31 luglio 2020

“NOVECENTO IN CORTILE” Omaggio ai grandi maestri della scultura contemporanea A cura di Marco Salvario


NOVECENTO IN CORTILE”
Omaggio ai grandi maestri della scultura contemporanea
A cura di Marco Salvario

Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto Via Po 55, Torino
8 luglio – 11 ottobre 2020




La Fondazione Accorsi-Ometto nel cortile del Museo di Arti Decorative che conserva l’eredità del raffinato antiquario torinese Pietro Accorsi (1891-1982), ospita per circa cento giorni undici opere di sei grandi maestri della scultura contemporanea: Arman, Borghi, Cordero, Mitoraj, Pomodoro e Theimer. Le opere sono tutte proprietà degli artisti o di collezioni private; poterle ammirare e confrontare nello stesso ambiente, è un’occasione rara e preziosa.
La mostra dal bel titolo “Novecento in cortile” è a cura di Bruto Pomodoro, artista figlio del grande Gio' Pomodoro. La sua sensibilità è già nel ricco opuscolo di presentazione, dove il curatore si giustifica per la ripresa dopo il lockdown, che “potrebbe sembrare superflua nei riguardi di chi non riesce o non può riaprire le proprie attività”.
Davanti a una modestia così fuori dall’avidità materialista ed egoista della nostra società, a quest’attenzione partecipe e addolorata verso il dolore del prossimo, non posso che chinare il capo con sincero rispetto.

I sei maestri di cui possiamo gustare le opere, hanno fatto la storia del ventesimo secolo.
Vediamoli rapidamente in ordine alfabetico.


Arman



Artista francese con cittadinanza americana, è tra i fondatori nel 1960 del Nouveau Réalisme. Il suo modo di esprimersi è spesso basato sulla accumulazione di forme o oggetti uguali, creando armonie che sanno richiamare il movimento delle creazioni o materializzare percorsi musicali.
Il suo “Mercurio” di bronzo è spezzato e scomposto nel movimento, coraggiosa miscela di temi classici e interpretazioni moderne. La staticità che diventa dinamismo.


Paolo Borghi


Comasco e figlio di un apprezzato cesellatore orafo, ancora in piena attività, ha ricevuto importanti incarichi per opere monumentali in tutto il mondo, dall’Ecuador agli Stati Uniti, alla Corea del Sud. Nel 2005 ha realizzato il monumento funebre in bronzo per il martire salvadoregno dei nostri tempi Oscar Romero.
Borghi utilizza con ottimi risultati marmo, bronzo, argento, legno e, come per l’opera “Cavalcata interrotta”, la terracotta. Il cavaliere, un centauro, è colto nel momento dell’urto e della caduta, mentre il suo corpo e la pietra quasi si fondono nella violenza dell’impatto.


Riccardo Cordero


Piemontese, trova nella dimensione monumentale la sua massima espressività. Forgiato dagli studi nella prestigiosa Accademia Albertina di Torino, è ancora in piena attività dopo sessanta anni di carriera ad altissimo livello.
L’opera “Asteroide” in acciaio, bene esprime la dinamica del movimento nello spazio, l’energia potente e inarrestabile. Sulla geometria del metallo, riflessi e luci creano giochi quasi ipnotici.


Igor Mitoraj



Artista polacco, noto in tutta Europa. Nella scultura egli propone modelli classici incompleti e feriti come ci sono spesso pervenuti, enfatizzando i danni e le menomazioni, ricordando come il tempo porti alla lenta erosione del nostro passato e come la tradizione, anche attraverso frammenti incompleti, ci debba lasciare consapevoli di quanta bellezza e armonia era già stata raggiunta. Siamo in grado di comprendere l’arte antica e migliorarla?
Nell’opera “Ikaro alato” la statua di bronzo alta tre metri e sessanta centimetri non ha più le braccia e ha perso una delle ali, pur mantenendo la plastica perfezione delle forme; in “Luci di Nara pietrificata”, sempre in bronzo e realizzata nel 2014, l’anno in cui il maestro è morto, il frammento del volto racchiude nella sua poetica grazia il testamento artistico dell’artista. Ricorda che anche di noi il tempo porterà via a poco a poco la nostra effimera realtà.


Gio’ Pomodoro



Artista marchigiano, tra i più importanti scultori astratti del secolo scorso.
Le due opere in bronzo presenti nella mostra, illustrano due periodi diversi della sua produzione. “Tensione Verticale” del 1964 è un magico equilibrio tra la pesantezza del materiale e la leggerezza della forma, mentre “Sole deposto” del 1982 unisce l’immagine di una potente divinità pagana (neo-pagana) e il sentimento della sua decadenza, il mistero dell’universo e il suo spegnersi nell’infinito.


Ivan Theimer


Cecoslovacco naturalizzato francese, molto attivo anche in Italia, ha stretto nuovamente i legami con il suo paese d’origine dopo i cambiamenti politici che hanno portato all’elezione di Havel alla presidenza nel 1989.
Il suo percorso artistico s’ispira ai miti antichi rivissuti con pensiero moderno, diventando allegoria di noi stessi, delle nostre limitazioni e paure.
Quattro le opere presenti nella mostra: “Medusa”, lo scudo con la testa di Medusa è un omaggio a Caravaggio; “Tobiolo”, il riferimento è un celebre quadro del Verrocchio; “Tartaruga con montagna”, qui credo l’ispirazione sia tratta da miti cinesi; “Obelisco”, opera raffinata e curata in ogni dettaglio, densa di scene, di allegorie, di suggestioni.


Prima di chiudere l’articolo, devo consigliare al visitatore della mostra di spendere il tempo necessario per visitare le eleganti e raffinate stanze del Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto, che non possono non affascinare gli amanti del bello.



30 luglio 2020

UN ANGELO DIVERSO di Bertazzoni Roberto


UN ANGELO DIVERSO di Bertazzoni Roberto

Credo che non si pensi mai a chi vive, per anni, la sua vita in carcere. Sì, in carcere.
Questa parola così brutta che fa paura e orrore, che sembra quasi non appartenere al lessico comune, che non si pronuncia con normalità, forse perché, secondo tanti, questo non è un posto “normale”.
Perché ci vivono i cattivi, i mostri, i delinquenti, i perduti.
E se non fosse così? Se qui dentro ci fosse un mondo diverso? Una vita pulsante?
Ebbene, è proprio così.
Ve l'assicuro io che non l'avevo mai “frequentato” prima e, quando sentivo questa parola, provavo un senso di lieve fastidio; come se si parlasse dell'ultimo posto al mondo, senza speranze, senza via d'uscita. Un luogo dove un uomo non dovrebbe mai finire. Così pensavo, perché non conoscevo. Non sapevo. Così il mio pensiero volava via.
Adesso sono qui e il pensiero continua a volare, ai ricordi del passato, ai miei errori, al futuro incerto; ma soprattutto al presente e alla mia vita qui.
Perché qui e adesso è la mia vita.
Posso dire di aver provato le due condizioni opposte, i due lati della barricata, i due colori del Tao.
Ero una persona “normale”: famiglia, lavoro, passioni. E poi? Tutto può succedere, non lo credevo possibile, ma è così.
Niente è così assoluto da potersi escludere. Noi siamo umani, imperfetti, peccatori e si sbaglia. In tanti modi, sempre.
Si cade in tentazione e lo si fa, spesso, sapendo di sbagliare.
Si sbaglia per amore, per vizio, per necessità o perché la vita non ci ha dato le condizioni per stare in equilibrio.
Si sbaglia perché si crede ciecamente in qualcosa o qualcuno che ti cambia la vita e lo si idealizza, mettendolo su di un piedistallo.
Si commettono errori per passione, per fragilità o paura; per egoismo, per avidità, ignoranza, follia, solitudine, frustrazione, abbandono. Per mille motivi, perché, perché, perché … si inciampa.
Non crediate, là fuori, d'essere perfetti. Mi sembra proprio di no, così come non lo ero io.
Almeno, qui, è tutto concentrato: tanti peccatori insieme, tante storie che sento vivere vicino a me.
Chissà, probabilmente, Dio è più vicino di quanto non pensiamo, proprio qui.
Io lavoro come bibliotecario ed ho contatti con tanti detenuti. Trovo spesso persone chiuse, difficili, ostili, che si esprimono attraverso l'aggressività, col tono di voce forte e scontroso.
E poi scopri che, scavando un poco in quel terreno duro e fragile, c'è la vita pulsante, la sofferenza, il pentimento.
Trovi le persone che cambiano, perché hanno deciso di farlo, con tutte le loro forze; che vogliono uscire da questa “trappola” nella quale siamo caduti, per ricostruirsi e rinascere.
Certo, non per tutti è così. Alcuni non conoscono altra vita all'infuori di questa e non vogliono cercare altri modi per viverla. Continueranno così.
Ma chi vuole veramente risolversi e si svuota di tutto ha, come unico obiettivo, il ricominciare a vivere in modo assolutamente diverso.
Si crea uno stop. Un fermo.
Basta sbagliare, basta bugie, inganni. Basta!
Si può e si deve vivere in un altro modo, essere diversi, ogni giorno dando la giusta importanza alle cose che davvero contano per ognuno di noi.
E ci si sente, finalmente, liberi. Liberi di essere diversi.
Questo ho capito e realizzato qui, in carcere. Adesso aiuto gli altri, dialogo con loro; li ascolto e cerco, con umiltà, di realizzare già ora questo cambiamento che si è verificato in me. Si può fare, credetemi.
E allora il carcere, visto da fuori, non sarà più soltanto il “contenitore dei cattivi”, degli irrecuperabili, dei rifiuti della società. Potrà essere, per chi lo vuole, un'occasione immensa di vita diversa.
È faticoso, ci vuole molta costanza, ma ci si riesce. Basta volerlo.
Io qui ho conosciuto persone uniche, preziose, con un senso di umanità eccezionale; traboccanti di sensibilità nei confronti del prossimo.
Sto parlando di gente che lavora qui, che svolge professioni diverse, quali educatori, psicologi, volontari.
Tra i detenuti ho trovato anche persone che mi hanno donato una parte di sé, una condivisione con qualcuno che, magari dal suo errore, ha tratto davvero la decisione di una svolta per la sua vita.
Lo vedo nelle lettere che scrivo per i miei compagni, nelle storie che ascolto e nei loro discorsi. La volontà esiste, bisogna soltanto prenderla e farne buon uso.
Non ci si perderà più, qualsiasi siano stati i motivi che qui ci hanno condotto.
Così si svolgono le mie giornate, di conseguenza, la mia vita assume inevitabilmente un senso buono, positivo, compiuto.
Soprattutto quando mi arriva, magari inaspettato, un: “Grazie, amico mio”, accompagnato da due occhi lucidi.
Allora capisco che questo mi basta.
Che la vita vera, quella che conta, è anche questa.
È qui, ora. In questo mondo di errori e sofferenza, noi non siamo diavoli; piuttosto angeli caduti e feriti che cercano di rialzarsi.
Sicuramente consapevoli e “diversi”.

L’ EUROPA DEL POST COVID di Antonio Laurenzano


L’ EUROPA DEL POST COVID

di Antonio Laurenzano

La quiete dopo la tempesta. Al termine di un burrascoso negoziato sul “Piano per la ripresa” post Covid-19, l’Europa ha voltato pagina. Fra luci e ombre, raggiunto a Bruxelles un faticoso compromesso, l’ennesimo nella tormentata storia dell’Ue, racchiuso in 67 pagine firmate dai 27 Capi di Stato e di Governo del Consiglio europeo, dense di speranze per il futuro, ma con incognite giuridiche e politiche che certamente segneranno il dibattito comunitario sul piano istituzionale nei prossimi anni. Due i nodi più controversi del negoziato: da una parte l’ammontare delle risorse finanziarie a carico di un debito comune, articolato fra sussidi e prestiti, e dall’altra le condizioni per il controllo della spesa e quindi dell’utilizzo delle risorse.
Confermata la dotazione originaria di 750 mld di euro del Fondo proposta dalla Commissione ma con una nuova ripartizione: 390 mld di sussidi a fondo perduto (non più 500) e 360 di prestiti (non più 250). In particolare l’Italia, la maggiore beneficiaria del Recovery Fund, e per questo “osservata speciale” a livello comunitario, porterà a casa in totale 208,8 miliardi di euro, di cui 127,4 come prestiti (rispetto ai 90,9 proposti dalla Commissione) e 81,4 miliardi di euro come sussidi a fondo perduto (poco meno rispetto ai 90 iniziali). Per tacitare ogni protesta, ai Paesi “frugali” del Nord sono stati concessi ulteriori sconti (“rebates”) alla contribuzione del bilancio europeo. Per la governance della spesa collegata ai “Piani nazionali di ripresa” degli Stati membri, respinta la richiesta olandese del “diritto di veto” all’interno di un complesso meccanismo di controllo.
Una intesa storica all’insegna della solidarietà e non dell’austerità”, ha dichiarato il Presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel. C’è la nascita di un “debito europeo comune” e di nuovi strumenti di politica economica per fronteggiare la profonda crisi economica provocata dalla pandemia. L’Unione europea si avvia a diventare un’entità “statuale” che si indebita, distribuisce fra i suoi cittadini le risorse che raccoglie sul mercato e ha potere di prelievo fiscale nella previsione di una inderogabile autonoma fiscalità per liberarsi da una governance intergovernativa inefficiente, non trasparente e divisiva blindata dal Consiglio europeo.
Restano sul tappeto le incertezze legate alla tempistica degli interventi reali. L’accordo dovrà superare tre importanti step: la ratifica nazionale da parte degli Stati membri dell’Unione, il negoziato comunitario dei Piani nazionali in linea con le “raccomandazioni” Ue, il voto di approvazione del bilancio da parte del Parlamento di Strasburgo. Un percorso tutto in salita. Il Fondo per la ripresa distribuirà risorse tra il secondo semestre 2021 e il 2023, e rimarrà in vita fino al 2026. Il rimborso dei prestiti deve iniziare l’anno successivo. I Ventisette dovranno mettersi d’accordo per garantire al bilancio comunitario nuove risorse proprie (imposta sugli imballaggi in plastica non riciclati, digital tax europea, imposta sulle transazioni finanziarie). Per l’Unione europea un passaggio delicato in attesa di prendere il largo verso un orizzonte politico nuovo che faccia finalmente pulizia del dumping fiscale in qualche Paese “frugale” (Olanda) e delle infrazioni allo Stato di diritto in qualche Paese di Visegrad (Ungheria).
E sarà il D-Day della nuova Europa. Sarà la risposta a un sovranismo che “continua a non comprendere il funzionamento di un sistema ad alta interdipendenza come l’Unione europea per raggiungere obiettivi convergenti”, ha commentato il politologo Sergio Fabbrini sulle colonne del Sole24Ore. “Ogni leader sovranista guarda all’Ue dal buco della sua serratura nazionale. Per i sovranisti al governo nei Paesi dell’Europa dell’Est, si tratta di preservare la quota di aiuti europei che ricevono, per gestirli in piena autonomia, per i sovranisti all’opposizione nel resto dell’Europa, si tratta di denunciare ogni accordo come tradimento degli interessi nazionali.” Sotto accusa l’inquietante semplicismo analitico per catturare consensi elettorali e l’incapacità di capire le logiche politiche che sono alla base di ogni costruttiva azione di governo. E’ facile soffiare sul fuoco della protesta e del disagio sociale, ma molto difficile trasformare la protesta in seria proposta politica, coniugando -con senso di responsabilità- l’interesse nazionale con quello europeo in una illuminata visione storica, aperta a un contesto politico-economico mondiale in continua evoluzione.  

27 luglio 2020

Giuseppe Pontiggia Nati due volte a cura di Marcello Sgarbi



Giuseppe Pontiggia

Nati due volte – (Edizioni Mondadori)


Collana: Oscar classici moderni
Formato: Tascabile
ISBN 9788804599975

Una volta si chiamavano handicappati, quando si parlava di loro si diceva quelli meno fortunati di noi” (definizione tutta da verificare, se pensiamo alle cronache familiari di parecchi normotipici di oggi), si tenevano in casa, per vergogna. Poi hanno salito un gradino della scala sociale assumendo lo status di disabili: i ciechi sono diventati “non vedenti”, i sordi “non udenti”, gli zoppi “claudicanti” (un po’ come le donne di servizio promosse al grado di colf o gli spazzini, trasformati in eticissimi operatori ecologici).
Oggi li chiamiamo diversabili (per negare comunque l’evidenza della diversità?
Come mai, nel mondo normale non esistono forse abilità diverse?) quando, se solo cercassimo di conoscerli veramente, scopriremmo che sono semplicemente persone speciali. Per entrare nella loro dimensione basta aprire le pagine di questo libro di Pontiggia, autore ahimè prematuramente scomparso, perché chissà quanti altri regali avrebbe potuto fare alla letteratura italiana. Con lucido disincanto, esattezza dello scrivere, una lieve, intermittente ironia e nessuna concessione all’autocommiserazione, ci fa partecipi del suo incontro personale con la disabilità mentre sembra raccontare l’esperienza di un altro. “Qualunque cosa vogliate dire, c'è un solo nome per esprimerla, un solo verbo per darle vita, un solo aggettivo per descriverla” - diceva Flaubert, uno che di parole se ne intendeva. E il vocabolario di Pontiggia è tanto preciso quanto essenziale, indispensabile per capire davvero qualcosa delle persone speciali.

Lui procede ondeggiando come un marinaio ubriaco. No, come uno spastico. Si volta per dirmi con la sua voce stentata: Se ti vergogni, puoi camminare a distanza. Non preoccuparti per me’”.

Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo
che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato. 
Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita. Questa almeno è la mia esperienza.
Non posso dirvi altro”.


Quando Einstein, alla domanda del passaporto, risponde ‘razza umana’, non ignora le differenze, le omette in un orizzonte più ampio, che le include e le supera. È questo il paesaggio che si deve aprire: sia a chi fa della differenza una discriminazione, sia a chi, per evitare una discriminazione, nega la differenza”.

Infinite sono le ragioni con cui gli altri ci negano l’aiuto, ma la più astuta
è che vogliono aiutarci”.

Le ragioni dei deboli ci colpiscono solo quando diventano le nostre”.

Il diverso ci fa sentire diversi – contrariamente a quanto si pensa – ed è questo che non siamo disposti a perdonare”.

Quando diciamo che l’esperienza ci aiuta a capire l’handicap, omettiamo la parte più importante, e cioè che l’handicap ci aiuta a capire noi stessi”.

Chi ostenta pietà non sospetta di ispirarla negli altri. È anzi il suo modo di esorcizzarla e di tenerla lontana. Mentre è la via più breve per meritarla”.

© Marcello Sgarbi



24 luglio 2020

PAOLO GRECO L'ARTE PROIETTATA VERSO IL FUTURO a cura di Maria Marchese





PAOLO GRECO L'ARTE PROIETTATA VERSO IL FUTURO 

“La vita non è altro che un brutto quarto d’ora composto da squisiti istanti” . (Oscar Wilde) 

Così Paolo Greco, sin da ragazzo, ingaggia questa sfida col tempo: non si guardano mai dritto negli occhi perché l'artista riesce ad essere sempre un passo avanti rispetto a quest’ultimo. Improvvisamente, però, Ares si arresta: in quel momento ciò che aveva costituito, nel passato, una sfida è mutato in fuga. L’esistenza allora assume le fattezze di “quel brutto quarto d’ora” , da Wilde coniato, ove gli istanti rappresentano coriandoli abbandonati a terra, dopo una festa in maschera. La mestizia interviene, quindi, a guardare l’esteta siciliano in volto: essa lo costringe ad affrontare un doloroso vis a vis ove, tra le palme, non trova null’altro se non un pugno di sbiadite e fugaci vestigia. Nankurunaisa (lemma giapponese che tradotto significa “col tempo tutto si sistema” ) diviene il mantra che penetra e permea le trame di mente e spirito, foriero di rinascita. “Le opere d’arte sono sempre il frutto dell’essere stati in pericolo, dell’essersi spinti in un’esperienza, fino al limite estremo oltre il quale nessuno può andare” . (Rainier Maria Rilke) Quell'estremo e sofferto limite, toccato con mano, incontra, per una contingenza inesplicabile e più alta, l’arte. In virtù di ciò l’esteta siciliano, dopo aver affrontato il più intimo degli enigmi… se stesso, coglie la genialità che giace, innata, in lui per alzarsi da quella sedia. Egli non s’improvvisa, però: dopo aver compiuto studi e ricerche utili, individua negli pneumatici, nelle camere d’aria e simili un’inesauribile fonte di sperimentazione artistico/plastica. “La vera opera d’arte nasce dall’artista in modo misterioso, enigmatico, mistico. Slacciandosi da lui assume una personalità, e diviene soggetto indipendente con un suo respiro spirituale e una vita concreta. Diventa un aspetto dell’essere” . ( Vasily Kandinskij) Ecco che Paolo Greco matura, imponendosi come “genera mater” : egli svella e plasma la materia come creatore, edificando raffinate pagine scultoree. Esse involvono uno sfoglío di colpi di scena, che l’esteta accorpa annodandone il nucleo, celandone gli arcani tra flessuose pieghe di materia e individuandone il senso nella non dispersione. Così l’enigma stesso diviene opera d’arte. L’astruso intellettuale vivifica l’energia primigenia, colta nel perfetto equilibrio tra forza centripeta e centrifuga, convogliandola in arcani unici e fascinosi. La sceltezza delle tinte ne sancisce una privilegiata e immediata liaison con l’osservatore. L’impatto è quindi subitaneo, inspiegabile e riuscito.

 Testo a cura di Maria Marchese 

23 luglio 2020

FAI i luoghi del cuore


RISULTATI PARZIALI

DELLA 10ª EDIZIONE DEL CENSIMENTO NAZIONALE FAI

“I LUOGHI DEL CUORE”
IL FAI E INTESA SANPAOLO PER IL FUTURO DELLA BELLEZZA ITALIANA


Già arrivati oltre 650.000 voti da tutta Italia.

In LOMBARDIA questi i luoghi che hanno raggiunto almeno 1.000 voti:


Città di Bergamo, Castello di Brescia, Cripta di Sant’Eusebio a Pavia,
Stazione di Monte della Funicolare del Campo dei Fiori a Varese, Palazzo Saporiti a Vigevano (PV),
Borgo di Monteviasco (VA), Villaggio sanatoriale Eugenio Morelli a Sondalo (SO),
Rocca Brivio San Giuliano Milanese (MI), Borgo di Sparavera (BG),
Diga del Gleno Vilminore di Scalve (BG), Abbazia di Chiaravalle a Milano,
Chiesa del Sanatorio di Groppino a Piario (BG), Cammino di Santa Giulia che collega Livorno con Brescia,
Borgo di Corenno Plinio, frazione di Dervio (LC), Oratorio della Beata Vergine Assunta di Calvenzano (BG),
e Santuario della Madonna di Prada a Mapello (BG)

Si può votare fino al 15 dicembre 2020



Elisabetta_Cozzi

SE SCORRE IL SANGUE di Stephen King a cura di Miriam Ballerini


SE SCORRE IL SANGUE di Stephen King
(Recita il detto: “Se scorre il sangue, si vende”)
© Mondadori 2020
ISBN 978-88-200-6913-1
Pag. 501 € 21,90

King è il mio scrittore preferito, nonostante ciò, ho sufficiente onestà intellettuale per ammettere quando, anche lui, ha fatto dei buchi nell'acqua.
Negli ultimi anni qualche libro che non mi ha convinto, o che non mi è piaciuto del tutto, c'è stato.
Non è il caso di questa sua ultima fatica, dove ho ritrovato il King dei vecchi tempi: il narratore, l'imbonitore di parole.
Se scorre il sangue prende spunto da un detto giornalistico, dove un articolo, laddove c'è violenza, fa notizia, vende di più.
Il libro è formato da quattro racconti lunghi, addentriamoci di pochi passi in ognuno di loro: Il telefono del signor Harrigan, una narrazione da brivido. Scritto in prima persona dal giovane protagonista, racconta della sua amicizia e collaborazione col vecchio Harrigan, fino alla sua morte, e oltre. Infatti, il ragazzo gli mette nella bara il telefonino al quale il vecchio si era molto dedicato negli ultimi tempi e scopre che questo funziona ancora.
La vita di Chuck, dei quattro, è quello che mi è piaciuto di meno, anche perché ho faticato a comprenderne un poco la cronologia. Anche se ha dei tratti interessanti. Un giorno appaiono questi cartelloni dove vi si trova scritto: “ 39 SPLENDIDI ANNI! GRAZIE, CHUCK!” Da quel momento si viene catapultati nella vita di questo personaggio, in fasi e date diverse.
Se scorre il sangue l'ho amato. Anche perché ho ritrovato una protagonista già apparsa nei romanzi della trilogia di Mr. Mercedes: Holly Gibney, la giovane detective. Chi segue King sa di cosa parlo, per chi non ne è a conoscenza sono tre romanzi dove c'è uno strano omicida quale protagonista. Insieme a lei ho ritrovato anche Jerome e la sorella Barbara.
Dovete sapere che, nei romanzi di King, ci si affeziona ad alcuni personaggi e, quando li si ritrova, è un po' come organizzare una riunione di famiglia e scoprire chi ha fatto cosa, cosa è accaduto a chi … insomma, proprio come se fossero persone che vivono e seguitano nel loro percorso. Come se non fossero figurine prigioniere di un foglio di carta.
Holly è stata protagonista anche di The Outsider, un altro romanzo recente. E anche qui, in questo racconto, si trova ad affrontare un altro Outsider, e riesce a riconoscerlo proprio perché ha già avuto a che fare con queste forme di vita paranormali. Outsider potremmo tradurlo come fuori dagli schemi, in realtà è fuori dall'umanità. Sono creature che sanno modificare il loro aspetto e che vivono per fare del male. Quello che ci viene presentato qui fa il giornalista ed è sempre presente quando accade qualche fatto di sangue, perché il suo nutrimento è la sofferenza della gente.
Il quarto e ultimo racconto Ratto è abbastanza surreale, ma interessante dal punto di vista narrativo. Narra di uno scrittore che sta uscendo da un vero e proprio esaurimento dato dal famoso blocco dello scrittore. Gli arriva una “genialata” e decide di lasciare la famiglia per almeno una settimana, per dedicarsi alla sua idea. Raggiunge così un vecchio capanno che era appartenuto al padre.
Qui troverà un amico davvero insolito e sottoscriverà una sorta di patto “faustiano”.
Il libro è scritto in modo da catturare il lettore e di trascinarlo con sé fino alla fine, sia che il racconto sia tranquillo, sia quando ci si trova a correre su delle rapide.
Lo si legge in fretta, si gode di ogni parola, di ogni scena.
In fondo al libro troviamo, come sempre, la nota dell'autore, ovvero la lettera che King dedica al suo Fedele Lettore e ai vari collaboratori.
Ha cercato di spiegare da dove sono sbucate le idee per questi racconti, ma la realtà è che, lo sa lui e lo so io nel mio piccolo, perché anche io scrivo e per esperienza personale so che così è; che le idee arrivano e, spesso, non si sa da dove siano uscite.
La fortuna, è che escano e che gli escano così maledettamente bene.

© Miriam Ballerini


22 luglio 2020

GIULIO ANDREOTTI: IL MISTERO DEL POTERE DI ANGELO IVAN LEONE



GIULIO ANDREOTTI: IL MISTERO DEL POTERE DI ANGELO IVAN LEONE




Quello che è stato Andreotti in Italia è difficilmente spiegabile, soprattutto perché attiene ad una dimensione più psicologica che storica o politica. Perché fondamentalmente Andreotti ha rappresentato il grande vecchio buono per ogni mistero insoluto di questo Paese. Nel senso che la dietrologia nazionale si è incaricata di dare a quest'uomo tutti i vari cadaveri eccellenti cui non si sapeva a chi dare un preciso mandante. Ecco Andreotti, se fossero vere e non semplicemente verosimili, tutte le vittime eccellenti che gli si attribuiscono non avrebbe avuto degli scheletri nei suoi armadi, ma degli interi Redipuglia. A questo mefistofelico mito ha contribuito anche il suo carattere ironico e mellifluo. Tuttavia la reductio ad unum che da tante parti si è aperta, soprattutto, dopo la sua morte non mi ha mai persuaso. Si è voluto, come sempre in Italia, nascondere la polvere sotto il tappeto e seppellire con lui e in lui tutte le storture della nostra storia recente. Così non si fa storia, così si costruiscono le favole. Montanelli racconta che, quando in Inghilterra, ci fu la straordinaria rapina al Security Express, sentì un passante che leggeva la notizia sul giornale bofonchiare "Chissà dov'era, Andreotti, in quel momento!"

RIPOSO IN LIBERTÀ - DANIELE CARLETTI a cura di Maria Marchese


 RIPOSO IN LIBERTÀ - DANIELE CARLETTI         (COLLAGE 60x70) 

"Tu l'ignori mia vergine il tuo corpo ha nove porte. Ne conosco sette e due mi sono nascoste. Ne ho aperte quattro vi sono entrato spero di non uscirne più” . (Guillaume Apollinaire) 

Con l’opera “RIPOSO IN LIBERTÀ” , Daniele Carletti realizza e osserva, quale creatore, il disvelarsi di una donna, addentro il proprio reale immaginario. Ella ignaramente ivi giace: il maestro ferrarese ne eleva via via l’essenza incontaminata, liberandone i risvolti a lui inconsapevolmente noti e quelli che rimarranno dimorati nell’ignoto arcano. Nel contesto creato dall’esteta, egli annulla la tela, quale effige della laiason con l’evoluzione esistenziale e artistica del passato, perché essa divenga unicamente un supporto materico ove esprimere, ab imis, una proficua e pacifica ribellione personale. Essa si esplica attraverso la realizzazione di una complessità tessutale intuitiva e formale. Dopo aver frantumato la realtà patinata, assolvendola quindi dal ruolo che la vincola alla sfera sensibile del fatto, dell’informazione, della quotidianità, del clamore e delle implicazioni ed esso legate, la destina a divenire il serico drappo ove addova un virginale e lascivo riposo dell’essere femminile. Vi adagia quindi l’armonia sprigionata da capaci seppur spontanei aneliti di energia oleosa, che si discioglie tra i verbi di uno spagirico eloquio, esprimendone, poi , una dilettosa e poetica silloge visiva. Uno spontaneo gioco di velate trame diviene il nucleo in cui fiorisce e riposa la donna di Daniele Carletti: ella riluce tra tenuità tonali che echeggiano in una stagione aggiunta. In essa respira la sensualità, il cambiamento e la femminilità, mentre la forma perde senso. “Io stringo il vostro ricordo come un vero corpo E quel che le mie mani potrebbero prendere della vostra bellezza Quel che le mie mani potrebbero prendere un giorno Avrà forse più realtà Perché chi può prendere la magia della primavera E quel che se ne può avere non è forse ancor meno reale E più fugace del ricordo E l’anima tuttavia afferra l’anima stessa di lontano E più profondamente più completamente ancora” (Guillaume Apollinaire) Il maestro ferrarese rende onore alla donna effigiando, in quest’opera, un sensibile e capace processo conoscitivo, che ne rivela una sagace e seducente sinossi figurata. L’essere femminile ivi viene corteggiato dal fervido intelletto e dalle indiscusse capacità formali dell’esteta, che riesce alfine a ricondurre a sé ciò a cui Apollinare anela da lontano.

Testo a cura di Maria Marchese. 

21 luglio 2020

Intervista di Alessia Mocci ad Ernesto Venturini: vi presentiamo Il sale e gli alberi


Intervista di Alessia Mocci ad Ernesto Venturini: vi presentiamo Il sale e gli alberi


Detestava i luoghi comuni, il pensiero fatto di stereotipe, d’ideologie, di falso cameratismo. Lui amava la dialettica, gli piaceva il confronto, persino il conflitto; ricercava le idee come risultato di uno scambio, non pretendeva l’originalità a tutti i costi, richiedeva, però, l’autenticità. “Sartraniamente” parlando, cercava l'essenzialità come derivato dall’esperienza.” – Ernesto Venturini

Un ritratto inedito dello psichiatra, neurologo e docente italiano Franco Basaglia (Venezia, 11 marzo 1924 – Venezia, 29 agosto 1980) conosciuto, soprattutto, per la Legge 180 del 1978, da cui per l’appunto prende il nome. A raccontarci di questo grande innovatore nel campo della salute mentale un altro altrettanto grande: il medico psichiatra Ernesto Venturini.
L’occasione è la prossima uscita del nuovo libro di Venturini, “Il sale e gli alberi – La linea curva della deistituzionalizzazione”, disponibile in libreria da settembre 2020 e pubblicato dalla casa editrice mantovana Negretto Editore.
“Il sale e gli alberi” è un saggio sul processo di liberazione promosso nel campo della salute mentale in Italia e nel mondo con particolare attenzione per la lotta al manicomio e la deistituzionalizzazione; con postfazione della studiosa, storica, scrittrice e coordinatrice del Centro di servizi per il volontariato bolognese Cinzia Migani, dello psicologo del Dipartimento di salute mentale di Imola Ennio Sergio; del giornalista Valerio Zanotti; e dall’attuale rappresentante della Unione Regionale Associazioni per la Salute Mentale Emilia-Romagna Valter Galavotti.
Ernesto Venturini, dopo aver conseguito la laurea in psichiatria a Roma, conobbe Franco Basaglia ed iniziò una durevole collaborazione ed amicizia. Nel 1979 per Einaudi ha curato una lunga intervista-riflessione con Basaglia sull’allora recente Legge 180 pubblicata in “Il giardino dei gelsi”. Ha concorso alla chiusura dell’ospedale psichiatrico di Imola e ha condotto una significativa esperienza sulla salute mentale in vita comunitaria.
Nel 2010, per Franco Angeli Edizioni pubblica “Il folle reato. Il rapporto tra la responsabilità dello psichiatra e la imputabilità del paziente”, un saggio redatto con Domenico Casagrande e Lorenzo Toresini, un volume che prende spunto da uno scritto di Franco Basaglia e la moglie, la psichiatra Franca Ongaro, “Il problema dell’incidente”, che mette a confronto le sentenze e le perizie di alcuni casi delittuosi nei quali il medico è stato imputato di omicidio colposo per il crimine commesso dal proprio paziente.
Inoltre, l’autore in qualità di esperto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha accompagnato il processo di riforma psichiatrica in Brasile dal 1991 al 2006, riportando i processi ed i risultati dell’esperienza italiana.

A.M.: Ernesto, sono lusingata di poter dialogare con lei quale esponente di una grande riforma sociale che ha portato la società a comportarsi in modo più “civile” e al contempo più “sociale”. Il suo curriculum presenta una vita di importanti amicizie e collaborazioni. Potendo permettermi un salto nel passato, la mia prima domanda riguarda l’incontro che portò al sodalizio con lo psichiatra Franco Basaglia.
Ernesto Venturini: Incontrai personalmente Franco in casa di Michele Risso, a Roma. Eravamo, mi pare, alla fine del 1967 o all’inizio del 1968. Mi ero da poco laureato in medicina all’Università Cattolica ed ero il responsabile anziano di un gruppo di medici e studenti che frequentavano il reparto psichiatrico dell’università. Michele era uno psicanalista junghiano, che, lavorando in Svizzera, aveva realizzato degli studi pionieri in etnopsichiatria. Periodicamente ci invitava nella sua casa per incontrare i suoi amici – personaggi famosi della cultura e della scienza. Quel giorno avremmo incontrato il suo amico Franco Basaglia. E Basaglia era già un mito. In quegli anni noi volevamo conoscere tutto quanto stava accadendo nel mondo in campo psichiatrico: ci raccontavamo quanto stava accadendo in Francia, in Canada, in Inghilterra. Eravamo stati a Perugia e a Città di Castello per incontrare Carlo Manuali, che promuoveva un interessante coinvolgimento comunitario sulla salute mentale, ma le notizie che venivano da Gorizia erano quelle che più ci affascinavano: lì si stava realizzando una rivoluzione, un vero cambio di paradigma scientifico.
L’incontro, in casa di Michele, aveva un tono del tutto informale, quasi amichevole. Ero rimasto subito colpito dalla quantità di tic con cui Basaglia accompagnava il suo parlare: muoveva lateralmente il capo, inarcava le sopracciglia, aggrottava le labbra. Ma, dopo un po’, non ci facevi più caso, perché eri conquistato dai suoi occhi chiari, dal suo sorriso, dall’eleganza del suo portamento (era alto), dal suo parlare torrenziale. Era estroverso, comunicativo, fumava molto. L’esatto contrario di Michele, che sembrava un gentleman inglese, tutto misurato e silenzioso. A un certo punto ho capito che Franco ci stava valutando. Come avrei capito più tardi, quello era il suo modo abituale di essere: voleva capire con chi aveva a che fare. Detestava i luoghi comuni, il pensiero fatto di stereotipe, d’ideologie, di falso cameratismo. Lui amava la dialettica, gli piaceva il confronto, persino il conflitto; ricercava le idee come risultato di uno scambio, non pretendeva l’originalità a tutti i costi, richiedeva, però, l’autenticità. “Sartraniamente” parlando, cercava l'essenzialità come derivato dall’esperienza. E così, più o meno consapevolmente, ti metteva alla prova: ti rimandava la domanda che tu gli avevi posto, chiedendoti di riformularla, quasi facendoti capire che, in realtà, tu avevi già la risposta dentro di te (era fenomenologo e socratico, contemporaneamente). Senza dubbio “il filosofo” Basaglia” (come sprezzantemente lo aveva definito Belloni, il suo direttore universitario) amava leggere, e molto anche, ma era nell’incontro con l’altro che provava il piacere intellettuale della conoscenza. E d’altra parte non erano forse le assemblee generali di Gorizia il luogo dell’ascolto, della costruzione collettiva del sapere, del raggiungimento di un potere attraverso il dialogo, il confronto? Se, poi alla fine, Franco restava deluso dall’incontro, allora il suo sguardo si faceva annoiato. Rimaneva sempre gentile, formalmente gentile ma distratto, disattento.
A distanza di tanti anni ricordo vagamente i contenuti del nostro colloquio quel giorno. Ero tutto preso dalla forte emozione di quell’incontro. E, solo quando ci stavamo salutando, ho capito che avevo superato la prova. Franco si era rivolto a me, e, guardandomi con complicità, aveva concluso: “Fai una cosa: vieni a Gorizia. Tu stesso potrai renderti conto di quello che sta succedendo”.
In quei fatidici giorni del ‘68, avevo cominciato a portare con me il libro “L’istituzione Negata”. Nel corso delle assemblee, durante le occupazioni nel Pronto Soccorso psichiatrico del Policlinico, tiravo fuori quel libretto (accompagnato da quell’altro – il libretto rosso di Mao) e leggevo, a voce alta, brani di quella nostra bibbia. Poi, per alcuni anni, avevo deciso di fare le mie vacanze estive andando a fare il volontario a Gorizia. Un mondo nuovo, seducente, si apriva dinanzi a me, così profondamente diverso dai rituali, dalla pomposa retorica dell’università. E finalmente era venuto il momento della scelta. Il direttore del reparto universitario – una brava persona – mi aveva prospettato la sicurezza di una carriera universitaria, se fossi rimasto: essendo uno tra i primi laureati di quella facoltà, ero, automaticamente, uno dei designati… Ma un giorno mi sono messo sulla mia ‘500, insieme alla moglie e alla mia piccola, di poco più di un anno, e ho lasciato quella città meravigliosa. Mi sono messo in cammino verso una piccola città di confine, in un momento critico per l’esperienza basagliana messa in crisi dall’uxoricidio di un paziente.
Sapevo quello che stavo perdendo, non sapevo quello che sarebbe accaduto… ma – alea iacta est – io, ormai, ero un “goriziano”.

A.M.: La citazione iniziale de “Il sale e gli alberi” è dell’architetto brasiliano Oscar Niemeyer ed è associata all’emozione che prova ogni volta che pensa al “processo di liberazione promosso nel campo della salute mentale in Italia e nel mondo”. Qual è, invece, il significato del titolo del libro?
Ernesto Venturini: Il libro ha un titolo “Il Sale e gli alberi” e un sottotitolo “La linea curva della deistituzionalizzazione”. Parlerò, per prima cosa del sottotitolo che utilizza un’affascinante citazione di Oscar Niemeyer, il famoso architetto costruttore di Brasilia.
Ho costruito, per l’appunto, una metafora – la linea curva della deistituzionalizzazione – per spiegare che cosa significhi per me questa parola, che sembra una specie di scioglilingua. Deistituzionalizzazione non indica la semplice umanizzazione di un luogo violento – il manicomio –, non rappresenta la deospedalizzazione con il trasferimento dei ricoverati in strutture più idonee, non è la modernizzazione delle cure psichiatriche e non è nemmeno – attenzione! – la promulgazione di una legge di riforma. Senza dubbio “la riforma 180” è (è stata) un passaggio importante per migliorare le politiche di sanità mentale. Avere sancito la fine degli ospedali psichiatrici e anche di quelli giudiziari è stato un evento storico: ha riconosciuto ai folli quei diritti civili, affermati con la Rivoluzione francese e con la Carta dei diritti dell’uomo, ma negati ai folli, per duecento anni, attraverso leggi speciali – le leggi di garanzia per gli incapaci. In questo senso la riforma, come giustamente ha fatto osservare Norberto Bobbio, è una delle poche, vere riforme avvenuta in Italia e nel mondo negli ultimi decenni, perché ha riconosciuto la pienezza dei diritti anche a chi sembrava non potesse esercitarli – la persona folle.
Ma per noi basagliani la deistituzionalizzazione significa qualcosa di più: è un complesso processo scientifico, politico, filosofico, in un perenne “divenire”, che dà senso della vita, quella individuale e quella collettiva, attraverso la libertà e la responsabilità.
Niemeyer, riprendendo ed elaborando una frase di Cézanne, dice di amare nel suo lavoro di architetto le linee curve, che gli ricordano le montagne del suo paese, le sinuosità delle donne brasiliane. In modo analogo io penso che la libertà delle persone dalla malattia sia un percorso non facile, che significhi, per il paziente e per il terapeuta, affrontare l’incertezza di un orizzonte nascosto da linee curve. È però anche un cammino morbido, dolce, che si apre all’inatteso. Direi (senza alcuna piaggeria) che è un processo al femminile, perché si oppone alla rigidità, fallica e autoritaria dello sguardo dello psichiatra tradizionale; eccepisce il suo potere-sapere, che oggettiva e, di fatto, finisce per reprimere e per racchiudere in uno stigma il disagio psichico della persona. Nel libro cerco di sviluppare questo tema, e lo faccio ricorrendo, però, alla descrizione di un’esperienza, concreta ed esaltante, che ha testimoniato in modo emblematico questo processo: l’attivo coinvolgimento di una comunità – quello della città di Imola – nel definitivo superamento dei suoi due ospedali, tra i più antichi e grandi d’Italia.
Quanto, poi, alla spiegazione del titolo – Il Sale e gli Alberi –, secondo un’abituale linea di editing, non dirò nulla, per incentivare un minimo di suspense e per lasciare alla lettura del libro la risposta a questo interrogativo.

A.M.: Nel 1967 lo psichiatra sudafricano David Cooper utilizzò per primo il termine “antipsichiatria” che divenne presto un movimento eterogeneo che avversava la psichiatria vigente. Lo psichiatra scozzese Ronald Laing, celebre per alcuni suoi studi sulla psicosi che andavano contro l’ortodossia della psichiatria del tempo, rifiutò l’etichetta di antipsichiatrico; ma lo psichiatra ungherese Thomas Szasz fu vicino alle convinzioni dell’antipsichiatria e sostenne la lotta all’istituto del manicomio e all’ospedalizzazione. Nell’introduzione lei scrive: “La deistituzionalizzazione finisce, erroneamente, per essere spesso equiparata all’antipsichiatria e diventa sinonimo del desiderio di abolire ogni istituzione di controllo sociale.” Che cos’è dunque il movimento dell’antipsichiatria?
Ernesto Venturini: Premetto che negli anni ‘60-‘70 la lettura dei libri di Michel Foucault (“Storia della follia nell’età classica”), di David Cooper (“La morte della famiglia”, “Psichiatria e antipsichiatria”), di Thomas Szasz (“Il mito della malattia mentale”) e, soprattutto, di Ronald Laing (“L’io diviso”, “La politica della famiglia”) costituivano per me un autentico godimento. Avevano il potere della rivelazione, mi aiutavano a penetrare nel mondo affascinante della psicosi, a capirne non solo le ragioni, ma anche a interrogarmi sulla nostra presunta “normalità”. In qualche modo, in quegli anni, ci sentivamo tutti degli anti-psichiatri, anche se era chiaro quello che rifiutavamo – la brutalità del manicomio (ma anche l’abuso degli psicofarmaci, l’oggettivazione dei pazienti), ma non altrettanto quella che avrebbe dovuto essere la risposta concreta ai bisogni di una situazione che avevamo difficoltà a definire “malattia mentale”. Laing, in ogni caso, si allontanò dal suo amico Cooper perché non condivideva le sue conclusioni più estreme e continuò a definirsi uno psichiatra. Cooper, dopo l’exploit teorico pratico della sua giovinezza, rimase imprigionato nel suo ruolo d’icona, andando incontro a un rapido declino intellettuale ed esistenziale. Michel Foucault rese, senza dubbio, più complesse e dialettiche le sue iniziali riflessioni contro la disciplina psichiatrica. Szasz, divenuto ormai cittadino americano, continuò a parlare contro i manicomi pubblici, ma meno verso quelli privati; diventò un convinto fautore del liberismo, anche in campo sanitario, entrò nel mondo paludato dell’Accademia, fu sostenitore di Scientology, una discutibile setta mistica-religiosa.
In ogni caso, non è stata tanto la storia personale di questi protagonisti dell’antipsichiatria, ciò che ha aiutato me (e naturalmente tanti altri) a prendere le distanze da questo importante movimento di denuncia, quanto la verifica della sua pratica velleitaria e di quella sorta di desiderio di una perenne rottura, piuttosto che di una difficile ricerca di consenso. Questo è avvenuto quando, basaglianamente parlando, siamo andati a verificare le pratiche e i loro effetti. Le esperienze antipsichiatriche – anche quella famosa di Kingsley Hall (1965) a Londra – avvenivano in ambienti privati, dove la popolazione era selezionata dal censo, dall’età (giovani), dalla cultura. Erano esperienze di nicchia, esemplari, ma con il respiro corto, senza una visione politica delle contraddizioni sociali.
Altro è stato, invece, lo spessore etico e scientifico di Franco Basaglia che ha lasciato l’università, con i suoi privilegi e rituali, per scegliere di lavorare nel buco nero del manicomio, dove erano “gestite” la povertà, le disuguaglianze di classe, le differenze sociali e quelle di genere.
Per cogliere meglio la distanza tra i due movimenti, basterà affidarci, una volta tanto, alla terminologia. Basaglia e noi con lui non ci siamo mai dichiarati anti-psichiatri. Basaglia ha sempre parlato della negazione dell’istituzione. Il nostro è, infatti, un movimento teorico-pratico contro l’istituzionalizzazione (non contro le istituzioni), contro, cioè, quell’uso delle istituzioni che sancisce la disuguaglianza, l’uso di un potere-sapere per assoggettare l’uomo. L’istituzionalizzazione è un meccanismo generalizzato che accade nelle diverse istituzioni della società: in quelle dell’educazione scolastica, nella famiglia, nei partiti, nei gruppi sociali, nelle discipline scientifiche. Il manicomio rappresenta dunque solo una delle tante istituzionalizzazioni. Il suo opposto – la deistituzionalizzazione – è, pertanto, una lotta per libertà: “la libertà è terapeutica!” È lotta contro disciplina (nell’ottica di Foucault), è decostruzione (nell’ottica strutturalista di Jacques Derrida) di tutti quegli apparati di sapere-potere, che sostengono l’esclusione, l’emarginazione.
L’organizzazione del movimento teorico-pratico di Basaglia (una nuova istituzione!) non si chiama Antipsichiatria ma “Psichiatria Democratica”: è l’affermazione del valore della democrazia, intesa come diritto di protagonismo e di cittadinanza del soggetto, dentro lo specifico ambito della salute mentale. Siamo di fronte a un processo, che vuole svelare le manipolazioni e le mistificazioni degli apparati tecnico scientifico per negare e controllare, attraverso le istituzioni della violenza e della tolleranza, le contraddizioni sociali produttrici di sofferenza psichica.
Basaglia è sempre rimasto, per sua scelta, un funzionario pubblico, affermando il valore di una medicina pubblica, non esercitando la professione privata. Nei suoi incontri-dibattito svolti in Brasile e raccolti poi nel libro postumo “Le conferenze brasiliane”, dichiara, a fronte di chi afferma il valore preminente di una militanza politico-ideologica, che la vera rivoluzione consiste nello svolgere, fino in fondo, la propria professione. Non è forse stata proprio quella la istanza che lo ha portato a promuovere l’esperienza goriziana, provocando il cambiamento del paradigma psichiatrico? Quando Basaglia entra la prima volta nel manicomio di Gorizia, ha voglia di fuggire, di ritornare ai privilegi dell’Accademia, dove si può fare teoria. Si domanda: ma questo mondo di sopraffazione e violenza che cosa a che vedere con la mia professione di medico? Poi capisce che il suo dovere di medico è proprio quello di lottare contro questa realtà e contro la ideologia, contro la pseudo scienza che la sostiene. In questa scelta lo aiuta la sua esperienza personale di impegno politico. Franco è stato incarcerato da giovane per attività antifascista. Riconosce nel manicomio la stessa logica della prigione che ha sperimentato sulla sua pelle. Decide, così, di condividere la sua vita fino in fondo con chi deve curare, fino alla sua libertà. Rimane nel puzzo di urina dei reparti, nella miseria, tra la povertà dei proletari, decostruendo giorno per giorno, la violenza del manicomio. Fino alla fine, fino alla possibilità per tutti di lasciarsi alle spalle quell’orrenda e inutile istituzione.
Basaglia è profondamente gramsciano nel rifiutare le velleità della antipsichiatria (condivide un progetto politico sociale e sa che il cammino per l’egemonia è lungo e difficile). Basaglia è veramente un seguace di Marx: non si tratta più, ormai, di parlare, di interpretare la realtà, è tempo, ormai, di cambiare il mondo.

A.M.: Salutiamoci con una citazione…
Ernesto Venturini: Considerando il piacere offertomi da questa circostanza, sarò generoso e le proporrò ben due citazioni, che sono, però, di uno stesso autore – Antoine de Saint-Exupéry – e recuperano, in qualche modo, il tema del viaggio.
La prima riprende una delle citazioni che sono presenti nel libro; chiarisce il valore della motivazione in un’impresa di alto significato politico, etico, scientifico, quale la deistituzionalizzazione. Dice Saint-Exupéry:
Se vuoi costruire una nave, non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma, invece prima, risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave”.
La seconda rimanda alla ricerca di senso per quel viaggio, che è la nostra vita:
Fai della tua vita un sogno, e di un sogno, una realtà.

A.M.: Ernesto, la nostra lunga chiacchierata è stata di sicuro illuminante avendomi permesso di accedere ad un periodo storico che, seppur recente, non è propriamente argomento di discussione per la mia generazione. Ha profondamente ragione quando scrive – un poco, in modo malinconico– che non si conosce la figura di Franco Basaglia, la si cita per la Legge 180 come se fosse una sorta di leggenda. È vero! Non ci è stato presentato l’uomo né la lotta ideologica che è stata affrontata, noi (e qui oso parlare per la mia generazione) abbiamo dato per scontati “i diritti civili ai folli”. Il mio augurio ai lettori è di riuscire a viaggiare nel tempo tramite le sue parole tanto da provar a tratteggiare il passo ed il suono del celebre psichiatra, nonché il lavoro che lei ha svolto e che svolge quotidianamente. La ringrazio vivamente per la lectio che mi ha concesso e la saluto con le parole dello stimato Carl Gustav Jung: “Quanto più sei intelligente, tanto più folle è la tua ingenuità. Le persone ultraintelligenti sono matte complete nella loro ingenuità. Non possiamo salvarci dall’intelligenza dello spirito di questo tempo cercando di essere più intelligenti ancora ma accettando ciò che è più contrario alla nostra intelligenza, ossia l’ingenuità. Non vogliamo però neppure diventare apposta degli stolti rendendoci schiavi dell’ingenuità, ma saremo piuttosto degli stolti intelligenti. Questo ci conduce al senso superiore. L’intelligenza si unisce all’intenzione. L’ingenuità non conosce intenzioni. L’intelligenza conquista il mondo, mentre l’ingenuità conquista l’anima. Fate dunque il vostro voto di povertà di spirito per poter essere partecipi dell’anima.”

Written by Alessia Mocci

Info
Sito Negretto Editore
https://www.negrettoeditore.it/
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https://www.facebook.com/negrettoeditoremantova/
Citazioni inedite tratte da “Il sale e gli alberi”
https://oubliettemagazine.com/2020/06/08/il-sale-e-gli-alberi-citazioni-tratte-dal-saggio-sulla-salute-mentale-curato-da-ernesto-venturini/

Intervista integrale su: https://oubliettemagazine.com/2020/07/07/intervista-di-alessia-mocci-ad-ernesto-venturini-vi-presentiamo-il-sale-e-gli-alberi/

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