30 novembre 2019

Enzo Bersezio a cura di Marco Salvario

Enzo Bersezio
a cura di Marco Salvario

CSA Farm Gallery – Via Vanchiglia 36, Torino


Durante la mia visita alla galleria CSA Farm Gallery per la mostra Emersioni di Andrea Cavallera, di cui ho parlato in un precedente articolo, ho avuto l’occasione di conoscere Enzo Bersezio, artista settantaseienne ma giovane nell’animo, che da più di cinquanta anni ricerca nell’arte il modo di comunicare i suoi pensieri e le sue analisi.
L’artista ha il suo studio proprio nella galleria CSA che in passato ha ospitato alcune delle sue molte esposizioni, e con la quale vive in un rapporto di ottima simbiosi. Da tempo Enzo Bersezio si è affermato soprattutto come scultore e modellatore del legno con opere astratte di profondo simbolismo; dell’arte è stato non solo creatore ma anche divulgatore, insegnando per decenni al Liceo Artistico Statale di Torino.




Esposti alla galleria CSA, ho potuto ammirare alcuni disegni a grafite che illustrano e condensano aspetti diversi delle ricerche dell’artista. Uno degli elementi creativi è maturato durante il viaggio nel Cile turbolento e socialmente instabile di questi anni, nazione vittima di quel profondo malessere legato alla grave diseguaglianza sociale che rende esplosiva gran parte dell’America Latina, con la lunga escursione di più di 3600 chilometri per raggiungere l’Isola di Pasqua, dove i grandi Moai guardano arcigni verso l’interno dell’isola. Un’esperienza che Bersezio ha legato a un altro suo studio tra magia e scienza, tra matematica e musica, tra fenomeni fisici e riti esoterici, che ha accompagnato la sua attività: quello che considera la strana e affascinante natura dei numeri primi.
Sotto la sua matita d’artista nascono, infatti, nuvole fitte di numeri, tutti rigorosamente primi, disposti casualmente o forse con un ordine nascosto, nella ricerca di una logica finora ancora non svelata, di associazioni e ritmi, dove le cifre tracciate in rosso e in nero, diverse nelle dimensioni, scatenano il loro sabba primordiale. E su tale vortice dominano solenni i volti inquietanti e per noi in parte ancora senza significato dei grandi busti di pietra.
Due enigmi apparentemente distinti che solo l’intuizione e la ricerca di un vero maestro potevano riuscire a coniugare e unire, offrendo non solo al visitatore ma anche allo studioso, risposte affascinanti che ci portano oltre la percezione dei nostri sensi.


27 novembre 2019

Violenza contro le donne, basta con le parole di Antonio Laurenzano

Violenza contro le donne, basta con le parole
di Antonio Laurenzano
Da Nord a Sud celebrata la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ricorrenza istituita nel 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel ricordo delle tre sorelle Mirabal, attiviste politiche della Repubblica dominicana, brutalmente assassinate il 25 novembre 1960. Una giornata di mobilitazione per denunciare diritti negati e discriminazioni subite, ma soprattutto per dire basta alla violenza! Violenza sulle donne, una strage senza fine, una drammatica emergenza sociale. Ogni quarto d’ora c’è una donna che subisce violenza o maltrattamenti nel mondo, mediamente una donna su tre dai 15 anni in su. Gelosia, incapacità di gestire la rottura di un rapporto, un morboso sentimento di possesso sono i motivi che scatenano l’impeto di una mano omicida, di una mente malata.
In Italia, dall’inizio dell’anno sono stati registrati 96 femminicidi, “un’agghiacciante e inaccettabile mattanza di genere”, nelle parole del presidente del Senato, Elisabetta Casellati. Ogni tre giorni si registrano almeno due casi di “omicidi di prossimità”, commessi cioè tra persone legate da vincoli affettivi. Un’escalation di violenza impressionante, violenza domestica: gli autori dei delitti, infatti, sono per lo più mariti, fidanzati, conviventi ed ex partner in crisi di identità al cospetto di donne sempre più autonome ed emancipate. Sono dati allarmanti, nonostante la Legge 119 dell’ottobre 2013 contro “la violenza di genere”, votata dal Parlamento italiano in adesione alle “prescrizioni” della Convenzione di Istanbul del 2011 sulla “prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne”.
Per combattere la violenza, per farla uscire dalla “normalità” occorre riconoscerla. La prevenzione cioè quale strumento per rompere il muro dell’indifferenza che sostiene il femminicidio. Ma in Italia manca una cultura della prevenzione. Sembra prevalere una cultura della rimozione e della negazione. E adottare l’atteggiamento di chi non vede, non sente e non parla serve a tacitare la propria coscienza e a solidificare il muro di omertà! E il silenzio è il migliore alleato dei predatori di sogni. Questo inquietante fenomeno sociale matura infatti lentamente nel silenzio più assordante, con la debolezza di chi subisce e con la complicità di chi non vede, non vuole vedere maltrattamenti che negano alla vittima ogni dignità, derubandola di diritti e desideri. Svaniscono nella paura le illusioni, i colori di una vita in rosa, muore nella violenza ogni sogno d’amore. Una vita spezzata da mani criminali in nome di un amore malato. Un omicidio dell’anima!
Dalle violenze domestiche allo stalking, alla pubblicazione in rete di immagini intime, la vita della donna è costellata di violazioni della propria sfera personale. Spesso un tentativo di cancellarne l’identità, di minarne l’indipendenza, la libertà di scelta e, in extremis, il diritto alla vita. Non basta dunque una legge ad affermare il diritto ad essere amate e rispettate, occorre una “risposta sociale” alla rabbia distruttiva dei “perdenti”, occorre una “rivoluzione culturale” in termini di formazione, prevenzione, punizione del colpevole, protezione della vittima, per sconfiggere la posizione di dominanza e di potere di chi confonde l’amore con il possesso! Il Presidente Mattarella, nel sottolineare la gravità del fenomeno, ha parlato di “emergenza pubblica per superare la quale molto resta da fare.” Un forte appello contro gli “atti di deliberata discriminazione”.
E’ fondamentale aiutare la società a “vedere” il fenomeno della violenza per creare uno spazio di libertà e rifuggire dalla paura della solitudine. L’amore, quello vero, si nutre di rispetto, dialogo,coraggio: non invochiamolo più per coprire abusi e violenze! E gettiamo nel cestino della cattiva cronaca giudiziaria gli sconti di pena per “tempesta emotiva”. Basta con le parole!

24 novembre 2019

Quale Europa per il futuro? a cura di Antonio Laurenzano

Quale Europa per il futuro?

di Antonio Laurenzano
In attesa del problematico insediamento a Bruxelles della Commissione di Ursula von der Leyen, slittato al prossimo 1° dicembre, l’Ue prova a uscire dalla impasse in cui è finita per le molteplici sfide esterne generate dal contesto internazionale (dazi americani, ingerenza russa, pressioni cinesi, flussi migratori, Brexit) e per le tensioni interne legate alla conflittualità nel Consiglio europeo fra governi “sovranisti” e governi “unionisti”.
Una situazione di grande criticità, un quadro politico incerto nel quale si colloca la proposta del Presidente francese Emmanuel Macron di una “Conferenza sul futuro dell’Europa” da convocarsi entro la fine dell’anno, illustrata nella “Lettera ai cittadini europei” del 4 marzo scorso. L’obiettivo è la “rifondazione del sistema comunitario in linea con le aspettative di partecipazione dei cittadini al cambiamento delle istituzioni per un consenso condiviso sul progetto europeo”. La Conferenza sarà l’occasione per affrontare alcuni dei problemi sul tappeto: governance, ripartizione delle competenze fra i livelli nazionali ed europeo, autonomia fiscale dell’Uem nell’ambito di un bilancio federale, piano di sviluppo sostenibile, mercato del lavoro europeo (contro il dunping salariale), ruolo dell’Ue nel mondo globalizzato. Uno spazio pubblico da riservare all’incontro fra democrazia rappresentativa (sistemi parlamentari) e democrazia partecipativa (società civile) per un dialogo finalizzato al rafforzamento del processo di formazione di una comune identità europea. La risposta al protagonismo delle sovranità nazionali. Sulla base di una dichiarazione congiunta del “triangolo istituzionale” (Parlamento, Commissione, Consiglio), la Conferenza, senza sostituirsi al ruolo delle istituzioni comunitarie, servirà da stimolo al dibattito sul futuro dell’Europa nella prospettiva di un generale consenso sulle scelte politiche. Un “processo costituente” per sciogliere i nodi delle debolezze dell’Ue attraverso la riforma dei Trattati e cancellare prerogative e regole (diritto di veto) che bloccano l’integrazione dell’Unione.
Sarà un passaggio particolarmente delicato per il futuro dell’Europa. Lo rileva con puntuali argomentazioni Luisa Trumellini, segretaria nazionale del Movimento Federalista Europeo (MFE), nell’ultimo numero della rivista politica “Il Federalista”. “Il primo confronto che dovrà aprirsi all’interno della Conferenza sarà politico- culturale, tra le due visioni diverse del mondo e della politica, e quindi dell’Europa. L’Europeismo del XXI secolo ha una visione molto più politica, e punta a superare la limitata prospettiva europea del XX secolo che si è costruita dopo Maastricht e dopo la riunificazione tedesca.” In discussione, secondo la Trumellini, “il concetto del modello che teorizza una politica, intesa in termini decisionali, confinata all’interno dello Stato nazionale per accompagnare il gioco delle forze della libera competizione economica e commerciale sui mercati globali, pur in un quadro di cooperazione tra partner a livello europeo”.
In un mondo globalizzato, in cui arretrano le democrazie e vacillano i mercati liberi sotto la spinta di manovre aggressive, l’Europeismo del XXI secolo rivendica un’Europa che diventi un vero soggetto politico, un’istituzione sovrana capace di fare politica, di decidere e di agire. “In questa visione l’Europa rappresenta il solo livello di governo con il quale sarà possibile per i cittadini europei recuperare il controllo dei processi storici, economici e tecnologici in atto e rilanciare il ruolo della politica, dello Stato e quello dell’identità, propedeutica alla coesione sociale.
” Il punto dirimente prioritario da affrontare, secondo il MFE, dovrà essere quello della rifondazione dell’Unione europea su due livelli di integrazione, fondati sulla diversa volontà degli Stati membri di partecipare a una unione politica sovranazionale che emergerà dal dibattito (“Europa a più velocità”). Una Unione coesa attorno a un centro di gravità politico di natura federale che la rafforzi e la stabilizzi nella consapevolezza che l’antidoto alle derive nazionaliste e alle pericolose fughe in avanti è il rilancio dell’integrazione europea, che deve assumere presto uno slancio politico diverso.

La sovranità europea condivisa e l’interdipendenza delle politiche economiche e sociali devono costituire i pilastri di una governance responsabile, presupposto del progetto unitario di una equilibrata integrazione politica. Dalla Conferenza europea si attende un sussulto di coscienza per evitare che il sogno di un’Europa unita si trasformi miseramente nell’incubo del XXI secolo. Il futuro dell’Europa è tutto da scrivere.

23 novembre 2019

Emersioni Mostra personale di Andrea Cavallera a cura di Marco Salvario

Emersioni
Mostra personale di Andrea Cavallera
a cura di Marco Salvario

CSA Farm Gallery – Via Vanchiglia 36, Torino
25 ottobre – 23 novembre 2019


Bisogna un po’ andare a cercarla la CSA Farm Gallery; in via Vanchiglia, quasi in corso Regina Margherita, aprendo due portoni e scendendo una scaletta che porta nei locali sotto un cortile, ma il percorso d’accesso nulla toglie al piacere di visitare una galleria dagli spazi gradevoli e curata con grande passione e abilità.
Proveniente da una famiglia di artisti, Andrea Cavallera è nato a Saluzzo nel 1976; da sempre ricerca e sperimenta con intenso fervore linguaggi grafici e pittorici molto diversi, per esprimere la propria visione artistica. Lo incontriamo adesso nella mostra Emersioni, di cui segnalo anche il raffinato catalogo.



Come cominciare se non dall’elemento più diretto e indiscutibile che emana dalle opere esposte? La sensazione di disagio di sguardi che sembrano seguire il visitatore, interrogandolo e accusandolo, ponendogli addosso angosce e disagio.
Occhi disegnati a china o a matita, violenti, crudi, decisi; sguardi incredibilmente vivi, segnati da un’esistenza di lotta e da emozioni amare.
A volte neppure sono gli occhi, ma solo un occhio, accompagnato dall’accenno esperto di una guancia scavata, dal profilo del naso, dalla linea del sopracciglio; bastano queste indicazioni approssimative e incomplete a creare la sensazione di individui segnati dalla propria esistenza, volti scavati e tesi. Chi saranno costoro? Profeti o anarchici, santi o folli, artisti o sensitivi? O uomini comuni, vagabondi e randagi.
I loro sguardi ci scavano dentro, ci mettono in discussione. Non siamo noi a osservare l’opera ma è l’opera che osserva noi, e lo fa senza indulgenza o riguardo.



Simili eppure diverse le opere che ho incontrato nella stanza successiva, dove gli sguardi lasciano il posto a una raffigurazione beffarda e macabra, caricaturale e sfregiata. Il messaggio diventa provocazione, dissacrazione, scomposizione. Un intrigo di sentimenti e sensazioni che si distribuiscono su livelli diversi e solo apparentemente connessi, alla ricerca di una comunicazione forse impossibile.



21 novembre 2019

IL GIARDINIERE CIECO di Guglielmo Aprile a cura di Miriam Ballerini

IL GIARDINIERE CIECO di Guglielmo Aprile
© 2019 Transeuropa – Nuova poetica 3.0
isbn 9788898716xxx Pag. 64 € 15,00

Guglielmo Aprile ci offre, con questa sua raccolta poetica, dei testi che non sono di facile comprensione. Non sono poesie fruibili, subito assimilabili. Contengono immagini interessanti, che fanno riflettere, da leggere con attenzione.
Il suo modo di scrivere non è per niente poetico, non nel senso proprio del termine, ma scavato, duro, quasi le parole vengano estratte a mani nude dalla terra.
È un modo di comporre descrittivo, duro, asciutto.
I protagonisti dei testi sono alquanto originali: sono infatti oggetti meccanici, animali, cose … Ovviamente troviamo anche il sentire del poeta, ma le sue sensazioni sono descritte in modo personale e con uno stile assolutamente suo, ad esempio: “Non ho più notizie di me neanche io so da quanto”.
La raccolta è suddivisa in 5 parti: Cozze da allevamento – Sindrome di Cotard (in psichiatria equivale al delirio di negazione assoluta), Fitta sotto lo sterno – Le cateratte insonni – La scoperta del cinematografo.
Già da questi titoli possiamo vedere l'immaginazione e l'originalità dei testi.
Ci sono molte frasi che ho estrapolato dalle varie poesie, che mi hanno colpita, che mi hanno fatto riflettere.
Ne riporto una per ogni parte:
Da Plancton: “Ci sarà mai, da qualche parte, un mare che non si beffa di chi tiene a galla?”
Da Movente: “Se vivere è delitto siamo tutti innocenti per mancanza di un movente credibile”
Da Sordina: “Siamo tirocinanti a tempo perso di un mestiere che appare più complesso quanto più a fondo conosciuto”.
Da Taccuino di viaggio: “lo zucchero spensierato del vento fa da mediatore fra l’uomo e la sua morte”.
Da Epitaffio: “Morire è scrivere l’ultimo verso, l’ultima parola in fondo alla pagina conclusiva, di un best-seller mancato”.
L'autore prende ispirazione da quello che vede, da ciò che i suoi occhi attenti notano. So per certo che ha uno sguardo acuto, proprio per quanto riesce a raccogliere e a infilare nei suoi testi.

© Miriam Ballerini

18 novembre 2019

MARIA ANGELICA MASTRIOTI DI PAPASIDERO a cura di V. Capodiferro e G. Nigro

MARIA ANGELICA MASTRIOTI DI PAPASIDERO
Una figura emblematica della cristianità calabro-lucana

Maria Angelica Mastrioti nasce a Papasidero il 4 febbraio del 1851. Papasidero è un bellissimo centro della provincia di Cosenza, bagna il fiume Lao. Hanno scoperto l’antica città di Laos. Il nome deriva proprio da un monaco “Papas Isidoros”. I monaci basiliani nell’antichità hanno colonizzato queste terre e vi hanno fondato monasteri. Ricordiamo quelli di Sant’Elia, a Carbone, quello di Sant’Angelo al monte del Raparo, e quello di Orsoleo, a San Brancato, frazione di Sant’Arcangelo. Anche i nomi dei luoghi riflettono questa fede ancestrale che si respirava in queste terre. Maria Angelica ha vissuto una vita santa. A sei anni già si ammala di tubercolosi polmonare, con dilatazione cardiaca. È una bambina sofferente. Prega sempre. Fin da bambina, come scrive G. Petrone nella biografia “M. A. Mastrioti”, Napoli 1900: «Ogni giorno nelle ore vespertine, la zia e la buona nipotina si recavano in chiesa, dove rimanevano lungamente e poi passavano a tenere compagnia al loro parente, signor Giuseppe Mastrioti, il quale, perché infermo di rachitide, era costretto a rimanere continuamente in casa». Giuseppe Mastrioti la istruisce nelle cose della fede. La malattia la costringe all’immobilità per 13 anni. Tutti credevano che non c’era niente da fare ed attendevano la sua morte. Vive intensamente l’esperienza del fidanzamento mistico, come Conchita, la santa messicana: «Un giorno Maria Angelica ebbe dalla buona mamma una monetina di cinque grana. La piccina, tutta contenta, corre di filato alla cappella della Madonna, s’inginocchia, e mostrando il tondino di bronzo, prega fervidamente: - ora, Madonna mia, puoi darmelo il Bambino Gesù in sposo, poiché vedi che ho già pronta la mia dote». E mentre tutti credevano che fosse già defunta, ecco che il Signore la strappa alla morte e la salva con un miracolo il 16 aprile del 1870. La Madonna di Costantinopoli le confida: «Tu non morirai, quantunque i tuoi, prevedendo la tua prossima fine, ti abbiano di già fatto costruire la cassa mortuaria». Erano periodi tristi, ove si moriva giovane. Io ricordo quando gli anziani conservavano la cassa da morto già pronta sotto al letto, in attesa del trapasso. Morivano molti giovani. Il 18 maggio del 1870 avviene il matrimonio spirituale con Cristo: «Una luce misteriosa le abbagliò le pupille, e, circonfusa di sole, le apparve la madre di Dio, la quale, confortandola, le disse con la dolcezza cui oramai la giovanetta era adusata: - Figlia mia, io non ti ho abbandonato! Vuoi tu veramente sposarti col mio Gesù? – Sì. Rispose, traboccante di tenerezza la pia creatura, e, negli occhi, tra il velo di lagrime, lumeggiò ad un tratto la gioia. – Ebbene! Rispose la Vergine, – prendi il tuo sposso!». Ma di nuovo la croce si ripresenta ed ella, come il Cristo patente, vi cade sotto e si rialza. Un calcolo alla vescica le procura delle sofferenze atroci. Ma viene di nuovo guarita con un miracolo, per intervento della Divina Provvidenza, il 14 aprile del 1873. Con tutta la malattia, però, la Nostra non disdegna la penitenza, anzi, macera il corpo con il cilicio, la durezza del letto ed il digiuno, anzi, come riporta sempre il Petrone: «Fanciulletta ancora, fu trovata nel giardino a conficcarsi con una grossa pietra un chiodo in un piede: ella voleva così assomigliarsi, in qualche modo, al suo Sposo Crocifisso». Come Maria Teresa di Gesù: aut pati, aut mori. Ha molte estasi e colloquia con Gesù e con la Madonna. Nel 1890 segue il nipote Nicola, sacerdote, a Castelluccio Superiore, dove muore il 26 maggio del 1896. «Volle prepararsi ancora meglio al passo verso l’eternità e chiese di passare alcuni giorni in una casetta di campagna, nella solitudine e nel raccoglimento perfetto dello spirito». «Al tonfo del corpo, caduto sul pavimento, accorsero la madre di Maria Angelica e lo zio di lei, signor Angiolo Orofino. La porta era chiusa, ma si aprì quasi miracolosamente ed oh quale scena si mostrò al loro sguardo: Maria Angelica, col volto illuminato dall’ultimo raggio di sole, con un lieve sorriso in su le labbra giaceva ancora su le ginocchia e stringendo al seno i Bambinello Gesù». Per i prodigi compiuti anche nel paese lucano, la fama di questa santa si diffonde in tutta la zona. La devozione verso questa donna, collegabile a quella del Beato Domenico Lentini di Lauria e di Spiride Savini di Lagonegro, si diffonde. La sua tomba è stata sempre oggetto di venerazione presso il cimitero di Castelluccio. Trai segni prodigiosi la ferita al costato ad imitazione della ferita di Cristo, dal quale fuoriusciva sangue ed acqua. La comunità di Castelluccio venera Maria Angelica Mastrioti con una festa il 26 maggio, giorno in cui c’è anche la fiera del paese. Dio ha scelto questa bambina malata, che tutti davano per morta, per manifestare la sua gloria. È una figura della nostra terra che andrebbe maggiormente valorizzata, e non solo dal punto di vista religioso. La nostra terra è stata sempre ricca di devozione, di fede e di amore.
V.C.- G. Nigro

17 novembre 2019

Il tempo che si attende divora Mostra personale di Enrico Minguzzi a cura di Marco Salvario

Il tempo che si attende divora
Mostra personale di Enrico Minguzzi
a cura di Marco Salvario

Chiono Reisova Art Gallery - CRAG – Via Giolitti 51, Torino
24 ottobre – 16 novembre 2019


Non so se le mie saltuarie recensioni abbiano offerto ai lettori un’idea anche solo approssimativa di quanto dinamismo ci sia nel mondo dell’arte torinese. Ci sono rioni e vie, dove bastano pochi passi per trovare vetrine illuminate di artisti o espositori, e quasi ogni portone ha sul citofono la targhetta di una galleria d’arte. Molte di queste iniziative sono purtroppo meteore destinate a scomparire in pochi mesi, ma altre si sono create o si creeranno un proprio spazio espressivo; serve perseveranza, intuito, coraggio e anche un briciolo di fortuna, ma una vita troppo facile non interessa a nessuno.

Uscito di casa con due indirizzi da visitare, avevo trovato chiuso il primo perché i giorni di apertura non coincidevano con quelli indicati su internet e, stranamente e senza apparente motivo, chiuso anche il secondo. Attenzione! Non che la mia mancata visita possa influire sul destino di questi due posti che non cito, ma quando uno perde invano il suo tempo e i suoi passi per fermarsi davanti a una porta chiusa, difficilmente tornerà una seconda, anche perché, a quel punto si continua come ho fatto io, si volge lo sguardo in un’altra via e si viene a incontrare una nuova galleria e un nuovo artista. Così è successo a me con la Chiono Reisova Art Gallery, CRAG per gli amici, e con le opere di Enrico Minguzzi.
La CRAG è una galleria d’arte che espone artisti emergenti dal 2016 a Torino e, da pochi giorni, a Praga.



Trentottenne, romagnolo della provincia di Ravenna, Enrico Minguzzi espone alla CRAG per la seconda volta, la prima nel 2017, ha al suo attivo una dozzina di mostre personali e moltissime collettive.
L’artista realizza le sue opere a olio su resine fluorescenti; questa tecnica gli permette di creare paesaggi che possiedono una luminosità particolare e regalano cangianti sensazioni di tridimensionalità. Scenari possibili ma immaginari, ipotetici, percepiti più che visti, spopolati sia dalla presenza umana che animale.
I suoi lavori si possono distinguere secondo il colore di base utilizzato: verde, rosso e blu.
Il blu ci comunica sensazioni notturne, fredde, umide.
Il rosso parla di terre aride, bruciate, in lotta con il cielo. Forse aliene.
Il verde ha tonalità liquide che sembrano trascinarci nelle acque limacciose e dense di uno stagno, completamente immersi, avvolti dalle alghe.
Facce diverse dunque, ma che riflettono l’unica volontà espressiva di catturare la voce dalla natura nella sua condizione di energia capace di resistere nei nuovi deserti che l’uomo sta creando e di rinascere anche nelle condizioni più estreme.


14 novembre 2019

COOPERATIVA SOCIALE – COMUNITA' ALLOGGIO AL CILIEGIO a cura di Miriam Ballerini

COOPERATIVA SOCIALE – COMUNITA' ALLOGGIO AL CILIEGIO

Non finirò mai di ringraziare il mio lavoro che mi permette di conoscere delle realtà preziose.
Ho avuto modo di entrare nelle stanze della comunità “Al ciliegio” a Vertemate (CO). Dovevo incontrarmi coi risiedenti e parlare, appunto, del mio lavoro di scrittrice.
Ovviamente non potevo non approfittare di questo incontro per parlare con loro, per confrontarmi e farmi un viaggio nel loro sentire.
La prima cosa interessante nella quale mi sono imbattuta è stata una targa appesa all'ingresso, una semplice frase: “Se si sentiranno amati saranno felici … la loro gioia dipende da noi”.
Più tardi, quando ho avuto modo di conoscere la responsabile, mi ha confidato che è sempre stato il suo modo di agire.
Sono salita al piano superiore dove già mi attendevano alcuni di loro: la comunità è suddivisa in due case in cui ci vivono persone con problemi mentali, oppure vari handicap.
Quello che sempre mi sorprende è l'accoglienza: la voglia di venirti incontro, di salutarti, di presentarsi. È come se subito aleggiasse una frase non detta: io ci sono, io sono.
Ci siamo seduti in circolo dopo un buon caffè offerto dalle operatrici che mi hanno aiutato e seguito durante tutto il tempo in cui sono rimasta. È sempre importante avere chi ti affianca, chi conosce i vari prolemi e, magari, può aiutarti in un tuo momento di difficoltà.
Perché la difficoltà era tutta mia, nel senso che, quando ho queste importantissime occasioni, pretendo da me stessa di riuscire a dare il meglio di me. Glielo devo.
Abbiamo parlato di tutto, dei loro lavori, dei loro passatempi, di come passano le giornate. Di quanto sia importante l'arte come terapia. Allora si colora, si scrive, si fotografa, si fanno gite.
Si scrive sul giornale della comunità; addirittura si fanno ricerche per il loro prossimo libro in cui hanno raccolto tante ricette e curiosità.
Li vedi tutti felici, contenti, appassionati.
Alcuni accennano la loro malattia, io non chiedo. Solo chi vuole parlarmene trova in me tutta la mia attenzione; ma io sono lì per quelle due ore, e non si parla di patologie, di problemi. Si parla di futuro, di presente, del loro e del mio sentire.
Accolgo sempre favorevolmente queste occasioni di incontro, perché mi pongo sempre quale tramite per parlare di cosa accade nelle stanze chiuse che ad alcuni fanno tanta paura; per far avvicinare le persone a queste realtà, realtà che appartengono ad ognuno di noi.
Non esiste un noi e un loro, in nessuna categoria, in nessuna situazione. Quello che accade a una persona, accade a tutta l'umanità.
Molti di loro non hanno famiglia, la loro famiglia l'hanno trovata lì, fra gli altri pazienti; fra gli operatori, la responsabile che, mi dicono: è la mamma di tutti noi.
Non mancano i litigi, i dispetti; chi vuole fare pace e chi no. C'è anche “Pierino la peste”!
Finisco la giornata; mi hanno fatto a loro volta molte domande, richieste argute, che richiedono non solo una banale risposta, ma che io davvero mi apra e mostri cosa c'è dietro il mio lavoro.
Insistono per farmi visitare la loro casa, tanti chaperons che orgogliosi mi mostrano i loro lavori, davvero bellissimi; le camere, la cucina, i salotti. I laboratori dove assemblano vari lavori.
Sono tornata a casa con tante e tante informazioni ed emozioni a girarmi per la testa.
Spero solo che, quel poco che ho fatto, li abbia ricompensati del tanto che mi hanno lasciato.

© Miriam Ballerini

A SPASSO PER IL MONDO di Gian Carlo Storti a cura di Miriam Ballerini

A SPASSO PER IL MONDO di Gian Carlo Storti

Anno edizione: 2014
Pagine: 142 p. € 10,62 Brossura EAN: 9788891084453
Un libro che, lo stesso scrittore, definisce come diari di viaggi. Scritto in prima persona e al presente. Con frasi corte, rapide, descrittive.
Questa raccolta, composta da 13 racconti, parla di viaggi che l'autore ha intrapreso nella propria vita, dal 1968 al 2013, a volte visitando gli stessi luoghi.
In questo libro ho trovato il senso vero del viaggio che, secondo me e, a quanto pare, anche secondo lo scrittore, non deve essere solo mero viaggio di piacere. Viaggiare significa soprattutto andare in paesi diversi dal nostro, avvicinarsi alla cultura, alle abitudine, alle diversità e alle uguaglianze altrui. Tutto ciò fa godere in un modo diverso della possibilità avuta di muoversi nel mondo, crescendo e imparando tantissime cose. Per prima è la mente che si apre e viaggia, che confronta, che conosce.
Storti è appassionato di politica e, anche nei viaggi, si raffronta spesso su questo tema.
E come accade tutto ciò? Nel modo più elementare che è a disposizione dell'essere umano: parlando con la gente. Chi in quel posto lavora, studia, vive.
Mi è piaciuto molto che ci siano delle note didattiche a fondo pagina, per chi abbia voglia di approfondire la conoscenza di una città, piuttosto che di una religione o altro.
Inoltre lo trovo un interessante trattato di storia contemporanea.
Storti parla della cortina di ferro, del muro di Berlino, visto quando ancora attraversava come una cicatrice la città, e dopo, quando è stato abbattuto.
Alcuni luoghi li ha visitati in compagnia dei soliti amici, a bordo di una 124 gialla, e li ha osservati con gli occhi di un ragazzo affamato di risposte, impegnato nel sociale e nella politica.
Per tornarvi poi da adulto, sposato, ma accompagnato sempre dagli stessi interessi.
Ho scritto alcune annotazioni mano a mano che procedevo nella lettura, come ad esempio la frase “A Berlino nessuno viene abbandonato dallo stato”. “L'occhio vigile dello stato francese ti concede quasi tutto, ma non l'amore di gruppo”. Oppure quando tratta del lavoro svolto dagli extracomunitari a Nizza, lavori che solo loro fanno, eppure alla gente “basta che stiano al loro posto”.
Storti si interessa molto agli ultimi, ai barboni, agli extracomunitari, questo l'ho molto apprezzato.
Parla anche delle diverse religioni. Mi è piaciuta particolarmente questa spiegazione che tratta della moschea: “Le donne partecipano, ma restano nelle ultime file, dietro gli uomini. Non so chi chiese all'interprete il perché di questa dislocazione logistica. L'interprete, apparentemente imbarazzato, rivolse la domanda al muezzin che rispose in tono tranquillo e con voce forte: - le donne pregano dietro gli uomini in quanto, diversamente, gli stessi uomini potrebbero essere invogliati a commenti e stimolazioni poco rispettose nei confronti delle donne, vedendo essi il loro deretano. È un modo di rispettare le donne”.
Storti ammette che “capire una città, anche se Europea, non è facile”. Bisognerebbe viverci per poterne assorbire ogni sfumatura, forse; o forse davvero basta l'impegno al confronto con chi sta lì, come ad esempio gli italo americani da lui incontrati a Philadelphia che gli hanno spiegato come si vive. O come si sopravvive quando la fortuna tanto sperata non è arrivata. Come sperassero nella riforma della sanità voluta da Obama, così che tutti potessero assicurarsi le cure necessarie.
E che dire della frase che fa da sottotesto al titolo, prima scritta in francese e poi in italiano: “Dans un monde ideal l'humanité n'existerait pas”. “Nel mondo ideale l'umanità non esiste”.
Perciò accontentiamoci di un mondo che non sia perfetto, ma che permetta a tutti di esistere.

© Miriam Ballerini

ERGASTOLO: SENZA SPERANZA L’UOMO PERDE LA SUA UMANITÀ a cura di Carmelo Musumeci

ERGASTOLO: SENZA SPERANZA L’UOMO PERDE LA SUA UMANITÀ.

  “Perché si limitano a tenerci vivi? Non abbiamo neppure un filo di speranza a cui appoggiarci. A stare in carcere senza sapere quando finisce la tua pena, ci vuole tanto, troppo, coraggio. Non si può essere colpevoli, cattivi e puniti per sempre. Nessuna condanna dovrebbe essere priva di speranza e di perdono. L’ergastolano se vuole vivere più serenamente deve sperare di morire prima del tempo.” (Dal libro “Nato colpevole” di Carmelo Musumeci, pubblicato e distribuito da Amazon)



     Da tanti anni sono un attivista per l’abolizione della pena dell’ergastolo, e del carcere, come solo luogo per espiare la pena.

“Antonio Cianci, l’ergastolano 60enne che tra il ‘74 e il ‘79 uccise un metronotte e 3 carabinieri, venerdì scorso, in permesso premio, ha tentato di ammazzare un anziano per rapinarlo, all’ospedale San Raffaele.” Quando accadono fatti di sangue come questo mi cadono le braccia e il cuore per terra perché immagino le reazioni di chi legge. Innanzitutto trasmetto tutta la mia solidarietà alla vittima dell'aggressione, ma subito dopo mi domando cosa ci stava a fare Cianci ancora in carcere, da 40 anni, per un reato commesso quando aveva 20 anni. E perché allora dicono che in Italia l’ergastolo non lo sconta nessuno?

Bisognerebbe riflettere anche sul fatto che con lui, e con la maggioranza di chi ci finisce dentro, il carcere non funziona e che il 70% dei detenuti che escono ritornano dentro.  La verità è semplice: il carcere, così com’è, non è la medicina ma, anzi, è la malattia.

Non voglio, nel modo più assoluto, cercare o trovare delle attenuanti ad Antonio Cianci, ma so che in ognuno di noi c’è il bene e il male e purtroppo, nella stragrande maggioranza dei casi, un carcere cattivo e fuorilegge e una pena che non finisce mai tirano fuori il peggio delle persone.

Ho conosciuto Antonio Cianci negli anni ’80 e nel gergo carcerario fra noi detenuti si diceva che “quello con la testa non ci stava”, ma si comportava bene perché aveva imparato la lezione che al "sistema" non interessa che tu diventi bravo, ma solo che fai il bravo, anche perché se diventi davvero “buono” crei problemi all’istituzione. Una persona buona, infatti, difficilmente riesce a sopportare le ingiustizie del carcere, fatte su di sé e soprattutto sugli altri compagni.

Penso che prima del detenuto bisognerebbe educare il carcere all’umanità e alla legalità. Tutti sanno che il sistema carcerario è fuorilegge: istituti sovraffollati, fatiscenti e invivibili, condizioni igieniche sanitarie da terzo mondo, suicidi, morti sospette, ecc... Tutti sanno che il carcere è il posto più illegale di qualsiasi altro luogo, ma nessuno fa nulla. Ormai solo i delinquenti, o ex delinquenti, credono e si appellano alla legge, probabilmente perché è difficile accettare di essere in carcere per non aver rispettato la legge e poi dentro vedere che lo Stato e gli uomini dello Stato fanno peggio. Quei pochi detenuti che hanno il coraggio di rivolgersi al Magistrato di Sorveglianza (e questo coraggio lo pagano caro, ne so qualcosa io) spesso vengono additati ed emarginati dalle stesse istituzioni. Allora che fare per portare il carcere alla legalità? Bisogna educare i nostri politici al rispetto della legge (ovviamente senza sbatterli in carcere perché non c’è posto). E dato che nei 207 carceri italiani quasi nessuno rispetta le leggi internazionali, i trattati, le convenzioni europee, la nostra Costituzione, le leggi nazionali e il regolamento di esecuzione dello Ordinamento Penitenziario, denunciamo il carcere.

Tutti coloro che affermano di avere a cuore la legalità in carcere, compresi i detenuti, polizia penitenziaria, politici e quei parlamentari che una volta ogni mai visitano le carceri, denuncino pure alla Procura della Repubblica tutto quello che vedono e che accade nelle carceri in Italia.

Insomma, non solo con le parole, ma denunciamo il carcere con i fatti! Denunciamo che il carcere è un po’ di tutto fuorché un carcere, denunciamo che è un luogo crudele che gli uomini hanno creato e mal governano e che fa diventare i prigionieri più cattivi di quando sono entrati.



Per l’Associazione Liberarsi, Carmelo Musumeci

Novembre 2019

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