30 gennaio 2017

15 ANNI DI EURO: SPERANZA O DELUSIONE? di Antonio Laurenzano


15 anni di euro: speranza o delusione?


Passato sotto silenzio il compleanno dell’euro. In un clima di crescente euroscetticismo nessuna celebrazione per i quindici anni di vita della moneta unica. Nel 2002 l’euro, con il festoso changeover in undici Paesi europei, era stato salutato come il simbolo della integrazione monetaria del Vecchio Continente, preludio alla costruzione politica della comune casa europea. Ma nel tempo, nei Paesi economicamente più fragili, è divenuto il bersaglio di imprese e famiglie per averne eroso il potere d’acquisto peggiorato dalla crisi economica.
Sono stati quindici anni non sempre facili, una corsa ad ostacoli iniziata all’insegna della diffidenza dei mercati e dello scetticismo di alcuni economisti, un ostacolo superato nei primi anni grazie al concorso di due fattori: la Cina che, producendo merci a basso prezzo, ha impedito l’inflazione a livello mondiale e la Fed (la banca centrale americana) che, immettendo enormi liquidità nell’economia globale, ha tenuto bassi i tassi d’interesse. Un mix di grande effetto interamente assorbito dalla crisi dei subprime 2007-2008 con lo scoppio della “bolla” immobiliare, punto di partenza della recessione mondiale. Senza la liquidità degli anni precedenti i mercati hanno richiesto rendimenti sempre più alti per comprare titoli del debito sovrano dei Paesi deboli. La crisi finanziaria si è poi estesa all’Eurozona che, priva di una politica strutturale convergente dei suoi 17 membri, è andata in tilt. E per l’euro è stata notte fonda! Una notte che non è ancora finita …
La grande crisi del 2007 infatti ha messo a nudo il problema dell’euro: essere una moneta senza un governo, senza uno Stato, senza una banca capace di garantire un intervento illimitato in caso di difficoltà. E’ l’anomalia di un’Europa unita sotto il segno della moneta, con la Banca centrale europea, unica istituzione federale, priva del sostegno di una politica economica comune e un coordinamento delle politiche fiscali e previdenziali.
L’origine della crisi dell’euro sta nello stesso trattato istitutivo dell’Unione Economica e Monetaria (UEM): si sperava che le regole (rigide) definite a Maastricht e le loro successive modificazioni (Fiscal Compact) avrebbero consentito ai Paesi dell’Eurozona una crescita forte ed equilibrata. Ma senza un comune ombrello protettivo ogni Paese risponde da solo dei debiti del suo Governo, delle sue banche, delle sue imprese con la conseguenza che l’assenza di aiuti da parte di Bruxelles e Francoforte provoca l’aumento dei tassi d’interesse, la rarefazione del credito, l’arresto della crescita. Senza una reale unione economica Paesi forti sempre più forti, Paesi deboli sempre più deboli! Le singole economie nazionali troppo diverse fra loro, i cicli economici troppo asimmetrici e il fattore di mobilità molto basso. La moneta unica inevitabilmente avvantaggia i Paesi entrati nell’Unione in una situazione più competitiva (debiti pubblici moderati, migliore organizzazione della produzione e del lavoro, amministrazione pubblica e giustizia più efficienti) e danneggia quei Paesi con finanza pubblica allegra e in forte ritardo sulle riforme.
L’Italia, non in regola con i parametri su deficit e debito fissati a Maastricht, per entrare nell’Eurozona ha pagato un prezzo enorme con il cambio lira-euro troppo alto “imposto” a Prodi e Ciampi dalla Germania a difesa delle proprie esportazioni. Un perverso sistema di cambi fissi che impone ai Paesi in deficit l’onere dell’aggiustamento, a danno della crescita, e non chiede alcun impegno di solidarietà ai Paesi in surplus (Germania). La nostra competitività che fra il 1970 e il 1995 aveva consentito la crescita della produzione industriale si è così volatilizzata. Nel 2002 il nostro reddito pro capite era del 20% superiore alla media dell’area euro, oggi è del 20% sotto la media, con aumento della disoccupazione all’11,6%, contro il 4,1% della Germania. Negli ultimi otto anni, il Pil (la ricchezza nazionale) è sceso di sette punti e il nostro bilancio, pur registrando un avanzo primario, chiude sempre in rosso per il pagamento del crescente debito pubblico (133%).
E’ questo il quadro economico-politico entro il quale la leadership politica europea dovrà muoversi per trovare nuovi equilibri, nuovi stimoli per disegnare una convergenza economica all’interno dell’Eurozona, presupposto essenziale per la sopravvivenza della moneta unica nel lungo periodo. Stop al rigore senza sviluppo e crescita, ai diktat della Commissione europea che, non promuovendo una politica economica espansiva, alimenta la protesta contro l’euro. Ma quali le conseguenze di una uscita dalla moneta unica e il ritorno alla sovranità monetaria nazionale? Per l’Italia un cammino in salita: disallineamento degli spread, insostenibilità del debito pubblico con tassi d’interesse alle stelle, cambiale da pagare alla Bce di 358,6 miliardi di euro, svalutazione della moneta nazionale (oltre il 30%!), esplosione dei costi energetici, illusione di maggiore export, inflazione a doppia cifra! Secondo un rapporto di Mediobanca sarebbe un vantaggio per l’Italia uscire dall’euro a una condizione: rimborsare il debito in lire svalutate! Sogno o realtà?...

Cosa fare? Ricondurre la questione europea nel suo alveo naturale che è quello politico e non quello asfittico delle gabbie di procedure. Rivedere i Trattati e il rigore di Maastricht attraverso un meccanismo di tassi di cambio “aggiustabili” per neutralizzare lo strapotere economico tedesco. Un passaggio obbligato per mettere al riparo l’euro dagli atti di pirateria dei mercati e l’Europa dal diffuso disagio sociale ed economico e dai rischi per la coesione sociale e la stessa democrazia.

(c) Antonio Laurenzano

16 gennaio 2017

I CATETI DEL TEMPO SULLA CITTÀ Il testamento spirituale di Antonio Motta. Ricordo di un uomo e di un intellettuale lucano a cura di Vincenzo Capodiferro

I CATETI DEL TEMPO SULLA CITTÀ
Il testamento spirituale di Antonio Motta. Ricordo di un uomo e di un intellettuale lucano a cura di Vincenzo Capodiferro

È stato presentato sabato 14 gennaio, alle ore 18.00, presso il Museo provinciale di Potenza, il libro “I cateti del tempo sulla città. Autobiografia e testamento” di Antonio Motta, edito da Paolo Laurita, a Potenza, nella collana “I quaderni di bacheca” , n. 4. Hanno preso parte tra le autorità il Sindaco Dario De Luca, il presidente della provincia Nicola Valluzzi e gli storici Antonio Lerra e Giampaolo d’Andrea. Era l’ultimo libro di Antonio Motta. Lo aveva scritto prima di morire, come suo testamento spirituale. Non aveva fatto in tempo a correggerne le bozze ed era rimasto lì. Poi Paolo Laurita ha preso a cuore l’ultimo lavoro dell’ingegnere filosofo e ne ha curato l’edizione, che è uscita postuma. Con questo si chiude anche la collana dei quaderni di bacheca. Antonio Motta era un grande e nobile uomo, sempre accogliente, sensibile ed attento. Lo ricordo ancora con la sua manina tesa, che ti dava per affetto e subito ritraeva, perché soffriva di forti dolori ai tendini. E poi col suo sguardo chiaro ti ammaestrava per ore. Andare da lui era come andare da un vate. Se entravi nella sua casa a Potenza, a ridosso di Via Pretoria, tutto l’appartamento era un biblioteca immensa: vi trovavi di tutto! Ma egli stesso era una biblioteca vivente, arricchita dall’esperienza. Era nato a Laurenzana, una cittadella nel cuore della Lucania. Viveva a Potenza, dove si era trasferito dall’immediato dopoguerra, per il lavoro e dove è morto nel 2006. Per molti anni è stato ingegnere capo dell’ufficio tecnico dell’amministrazione provinciale. Era lui che ha curato in pratica la realizzazione di gran parte del settore viario della regione Basilicata. Questa esperienza poi la si ritrova nei suoi scritti. È stato storico e studioso che ha saputo conciliare gli interessi del lavoro con quelli della cultura. Alla cultura storica si dedicò totalmente dall’età della pensione. Raccontava infatti, che esausto della corruzione che andava sempre di più dilagando nella vita pubblica, incidendo fortemente anche nella realizzazione dei lavori pubblici, ad un certo punto potendo andare in pensione molto tempo prima, perdendo anche parte del guadagno, prese il cappotto e lasciò la poltrona. E ripeteva sovente: non sono le poltrone che fanno le persone, ma le persone che fanno le poltrone! È stato membro di varie associazioni culturali, tra cui quelle più note: il circolo Silvio Spaventa Filippi - di cui era socio onorario e trai fondatori del premio Basilicata - e la Deputazione di Storia Patria della Lucania. Si è fatto conoscere dagli studiosi di storia fin dal 1981 con il “Memorandum del centro storico di Potenza”. Nel 1989 al suo volume “Carlo Afan De Rivera. Burocrate ed intellettuale borbonico. Il sistema viario preunitario” fu assegnato dalla giuria, presieduta da Tommaso Pedio, il premio Basilicata per la saggistica. Carlo Afan De Rivera era stato un grande riformatore illuminato del governo borbonico ed aveva curato, in particolare, tutto il settore viario. Tra le opera che aveva seguito con peculiare interesse vi era la regia strada delle Calabrie, che poi è diventata la statale n. 19, un’importante via di collegamento che da Salerno, attraversando la Lucania, scendeva giù per la Calabria. I suoi capolavori sono stati “Oltre Eboli” (1998) e “ Giovanni Andrea Serrao Vescovo” (1999), costituenti i primi due quaderni di bacheca di Paolo Laurita. In quest’ultimo in particolare raccontava la storia drammatica di questo prelato potentino, protagonista della rivoluzione del 1799 lucano. Questo vescovo fu sacrificato sull’altare della rendita fondiaria, infatti venne massacrato dalla borghesia potentina, per essersi opposto ai suoi interessi terreni. E compare qui la figura di un martire, che non è stato mai valorizzato, proprio perché era andato contro le logiche dei potenti. Antonio Motta ha girato la Basilicata palmo palmo, paese per paese. Da ingegnere del Genio Civile, aveva seguito la costruzione di diverse strade provinciali. Ancora al mio paese se lo ricordano, quando veniva per tracciare il corso delle strade e seguirne i lavori. E come si turbava, perché nella costruzione delle strade doveva tener conto di tutte le lamentele dei proprietari terrieri, i quali spesso non volevano cedere parte dei loro fondi per la pubblica utilità. Venivano sacrificati allora i piccoli possedimenti dei cafoni e salvati invece i latifondi dei galantuomini. «I baroni mangiavano la polenta coi passerotti!», che cuore avevano, per massacrare dei poveri passeri e poi metterli a cuocere interi con la polenta! Avveniva anche che questi galantuomini facevano deviare il corso delle strade per far valorizzare i loro fondi. Ed era sempre una guerra, in ogni paese! Al mio, ad esempio, la strada provincia veniva dirottata in un territorio franoso. Ancora se lo ricordavano Sandra ed il compianto Eugenio Montesano, il medico del paese, i quali lo ospitavano a casa loro e si prendevano cura di lui. Conosceva alla perfezione tutto il sistema viario nella sua evoluzione storica dall’età antica fino al dopoguerra. Aveva studiato tutti i tracciati delle vie romane: dell’Appia, della Popilia, dell’Erculea, con tutte le “stationes” annesse. Aveva ripercorso tutti i tratturi regi, le vie della transumanza, che riprendevano quegli antichissimi sentieri, che risalgono alle origini della storia, al Neolitico. Basta rileggere i suoi studi: “Per le montagne di Basilicata, per tutti quei paesi, più o meno alpestri” e “L’abbiamo a piedi percorso erborizzando”, apparsi sul Bollettino Storico della Basilicata. La sua cultura storica veniva arricchita dall’esperienza diretta, che aveva avuta da ingegnere, su tutto il territorio. Non a caso mi aveva indirizzato a studiare un altro filosofo ingegnere illuminista francese: Nicolas Antoine Boulanger. Anche lui era costruttore di strade e di ponti. Ed io, ascoltando la voce del maestro, mi ero accinto ad approfondire il pensiero di costui e vi avevo pubblicato un lavoro “La dittatura di Dio”, dedicato, non a caso ad Antonio Motta. Prima di morire mi aveva affidato la traduzione dell’Epistola di Giacomo Castelli, del Settecento. Giacomo Castelli, di Carbone, era un intellettuale che aveva girato tutto il Regno di Napoli e aveva descritto tutti i popoli, le usanze. Bella, ad esempio, è la descrizione del bosco fluviale di Policoro, un gioiello incontaminato del Regno di Napoli. Veniva visitato da tutto il mondo e conservava specie mai viste di flora e di fauna, prima che venisse raso al suolo con la riforma agraria degli anni Cinquanta. L’ultimo Barone, il Berlangieri, proprietario di tutto il tenimento di Policoro, lo aveva tenuto ancora intatto. Questo itinerario del Regno di Napoli era stato ritrovato da Motta dopo tante ricerche in una biblioteca di Venezia. Io avevo fatto la traduzione e stavo per riconsegnargliela, ma poi Antonio è morto, lasciandoci un vuoto incolmabile, culturale ed umano. Questo prezioso documento storico è stato poi accolto nella rivista letteraria “Nugae” di Battipaglia. Ringrazio ancora Michele Nigro che allora prese a cuore questo prezioso lavoro e lo pubblicò. Antonio Motta ha scritto anche belle raccolte di versi, come “Frammenti dall’esilio” (1999) e “Versi di Babele e Babele di versi” (2003). Quest’ultima raccoglie i componimenti del decennio 1956-1966, «dalla morte di nonno Antonio al matrimonio con Emilia, scritti tra Bari, Potenza e Laurenzana». Da giovane Antonio aveva studiato ingegneria all’università di Bari. Faceva per guadagnarsi qualcosa il correttore di bozze per conto dell’editore Laterza. Aveva corretto tutte le opere di Croce. Come mi raccontava, aveva così supplito alle carenze della cultura classica. Gli mancava molto, ad esempio, la conoscenza del latino. Aveva aderito alle idee marxiste ed all’ideologia comunista. Ma dopo la rivolta anticomunista di Budapest nel 1956, come molti intellettuali di sinistra, ebbe una certa disillusione. Da allora si avvicinò al cristianesimo. E questa tematica, molto forte, la ritroviamo proprio in questa sua ultima opera: i cateti del tempo sulla città. Egli si confronta con la “Città di Dio” di Agostino. E si confronta soprattutto sul tema del tempo, su cui il Vescovo di Ippona aveva dato un nuovo orientamento. Il tempo degli ingegneri è un tempo spazializzato, come direbbe Bergson, matematizzato. Il tempo di Agostino, invece, è il tempo dell’anima. Era venuto anche al paese, insieme a Paolo Laurita a presentare il mio libro “Una Domenica di sangue”. Mi aveva infatti seguito con accortezza ed amore nella stesura e nelle ricerche storiche. Il suo primo titolo, non a caso, era “Storia di una rivoluzione d’ottobre”. Il titolo non era casuale, perché proprio nell’ottobre del 1860, in occasione del plebiscito per l’Unità d’Italia, tutto il Lagonegrese, tutta la Lucania, tutto il Sud insorse contro la conquista piemontese. Vi erano due Lucanie: quella di Corleto e di Potenza, favorevole ai Savoia, e quella dei cafoni e dei nobili, fedeli ancora al Borbone. Motta si era reso conto che il teorema marxista – nobiltà teista, borghesia deista, proletariato ateista – non poteva essere applicato nelle regioni del Sud. Qui l’aristocrazia e i contadini erano rimasti fedeli al Borbone ed erano ancora sanfedisti, mentre la borghesia e la massoneria potentina si erano vendute al Piemonte per conservare i loro privilegi e divenire la nuova classe dominante, soppiantando quella antica. Anche un altro grande storico lucano, anche egli socialista e “potenzese”, Tommaso Pedio, sosteneva la stessa tesi. Quando lo andai a trovare insieme a Giuseppe Cracas, prima di morire, mi fece questa domanda: tu lo sai che nel febbraio del 1860 al tuo paese, nove giovani, tutti figli di contadini, furono fucilati con l’accusa di renitenza alla leva? Nessuno lo sapeva! Per uno stupido errore burocratico, perché era stato rinviato l’avviso di presentazione alle armi, ma l’esercito ancora non ne era stato messo al corrente, tanti giovani furono fucilati perché non si erano presentati alle armi senza saperlo! Facemmo anche mettere una lapide in ricordo di questi nove giovani. Oggi non si trova più nella piazza. È forse troppo scomoda! Così cominciò la grande stagione del brigantaggio: la rivoluzione mancata. Tutte le rivoluzioni borghesi sono riuscite: quella francese, quella americana. Le rivoluzioni proletarie sono riuscite, come quella Russa del 1917. Le rivoluzioni dei contadini sono tutte fallite. Chissà perché? Da quelle di Lutero, che si vendette ai poteri forti dei principi e li fece massacrare fino al brigantaggio sono tutte fallite. Munzer ed Huss furono arsi sul rogo, perché avevano difeso i contadini. Lutero e Calvino, invece, alleati della borghesia divennero teocrati. I Borboni erano re socialisti, amati dal popolo, ma vennero fatti fuori col beneplacito internazionale dell’Inghilterra. Questa è un’altra storia: la questione meridionale. Antonio Motta, insieme a Tommaso Pedio, è stata una delle ultime voci dei meridionalisti lucani. Abbiamo dedicato questo breve ricordo ad un uomo che ci ha voluto bene, ci ha seguito nei nostri studi, ci ha indirizzato nella ricerca, e ci ha dato sempre una mano tesa, anche se dolorante. Quest’ultima opera, pubblicata postuma da Paolo Laurita è veramente un grande riconoscimento all’opera ed alla figura di quest’uomo che ha dedicato la sua vita alla Lucania ed alla sua Città, su cui vertono i cateti temporali. E su questi cateti domina Pitagora: la somma dei quadrati costruiti sui cateti del tempo corrisponde al quadrato costruito sull’ipotenusa. Il tempo è un triangolo perfetto, un triangolo rettangolo. Questo triangolo è un simbolo che ci rimanda alla Trinità, cioè all’eternità. Il tempo corrisponde in qualche modo all’eterno, è inquadrato, o meglio triangolato sull’eternità. La triangolarità ci riporta alla tridimensionalità: la relatività einsteniana. Ma il tempo matematico è solo il sottofondo, su di questo si dispiega la storia. La storia è la misura del tempo secondo l’anima. Quest’anima però non è solo individuale – la mia storia personale – ma è anche collettiva: la storia della Città! La città terrena, cioè Potenza, si proietta verso la città eterna. Ogni tempo ed ogni storia tendono all’eternità.


Vincenzo Capodiferro

13 gennaio 2017

TUTTO E' FATIDICO Stephen King recensito da Miriam Ballerini

TUTTO E' FATIDICO                                        Stephen King


© 2002 Sperling & Kupfer
ISBN 88-200-3419-0   86-I-02  €18,00  Pag. 535

Raccolta di racconti, anzi, di quattordici storie nere.
Tutto è fatidico è il titolo di uno dei racconti, dove il protagonista ricorda che il suo amico Pug, quando voleva dire che qualcosa era stupendo, diceva “fatidico”.
Troviamo storie che fanno paura, come ad esempio quando leggiamo di un’autopsia fatta su un essere umano ancora vivo!
Racconti paranormali, come per quel ragazzo che, facendo l’autostop per andare a trovare la madre in ospedale, sale sulla macchina di un morto.
Un pezzo che riguarda Roland, famosissimo per chi ha seguito la saga della torre nera.
In 1408 ci viene proposto il tema della camera d’albergo infestata.
Prima o dopo ogni racconto, King scrive una breve lettera per spiegare al lettore come sia nata quell’idea in particolare, oppure qualche aneddoto particolare.
Eccone alcuni esempi. Da Autopsia 4: Credo che a un certo punto ogni scrittore di horror debba affrontare l’argomento della tumulazione prematura”.
Da Il virus della strada va a nord: Possiedo davvero il quadro descritto in questo racconto: strano no? Mia moglie lo aveva visto e aveva pensato che mi sarebbe piaciuto…”
King sa passare da un argomento all’altro senza farsi troppi problemi. La sua scrittura si adegua a ogni situazione, o forse sono le situazioni a piegarsi alla sua scrittura!
Quindi, se volete leggere questi racconti ricordatevi: non regalate animali, non comprate niente alle svendite da cortile, ricordate che il diavolo esiste, non inimicatevi l’adolescente ombroso della porta accanto … e sappiate che tutto è fatidico.

© Miriam Ballerini

11 gennaio 2017

Iscrizione corsi presso la nuova scuola professionale di Appiano Gentile

Partono i nuovi corsi presso la nuova scuola professionale di Appiano Gentile.


Cliccare sulle locandine per ingrandirle.

09 gennaio 2017

PIERO VIOTTO, FILOSOFO E PEDAGOGISTA a cura di Vincenzo Capodiferro


PIERO VIOTTO, FILOSOFO E PEDAGOGISTA
È morto a Varese uno dei massimi interpreti della filosofia di J. Maritain in Italia.

Piero Viotto è nato a Torino il 16 aprile del 1924, filosofo e pedagogista, massimo interprete del pensiero di Maritain in Italia. Dal 1942, dopo aver conseguito il diploma magistrale, insegna nelle scuole elementari, seguendo il metodo dell’attivismo di M. Agosti e V. Chizzolini. Molto interessante tale metodo proposto da questi pedagogisti della Cattolica, il quale fu sperimentato a Brescia dal 1925 al 1940. Veniva chiamato il metodo dei reggenti: gli alunni partecipavano a turno alla gestione della scuola. Nel 1946 si laurea a Torino in pedagogia con una tesi su Maritain, poi edita da La Scuola. Dal ’48 al ’53 collabora alla cattedra di pedagogia dell’università di Torino. Dopo la sua vita è dedita all’insegnamento di filosofia nei licei. Scrive tra l’altro una storia della filosofia in tre volumi, edita da Marietti. Dal ’76 all’’87 è chiamato da Aldo Agazzi alla Cattolica. È stato sempre attivo nell’impegno culturale ed umano. Il suo lavoro scientifico più rilevante è uno studio sulle opere di Jacques e Raissa Maritain in cinque volumi, edito da Città Nuova. Ha guidato per venti anni il liceo Manzoni di Varese. È morto il 4 gennaio 2017. Veramente l’Italia e Varese, dove viveva da anni, hanno perso un grande uomo di cultura, un grande filosofo e soprattutto un grande pedagogista, che ha dedicato la sua vita all’insegnamento, all’educazione ed alla formazione della gioventù. Era cortese, sempre gentile e con un sorriso penetrante ed attento. Fine pensatore, sensibile a tutte le esigenze della cultura moderna, ma soprattutto alle esigenze degli uomini che la rappresentano, richiamato dal mistero di Cristo, dedicò la sua vita a seguire il Maestro. Conobbe Maritain e Raissa e si innamorò di questa coppia, fortemente impegnata nello svolgimento del pensiero cristiano, in tempi difficilissimi, di duro confronto con le varie filosofie ed i vari indirizzi che li contornano. Al centro della sua riflessione, seguendo le orme del filosofo francese, vi è la persona umana, quanto di più prezioso e caro Dio avesse potuto immaginare: il capolavoro ed il culmine di tutta la creazione. Come diceva Agostino la persona umana è immagine della Trinità: in questa il Padre, il Figlio e lo Spirito esprimono in una forma suprema e superiore ad ogni comprensione umana l’Essere, l’Intendere e l’Amore: «Veda chi può quanto in queste tre cose sia inseparabile la vita, e una sola vita, e una sola mente, e una sola essenza, quanto infine sia inseparabile la distinzione e tuttavia sia una reale distinzione. Ma non pensi di aver scoperto ciò, che sopra di lui è immutabile. Quegli che è immutabilmente e che immutabilmente conosce e vuole» (Confessioni, XIII,11). Questo è anche il messaggio dell’umanesimo integrale di J. Maritain, che in Italia si innesta certamente nella grande radice dell’Umanesimo storico del ‘400.


Vincenzo Capodiferro

08 gennaio 2017

IL FUTURO INCERTO DELL’ EUROPA Anno nuovo, problemi vecchi di Antonio Laurenzano

IL FUTURO INCERTO DELL’ EUROPA
Anno nuovo, problemi vecchi
di Antonio Laurenzano


Si è concluso per l’Unione europea un anno turbolento che ha segnato fortemente la credibilità delle istituzioni comunitarie, dai problemi legati alla sicurezza con gli attentati di Bruxelles e Nizza alla emergenza umanitaria dei migranti e il controverso accordo con la Turchia, dal voto di protesta di Brexit alla crisi economica e finanziaria dell’eurozona. Questioni cruciali che ripropongono anche per l’anno appena iniziato la fragilità dell’azione politica di Bruxelles.
E’ latitante da tempo una governance in grado di garantire una presenza incisiva dell’Unione sullo scacchiere internazionale, manca un progetto per una crescita economica equilibrata con creazione di lavoro e di occupazione e con un mercato interno meno ingessato. Un inquietante immobilismo che, alimentato da sterili egoismi nazionali e da protagonismi economici, rende sempre più incerta la mission dell’Europa quale soggetto di propulsione e mediazione nel processo di pace nel mondo. Rischia di svanire il sogno dei Padri fondatori per un’Europa unita, fattore di stabilità negli equilibri politici mondiali e risposta alle derive nazionaliste.
Sullo sfondo di una situazione povera di prospettive reali, l’euroscetticismo trova crescenti consensi, complice il disagio sociale. E c’è chi, sull’onda di un diffuso populismo, minaccia di uscire dall’Europa ignorando colpevolmente le tragiche pagine di storia del recente passato. Eloquente il pensiero espresso sulle colonne del Corriere da Sergio Romano che, censurando certe fughe in avanti di alcuni leader politici di casa nostra, ha rievocato le motivazioni storiche della scelta fatta dall’Italia post bellica: “abbiamo creduto nell’unità europea perché ci permetteva di riemergere dalla sconfitta, dava un senso alla nostra tardiva e imperfetta unità nazionale, ci spronava a fare ciò che da soli non saremmo riusciti a realizzare”.
La situazione in cui versa l’Europa evidenzia una profonda crisi politica. Si è perso troppo tempo nell’inseguire miseri compromessi intergovernativi perdendo di vista l’accelerazione del fenomeno della globalizzazione. La vera sfida attuale è “evitare che il presente uccida il futuro”! E’ in gioco la sostenibilità del sistema europeo nel lungo periodo: maggiore coordinamento delle politiche di bilancio ed economiche, unione bancaria e fiscale, riduzione dei disavanzi pubblici. La centralità delle istituzioni europee nel processo decisionale è fondamentale, ma la sua realizzazione sarà assicurata solo se gli Stati membri saranno in grado di esprimere una ritrovata coesione. Ognuno dovrà fare responsabilmente la sua parte per l’ Europa del futuro, “unita nella diversità”.
Il prossimo marzo si celebrano i 60 anni dei Trattati di Roma, punto di partenza del processo della costruzione politica europea. Su questa prospettiva storica va incardinata un’ Europa rinnovata nella sua identità e nei suoi valori fondanti per l’affermazione di un ruolo primario sulla scena globale. Sarebbe auspicabile una revisione dei Trattati dell’Ue per il rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo e l’elezione diretta del Presidente della Commissione superando così l’attuale deficit di democrazia. Voltare pagina anche sul piano economico combinando le prescrizioni rigorose del Patto di stabilità e crescita con la spinta agli investimenti aggregati per dare finalmente un segnale alla ripresa della stagnante economia.

Il tempo delle parole è finito! Polemizzare, litigare, rinviare è esercizio di puro autolesionismo che rischia di svuotare il comune serbatoio della storia e della millenaria civiltà del Vecchio Continente. Le soluzioni comuni richiedono spirito inclusivo e collaborativo. E’ tempo di scelte coraggiose, condivise. Ma la politica europea saprà e esprimere una leadership degna del passato?       

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano Addio al “Patto di stu...