20 febbraio 2015

Recensione di un ergastolano al libro “Dignità e Carcere” di Marco Ruotolo

Recensione di un ergastolano al libro “Dignità e Carcere” di Marco Ruotolo
In carcere si è tagliati fuori dal mondo. Oggi per tutto il giorno ho cercato di guardare dentro di me, ma non sono riuscito a vedere nulla. Ci sono dei giorni, come questi, che non so cosa fare. E soprattutto non so neppure se voglio ancora fare qualcosa. (Diario di un ergastolano www.carmelomusumeci.com)


Ho incontrato Marco Ruotolo, Professore di Diritto Costituzionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi “Roma Tre”, in carcere a Padova, come relatore del seminario di formazione per i giornalisti del Veneto. Ci siamo sorrisi. Presentati. Stretti la mano. E abbiamo scambiato due chiacchiere. Poi lui mi ha donato il suo libro “Dignità e carcere” II edizione (“Editoriale Scientifica” dalla Collana “Diritto penitenziario e Costituzione”).
Ed io ho ricambiato donandogli il libro “L’Assassino dei Sogni. Lettere fra un filosofo e un ergastolano” con la corrispondenza fra me e il Professore di Filosofia Morale alla Federico II di Napoli, Giuseppe Ferraro, curato dalla brava giornalista Francesca De Carolis (prima edizione 06/2014 e prima ristampa 09/2014, “Stampa Alternativa”).
Leggere sul libro del Professore Marco Ruotolo “La Costituzione sancisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” e “La legge prevede che il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità umana” mi ha fatto pensare a come può una pena che non finisce mai come l’ergastolo essere compatibile con la dignità umana. E poi ho amaramente sorriso perché non c’è al mondo una persona che sappia bene come il prigioniero italiano la grande differenza che c’è in carcere fra i diritti dichiarati e quelli realmente applicati.
E ho iniziato a ricordare di quella volta che mi hanno trasferito in uno dei carceri più duri d’Italia. Erano gli anni ’90. Ero appena stato condannato alla “Pena di Morte Viva” o, come la chiama Papa Francesco, alla “Pena di Morte Nascosta”. Ecco cosa scrissi nel mio diario di allora:
Appena vidi la struttura provai una grande inquietudine. L’edificio era brutto. E sinistro. Pieno di alte e massicce mura. E cancelli e sbarre da tutte le parti. Ero arrivato in quel carcere con una riservata nel fascicolo, come detenuto che creava problemi. E sapevo già cosa mi sarebbe aspettato. Dopo la visita in matricola e in magazzino, invece di portarmi in sezione, mi accompagnarono alle celle di punizione. Avevo tre guardie davanti e due dietro. Loro mi guardavano con aria aggressiva. Ed io li osservavo di traverso. Per un attimo desiderai di essere invisibile. Ed ebbi uno strano presentimento, mi si stringeva la gola. Più andavo avanti e più le guardie continuavano a guardarmi con aria sprezzante. E minacciosa. I loro sguardi mi rivelavano quello che io sapevo già. Scendemmo una scala stretta e rigida, con i gradini di pietra. Poi sbucammo in un corto corridoio che sembrava un sotterraneo. La guardia davanti si fermò alla prima cella. Era chiusa con un pesante blindato di ferro, con macchie di ruggine dappertutto. La guardia infilò nella serratura una grossa chiave di ottone. E la girò con fatica. La porta di ferro si aprì cigolando. Poi la stessa guardia con un’altra chiave aprì il pesante e spesso cancello. E si mise di lato per farmi passare. Aggrottai le ciglia. Mi colpì subito un forte odore di umidità. E di urina. La cella era quasi buia. Diedi immediatamente un’occhiata veloce per trovare subito l’angolo più adatto per tentare di proteggermi. Subito dopo sentii un colpo di tosse alle mie spalle. E capii che quello era il segnale. Le guardie entrarono uno dietro l’altro nella cella. Ci stavamo appena. E si schierarono davanti a me. Nessuno si muoveva. Osservai il loro sorriso sarcastico. Trassi un respiro profondo. E gli restituii il sorriso. Non potevo fare altro. Poi serrai le labbra. Una guardia si strofinava platealmente le mani una con l’altra. Un’altra abbozzò un movimento. Un’altra ancora rispose con un cenno d’intesa appena percepibile. Erano in cinque. I deboli sono sempre in tanti quando picchiano un uomo solo. Li fissai per qualche secondo uno per uno. Avevano brutte facce. Visi da aguzzini. Per un attimo li guardai con lo sguardo spaesato. E mossi la testa da un lato all’altro. C’era un silenzio che si poteva tagliare solo con il coltello. Poi per farmi coraggio mi misi le mani sui fianchi. Alzai la testa all’insù. Li guardai dritto negli occhi. E per farmi forza parlai per primo io. E con aria di sfida mormorai più a me stesso che a loro: Figli di puttana. Il primo pugno mi arrivò alla tempia. Fatevi sotto. E siccome non avevo visto arrivare il colpo, andai a sbattere nell’altro lato del muro. Non mi fate paura. Un’altra guardia mi guardò con occhi di ghiaccio. Bastardi. Mi prese per una spalla. Se siete degli uomini… Mi fece girare dall’altro lato. E avete coraggio... Mi sbatté contro il muro. Fatevi sotto uno per volta. E nel rinculo mi diede un pugno nello stomaco che mi tolse il respiro. Barcollai. E cercai di aggrapparmi alla parete. Ansimaii, cercando di riprendere fiato. Poi le ginocchia mi si piegarono. E scivolai per terra con le spalle contro il muro. Strinsi i denti. E tentai di fermare il mondo che stava girando intorno a me. Nel frattempo però mi arrivò un calcio nella mascella da un’altra guardia. Uno nel ventre. Poi ancora un altro in faccia. E mi scese un rigolo di sangue dal naso. Me lo asciugai con la manica del maglione. E continuai a inveire contro di loro. Era come se le botte che ricevevo mi davano l’energia per urlare contro i miei aguzzini. Ad un tratto cercai di rialzarmi. Non ce la feci. Una guardia mi prese per i capelli da dietro. E mi sferrò un pugno. Un altro mi diede un calcio. Poi un altro. E un altro ancora. I colpi mi arrivavano da tutte le parti. E mi pestarono come l’uva. Pensai che finalmente fosse arrivata la mia ora. E decisi di mettermi le braccia attorno alle gambe. La testa rannicchiata nel petto. E desiderai di morire senza soffrire. Per fortuna persi quasi subito i sensi. Caddi in uno stato d’incoscienza. E in questo modo me la cavai perché solo il mio corpo sentì le botte più dolorose. Persi ogni legame con il tempo. E sprofondai nel pozzo nero dell’incoscienza. Le guardie dopo avermi massacrato, con la coscienza tranquilla di avere fatto il loro dovere, uscirono dalla cella sbattendo il cancello. E chiusero il blindato con la mandata.
Qualcuno potrebbe dire che questi episodi in carcere accadono di rado, altri che accadono anche nel mondo libero e altri ancora che ce la siamo cercata. Ed io posso rispondere che purtroppo il carcere è luogo più illegale di qualsiasi altro posto e la Carta Costituzionale e la Legge scritta qui dentro non sono altro che carta straccia. E non perché lo dico io, ma perché lo ha detto spesso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con le numerose condanne che ha subito il nostro Paese. Lo ha detto spesso il anche il nostro (adesso ex) Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e per ultimo leggo nel libro di Marco Ruotolo: l’11 marzo la Administrative Court di Londra nega l’estradizione di Hayle Abdi Badre, cittadino somalo accusato dalla Procura di Firenze di violazione della direttiva europea sui servizi finanziari, non avendo ricevuto adeguate garanzie sul trattamento che il detenuto avrebbe ricevuto nelle nostre carceri. Analoga decisione viene assunta il successivo 17 marzo per un latitante italiano, accusato di associazione mafiosa, sempre in ragione dei rischi di sottoposizione dell’estradato a trattamento inumano e degradante.
Che altro aggiungere? Nulla! Posso solo sorridere perché il sorriso è l’arma migliore per il prigioniero.
Carmelo Musumeci
Carcere di Padova, Febbraio 2015

PACE E SVILUPPO : UNA SFIDA DA VINCERE La giustizia sociale e la tutela dei diritti umani di Antonio Laurenzano


             
PACE  E  SVILUPPO : UNA SFIDA DA VINCERE
La giustizia sociale e la tutela dei diritti umani

                                                di  Antonio  Laurenzano

Venti di guerra soffiano impetuosi in tante regioni del mondo. Si ripropone, nella sua drammatica attualità, il problema della pace e di uno sviluppo sostenibile nella consapevolezza che promuovere una società migliore non significa  aumentare  ricchezza, favorire i consumi, offrire nuove tecnologie. Significa invece garantire a tutti i popoli della terra libertà e giustizia sociale, significa assicurare forme di governo democratiche per uno sviluppo inteso come libertà per costruire un futuro nel quale nessun Uomo dovrà stendere più la mano per chiedere per carità ciò che gli spetta di diritto.
E’ in atto un processo di globalizzazione che, esaltando le leggi dell’economia e del mercato, ha posto scarsa attenzione ai costi umani, sociali, culturali e ambientali.  Gli effetti perversi di decenni di politiche mondiali influenzate dagli interessi delle multinazionali e dei grandi paesi industrializzati sono sotto gli occhi di tutti:  espansione di un mercato senza regole, inquinamenti atmosferici  e avvelenamenti alimentari, identità storiche e culturali a rischio. E’ giunto il momento di ridefinire le priorità della politica, restituirle il ruolo guida nei processi di crescita della società attraverso una diversa distribuzione delle risorse economiche, mettendo l’economia  al servizio della politica, e non viceversa!   
            La comunità internazionale ha bisogno di governi e istituzioni  determinate a gestire le sfide dell’interdipendenza, a mettere fine a ogni prevaricazione e a ogni minaccia per l’umanità. Istituzioni decise a contrastare nei fatti e non a parole le guerre e le sistematiche violazioni dei diritti umani, sradicare la povertà e garantire a tutti il libero accesso ai diritti sociali di base: il diritto al cibo, all’acqua, alla salute, all’educazione, a un lavoro dignitoso, alla casa. In particolare, all’ONU nel cui statuto, all’articolo 1, è sancito l’obiettivo di “mantenere la pace e la sicurezza internazionale”, viene chiesto più democrazia per tutti, per riaffermare il primato della politica, della giustizia e della libertà. E lontani dalla democrazia, la globalizzazione è totalitarismo e colonialismo! E’ sfruttamento!
            Senza il rilancio del  sistema delle Nazioni Unite, senza un forte investimento per ridargli forza, efficacia e credibilità, le risoluzioni del Palazzo di Vetro resteranno “voci nel deserto” con buona pace degli equilibri politici, del dialogo fra i popoli ma soprattutto dell’equa distribuzione delle fonti di reddito. Sarà possibile costruire una società diversa se si riuscirà a sostituire la cultura della guerra con la cultura della pace, la competizione selvaggia con la cooperazione, l’esclusione con l’accoglienza, l’individualismo con la solidarietà.
            E’ scandaloso che, nonostante l’enorme crescita della ricchezza mondiale e gli straordinari progressi tecnologici e scientifici, ci siano ancora tante famiglie nel mondo escluse dai  diritti fondamentali. All’alba del Terzo Millennio, secondo i recenti dati della FAO, ci sono nel mondo più di 900 milioni di persone denutrite e di queste 300 milioni sono bambini. Ogni giorno 24  mila abitanti della terra muoiono per fame, un miliardo e duecento milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile, 160 milioni di persone sono senza lavoro, 250 milioni sono i bambini costretti a lavorare spesso in condizioni terribili. Come potrà mai esserci pace in un simile contesto mondiale? Quale futuro ci sarà per le popolazioni del Terzo mondo?
            La lotta  per la dignità umana deve essere parte di un instancabile impegno comune teso a promuovere uno sviluppo sostenibile e la globalizzazione dei diritti umani, ovvero:  diritti umani per tutti. E questi  obiettivi  si incentrano sulla dignità della persona umana, sull’eguaglianza e sulla non discriminazione, sulla solidarietà e sulla cooperazione internazionale. La globalizzazione imposta, quella cioè rispondente soltanto alle leggi dell’economia e del mercato, rischia di vedere  l’uomo oggetto e non soggetto dei processi di cambiamento della società, confinato in un infernale meccanismo di sterilizzazione dei diritti fondamentali. Sarebbe la fine dell’umanità!

18 febbraio 2015

“VI RACCONTO. RICORDI DI UNA VITA” Un’intensa e raccolta autobiografia di Eugenio Vigolodi Luino

“VI RACCONTO. RICORDI DI UNA VITA”
Un’intensa e raccolta autobiografia di Eugenio Vigolodi Luino


“Vi racconto. Ricordi di una vita”, di Eugenio Vigolo, è un’intensa e raccolta autobiografica, edita dalla Bine, a Milano, nel 2014. Eugenio Vigolo nasce a Montegalda, in provincia di Vicenza, nel 1922 ed oggi risiede a Luino. Così scrive di lui Don Massimiliano Terraneo: «Leggendo i racconti di Eugenio, bambino, sposo, padre, nonno, amico, si prova la freschezza delle sorsate di acqua limpida dellefontid’alta quota… La sua umiltà come la condizione di vita più preziosa… la bellezza sempliceevera di un uomo sorridente che, nei suoi novant’anni, è anzitutto in pace con se stesso, con tutti e con Dio». Veramente in queste poche righe si condensa il senso profondo, il significato, oltre che il significante di questa opera densa, ma nello stesso tempo ricca di vita, realistica. E se dobbiamo, invece, descrivere lo stile, in altri termini il significante, ci affidiamo certamente alle parole del Professore Roberto Radice, Ordinario di Filosofia alla Cattolica, che così lo riassume nella Prefazione: «Nello scritto di Eugenio Vigolo ci sono pochissimi aggettivi. Mentre i nomi per lo più esprimono i fatti e le cose, gli aggettivi descrivono le nostre reazioni ai fatti e i nostri giudizi su di essi: sicché gli uni sono oggettivi, gli altri soggettivi. Tutto ciò per dire che nella sua storia c’è poco di soggettivo: è un racconto nudo e crudo, dove non si sente il bisogno di esibire commenti o sentimenti, se non rare volte, quando il dolore e la gioia diventano essi stessi protagonisti». Per queste ragioni il “racconto” di Eugenio si inserisce perfettamente in quello stile che oggi viene definito “nuovo realismo”. La storia stessa si fa racconto, memoria e c’è l’intreccio tra la propria vita e la Vita dell’Italia. Riportiamo anche una nota della Dottoressa Carla Soltoggio Moretta dell’Unitre di Tirano: «Come è nel suo temperamento, pungolato dalle vicende della vita, non si abbandona ai ricordi, ma li rivive per donarli, con coraggio e amore. Anche quando ricorda uno sbaglio euna burla divenuta pesante non si nasconde, pensa e narra con sincerità, scrive con la semplicità del cuore. Leggendo, senza accorgersene, ci si sente partecipi, indotti a riflettere, a confrontarci con le nostre esperienze, ad aver fiducia in sé stessi. Se ne esce rassicurati. E anche ammirati». Eugenio ci racconta la storia della sua famiglia, le cui mitiche radici si perdono nel Trentino: «I miei avi devono esseredi origine trentina, di aver posseduto un castello, espropriato poi dagli austriaci durante la loro occupazione». Il Trentino è lo sperone d’Italia, frammento della memoria del grande Impero Austro-Ungarico di Maria Teresa e di Giuseppe, prima della capitolazione finale del 1919.  In effetti esiste il Castel di Vigolo a Vigolo Vattaro in provincia di Trento. La prima parte della vita diEugenio si svolge comunque tutta nel Veneto, l’antica Serenissima. Quest’uomo ci racconta la sua vita contadina, i suoi trasferimenti: nel 1929 a Scodosia (Padova), nel 1931 per Arcugnano (Vicenza). Molto bella a proposito la nota storica della dote della madre, Maria Luigia Maran, nata a Sandrigo nel 1880, stilata dal nonno nel 1902. Alla fine c’è scritto in tono veneto: La noviza con quello che trova. A 17 anni diviene egli stesso il fattore, come ci racconta: «Da quel giorno dovevo essere io a dirigere l’azienda: vendere, comprare, versare l’affitto, pagare gli operai e tutto quello che necessitava». A 19 anni viene chiamato alle armi. Aveva fatto il corso per telegrafista e marconista, e nel 1942 inizia, per lui, come per tanti giovani del tempo, quella lunga e difficile esperienza della guerra, che ci racconta con tono sentito e sofferto. Non dimentichiamo che proprio in quegli anni difficili le grandi valli, come tutte le convalli della chioma d’Italia, si spopolano: tutti gli alpini partono per la stupida Campagna di Russia. E poi vengono di nuovo arruolati nella lotta fratricida tra le due Italie: quella di Salò e quella di Brindisi. Conosce la sua amata Elsa, inizia per lui l’esperienza della vita matrimoniale, vissuta fino alla fine con fedeltà e purezza. Nel 1952 la famiglia Vigolo lascia il Vicentino e si sposta nel Novarese a lavorare nelle risaie e dopo una breve parentesi finalmente, nel 1955 a Luino. Nel 1961 Eugenio è costretto, suo malgrado a lasciare definitivamente l’azienda, perché non basta a sfamare due famiglie. La vita a Luino cambia: nuovo lavoro, nuove soddisfazioni. Nel 1949 nasce il primo figlio Giampaolo, «Poi nel 1952 arrivò il compagno di giochi, il fratellino Giorgio, un bambino anche esso bello e vivace». I figli che hanno allietato la vita di quella aulica coppia sono Giampaolo, Giorgio e Mirella. Il 12 agosto del 2009 muore Elsa. Eugenio racconta con tono drammatico: «La mia cara Elsa non c’è più». «È rimasto un tremendo vuoto». Ed infine per lei annota: «Come è breve tutto ciò che è bello»! E la vita subito ricomincia con quell’Oggi: gli interessi della Terza Età. Eugenio si occupa di giardinaggio, frequenta l’Unitre. Eugenio ci racconta la sua vita, l’infanzia e l’adolescenza vissuta nella civiltà agricola del Nord, tra il Veneto, la “Terronia” del Nord, la “Padania” e la Lombardia, la “Langobardia Maior”, la terra dei Longobardi. La sua vita è stata difficile come lo era quella dei contadini, ma semplice e pura. Leggendo Eugenio ci si immerge stupiti in quella civiltà agraria, che accomunava Nord e Sud, Est e Ovest, Africa e Asia. Certe note assomigliano a quelle di Levi e il suo “Cristo di è fermato ad Eboli”, a noi così caro. È una civiltà universale che sta sparendo. La civiltà contadina e pastorale oggi è svanita: soprattutto in quel Nord. Eppure inoltrandosi negli antichi sentieri alpini e prealpini, addentrandosi ai margini di quell’altre civiltà, quella industriale e post-industriale, moderna e postmoderna, non è raro trovare in pieno Nord, quel Sud del Nord, sulle montagne, sulle altezze sconfinate, sugli altipiani abitati da druidici pastori. Non è l’agricoltura intensiva che si fa in pianura, in Padania: è un’altra cosa! Si torna agli albori del mondo: è un’altra vita, quella vera! Così si può capire la parola di Eugenio: «Cari miei, voi che mi state leggendo, per chi è nato e cresciuto in campagna… non è facile accettare il cambiamento».Ed oggi chi è che nasce e cresce in campagna? Nessuno! Perciò si sono perse tutte le tradizioni, tutte le lingue: la civiltà contadina, scomoda e fiera è diventata oggetto da museo. Avete voglia voi a far studiare il dialetto! Non serve più a niente, perché è diventata una lingua morta, bandita dai marasmi della globalizzazione omicida di culture. Quella di Eugenio è una testimonianza vivente: dal Fascismo alla Guerra, dalla Guerra al Dopoguerra. Eugenio ha visto tutto: chi più di lui può capire il senso della vita, delle trasformazioni storiche, sociali che ci hanno portato alla nostra sedicente civiltà tecnologica e digitale, ove non vi è più spazio per quella spensierata e viva“vita di campagna”, che caratterizzava tutti i tempi della nostra Italia? Mussolini stesso si identificava con quella civiltà con le sue bonifiche, la campagna del grano, che faceva piantare il grano lungo i filari delle ferrovie, che si intrecciavano coi filari di carducciani cipressi. E come si poteva superare la Grande Crisi del 1929? E come si può superare la Grande Crisi oggi? La storia di Eugenio è Storia vivente, è una testimonianza sicura, che riposa sulla fede: una fervente fede religiosa che accompagna sempre la vita di Eugenio. Questa fede è anche fede nei fatti: «verum et factum convertuntur», asseriva Vico. Eugenio ci racconta non una storia astratta, ma quella vera e senza tanti fronzoli, senza scuse. Il suo realismo, il suo puro esistenzialismo è colorato di affetti, di umanità, di coraggio. Ogni vita è unica ed irripetibile, c’è, ma siamo noi ad interpretarla. I fatti, come scriveva Nietzsche, sono stupidi senza l’interprete. È questa notevole interpretazione che rende quei fatti vivi, vicini a noi e ce li fa palpare e conoscere davvero.Potremmo concludere con i versi di Giuseppe Ungaretti, tratti proprio da “Vita di un uomo”: «So di passato e di avvenire quanto un uomo può saperne./ Conosco ormai il mio destino, e la mia origine./ Non mi rimane più nulla da profanare, nulla da sognare./ Ho goduto di tutto, e sofferto». Rappresentano forse la sintesi di tutto il cammino che quest’uomo, Eugenio Vigolo, ha voluto offrirci in questa densa e sentita memoria.

12 febbraio 2015

IL DEMONIO DI SANT’ANDREA. “Un romanzo ricco di ideali cristallini. Ideali senza tempo”.


IL DEMONIO DI SANT’ANDREA.
“Un romanzo ricco di ideali cristallini. Ideali senza tempo”.

“Il demonio di Sant’Andrea”, come annota Rita Borsellino è “Un romanzo ricco di ideali cristallini. Ideali senza tempo”, scritto da Gaetano Allegra e pubblicato nel 2013. E prosegue ancora la Borsellino: «La storia del protagonista Totore Iodice si muove con la storia di questo territorio, con i suoi difetti ed i suoi pregi, e le sue gesta non sono altro che quelle di tanti meridionali, come lo è il suo animo nobile e coraggioso e allo stesso tempo umile… Tutt’attorno si muove la storia di una nazione, che non ha ancora fatto i suoi conti con la sua nuova identità, che vive di ipocrisie e di contraddizioni. Una storia – quella del Sud d’Italia post unità – che non fu». Aggiungeremmo: una storia inesistente che non è ancora terminata, una questione meridionalmente ininterrotta. E Giuseppe Musolino aggiunge: «E sempre il titolo, a partire da un’associazione di idee, ci conduce al significato materiale del “miracoloso” di quanto avviene in oltre 300 pagine da divorare avidamente». E conclude che la Rivoluzione può deflagare ovunque, come avvenne in quella grande stagione della rivoluzione sociale della Basilicata e dintorni, che poi fu tacciata di Grande Brigantaggio. «Un secolo e mezzo fa, una città sorge dal nulla e nel nulla; nasce una rivolta e un leader come nella storia della civiltà». Allegra ci ricorda il canto dei briganti: uomo si nasce e brigante si muore! Ci fa la storia di un brigante intellettuale, che alla fine muore da eroe per non essere asservito al solito potere dei forti. È un brigante tradito da un Giuda per trenta denari. La storia è tutta ambientata in Basilicata, la terra di Crocco e di Ninco Nanco. “Il demonio di Sant’Andrea” è un romanzo storico notevole, manzoniano. Lo stile è sobrio e attento: l’autore sa coniugare bene la storia e la letteratura in quella ricerca del vero che nel verosimile trova il suo significato più profondo. Oggi si parla di reality, che è distinto dal reale: quest’opera rispecchia il “nuovo realismo”. Il giovane autore, Gaetano Allegra è nato a Milano nel 1979 da genitori di Messina. Si è diplomato al grande Liceo Cairoli di Varese. È impegnato in molti campi: letteratura, giornalismo, testi televisivi, appassionato di musica vive e lavora a Varese. Come mai questo giovane è stato colpito dalla nostra terra ancestrale e contraddittoria? Il Brigantaggio è l’antiepopea eroica del Risorgimento, ecco perché lo possiamo scrivere con la B maiuscola. Il Risorgimento è l’epopea della borghesia e dei galantuomini, il Brigantaggio è l’epopea dei deboli e dei cafoni. Gli storici e gli intellettuali di sinistra, a partire da Gramsci, hanno rivitalizzato la questione meridionale: hanno intravisto nel brigantaggio una controrivoluzione, una “rivoluzione diversa” delle masse proletarie e contadine contro gli strapoteri forti. Grazie alla profondità di questa storiografia marxista c’è stato il revisionismo del brigantaggio meridionale. Totore è l’alter Crocco. È l’anti-eroe. È un uomo che si sforza di essere colto, di dare un senso alla sua battaglia. È l’eroe saggio e sapiente, che al pari dei rinascimentali vuole assumere la sua funzione storica. Non si ritira dinanzi ai fucili a pietra focaia. Questa funzione non è quella del cervello di Passannante che viene esposto come trofeo della lombrosiana inferiorità della razza meridionale o della beduinità dei selvatici terroristi di turno. Il brigante non è un terrorista, non fa strage di civili o di innocenti, il brigante è colui che lotta contro i potenti. Il brigante non è un malato mentale che grazie ad una presunta lettura frenologica risulta essere un delinquente per natura. Così è stato fatto passare dalla pseudo-storia dei vincitori. L’epopea dei briganti è la ribellione al sopruso del Potere centrale, con parole forti di Pasolini, che aveva deciso di far fuori il Regno Neapolitano. È la voce della protesta dei contadini contro gli abusi della borghesia. Una parte della borghesia stessa d’altronde era rimasta fedele ai Borboni ed al loro sogno Duosiciliano. D’un tratto questi Borboni erano diventati Barboni senza regno, grazie all’”eroe” Garibaldi, sostenuto dall’Ammiraglio Nelson e dalla sua flotta in mare aperto e dalla Mafia separatista. Gli Americani avevano fatto lo stesso, altrimenti non si spiegherebbe lo sbarco in Sicilia. Il brigante è il Rivoluzionario per eccellenza, è il “Che” che c’è sempre, è il “Cristo sconosciuto”, è il Robin Hood, è il “Fra Diavolo”. Ecco perché i Borboni stessi avevano usato questi rivoluzionari nel 1799, nel 1806 e nel 1861. È il potere che usa la rivoluzione contro un altro potere. Questa collusione tra potere politico e brigantaggio c’è sempre stata: ora tra potere e Mafia. Tanto per dimostrarlo citiamo una curiosa nota storica di ciò che riporta un giornale del tempo, “Il Bruzio”, diretto da Vincenzo Padula, di cui si ha una preziosa ristampa anastatica a cura del Prof. G. Galasso, della Rubettino, 2011: «Il Brigantaggio pare finito nella nostra provincia. Per promessa di danaro i tre briganti Marrazzo, Celestino e De Marco congiurarono contro Pietro Monaco; e la gratitudine delle autorità per questo segnalato servizio lo spinse ad errori tali, che spiacquero a tutti gli uomini di senno. Fu primo errore l’aver con uffizio invitati tutti i ricchi proprietari ad una colletta di denaro a pro dei tre briganti traditori. Fu secondo errore quello di dar loro un salvacondotto, e farli vagare in trionfo pei nostri paesi: spettacolo degno dei nostri paesi… Fu terzo errore l’averli chiusi nella prigione di Sant’Agostino e non nella Carcere Centrale, dove i tre briganti pregavano di non essere messi per timore di essere trucidati… Per noi è un assioma che i briganti non esistono a lungo quando le autorità sono incorruttibili e si spaventano i manutengoli». Questa è la storia vera: in parte il brigantaggio fu mantenuto dal Potere, finché gli ha fatto comodo. E lo stesso vale per le associazioni mafiose oggi, in base a questo assioma: sono vive perché le autorità sono corrotte, sono più mafiose di loro.  Questo romanzo di Allegra ci riporta su strade senza tempo, ci fa rivivere stagioni mitiche di battaglie e di ardori sepolti, ma non spenti, come quelle braci che sempre covano sotto le ceneri della storia, per poi appiccare di nuovo il fuoco cosmico-storico quando i tempi sono maturi.

Vincenzo Capodiferro

10 febbraio 2015

SE UN ALBERO CADE… di Miriam Ballerini



SE UN ALBERO CADE…

In questi giorni, soffermandomi a guardare telegiornali e pubblicità, spesso mi si sono affacciate alla mente delle considerazioni che vorrei condividere con voi.
Innanzitutto la neve. Uno spettacolo meraviglioso offertoci da Dio, salutare, assolutamente naturale.
Quando ero bambina ha sempre nevicato moltissimo, e il manto nevoso, steso sui campi e sulle strade, ci accompagnava per settimane.
Non chiudevano le scuole, né i posti di lavoro; camminavamo e si raggiungeva così tutto il paese.
Non comprendo come mai, al giorno d’oggi, cadano due fiocchi e i telegiornali ci prospettino ciò come un’immane tragedia.
Quasi fosse un terremoto o un evento soprannaturale…
E mi domando: se un albero cade in una foresta e non c’è nessuno per sentirlo, fa rumore? Se non ci fossero i giornalisti a prospettarci eventi apocalittici, per la gente sarebbe davvero una tragedia assistere a una nevicata?
Ma l’assurdo, secondo me, lo si tocca quando passano certi messaggi nelle pubblicità come fossero normali.
I genitori che preparano il cibo e, affinché i figli si degnino di scendere e unirsi alla famiglia a tavola, bisogna mandare loro un sms!
Oppure, snobbare il buon e sano minestrone fatto con le verdure dell’orto, per avvantaggiare quello surgelato!
Il picco lo si tocca quando si cerca di convincere le madri a non allattare i figli, per dar loro il latte in polvere.
Ce ne sarebbero ancora molti di esempi da fare; tutti tastano il polso a cosa stia diventando la nostra società.
Non abbiamo più una scatola in salotto al nostro servizio, con programmi intelligenti che sfornino cultura, film e divertimento; ma una mente malata che cerca di condurre il pensiero su sentieri infangati.
Mi spaventa che la gente non riesca a pensare con la propria testa, che si lasci imbambolare poco a poco da queste falsi messaggi che non sono fatti per il nostro bene; ma semmai solo per le tasche di chi deve vendere un prodotto.
Il tutto si ripete anche quando a qualcuno interessa che il popolo diventi razzista, intollerante, giustiziere… passano davanti ai nostri occhi dei messaggi che nemmeno ci si rende conto di captare; che incattiviscono e sviliscono l’intelligenza e la sensibilità.
Ecco che allora un uomo che uccide un rapinatore diventa un eroe, perché la vita di chi sbaglia, pare valga meno di quella di un altro.
Gente che muore sui barconi assiderata, diventa l’invasore… e altre storie altrettanto deprimenti per l’animo umano.
Apprezzo il lavoro dei giornalisti e dei creativi, ma quando questi abbiano un’onestà intellettuale, essenziale per chi fa questo lavoro.
Manipolare è fin troppo facile, lavorare bene e con coscienza, forse, è più difficile.

© Miriam Ballerini

06 febbraio 2015

Nuova edizione per "Fiori di serra"


Nel 2008 veniva pubblicato “Fiori di serra” un romanzo, in parte biografico, che tratta di carcere.
Uscì con la Serel International di Genova e, in questi anni, ha fatto ottenere alla sua autrice Miriam Ballerini, molte soddisfazioni.
Un quarto premio al concorso internazionale Europa a Lugano, dove spicca la presenza dei patrocini del Vaticano e del Parlamento Europeo; al terzo premio al concorso Città di Fucecchio, premio dedicato a Indro Montanelli.
Per due anni di seguito è stato adottato dalle terze di un liceo di Lodi, nel corso di filosofia.

Ora trova nuovo splendore in questa nuova edizione con una casa editrice diversa, la Rapsodia Edizioni di Roma, la quale ha una vasta distribuzione su tutto il territorio italiano e il canton Ticino.
Inoltre, il romanzo verrà portato alla fiera del libro di Francoforte. Un traguardo d’eccellenza.
 
 

03 febbraio 2015

Un "grande" timido di Miriam Ballerini




UN “GRANDE” TIMIDO


2 febbraio 2015 è la quarta volta che ho la fortuna di assistere a un concerto di Umberto Tozzi. Lo seguo da quando ero adolescente e grata sono a molti suoi testi che mi hanno dato tanto.
Ieri il suo concerto si è svolto al teatro nazionale di Milano. Teatro pieno di persone di tutte le età, entusiaste delle sue canzoni. Ed è stato dedicato dall’artista a Pino Daniele.
A differenza di altri artisti che mi è capitato di vedere, Umberto non è un grande parlatore. Lui stesso dice che ha iniziato la sua carriera come musicista e fu solo dietro suggerimento di Giancarlo Bigazzi, che riuscì ad affrontare la carriera di cantante. Ma che ciò che sempre lo ha frenato è la timidezza di porsi di fronte al pubblico. Anche oggi, ha aggiunto, è ancora timido!
Tozzi ha una voce molto particolare, con tonalità uniche.
I più, quando si parla di lui, mi sanno solo dire: «Ah! Il cantante di Gloria, Tu e Ti amo».
Certo, sono dei successi mondiali, ma la sua discografia è ricca di testi più personali; alcuni sociali, come ad esempio “Se tu mi aiuterai” e “Gabbie”. Profondi, quali “Tu domani”, una preghiera a Dio che è un testo di pura e vibrante emozione.
Anche canzoni d’amore come “Un fiume dentro il mare”, “Lo stare insieme”, intense e ricche.
Personalmente sono affezionata a Gloria, non a caso la protagonista di un mio romanzo si chiama così! Ma come non parlare di “Dimentica dimentica” o di “Tu sei di me”?
Tozzi ha una carriera alle spalle ricca e importante,  piena di soddisfazioni ottenute all’estero.
Ieri sera, quando ci si è potuti avvicinare al palco, solo una cosa avrei desiderato: stringergli la mano, senza dire nulla, senza aggiungere nulla. Solo provare l’emozione di gridare senza parole il mio “grazzzziè!”.

© Miriam Ballerini
foto di Aldo Colnago

 

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