29 novembre 2008

La scala di Dio, da Usellini a Giacobbe

di Augusto da San Buono
Amici del condominio, ecco a voi “la scala“ , sembra voler dire il pittore Gianfilippo Usellini , in un suo quadro famoso raffigurante un fabbricato a quattro piani a metà strada tra il naif e il Quattrocento, in cui ciascuno di noi , idealmente , si trova ad un certo piano, ad un certo gradino, ad un certo terrazzino del fabbricato , ed è comunque in cammino, si sale o si scende la scala , come nella vita , nella ricerca del proprio senso di esistere , la ricerca del mistero di Dio, che sta in cima a quella scala. Usellini considera la sua pittura come un teatro. Dispone figure e cose nella scatola magica del quadro come se le collocasse su un palcoscenico e poi intesse intorno a loro le fila di un racconto, lasciando intuire un prima e un dopo e, soprattutto, presagire un “oltre”. La pittura, allora, diventa letteratura , narrazione visiva. teatro di immagini, ma anche un fatto morale, metafisica , religiosità. “La mia pittura vuole rappresentare il bene e il male, la loro perpetua lotta e il loro continuo intrecciarsi e giocare sulla bilancia della vita. Si tratta di un problema che mi ossessiona fin dagli anni ormai lontani dell'infanzia e dal quale non uscirò che con la morte …Il problema che mi interessa, al di fuori di tutto, è morale e spirituale; ognuno deve poter distinguere il bene e il male; il mio obiettivo è di far capire che il bene e il male, ognuno li ha di fronte in libera scelta” La sua visione è cattolica. Egli avverte con malinconia i limiti dell'uomo, i suoi conformismi, la sua capacità di resistere a tutto tranne che… alle tentazioni. Dipinge insomma un uomo “senza qualità”. Ma, in modo uguale e contrario, ci insegna le qualità del sogno, del gioco, della fantasia: di tutto ciò che gli uomini definiscono infantile, e che invece è l'esito più alto della maturità e della sapienza.Ma c’è anche chi “la scala “ la sale fino in fondo e ci scrive un libro . E’ il caso di Giovanni Climaco , un monaco del VII secolo , un eremita che visse per quarant’anni all’ombra del monte Sinai , il “Gebel Mousa” , il monte di Mosè, il monte delle Tavole della Legge , il monte del roveto ardente , la sede della teofania esodica , a cui si accedeva attraverso una scalinata di 3000 gradini scavati nella roccia. Climax ( così è stato ribattezzato il monaco) , ha scritto un libro basato proprio su quelle sue esperienze, un libro dedicato sia all’ ascesa spirituale di quel monte santo che ad un'altra , quella del Tabor , la montagna della “trasfigurazione di Cristo” . Giovanni si è ispirato ad un’altra famosa scala, quella di Giacobbe , al sogno che fece il patriarca biblico: “Una scala poggiava sulla terra mentre la sua cima raggiungeva il cielo ed ecco che gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. “ E ha riflettuto per tutta la vita su questo , sul valore mistico della scala . Il monaco eremita , con questo libro , ci prende per mano e ci accompagna idealmente in questa ascesa-ascesi attraverso i 30 gradini della sua scala , che impone il distacco dalla pianura per la grande elevazione che vanno oltre le passioni ( ne elenca 14) con l’attrezzatura di 7 virtù per raggiungere la sospirata vetta dell’incontro con Dio nella quiete e nella pace silenziosa dell’abbraccio d’amore col Signore . Leggendo questo libro abbiamo anche noi l’occasione di fare questa scalata , sotto la direzione del maestro spirituale che non è solo guida , pastore , garante , ma anche ginnasta e allenatore , medico che ti dice: figlio , metti la tua mano sul mio collo, così da infondere sicurezza e sostegno nel cammino sull’erta del monte . E’ “una gioiosa tristezza , fatta di lacrime e riso”, dice Giovanni. Ma l’energia per l’ascensione viene dall’eros , che è amore , fuoco , desiderio ardente, sorriso dell’anima. “Beato – dice Climaco – chi prova per Dio un desiderio così grande quanto quello di un folle innamorato per la propria amata.”
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28 novembre 2008

"Il circolo Dante" di Matthew Pearl

Il CIRCOLO DANTE
di Matthew Pearl (RCS libri 2003)

Nella nota storica alla fine del libro, scopriamo che i personaggi facente parte del Circolo Dante, sono realmente esistiti; così come si siano veramente cimentati nella traduzione della Divina Commedia dell’Alighieri. Anche degli strani delitti avvennero in quel periodo, ciò è servito ad alimentare la fantasia dell’autore.
Nel romanzo troviamo dei riferimenti storici, quali la guerra fra nordisti e sudisti e l’epidemia di cimurro che colpì innumerevoli cavalli.
Il romanzo è ambientato nella Boston del 1867, 565 anni dopo la stesura della Divina Commedia. Anziché da capitoli, è suddiviso in cantiche.
Il libro inizia con uno spaventoso delitto, dai contorni inquietanti e prosegue con la presentazione del Circolo Dante, istituito da Longfellow (il traduttore), per il quale: “Dante era diventato la sua preghiera del mattino e la sua missione della giornata”.
Il dr. Holmes, Lowell, Fields (l’editore), e Greene.
Avversati dal dr. Manning, tesoriere dell’università di Harvard, e dal suo gruppo. Che della Commedia dicono: “Quale odio contro l’intera razza umana! Quale esultanza e gaiezza davanti a sofferenze eterne e implacabili! Ci turiamo le narici mentre leggiamo; ci tappiamo gli orecchi. Qualcuno ha mai visto, tutti insieme, tanti lezzi, sudiciume, escrementi, sangue, corpi mutilati, urla strazianti, mitici mostri castigatori? Alla luce di tutto questo, non posso che considerarlo il libro più empio e immorale che sia mai stato scritto”.
Dopo i primi delitti, i membri del Circolo, riconoscono dietro alla mano omicida, le punizioni dell’Inferno che Dante infligge ai dannati. Iniziano così a indagare per conto proprio, per poi allearsi all’arguto Nicholas Rey, un agente mulatto, per questo costretto a indagare in borghese.
Le indagini e gli omicidi si susseguono a un ritmo incalzante, ben ambientato nel contesto storico, sia per descrizioni che dialoghi.
Scritto molto bene, appassionante per i cultori del genere noir, per la presenza di scene molto forti, a volte persino stomachevoli!
Curiosa la frase con cui termino: “Voi signori”, rivolgendosi ai membri del Circolo: “Avete sempre considerato la storia di Dante la più grande fantasia mai raccontata. Io, invece, ho sempre creduto che l’Aliglieri avesse compiuto quel viaggio. Ho sempre creduto che Dio avesse concesso questo a lui e alla poesia”.


(c) Miriam Ballerini
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11 novembre 2008

Colore testoELENA BONELLI TRIONFA ALLA CARNIEGE HALL
intervista di Bruna Alasia

Elena Bonelli, la cantante/attrice che ha ereditato il patrimonio di Gabriella Ferri, con un pizzico di Anna Magnani e l’internazionalità che fa della canzone “popolare” un modello classico, è appena tornata dalla Carnegie Hall di New York – dopo aver battuto i più importanti teatri degli USA - dove il suo spettacolo più celebrato, “Roma” , è stato accolto con una standing ovation. Per sette volte lei e la sua New Band sono stati richiamati sul palco da un pubblico cosmopolita appassionato al fascino di “Chitarra romana”, “Roma nun fa la stupida”, “Arrivederci Roma” offerte in inglese, fado-portoghese, francese…
Nella sua bella casa in Prati, seduta sui divani al centro di una sala con il pianoforte, Elena Bonelli ci parla della sua esaltante avventura:

D. Come è nato il suo amore per il teatro e per la musica?
R. Fin da piccola. Avevo sette anni quando rimasi affascinata dal palcoscenico e da due ragazzi che ci cantavano sopra. Poi in realtà ho iniziato molto tardi , prima mi sono laureata in lingue e la mia carriera è iniziata con la televisione. Ebbi la fortuna, di vincere tre provini uno dietro l'altro (quando la gente in RAI si scritturava con i provini.... bei tempi.. ormai scomparsi). Fui scritturata da mostri sacri della televisione come Antonello Falqui, Enzo Trapani e Gigi Proietti. Da qui, ho seguito il mio istinto, quello della pelle che si accapponava, ogni qualvolta entravo in un teatro ed io ... ho scelto il teatro abbandonando la televisione dove mi dicevano che potevo essere la Carrà delfuturo, visto che cantavo, ballavo, intrattenevo, conducevo, ma non avevo allora il sacro fuoco della televisione… la strada del teatro non mi ha mai tradita.
D. Quali sono i suoi maestri?
R. Tutti i palcoscenici dove mi sono esibita, la gavetta che ho fatto e il pubblico che ho avuto di fronte. Sono una self-made woman e questo rende tutto più difficile ma alla fine quando vedi ottimi risultati ne sei contenta. Naturalmente nel corso della mia carriera ho incontrato dei grandi maestri da Roberto de Simone, con il quale ho debuttato in teatro in un'opera bellissima di cui ero protagonista, a Carlo Lizzani, l'ultimo che mi ha diretta nel film Tanto pe cantà e nello Spettacolo Gran Galà della canzone romana, che ha fatto il giro nei maggioriteatri del mondo. Ma l'istinto e il dna sono stati fondamentali e portanti.
D. L'idea di tradurre a livello internazionale la canzone Romana è sua?
R. Si, assolutamente mia. Quando la proposi a Bardotti trasalì, ma appena la sentì realizzata si convinse, anzi di più, si commosse. Mi spiacque solo che quando sono andata in scena al Sistina con le canzoni nelle varie lingue lui non c'era più, se ne era andato nell'aldilà. Però mi ha lasciato un grande ricordo. Ha voluto firmare con me una canzone che gli avevo proposto e gli era piaciuta tanto . Si intitola "la vita è vita”… e mirassomiglia molto".
D. Quali le maggiori soddisfazioni del suo lavoro?
R. Quella di riempire dei grandi ed importanti teatri di gente che viene la prima volta e poi torna ad ogni spettacolo e manda i figli. Non c'è mai stato per me niente di più emozionante di un applauso scrosciante che sale dalla platea. E' qualcosa di straordinario che ti ripaga di tutta la fatica fatta prima di andare in scena. Credo che sia come per una madre un figlio. Ti dà anche da fare, ti fa soffrire , ti impegna fino al soffocamento ma alla fine.... e' così bello averne che uno dimentica tutto.
D. Quali difficoltà incontra nel realizzare i suoi progetti?
R. Molte, ma mi armo di coraggio fino a superarle. Bisogna credere fermamente in quello che fai, in cio' che vuoi e nel tuo sogno. Allora non molli mai. Questo, molti miei spettatori lo ricorderanno, era il tema del mio primolavoro “Liza. L'inesauribile voglia di essere ”…
D. Il sacrificio più grande che il successo richiede?
R. Avere a che fare con un mondo che non si basa sul merito. In America è differente ma da noi è una pena. Ma non ci faccio più caso e vado dritta per la mia strada. In fondo ho dato tanto ma ho avuto anche tanto. Soprattutto da Dio che mi ha dotata di un talento che mi ha permesso di fare e diventare ciò che sono.
D. C'è un episodio che l'ha particolarmente colpita nei suoiviaggi intorno al mondo?
R. Si, lo sfruttamento dei minori in Africa, l'infibulazione, la violenza sessuale sulle bambine di pochi anni. Succede soprattutto in Africa e devo essere sincera è una cosa che mi fa soffrire moltissimo e mi chiedo proprio come si possa fare.
D. Quali progetti per il futuro?
R. Un film opera prima. Da gennaio.
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10 novembre 2008

Libri: "Il Grande Archimede" di Mario Geymonat

Sandro Teti Editore
Collana Historos
pag. 128 – € 16
isbn: 978-88-88-249-23-0

Il Grande Archimede, già vincitore del premio letterario Corrado Alvaro 2006, è un testo affascinante dal quale trapela un ritratto moderno e pragmatico di questo grande scienziato. Per anni interpretato come campione di uno strenuo rigorismo, Archimede, spirito intelligente e aperto, ritrova in queste pagine la forza del suo pensiero attraverso la lettura delle fonti coeve e dei suoi scritti. Al genio di Archimede sono dovuti il calcolo esatto del rapporto fra la circonferenza e il diametro del cerchio (il famoso pi greco) e fra la sfera e il cilindro, uno studio approfondito della spirale, una inedita misurazione del peso specifico (“Éureka, Éureka”), l’indicazione di numeri straordinariamente grandi.


Lo scienziato siciliano fu pure un ingegnere straordinario, come dimostrò costruendo macchine che fecero la gloria della sua città: la nave Siracusana, la vite a chiocciola a flusso continuo, le catapulte e altri imponenti congegni di difesa. Ucciso barbaramente da un soldato romano nel 212 a.C, su Archimede hanno scritto pagine memorabili Plutarco, Vitruvio, Livio, Cicerone e molti altri, che Mario Geymonat riporta in traduzione.


L’introduzione ad opera di Zhores Alferov, Premio Nobel per la Fisica nel 2000, e la prefazione di Luciano Canfora, editorialista del “Corriere della Sera”, segnalano ancor di più l’autorevolezza di questo libro, candidatosi a divenire uno degli strumenti di approfondimento più adatti per una riflessione esaustiva sugli aspetti più inediti e intriganti di uno degli scienziati più originali della storia.

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Mario Geymonat, latinista dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, è autore di importanti edizioni filologiche, in particolare del poeta Virgilio, e di numerosi saggi critici pubblicati in Italia e all’estero. Ha pubblicato, fra l’altro, il palinsesto veronese della traduzione latina degli Elementi di Euclide e, da ultimo, uno studio su Virgilio e la scienza.
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Fonte: Sandro Teti editore http://www.sandrotetieditore.it/
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08 novembre 2008

Letteratura: Petrarca: "Canzoniere"

  Il Canzoniere di Petrarca è il nome più comune col quale viene indicata la raccolta delle migliori rime in volgare del poeta aretino, organizzate e raccolte dallo stesso, verso la fine della sua vita, sotto il nome latino di "Rerum vulgarium fragmenta". Si tratta, non casualmente, di 366 poesie (nell'edizione definitiva spedita nel 1373 a Pandolfo Malatesta), di cui 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali.
In un epoca nella quale non solo non esisteva il diritto d'autore, ma addirittura la copia delle opere era considerata auspicabile da chi le scriveva, Petrarca si prese la briga di curare lui stesso un volume illustrato di questa raccolta, considerato perfetto, il quale avrebbe dovuto fare e nei fatti fece da 'calco' per tutte le copie successive. Il volume, da lui manoscritto assieme al discepolo Giovanni Malpighini, è custodito nei musei vaticani con il codice latino 3195.
La sorte, ironica, ha voluto che Petrarca venisse ricordato soprattutto per questa sua opera in volgare, nonostante il nostro, probabilmente il primo grande umanista del XIV secolo, aspirasse ad essere celebrato solo per le proprie opere in latino; le quali oggi sono invece conosciute solo per il lustro che il Canzoniere ha dato, nei secoli, al suo autore.
Più difficile è invece l'interpretazione della struttura dell'opera, che è nata come raccolta di frammenti amorosi, frutto di ispirazione lungo tutta la vita dell'autore ma, riordinata in età matura, va a costituire una sorta di percorso culturale e spirituale compiuto ed in una qualche maniera ripensato, rivisitato e riassemblato da una coscienza ed una intelligenza giunte al temine dei loro anni. Significativa in questo senso è la canzone alla Vergine, che chiude il libro, ma anche una vita ("ch'i' son forse a l'ultimo anno") e quindi un percorso formativo, andando a costituire una meta, come già accaduto ad altri autori del tempo. Non si canta dunque semplicemente l'amore per Laura, che pure è ben presente, bensì l'amore per la donna che redime l'uomo, portandolo verso l'assoluto.
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Autore: A. di Biase
Revisioni: -
Fonti:
-La letteratura italiana (Cecchi-Sapegno) nell'edizione del Corriere della Sera, Vol. IV, 2005
-Canzoniere, a cura di Marco Santagata. Mondadori. Collana "I Meridiani", 2005
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Rev 02-02-13
 

06 novembre 2008

Versi, rime, strofe e forme metriche della poesia italiana

Il verso è una successione di sillabe composta seguendo un certo criterio. Le sillabe che compongono il verso sono distinguibili in toniche (se hanno l’accento) ed atone se ne sono prive: sulla base di questo le parole che compongono i versi vengono distinte in: ossitona se ha l’accento sull’ultima sillaba; parossitona se ha l’accento sulla penultima sillaba; proparossitona (o sdrucciola) se ha tonica la terzultima; bisdrucciola con l’accento sulla quartultima sillaba.
Poiché nella metrica italiana ciò che conta è la sillaba tonica, la classificazione dei versi segue il criterio dell’ultima sillaba accentata, permettendosi di trascurare ciò che viene dopo l’ultimo accento.
Seguendo questo criterio è facile classificare come endecasillabo un verso composto da undici sillabe, nel quale la decima sia l’ultima tonica; in pratica l’ultima sillaba atona non viene considerata dal punto di vista metrico. Analogamente un decasillabo è composto da dieci sillabe, delle quali l’ultima tonica è la nona. Ottonario, settenario, senario, quinario, quadrisillabo, ternario e binario sono costruiti nello stesso modo: ci sono certo consolidate consuetudini sulle sillabe precedenti l’ultima, ma solo l’ultima tonica dà il nome e classifica il verso.

Sempre alle sillabe ed ai loro accenti è legato il discorso a riguardo delle rime, le quali sono identità di suoni nella parte finale delle parole, là dove è ubicata la vocale tonica. Nella lingua italiana le più frequenti sono:
rima baciata: AA BB CC
rima alternata: ABAB CDCD
rima incrociata o chiusa: ABBA CDDC
rima incatenata o terza rima: ABA BCB CDC
rima ripetuta: ABC ABC

Esistono poi rime per le quali la corrispondenza non è perfetta. Se la parte finale di due parole presenta vocali uguali, ma diverse consonanti, si parla di assonanza (ad esempio cane/sale), mentre di consonanza si parla quando le consonanti sono uguali e le vocali diverse (esempio sento/punto). Queste rime sono dette imperfette.

Le strofe sono le unità ritmico-metriche di un testo poetico. Una strofa è composta da più versi i quali, disposti in un certo modo, prendono nomi particolari. Nella lingua italiana le strofe più comuni sono il distico (due versi a rima baciata), la terzina (tre versi a rima incatenata), la quartina (quattro versi in rima), la sestina (sei versi in rima), l’ottava (sei a rima alternata e gli ultimi due a baciata).

Tra le principali forme metriche della letteratura italiana è opportuno ricordare in fine la canzone, la sestina lirica, il sonetto, la ballata ed il madrigale.

La canzone è una lirica composta da più stanze indipendenti. Ciascuna stanza è composta da due parti: una è detta fronte, a sua volta suddivisa in due piedi i quali hanno identico numero di versi e stessa rima; la seconda parte della canzone è invece detta sirma, che è talora suddivisa in due volte. Il settimo verso è la cosiddetta chiave della stanza.
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Esempio di analisi del testo di una canzone, dal Canzoniere di Petrarca CXXVI, I stanza:

Chiare, fresche et dolci acque, inizio del I piede e della fronte
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna; fine del I piede (rima a-b-c)
gentil ramo ove piacque inizio del II piede
(con sospir' mi rimembra)
a lei di fare al bel fiancho colonna; fine del II piede e della fronte (a-b-c -a-b-c)
herba et fior' che la gonna chiave
leggiadra ricoperse inizio della sirma
co l'angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse:
date udienzia insieme
a le dolenti mie parole extreme. fine della sirma (rima c-d-e-e-D-f-F)
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La sestina lirica è una forma di canzone di origine provenzale introdotta da Dante nella nostra letteratura, composta da 6 stanze di 6 endecasillabi ciascuna, più tre versi finali. La struttura è complessa per l'assenza di rima all'interno delle singole stanze; la rima, in questa particolare forma metrica, è garantita da sei parole rima che vengono introdotte nella prima stanza secondo il semplice schema sequenziale ABCDEF. Il sistema della retrogradatio cruciata (retrogradazione incrociata) garantisce che la la parola rima F (l'ultima della prima stanza) sia presente come rima nel primo verso della seconda stanza. L'ultima rima della II stanza dovrà corrispondere alla prima rima della III stanza e così via fino alla VI stanza. In pratica l'ultimo verso di ogni stanza è in rima baciata (sebbene impropria perché coincidente) con il primo verso della stanza successiva.
I tre versi finali devono comprendere tutte e sei le parole rima, tre alla fine del verso, tre all'interno.

Si capisce meglio con un esempio, come in Canzoniere di Petrarca LXVI:
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L'aere gravato, et l'importuna nebbia
compressa intorno da rabbiosi vènti
tosto conven che si converta in pioggia;
et già son quasi di cristallo i fiumi,
e 'n vece de l'erbetta per le valli
non se ved'altro che pruine et ghiaccio. fine prima stanza

Et io nel cor via piú freddo che ghiaccio
ò di gravi pensier' tal una nebbia,
qual si leva talor di queste valli,
serrate incontra agli amorosi vènti,
et circundate di stagnanti fiumi,
quancio cade dal ciel piú lenta pioggia. fine seconda stanza

In picciol tempo passa ogni gran pioggia,
e 'l caldo fa sparir le nevi e 'l ghiaccio,
di che vanno superbi in vista i fiumi,
né mai nascose il ciel si folta nebbia
che sopragiunta dal furor d'i vènti
non fugisse dai poggi et da le valli. fine terza stanza

Ma lasso, a me non val fiorir de valli,
anzi piango al sereno et a la pioggia
et a' gelati et a' soavi vènti:
ch'allor fia un dí madonna senza 'l ghiaccio
dentro, et di for senza l'usata nebbia,
ch'i' vedrò secco il mare, e' laghi, e i fiumi. fine quarta stanza

Mentre ch'al mar descenderanno i fiumi
et le fiere ameranno ombrose valli,
fia dinanzi a' begli occhi quella nebbia
che fa nascer d'i miei continua pioggia,
et nel bel petto l'indurato ghiaccio
che tra del mio sí dolorosi vènti. fine quinta stanza

Ben debbo io perdonare a tutti vènti,
per amor d'un che 'n mezzo di duo fiumi
mi chiuse tra 'l bel verde e 'l dolce ghiaccio,
tal ch'i' depinsi poi per mille valli
l'ombra ov'io fui, ché né calor né pioggia
né suon curava di spezzata nebbia. fine sesta stanza

Ma non fuggío già mai nebbia per vènti,
come quel dí, né mai fiumi per pioggia,
ghiaccio quando 'l sole apre le valli.
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Quando lo schema di cui sopra è ripetuto due volte si parla di sestina doppia.
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La più nota delle forme metriche è il sonetto, composto da due quartine e due terzine di endecasillabi.
Se ne distinguono in generale due tipologie: quella più antica, detta lentiniana perché adottata da Giacomo da Lentini, utilizza la rima ABAB ABAB per le quartine, e la CDC DCD per le terzine. La forma stilnovistica invece, quella più nota, utilizza la rima ABBA ABBA per le quartine e la CDE CDE oppure la CDE DCE per le terzine.
La prima poesia del Canzoniere di Petrarca è un sonetto:
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Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond'io nudriva 'l core
in sul mio primo giovenile errore
quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono, ABBA

del vario stile in ch'io piango et ragiono
fra le vane speranze e 'l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono. ABBA

Ma ben veggio or sí come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me mesdesmo meco mi vergogno; CDE

et del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,
e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno. CDE
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La ballata è costituita anch'essa da una o più stanze, ma è caratterizzata da un ritornello, detto ripresa, del quale almeno una rima è ripetuta alla fine di ogni stanza.
La CCCXXIV poesia del Canzoniere di Petrarca è una ballata, in questo caso costituita da un'unica stanza:

Amor, quando fioria inizio della ripresa
mia spene, e 'l guidardon di tanta fede,
tolta m'è quella ond'attendea mercede. fine della ripresa
Ahi dispietata morte, ahi crudel vita! inizio I stanza
L'una m'à posto in doglia,
et mie speranze acerbamente à spente;
l'altra mi tèn qua giú contra mia voglia,
et lei che se n'è gita
seguir non posso, ch'ella nol consente.
Ma pur ogni or presente
nel mezzo del meo cor madonna siede,
et qual è la mia vita, ella sel vede ultimi due versi in rima con gli ultimi due della ripresa
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In fine il madrigale è un componimento breve composto da un numero variabile di terzine, da due a cinque, conclusa però da un distico, o più raramente da un verso isolato o ancora da una coppia di distici.
La LII poesia del Canzoniere di Petrarca è un madrigale:

Non al suo amante piú Dïana piacque,
quando per tal ventura tutta ignuda
la vide in mezzo de le gelide acque, fine prima terzina
ch'a me la pastorella alpestra et cruda
posta a bagnar un leggiadretto velo,
ch'a l'aura il vago et biondo capel chiuda, fine seconda terzina
tal che mi fece, or quand'egli arde 'l cielo, inizio del distico finale
tutto tremar d'un amoroso gielo.
 

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Fonte: Liberamente tratto da una lezione di letteratura italiana presso l'università degli studi del Piemonte orientale. Vercelli, 2008
Autore: A. di Biase
Revisioni:  02-02-13
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05 novembre 2008

L'Umanesimo

Nota enciclopedica
Con il termine di Umanesimo in letteratura si intende quel periodo compreso tra gli ultimi decenni del XIV e la fine del XV secolo, il quale è stato caratterizzato dalla riconsiderazione dei valori umani.
Il lavoro degli intellettuali di questo periodo è concentrato principalmente sullo studio degli autori classici latini e greci ed è legato ad una riscoperta del mondo pagano da contrapporre alla sapienza scolastica e teologica del Medioevo. Si tratta di un movimento complesso, non immune da caratteri regressivi, come il ritorno all'utilizzo del latino, sebbene questa circostanza si rivelerà utile al successivo e definitivo sviluppo del volgare.
Il termine 'umanista' entra in uso nella seconda metà del XV secolo, con il significato di cultore degli 'studia umanitatis' e quindi grammatico, filosofo, retore, poeta. Non indifferente al significato di questo termine è però la modalità disinteressata dello studio, il quale venne qui intrapreso per solo amore di conoscenza e senza nessun altro secondo fine.
Tra i preumanisti italiani si può ricordare il grammatico e latinista bolognese Giovanni del Virgilio, protagonista della nota polemica con Dante che portò alla composizione delle Egloghe dell'Alighieri, oppure i padovani Lovato Lovati ed Albertino Mussato; grandi protagonisti della letteratura di questo periodo sono però Petrarca, spesso considerato il padre del movimento, e Giovanni Boccaccio, amico e contemporaneo del primo, né può essere dimenticato Giovanni Pico della Mirandola.
In Europa devono essere ricordati i nomi di Erasmo da Rotterdam e dell'amico inglese Thomas More, ecclesiastico il primo e santo della chiesa il secondo, ambedue attenti cultori di un cattolicesimo solidamente legato al mondo classico, oltre che rinnovato nei costumi.
Nocciolo dell'approccio umanista non fu dunque la semplice riscoperta e lo studio erudito dei codici antichi, bensì quel solido legame tra passato e presente che lo studio di questa letteratura rese percepibile.
L'Umanesimo accompagnò la nascita e lo sviluppo del Rinascimento, costituendone la premessa.
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Autore: A. di Biase
Revisioni: -
Fonti:
-La letteratura italiana (Cecchi-Sapegno), Vol. IV, nell'edizione del Corriere della Sera, 2005.
-Enciclopedia universale, Vol. XXV, Ediz. Sole 24 ore, 2006
- Dizionario della lingua italiana - (Devoto Oli)
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ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

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