurre il più possibile il prelievo, sostenga la crescita, sia equo e renda difficile l’ evasione e l’elusione attraverso le numerose ed efficienti banche dati di cui l’Amministrazione finanziaria dispone. Un patrimonio informativo notevole che consente di eseguire una selezione intelligente e preventiva per individuare i contribuenti  a rischio da sottoporre a controllo, in un’ottica di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa.   
Si ponga quindi fine alla incessante richiesta di informazioni che creano alle imprese costi non riscontrabili in altri Paesi dell’Ue. Abbia termine la stagione delle tante modifiche, interpretazioni, rettifiche della normativa tributaria, dei tanti  “rimedi a singhiozzo”! Combattere l’evasione attraverso la  … lotta alla burocrazia fiscale, ridisegnando il peso fiscale con tre obiettivi di fondo: semplicità, crescita, equità. Più complicato è un sistema fiscale, più facile sarà nascondere un reddito nelle sue pieghe: ecco perché un’attenta semplificazione può aiutare l’equità. Conciliare il gettito tributario e diritti dei contribuenti (pax fiscale?) è la grande sfida del Fisco italiano. Una sfida di civiltà giuridica. 

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

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