22 gennaio 2019

E se fosse l’Africa a chiudere i porti?

                                            E se fosse l’Africa a chiudere i porti?
                                        Meglio atei che cristiani ipocriti (Papa Francesco)

     Considerando il mio passato da criminale, forse non sono la persona più adatta per parlare di certi argomenti, ma la strage dell’altro giorno nel mare Mediterraneo mi ha fatto veramente stare male e non capisco perché, se questo accade a me che sono stato per quasi tutta la vita un poco di buono, non accada a certi politici incensurati che si definiscono cristiani. Questo mi fa pensare che si può essere culturalmente criminali e avere la fedina penale pulita, ma non la coscienza.
A volte mi capita di ascoltare delle discussioni forcaiole sugli emigranti e su chi commette reati che mi fanno amaramente sorridere. Credo che le persone la pensino in un certo modo non perché siano cattive, ma perché fondano le loro convinzioni su una cattiva informazione. D’altronde la gente ha voglia di sapere e dalle informazioni che riceve decide cosa pensare. I politici questo lo sanno bene e spesso usano i mass media per manipolare le coscienze. La strage degli emigranti in mare continua e continuano certe assurde dichiarazioni di alcuni politici: “I porti chiusi sono un deterrente per non farli partire.” “È colpa delle Organizzazioni Non Governative.” “Aiutiamoli a casa loro.” “È colpa degli scafisti”. “No! È colpa degli emigranti che preferiscono morire annegati che di fame e di stenti nel loro paese.” “È colpa dei trafficanti umani.” “È colpa dell’Europa.” “Se apriamo i porti i morti aumenteranno”.
Alcuni politici hanno creato una fortuna elettorale con l’emergenza emigrazione e sicurezza. Credo che molti di loro ci rimarrebbero davvero male se fosse l’Africa, e non l’Europa, a chiudere i porti, perché l’occidente collasserebbe, sia per la mancanza di materie prime, sia perché da noi tutti vogliono fare gli avvocati, i giudici, gli architetti, i giornalisti, ecc... E chi ci pagherebbe le pensioni e chi farebbe i lavori umili? Credo che siano più gli europei ad avere bisogno degli africani, che loro di noi. Sì, è vero, non possiamo accogliere tutti, ma penso che abbiamo il dovere di salvarne più che possiamo dal mar Mediterraneo e poi creare le condizioni migliori di vivibilità nei loro paesi per non costringerli ad emigrare. Per secoli abbiamo sfruttato e rapinato gli africani e le loro terre: il benessere dell' Occidente è frutto anche della cinica voracità dell’uomo bianco, potremmo almeno restituire loro qualcosa, o almeno salvare più vite che possiamo.
Concludo questa mia riflessione con le parole di Papa Francesco: “Penso alle 170 vittime del naufragio nel Mediterraneo. Cercavano un futuro per la loro vita. Vittime, forse, di trafficanti di esseri umani. Preghiamo per loro e per coloro che hanno la responsabilità di quello che è successo.”

Carmelo Musumeci

Gennaio 2019

21 gennaio 2019

Vinella e Don Pezzotta (1976) di Mino Guerrini a cura di Gordiano Lupi



Vinella e Don Pezzotta (1976)
di Mino Guerrini

Regia: Mino Guerrini. Soggetto: Giorgio Bracardi, Dante Matelli. Sceneggiatura: Castellano e Pipolo. Scenografia: Francesco Vanozio. Costumi: Luciana Marinucci. Fotografia: Roberto Girometti. Colore. Techincolor. Musica: Bracardi e Mancini. Montaggio: Antonio Siciliano. Produzione: F.P. Cinematografica, Cinematografica Sagittarius. Realizzazione: Lillo Capoano, Roberto Mannoni. Aiuto Regista: Gilberto Colucci. Operatore alla Macchina. Pasquale Rachini. Interpreti: Giorgio Bracardi (Vinella), Armando Brancia (Don Pezzotta, doppiato da Riccardo Garrone), West Buchanan (prete rivale), Marcello Di Falco, Lia Tomas (Sora Camilla), Mirella D’Auria (Maria la Brutalona), Alberto Pudia, Costantino Carrozza (Procacci Duilio), Aldo Allori, Massimo Francioni, Massimo Stazzi, Maria Tedeschi.

Intendiamoci bene, Vinella e Don Pezzotta non è certo un capolavoro, non è uno di quei film che se non li vedi ti manca qualcosa della storia del cinema italiano. No davvero. Ma è un film che per la generazione nata negli anni Sessanta ricorda lo strampalato umorismo diffuso dalle frequenze radio, alle 12 e 40 di ogni giorno feriale: Alto Gradimento condotto da Arbore e Boncompagni. Ora che amici bene informati mi dicono che tra Bracardi e Arbore si è incrinata l’amicizia d’un tempo, la cosa mi fa uno strano effetto, a metà tra nostalgia e rimpianto. Ma rivedere Bracardi interpretare Marx Vinella alle prese con l’arcigno quanto taccagno Don Pezzotta e con gli involontari tiri mancini giocati al buon Procaci Duilio, fa bene al cuore. Bracardi e Marenco sono stati la colonna sonora della mia adolescenza - grazie ad Arbore! - e i loro assurdi personaggi mi hanno fatto passare ore spensierate. Ricordo l’animale misterioso chiamato Scarpantibus, il fascista da operetta Catenacci, l’alunno Riccardino, il soldato Patroclo, il professor Aristogitone… e chi più ne ha più ne metta. Ricordo la magia di quella trasmissione a base di umorismo grottesco che profumava d’improvvisazione e genialità. Inutile dire che oggi riscoprire Giorgio Bracardi è come addentare una vecchia madeleine che mi permette di riassaporare con la memoria il mio tempo perduto. Veniamo al film, che dopo tutto questo preambolo pare la cosa meno importante.

Vinella (Bracardi) è un orrendo orfanello gettato nel secchio della spazzatura, adottato da Don Pezzotta (Brancia, doppiato da Garrone), il parroco di Santa Zitta, sobborgo romano più che inventato, e dalla perpetua Sora Camilla (Tomas), doppiata con una voce da baritono e vittima di assurdi scherzi. Ricordiamo Bracardi vestito da King Kong, Mummia, leone del Colosseo, bandito mascherato… Vinella cresce devoto del fantasioso San Pentolino, subito presentato in un sogno ambientato tra le storiche (per il cinema bis) cascate dei colli romani come santo laido e gretto. Infatti compie il miracolo di far apparire una pentola di spaghetti ma pretende di mangiarseli e non si sogna di condividerli.
Vinella e Don Pezzotta si basa su un umorismo surreale ai limiti del blasfemo, irriverente e a tratti metaforico, quando nel finale mette in scena una rivolta degli umili contro i potenti, con tanto di miracolo di San Pentolino che spinge le scavatrici contro il potere e salva la parrocchia da sicura distruzione. Bracardi fa tutto da solo, scrive persino il soggetto con l’aiuto di Matelli e degli esperti sceneggiatori Castellano e Pipolo. Ne vien fuori una sorta di barzelletta movie, un film che anticipa in maniera originale il Pierino di Alvaro Vitali e Marino Girolami. Comicità slapstick dispensata a piene mani, torte in faccia, farsa sboccata, momenti esilaranti da cartone animato. Il film è composto da una serie di vignette comiche e diversi tormentoni: la bicicletta che cade o resta attaccata da qualche parte, le apparizioni di San Pentolino, le gare tra ragazzi (memorabili la partita di calcio, la gara di pernacchie e la pisciata più lunga). Il leitmotiv è la rivalità tra due parrocchie: quella povera di Don Pezzotta e quella ricca di un prete americano che vuole modernizzare la chiesa. Molte gare atletiche e di vario tipo tra le due parrocchie costituiscono la spina dorsale della pellicola, che vive di momenti esilaranti nel rapporto tra Vinella e il prete, ma anche nei contrasti rituali con Procacci Duilio. Musiche bizzarre sempre a cura di Bracardi che fa proprio tutto da solo e forse avrebbe avuto bisogno di un’adeguata spalla comica, che non si rintraccia tra gli altri personaggi. La vocina stridula di Vinella riecheggia con il suo: chiapala! chiapala! pa! pa! seguita dal classico gesticolare. Originale il finale teatrale con la presentazione degli attori che sfilano davanti alla macchina da presa. Mino Guerrini se la cava con diligenza, come tradizione nei film comici dove a decidere non è mai il regista ma il protagonista della pellicola, che in questo caso è persino autore di soggetto e musiche. Da riscoprire.

(c) Gordiano Lupi

SERGIO MELCHIORRE IN “OCCHI AUTUNNALI” a cura di Vincenzo Capodiferro


SERGIO MELCHIORRE IN “OCCHI AUTUNNALI”
Poeta della sensibilità e dell’”essere discontinuo”

Sergio Melchiorre è nato a Le Creusot, in Francia, il 3 marzo del 1956. Si è laureato in Lingue a Bologna ed oggi insegna a Luino, in Provincia di Varese. Scrive poesie, romanzi ed è sceneggiatore. Ha pubblicato, tra l’altro, “Uno di noi” nel 1993 ed ha ricevuto molteplici premi e riconoscimenti della sua attività letteraria. La sua ultima raccolta di versi è “Occhi autunnali”, Lecce 2018. Leggiamo due intense righe della prefatrice, Patrizia Grazioli, in cui si sintetizza brevemente la sua vita: «Sergio Melchiorre, figlio di un partigiano combattente sulla Majella e successivamente minatore in Francia (perché emigrato a seguito della guerra) e di una donna che ha sempre lottato contro la miseria per la vita dei figli, ha viaggiato a lungo non solo nel mondo, ma anche in quegli spazi misteriosi, talvolta labirintici, della sua anima, che ci possono condurre, se leggiamo attentamene le sue poesie, nel nostro mondo interiore. Nelle sue liriche si può trovare una parte, forse non ancora conosciuta, di noi stessi». Ecco una “Vita di un uomo”, ungarettianamente esposta! Il viaggio esteriore si intrinseca/interseca con quello interiore, ma quello interiore, rispondendo intrinsecamente al socratico monito (Nosce te ipsum!), al Redi agostinista, è più arduo e difficile, perché risponde alla domanda dell’umanità, ecco perché può riguardare tutti, ognuno di noi. Riguarda cioè l’uomo nella sua marxiana Gattungwesen. «Vorrei riflettermi/ nei tuoi occhi autunnali/ per afferrare quella malinconia/ che li rende così straordinari». Ecco il titolo, ecco tutto! Il titolo è l’opera! Il poeta si rivolge all’amata in un dialogo silenzioso che passa attraverso la visione. Come Dante guarda attraverso gli occhi di Beatrice e guada le porte dell’anima. Qui lo sguardo si rivolge alle stagioni dell’anima. Non c’è alcuna sacralizzazione della figura femminile, come l’angelica donna degli stil-novisti, o di Montale. Non c’è la Laura petrarchesca, che danza tra terra e cielo, tra inferno e paradiso. Gli occhi sono lo specchio dell’anima. Il linguaggio tra gli occhi è comprensibile immediatamente. Perciò si dice, quando ci si parla, di guardarsi vis-à-vis (alla francese. E Sergio può capire, perché è francese!). La centralità è rappresentata da quella malinconia, di cui scrive la Grazioli: «La malinconia che Giacomo Leopardi indicava come non solo esperienza umana dolorosa e disperata, ma anche come sorgente di ogni poesia. La malinconia come stato dell’essere umano insopprimibile, che se ascoltiamo senza timore diviene portatrice di conoscenza, di luce che fa risplendere e scintillare le cose e l’esperienza che si ha di esse». Piacer figlio di affanno … In Leopardi la malinconia porta dalla disperazione alla dispersione nell’orizzonte chiaroscuro del “vago ed indefinito”. In Melchiorre questa esperienza forte ci fa rivivere le sorgenti dell’arte: il dolore! L’artista, l’esteta, purtroppo non può guardare con occhio puro e contemplante, come credeva Schopenhauer! Cioè distaccato! Non possiamo staccarci da questo dolore! Dobbiamo portarlo, o diremmo sopportarlo: per crucem ad lucem, in termini cristiani! La Grazioli cita il Nietzsche, ma io vi citerei accanto Kierkegaard: vi è la disperazione inautentica e quella autentica, quella che ci apre gli occhi al mondo dell’infinito. Leggiamo in “Eravamo felici”: «Eravamo seduti/ sulle scale/ di una casa diroccata./ In mezzo al niente». Ecco: gli occhi autunnali guardano alle gioie della fanciullezza, il gaudio che segue dal nulla! È come una scena di guerra che ci ricorda l’Ungaretti: «Di queste case/ non è rimasto/ che qualche brandello di muro …». Siamo sempre di fronte ad uno scenario esistenziale che somiglia alla trincea. La vita stessa è un’eterna guerra mondiale. Gli occhi autunnali guardano a Chieti sotto un cielo plumbeo, come nella copertina del libro. Il paese natio di Sergio, le Creusot, è il “loculo aperto/ verso il tramonto” aggiungeremmo: dell’Occidente spengleriano (dall’Occaso pien di voli di carducciana memoria) rimanda alla terra natia d’Abruzzo, il paese dei pastori dannunziani: Settembre, andiamo. È tempo di migrare./ Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori/ lascian gli stazzi e vanno verso il mare… E quel sigillo di guerra Sergio lo reca nel cuore, da figlio di partigiano, figlio di eroi. “Morte di una partigiana” rappresenta la trasfigurazione del padre: «Hai avuto solo un angolo di cielo/ che ha onorato il tuo sacrificio». Così «Se l’abisso, nei quali a tratti, prendendoci per mano, Sergio ci conduce con alcune sue poesie, è attraente quanto vertiginoso, la speranza di una continuità oltre la vita, oltre l’incomunicabilità amorosa, si apre improvvisa non come vana illusione, ma come certezza inalienabile». L’eternità non è più finzione illusiva foscoliana, ma verità che si concreta attraverso la morale eroica. Occhi autunnali sono uno sguardo nell’anima. l’autunno predice l’inverno, la spoglia stagione. Ma dove c’è spoglio, dove risiede il nulla, noi ritroviamo il vero senso delle cose e dell’esistenza stessa.

Vincenzo Capodiferro

Il sogno di Aquila della Notte a cura di Angelo Ivan Leone


Il sogno di Aquila della Notte


   I valori eterni trattati dalla narrazione texiana sono quelli dell’amicizia, dell’amore perduto ma sempiterno che diventa quasi mitizzato nel ricordo del passato, della lealtà, dell’onestà, della fratellanza e della solidarietà, soprattutto con gli ultimi, con i più sfortunati, con i diseredati.
 Tutto questo rende il sogno e la narrazione di Tex, alias Aquila della Notte, un paradigma per quello che vuole essere o è stato il sogno americano.
Sperando, si confida, in un sogno italiano di un “butero” toscano, ovverosia di un cow-boy maremmano, cui Tex Willer deve i natali ideali.

(c) Angelo Ivan Leone

19 gennaio 2019

La pena liquida a cura di Daniel Monni


LA PENA LIQUIDA

una pietra riceve una certa quantità di movimento da una causa esterna che la spinge, per la quale, cessato l’impulso della causa esterna, continua necessariamente a esser mossa. Dunque questo permanere della pietra nel movimento è coatto, non perché necessario, ma perché deve essere definito dall’impulso di una causa esterna. E ciò che si dice qui della pietra deve intendersi di qualunque cosa particolare. Poniamo ora, se vogliamo, che la pietra, mentre continua a muoversi, pensi e sappia di sforzarsi, per quanto può, di persistere nel movimento. Questa pietra, certamente, in quanto è consapevole unicamente del suo conato al quale non è affatto indifferente, crederà di essere liberissima e di non persistere nel movimento per nessun’altra causa se non perché lo vuole
-SPINOZA B., Tutte le opere, Milano, 2010, pagine 2111-2113-
            La “recente” teoria della modernità liquida, ipotizzata dal Bauman, prende le mosse dalla seguente riflessione: “I liquidi, a differenza dei corpi solidi, non mantengono di norma una forma propria. I fluidi, per così dire, non fissano lo spazio e non legano il tempo. Laddove i corpi solidi hanno dimensioni spaziali ben definite ma neutralizzano l’impatto -e dunque riducono il significato- del tempo (resistono con efficacia al suo scorrere o lo rendono irrilevante), i fluidi non conservano mai a lungo la propria forma e sono sempre pronti (e inclini) a cambiarla; cosicché ciò che conta per essi è il flusso temporale più che lo spazio che si trovano a occupare e che in pratica occupano solo per un momento. In un certo senso i corpi solidi annullano il tempo, laddove, al contrario, il tempo è per i liquidi l’elemento più importante1 ”. Tale weltanschauung ci consente, molto probabilmente, di affrontare -mutatis mutandis- anche il problema della pena e, più precisamente, di quella carceraria.
            Il carcere, in particolare, sembra essere divenuto -a partire dall’epoca illuminista- il corpo solido più definito nelle forme: un deus ex machina caratterizzato da un’elevata dimensione spaziale ed in grado, soprattutto, di annullare il tempo. È proprio l’annullamento del tempo del condannato la caratteristica che potrebbe indurci -forse più delle altre- a credere che la pena carceraria, soprattutto allorquando si veste della perpetuità, “non ha nessuna funzione, è la vendetta dei forti, dei vincitori, della moltitudine […] è il male che rende innocente chi lo sconta2 ”. Sono le caratteristiche della pena detentiva, d’altronde, che la conducono a vivere nel paradosso: se è vero, ed è vero, che il carcere “nasce” come la risposta del diritto penale lo è, altrettanto, la circostanza secondo la quale tale pena sembra “morire” nella rinnovata(?) veste di problema del diritto penale. Se non è certamente raro leggere in una sentenza della Corte Costituzionale che la “difesa sociale [è un] interesse di rilievo costituzionale sotteso alla necessaria esecuzione della pena3 ”, infatti, non lo è, parimenti, leggere che benché “nei media, nella società e nella sfera politica c’è chi continua a credere che il carcere possa riabilitare [tale pena, in realtà] di fronte all’opinione pubblica porta il peso di un segreto, il segreto del suo fiasco4 ”.
            Il carcere palesa quotidianamente i propri limiti e cionnonostante sembra legittimare la propria esistenza su postulati propri a quella “necessità del male” tanto cara a Schelling, secondo il quale è il male lo strumento attraverso il quale può rivelarsi il bene. Il bene, in questo caso, è la rieducazione del condannato enunciata dall’art. 27 della Costituzione: un principio che pare, francamente, diametralmente opposto alle finalità perseguite (coscientemente o meno) dal carcere. Che il carcere debba esistere unicamente per rivelarci il principio rieducativo?
            Fuori dalla metafora si potrebbe dire che la rieducazione, oggi più che mai, sembra essere uno dei grandi progetti dell’età moderna che, suo malgrado, subisce la sferzante “temperie culturale postmoderna [la quale] si connota per l’abbandono dei grandi progetti dell’uomo, elaborati a partire dalla stagione illuministica5 ”. Si potrebbe dire che leggere parole come “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” appare, oggi, più il frutto delle letture serali dell’uomo dabbene che non della carta costituzionale. Il problema della pena carceraria, tuttavia, non può e non deve essere ri(con)dotto alle elucubrazioni, più o meno dotte, di singoli intellettuali poiché permea di sé la società tout court e non solo, come alcuni vorrebbero far credere, la sua parte “peggiore”.
            Il carcere, si potrebbe dire, diviene un problema nel momento in cui è concepito come una soluzione: per alcuni, infatti, cessa di essere il problema del diritto penale allorquando si palesa come “la” risposta (più o meno efficiente) alla pericolosità sociale. Non è un caso, a modestissimo parere di chi scrive, che tutti gli strumenti predisposti dall’ordinamento con il dichiarato scopo di rieducare i condannati (si pensi alla concessione dei benefici penitenziari) siano, di volta in volta, sacrificati sulla base di valutazioni ispirate, direttamente od indirettamente, al concetto di pericolosità sociale, in spregio all’equazione cardine dell’ordinamento penitenziario: “trattamento=rieducazione6 ”.
            La deriva securitaria della modernità, in sostanza, consegna al diritto penale concetti altri ed ulteriori rispetto alla rieducazione quale, in primis, la pericolosità sociale. Tale concetto finisce col rendere “liquida” la pena carceraria poiché, anziché renderla definita nello spazio e nel tempo, la plasma della propria fluidità e la rende capace, per tale fatto, di lambire qualsivoglia soggetto ritenuto socialmente pericoloso: il carcere, attraverso la pericolosità sociale, diviene, in nuce, la panacea di ogni male.
            Cos’è, d’altronde, la pericolosità sociale? La tipizzazione di tale concetto ci indica che è socialmente pericoloso il soggetto che ha commesso un fatto preveduto dalla legge come reato “quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati7 ”. Il giudizio di pericolosità sociale, inoltre, si effettua sulla scorta dei parametri valutativi di cui all’art. 133 c.p. e tiene, dunque, conto della gravità del reato, della capacità a delinquere del reo e (guardando al passato) della recidiva. Al di là della lettura di saggi lombrosiani, a modestissimo parere di chi scrive, è alquanto arduo accertare giudizialmente la propensione a delinquere di un soggetto: impossibile fermare con durevoli tratti l’evanescenza dell’animo umano. Se diviene, dunque, quasi impossibile calcolare giudizialmente la possibilità che un soggetto commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reato il giudicante, molto probabilmente, fonderà il proprio accertamento su elementi altri ed ulteriori come la gravità del reato commesso e la recidiva: guarderà, dunque, più alle azioni passate che a quelle future. Tale valutazione è, in sostanza, contraria alla volontà dei costituenti di rieducare il reo poiché, molto probabilmente, la pena rieducativa dovrebbe guardare le azioni future del condannato anziché quelle passate.
            La tipizzazione della pericolosità sociale, non a caso, si rileva nell’art. 203 del c.p. ed attiene alle misure di sicurezza. Le misure di sicurezza e le pene, come noto, danno vita al c.d. doppio binario. Nel momento in cui, tuttavia, le pene cessano di legittimarsi come strumenti rieducativi e, casomai, si propongono come risposta alla pericolosità sociale i due binari (delle misure di sicurezza e delle pene) si palesano come quelle due rette parallele destinate a non incontrarsi mai nella finitezza per ricongiungersi, poi, nell’infinitezza: la pena, in parole povere, finisce col rivelare la sua novella(?) natura di misura di sicurezza, seppur larvata.
            Molto probabilmente questa riflessione provocatoria -ma non troppo- giustificherà l’inarcamento di qualche sopracciglio e, purtuttavia, appariva doverosa. Se l’ordinamento giuridico e, in particolare, il diritto penale continuano a porre la pericolosità sociale ad architrave della loro stessa esistenza, la pena, non potrà non divenire una misura di sicurezza. Il carcere, infatti, in tal caso diviene liquido e si erige a risposta ed a soluzione a qualsivoglia male della società sana, ed invade ed occupa ogni spazio lasciato libero dalle pene cadute, ormai, nel disuso e nell’oblio.
            L’eclissarsi del pluralismo penale coincide con la (ri)scoperta del carcerocentrismo moderno e ci consegna un diritto penale liquido che nel vestire le misure di sicurezza da pene ci lascia un carcere tanto libero dalle influenze esterne (quali ad esempio il consenso elettorale ed il populismo) quanto quella “pietra” -narrata da Spinoza- dalla sua spinta originaria.
Daniel Monni

1 BAUMAN Z., Modernità liquida, Milano, 2019, pagina XXXII
2 MUSUMECI C., L’urlo di un uomo ombra. Vita da ergastolo ostativo, Messina, 2013, pagina 12
3 Corte Costituzionale, 12 aprile 2017, n. 76
4 MATHIESEN T., Perché il carcere?, Torino, 1996, pagina 174
5 MOCCIA S., Presentazione Convegno Nazionale Associazione Italiana Professori di Diritto Penale, citato in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fascicolo III, 2018, pagina 1667
6 Relazione della IV Commissione Permanente, relatore Felisetti, sul disegno di legge n. 2624-A del 1974

7 Art. 203 c.p.

16 gennaio 2019

1943: L’ANNO DELLA VERGOGNA. LA FINE DEL PRINCIPIO DI ANGELO IVAN LEONE


1943: L’ANNO DELLA VERGOGNA. LA FINE DEL PRINCIPIO DI ANGELO IVAN LEONE



Dopo la battaglia di El Alamein, conclusasi con la vittoria delle forze britanniche, il 4 novembre 1942, sulle truppe italo-tedesche che erano sembrate sul punto di conquistare il Cairo e l’intero Egitto e guidate dalla geniale “volpe del deserto”, al secolo il generale Erwin Rommel, le forze dell’asse iniziarono una lunghissima ritirata che le avrebbe condotte, non solo a lasciare per sempre l’Africa, ma anche a battersi sul sacro suolo patrio in Italia, a cominciare dalla Sicilia. Tutto questo si poté compiere non solo grazie alle divisioni guidate da Montgomery, che vittoriose ad El Alamein seguivano dappresso le rimanenti forze dell’asse in fuga, ma anche e soprattutto grazie alle forze alleate sbarcate in Marocco e Algeria che oramai chiudevano i soldati italo-tedeschi, ultimi rimasugli di quello che fu la gloriosa macchina da guerra di Rommel, in una mortale sacca. La sacca si chiuse sopra le nostre truppe e sui tedeschi il 12-13 maggio del 1943, con la resa della forze armate dell’Asse in Tunisia. Questa fu la definitiva conclusione della ritirata che gli italo-tedeschi avevano iniziato ad El Alamein, non a caso ritenuta una delle battaglie più importanti della Seconda Guerra Mondiale.
Contemporaneamente, nello stesso mese in cui si consumava la tragedia di El Alamein, il terribile novembre del 1942, esattamente il 19, iniziava l’offensiva sovietica sul Don. L’ 11 dicembre, le nostre truppe, colà dislocate per le vanagloriose ambizioni mussoliniane di condividere la lotta al bolscevismo accanto all’alleato tedesco, iniziarono la ritirata. La spaventosa e tremenda ritirata dalla Russia, che ancora è ben viva nel ricordo popolare e che portò alla fine dell’Armir (Armata Italiana in Russia), fu la conseguenza fatale e scontata dell’offensiva russa iniziata nel 19 novembre attorno ad una città che sarebbe passata per sempre alla storia: Stalingrado. Poche altre battaglie, nella storia del mondo, hanno avuto effetti e conseguenze simili a quelle che ci furono dopo la battaglia di Stalingrado. Essa ribaltò le sorti del conflitto, non solo sul fronte orientale, ma pose i presupposti stessi alla vittoria degli Alleati, dando inizio alla gigantesca avanzata russa, che si concluse sulle macerie di Berlino, con l’armata rossa che piantava la bandiera con la falce e martello sul Reichstag. La resistenza inutile e folle dei tedeschi durò dal 16 aprile al 2 maggio del 1945. Il 30 aprile, Adolf Hitler, vista persa la guerra, si suicidò e la Germania si arrese l'8 maggio.
La Seconda Guerra Mondiale in Europa era finita.
Queste due battaglie, di El Alamein e ancor di più quella di Stalingrado, portarono alla svolta nella guerra e furono le date iniziali della seconda fase del conflitto, quella caratterizzata dalla decadenza inarrestabile delle forze dell’asse (1943-1945) e, se è forse esagerato dire che furono l’inizio della fine per Hitler e il Duce, sicuramente esse furono la “fine del principio”, come disse Churchill.

15 gennaio 2019

Una comunità a teatro


Una comunità a Teatro

Sono giunto a Castelsaraceno, in provincia di Potenza, negli anni novanta, ospite del Club Alpino Italiano sezione di Salerno, e grazie all’amico dottor Giuseppe(Pino) Stabile che ci guidava. Due monti sovrastano l’abitato: il monte Alpi (mt.1900) e il Raparo (mt.1764) compresi nel Parco Nazionale del Pollino mete scelte dagli amici del CAI per le loro escursioni. Restai in paese e cercai notizie sulle tradizioni e sui rinvenimenti archeologici. Fu quella l’occasione in cui conobbi le professoresse Teresa Armenti e Ida Iannella storiche del territorio con le quali conservo ancora serena amicizia. La comunità castellana è dotata di una immensa ospitalità, questa antica tradizione si perpetra ancora oggi specialmente durante la festa del Maio che in questo luogo prende il nome di “ Antenna e Cunocchia”. L’emigrazione colpisce da anni questa comunità per cui i residenti continuano con frequenti contatti e viaggi a non far mancare le radici buone agli emigrati, che in questi ultimi decenni sono stati principalmente giovani laureati con ottimi voti. Un teatro vero e proprio non c’è, il teatro vero è sempre stata la piazza del paese dove si svolgono la maggior parte delle manifestazioni. Da alcuni decenni è sorto un vasto auditorium connesso al Museo della Civiltà Agro Pastorale che accoglie almeno cento persone. Vincenzo Lardo è stato dirigente scolastico per diversi anni, ha animato con scritti e manifestazioni le comunità in cui lavorava, privilegiando la comunicazione visiva attraverso il teatro. Ha messo su una compagnia teatrale che già reca nel nome un messaggio beneaugurante: “ Su(d) con la vita”. Con tutti i castellani che si sono prestati ad un breve periodo di prova, con l’evento che prevede la costruzione di un ponte tibetano dall’alto delle montagne all’interno del paese, ha scritto e messo in scena “ Viaggio di andata e ritorno”: commedia in quattro atti scritta, curata e diretta dallo stesso Vincenzo Lardo. L’introduzione è stata affidata a giovani diversamente abili con l’ausilio di un bambino che simbolicamente prefigura il senso della speranza per il ritorno nella comunità: “ attori per caso, colti però nella quotidianità dell’esistenza paesana”. L’uso del dialetto rende difficile l’interpretazione del dialogo che si sviluppa costantemente tra i personaggi ma non dissimula l’azione sul palcoscenico tanto che è facile intuire quanto sta accadendo e cosa è stato detto. Le strategie interne alla trama sono tratte dal vivere insieme, dall’allontanamento forzato dei membri delle famiglie fuori dalla comunità alla ricerca di un lavoro sicuro, per realizzare il desiderio di una economia solida tale da permettere il collegamento (come il costruendo ponte tibetano) tra l’origine e il presente. Vincenzo Lardo ha scritto la commedia con la serenità di rendere, tra lo scherzo e le debolezze umane, i problemi, i sentimenti e le vicende della vita quotidiana della comunità alla quale amorevolmente appartiene. Il tono della rappresentazione coinvolge il pubblico portandolo alla risata e il lieto fine accende nell’ animo degli spettatori, presenti o lontani da casa che vedranno lo spettacolo attraverso lo schermo con un DVD, la certezza che “ il viaggio” non è la perdita dell’identità famigliare ma la speranza che il ritorno consenta la crescita della comunità d’origine.
Vincenzo D’Alessio & G.C.F.Guarini

14 gennaio 2019

Gli anni di piombo: alla storia a cura di Angelo Ivan Leone

Gli anni di piombo: alla storia
Tratto da:Onda Lucana® by Angelo Ivan Leone-Docente di storia e filosofia presso Miur
L’arresto in terra di Bolivia del latitante Cesare Battisti è una notizia da accogliere con giusta soddisfazione, ma freddamente. La giusta soddisfazione deriva dal fatto che Battisti è un latitante sfuggito alla giustizia italiana dopo essere evaso dal carcere di Frosinone dove stava scontando una pena di 12 anni, in primo grado, per banda armata. Dopo questa condanna e la sua fuga Battisti è stato condannato in contumacia, per la partecipazione a quattro delitti, all’ergastolo.
Questi i fatti. Si tratta, quindi, di un uomo che ha un debito da scontare con la giustizia italiana alla quale ci auguriamo, di tutto cuore, che venga finalmente e sicuramente restituito. Ma la notizia si deve accogliere anche freddamente. Che cosa vuol dire quell’avverbio che segue la legittima e sacrosanta soddisfazione?
Vuol dire che questa notizia deve essere accolta con la mente lucida e con la freddezza necessaria per evitare di buttare questa notizia in politica. Il rischio di buttarla in politica esiste, è grande e qualcuno lo sta già facendo. Intendiamoci: è chiaro ed è evidente l’interesse di una certa parte politica ad utilizzare notizie del genere per screditare e delegittimare la parte politica avversa e opposta. Il problema è che su questo interesse ci si può costruire benissimo sopra una narrazione fantastica e folle che tende a vedere i dirigenti della parte politica avversa come degli amici di Battisti, dei terroristi rossi in generale e dei “compagni che sbagliavano” degli anni di piombo nostrani. Questo è falso ed è sconsiderato perché l’unico lascito realmente certo e positivo che le ultime elezioni politiche italiane hanno portato è stato quello di cambiare anagraficamente la classe politica italiana, sostituendo una generazione che aveva dei legami, prettamente anagrafici, storici e politici con gli anni di piombo, con un’altra generazione che questi legami, a partire dal mero dato anagrafico, non può averli e non li ha né li può avere né come tradizione storica e nemmeno come agire politico.
Pertanto a chi cavalca la tigre, per interesse politico, del risentimento contro Battisti allargando questo risentimento per volgerlo alla criminalizzazione e alla delegittimazione della parte politica avversa ci apprestiamo a rivolgere questo accorato appello: lasciamo gli anni di piombo alla storia. Voi e noi apparteniamo ad un’altra generazione dobbiamo confrontarci, anche aspramente se occorre, essendo tali confronti il sale della democrazia, ma su tutt’altri temi rispetto a Battisti, i terroristi rossi, neri o di stato. Gli anni di piombo dobbiamo affidarli alla storia.
Una brutta e sanguinosa storia che proprio se ci lasceremo alle spalle e non faremo in modo che inquini il nostro presente possiamo augurarci ed auspicare che non torni più. Mai più.

Notti magiche (2018) di Paolo Virzì a cura di Gordiano Lupi



Notti magiche (2018)
di Paolo Virzì

Notti magiche è ambientato a Roma durante il Campionato del Mondo del 1990, ma è solo la cornice che lega i singoli eventi, perché il 3 luglio si verifica un omicidio spettacolare, proprio mentre Serena sta sbagliando il calcio di rigore contro l’Argentina che porterà l’Italia fuori dalla finale. Un produttore cinematografico in bolletta precipita con la sua auto nel Tevere, i sospettati sono tre giovani finalisti al Premio Salinas (Antonino, Luciano ed Eugenia) che hanno stretto un rapporto di amicizia e vivono insieme a casa della ragazza. La storia viene narrata per lunghi flashback, in caserma, con il capitano dei carabinieri che indaga e fa raccontare ai tre giovani come hanno conosciuto il produttore e quali sono state le vicissitudini dei giorni precedenti l’omicidio. Fermiamoci con la trama, perché - anche se non si tratta di un giallo - Virzì usa lo strumento del cinema di genere per dire altro ed esiste comunque un finale a sorpresa, perché l’omicida si scopre durante l’ultima sequenza. Ma non è certo questo lo scopo principale perseguito da Virzì, Piccolo e Archibugi, quanto ricostruire e raccontare, sullo scenario di una Roma anni Novanta (ben ricostruita), la decadenza del cinema italiano. Vengono messi alla berlina i vecchi protagonisti di una scuola ormai alla frutta, alcuni si riconoscono alla perfezione (Fellini, Antonioni, Cecchi d’Amico, Scarpelli …), altri si possono solo immaginare (Cecchi Gori), altri ancora sono di pura fantasia (il cascatore dei poliziotteschi). I tre sceneggiatori sono il nuovo che avanza, sfruttati come negri dai vecchi autori ormai privi di idee, capaci soltanto di litigare in osteria e di tenersi strette ragazzine di cui sono invaghiti, ma vengono stritolati da un sistema che divora i propri figli. Virzì, Archibugi e Piccolo si tolgono diversi sassolini dalle scarpe e lanciano un atto di accusa nei confronti del cinema italiano, puntando l’indice su un sistema che è stato incapace di rinnovarsi. A un certo punto vediamo persino il set di un film simbolo di questa crisi, come La voce della luna di Federico Fellini, con la battuta finale pronunciata da Benigni: “Se tutti facessimo un po’ di silenzio forse potremmo capire”. Notti magiche è la cronaca di un fallimento, simboleggiata da un’auto che cade nel Tevere durante la partita persa dall’Italia con l’Argentina, trascinandosi con sé un cinema italiano bollito e sorpassato, incapace di rinnovarsi, dopo anni magici costellati di grandi pellicole alte e di buoni successi commerciali bassi. Attori interessanti, soprattutto i tre giovani - Lamantia, Toscano e Vetere - diretti molto bene da Virzì e capaci, con una recitazione sopra le righe, di dare corpo al tono grottesco della pellicola. Opportune le presenze di Andrea Roncato (lo sceneggiatore alla fame) e Giancarlo Giannini (il produttore alla canna del gas con la ninfetta al seguito), un po’ meno Ornella Muti nella parte di se stessa, perché si nota che gli anni sono passati. Un cast ben nutrito mette in campo anche Scarpati come padre cinico e potente, Sassanelli (capitano dei carabinieri), Marchini (moglie del produttore) e soprattutto un espressivo Herlitzka (cinico vecchio sceneggiatore) che contribuiscono a dare forma a un film corale, come tradizione del cinema di Virzì. Buona fotografia e musiche convincenti, così come il montaggio è rapido ed essenziale. Notti magiche non è il miglior film di Virzì, lo diciamo da ammiratori e appassionati di un cinema che seguiamo sin dai tempi de La bella vita. Abbiamo apprezzato anche in questa pellicola l’attenzione sociale al problema degli operai di Piombino che rischiano il posto di lavoro e la poesia di tutta la decadenza industriale di alcune sequenze girate in bianco e nero all’interno del vecchio stabilimento. Ci sono piaciuti meno sia il tono grottesco ed eccessivo di gran parte del film, come la sequela di personaggi negativi che sfila sul palcoscenico, per finire con le vicissitudini eccessive dei protagonisti. Abbiamo notato difetti di sceneggiatura e troppi personaggi stereotipati che ai tempi della collaborazione con Francesco Bruni non esistevano oltre ad alcune sequenze imbarazzanti (la festa in discoteca) che fanno pensare a una perniciosa influenza di registi come Sorrentino che poco si adattano allo stile semplice e diretto di Virzì. Notti magiche resta un film interessante, da vedere e meditare, perché nascoste da molta sovrastruttura retorica si possono scoprire vere e proprie perle di poesia popolare che in Virzì non possono mancare.

Regia: Paolo Virzì. Soggetto: Paolo Virzì. Sceneggiatura: Paolo Virzì, Francesco Piccolo, Francesca Archibugi. Fotografia: Vladan Radovic. Montaggio: Jacopo Quadri. Scenografia: Tonino Zera. Costumi: Catia Dottori. Produttore: Marco Belardi, Ivan Fiorini. Distribuzione: 01 Distribution. Musiche: Carlo Virzì. Genere: Commedia. Interpreti: Mauro Lamantia, Giovanni Toscano, Irene Vetere, Roberto Herlitzka, Giancarlo Giannini, Ornella Muti, Annalisa Arena, Giulio Scarpati, Marina Rocco, Giulio Berruti, Paolo Sassanelli, Paolo Bonacelli, Jalil Lespert, Eliana Miglio, Andrea Roncato, Simona Marchini, Eugenio Marinelli, Ludovica Modugno.

Mai dire mai: ergastolo per nessuno a cura di Carmelo Musumeci


Mai dire mai: ergastolo per nessuno

La giustizia non è fatta dal “… ti punisco”, è fatta dal “ti riporto insieme con noi…”.
(Agnese Moro)

Premetto che non c'è prezzo, né pena, e mai ce ne potrà essere, che possa ripagare i parenti delle vittime di un reato, non a caso alcuni filosofi dicono che la migliore vendetta è il perdono. Sono fortemente convinto che uno dei maggiori valori dell'umanità sia il perdono.
Infatti, che soddisfazione potrà mia avere una persona a cui hanno ucciso il padre in una rapina, sapere che il suo assassino deve stare chiuso in una cella 20, 30 anni o per sempre?
Questa non è giustizia, è solo vendetta e la vendetta lascia solo uno strano sapore amaro in bocca.
E questo lo dico per esperienza.
La migliore vendetta per un figlio a cui hanno ucciso il padre sarebbe pretendere che la società o lo Stato cambi, migliori ed inserisca nella società, la persona che ha sbagliato.
Sì, è vero, la mia è utopia, ma l'utopia è il motore del mondo. Cent'anni fa andare sulla luna era un'utopia, io ora sono convinto che il carcere non sia necessario: il carcere non è la medicina, il carcere è il male e pure il carcere migliore è sempre un luogo di ingiustizia e sofferenza.
È improbabile che le persone diventino buone chiuse in una gabbia.
La certezza della pena potrebbe essere anche di fare scontare la pena fuori dal carcere.
La società non è più tutelata se si mettono fuori le persone a fine pena, perché il carcere, nella maggioranza dei casi, crea dei mostri o degli emarginati.
Una società è giusta se, prima di pretendere che non ci siano reati, pretende che non ci siano luoghi di sofferenza e d'ingiustizia.
Io credo che l'inferno non sia un luogo giusto, né di qua, né nell'aldilà, per questo penso che Dio all’inferno non ci mandi nessuno.
Penso che se qualcuno desidera che una persona stia dentro tutta la vita il suo desiderio di giustizia si trasforma in vendetta.
La pena per essere giusta deve pensare al futuro e non al passato, l'ergastolo invece guarda sempre indietro e mai avanti. La pena per essere capita, compresa ed accettata deve avere una fine, una pena che non finisce mai non può essere capita, compresa ed accettata. Credo che neppure Abele avrebbe voluto l'ergastolo per Caino, altrimenti Abele sarebbe diventato come Caino, come sta accadendo in questo periodo, che i “buoni” stanno diventando peggio dei cattivi e la cosa più brutta è che lo stanno diventando in nome della giustizia.

Carmelo Musumeci
Gennaio 2019


IL “PASO”, CAMPIONE DEL MOTOCICLISMO ITALICO a cura di Vincenzo Capodiferro


IL “PASO”, CAMPIONE DEL MOTOCICLISMO ITALICO
Eroe morto sul campo di Monza nel 1973

Leggiamo insieme la testimonianza del nipote di Renzo Pasolini, Mattia, perché è veramente toccante: «Renzo cominciò le prime esperienze con la moto da cross con suo padre come manager, ma i due non andavano molto d’accordo, essendo due piloti e padre e figlio, e mio nonno finì per “licenziare” suo padre … Mio nonno nacque nel 1938 ed il suo modo di correre entusiasmò le sue folle per la sua guida istintiva nelle curve; Renzo corse per molte case costruttrici famose nel mondo, come l’Harley-Davinson, l’Aermacchi e la Benelli. Nel 1967, dopo aver vinto molti GP nel campionato italiano e mondiale la Benelli gli affidò la nuovissima 500 quattro cilindri con la quale Renzo poté combattere con i migliori, vale a dire con Giacomo Agostini e … Mike Hailwood … L’anno successivo colleziona moltissimi secondi posti e riesce a conquistare il titolo italiano nella 250 e nella 350. Nel 1971 il nonno firmò un contratto con l’Aermacchi Harley-Davinson … solo che nel 1972 arrivarono nuovi piloti di talento … Nel 1973, il 20 maggio cambiò tutto: all’autodromo di Monza, posta che ho sempre odiato per quello che è successo, si stava per svolgere la gara delle 250 … mio nonno venne sbattuto sulle barriere della pista che al tempo erano coperte soltanto da delle balle di paglia … La moto di Renzo torna in pista causando la caduta di ben otto piloto e tra cui Jarno Saarinen, rialzatosi, viene investito da altri piloti, mentre il corpo esanime di mio nonno giaceva a bordo pista, lì, da solo, senza nessuno … lui amava la sua famiglia, amava stare con i suoi figli Stefano, Renzo e Sabrina … Ricordo di aver visto un’intervista … un video trasmesso … su Rai Tre…: «Ma lei, Paso, ha paura della morte?» e lui ribatté: «È un peccato quando un pilota muore, si perdono molti amici in questo sport! Comunque io non mi faccio intimidire da queste cose, se lo facessi non andrei più avanti e sono convinto che quando si deve morire si muore!»». Veramente un eroe! Sulla vita del Paso segnaliamo questa ricchissima biografia: “Il Paso. Renzo Pasolini. Re senza corona”, edito da Minerva, Bologna 2018 e scritto da Arturo Rizzoli, il quale condivide con il Paso «una passione per le moto che viene da lontano e …, inizia a scrivere di moto a 18 anni per il quotidiano “Stadio – Corriere dello Sport”». Ricordiamo naturalmente anche la datata biografia di Gianni Bezzi, “Renzo Pasolini”, delle Edizioni Mediterranee, Roma 1975. Il soggetto è sempre lui! Renzo Paolini! Romagnolo autentico trasferito a Varese! «Ma cosa ci fa un ragazzo come Renzo, romagnolo puro sangue di Rimini, sulle rive del lago di Varese? Alla base di tutto c’è la passione per le moto e la meccanica in generale del papà di Renzo, Massimo …». Ma Renzo Pasolini, chi era costui? Con manzoniana memoria sintetizziamo, con le parole del Rizzoli: «Renzo Pasolini è passato alla storia come il grande rivale di Giacomo Agostini e per gli epici duelli affrontati con mezzi inferiori scatenando emozioni e passioni nelle folle, divise in dualismo che ricordava quello tra Coppi e Bartali». E sempre con manzoniane sentenze ci chiediamo. Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza. Per noi è fuori dubbio: fu verissima gloria! Renzo Pasolini è stato un campione, però poco riconosciuto e lo sottolinea anche il Rizzoli nel sottotitolo: “Re senza corona”. Muore troppo giovane … perché? “Muor giovane colui che al cielo è caro”. Gli eroi muoiono giovani perché gli Dei sono invidiosi delle loro opere. Foscolo l’aveva capito benissimo: la poesia, cioè la creatività, in qualsiasi forma essa si manifesti, è eternatrice, rende eterni come gli Dei. Rileggiamo anche brevemente il punctum mortis, riportato dal Rizzoli nella sua preziosa biografia: «Alle 15.17 del 20 maggio 1973, al Curvone di Monza il motociclismo vive una delle sue pagine più nere. Perdono la vita Pasolini e Saarinen. Ma quello che succede prima e dopo il tremendo incidente è un insieme di fatti e circostanze che le competizioni delle moto non devono più vivere. E così sarà. Per questo motivo fin da subito si disse: a Monza è finita un’epoca, queste parole furono l’attacco del resoconto di Monza su “La Gazzetta dello Sport” di una grande firma come Pino Allievi». Come questo punto viene ricordato, anche dal nipote Mattia! È la morte che rende l’uomo eterno, la morte eroica lo rende eroe. La morte paradossalmente, il supremo sacrificio della vita rende compiuto l’ultimo senso dell’esistenza, in una parentesi heideggeriana: l’essere per la morte! Ecco perché Renzo non aveva paura di questa “ignota visitatrice”. Si legge nella biografia succitata un alone di pessimismo, che scorre nei vari titoli: L’illusione, la delusione, la tragedia … La sfortuna ci vede benissimo … Gioie? Poche. Dolori? Tanti! Beffato da un doppio infortunio … Eh! Sì! La vita è tragedia! Ce lo hanno ripetuto tanti: Schopenhauer, Nietzsche … Non è commedia! Sono poche le storie che finiscono in … e vissero felici e contenti. Gli eroi sono coronati di gloria, ma la gloria è frutto del dolore, di una corona spesso di spine. Così abbiamo ricordato la vita di questo eroe contemporaneo, grandioso, eccelso. Ma pure è soprattutto il dolore dà senso alla vita. Non v’è rosa senza spine. È così. Possiamo almeno esprimere un senso di profondo riconoscimento e di gratitudine verso quest’uomo che in altri tempi ha dato onore all’Italia con le sue passioni e le sue vittorie.

Vincenzo Capodiferro

08 gennaio 2019

Parliamone... di Miriam Ballerini


PARLIAMONE...

Le esperienze personali, soprattutto quelle dolorose, se restano a girarci dentro, lì rimarranno senza riuscire a trovare una via d'uscita, corrodendoci col loro acido.
Per questo voglio condividere con voi quanto mi è accaduto, quantomeno per riuscire a trovarvi un senso.
Su facebook, ebbene sì, il calderone delle meschinità; ero “amica” di una persona. Entrambi seguiamo il fan club dello stesso cantante.
Ieri questo tizio ha postato una vignetta dallo stampo xenofobo. Parlava di varie tragedie italiane e di quelli che si preoccupano dei migranti in mare. Il solito discorso razziale del “noi” e del “loro”, che già preclude una bella porta in faccia all'umanità.
Mi sono permessa di scrivere se, per lui, fosse meglio lasciarli morire. Da qui a scatenarsi la bagarre il passo è stato breve.
“Prima gli italiani”, “E' finita la pacchia”, “Presto faremo una rivoluzione”...
Perdonatemi, nemmeno io sono laureata, ma ritengo doveroso informarsi, capire, pensare con la propria testa.
Quando mi trovo di fronte a persone che non hanno la benché minima idea di quanto vanno dicendo, delle conseguenze sociologiche e personali che riguardano la coscienza e tante altre implicazioni; semplicemente preferisco evitare inutili polemiche.
È inutile un qualsivoglia approccio, ripetono come pappagalli slogan presi in prestito.
Mi sono cancellata e sono tornata alla mia vita.
Il bello è iniziato proprio qui: l'utente della pagina ha iniziato a insultarmi e a darmi dell'incivile perché avevo osato cancellarlo dagli “amici”.
Non sapevo avessimo firmato un contratto a vita!
Rispondo che, semplicemente, questi discorsi mi fanno male e, visto che credo siamo ancora in democrazia, di potermene andare quando voglio.
Partono insulti a raffica. La più raffinata è che non ho argomenti. La cosa mi fa sorridere, dire ciò a una scrittrice, perdipiù di tematiche sociali rasenta come minimo la brutta figura.
La più assurda, che io guadagno 45 euro per ogni migrante. E questa, oltre che una falsità abnorme, credo sia anche passibile di denuncia.
Questo è il popolo del “prima gli italiani”. Ma solo se questi italiani scendono al loro livello, altrimenti diventano il nemico da abbattere, da annientare.
Insultano storici, filosofi, religiosi, sociologi, scrittori... tutti coloro che possano dimostrare loro cosa sia una coscienza sociale e umana.
Viva l'ignoranza e la fossa piena di fango nella quale sguazzare. Sporchi di melma se la ridono felici di aver sconfitto il loro nemico.

© Miriam Ballerini

04 gennaio 2019

NIETZSCHE: IL BUCO NERO DEL PENSIERO di Angelo Ivan Leone


IETZSCHE: IL BUCO NERO DEL PENSIERO



NIETZSCHE: IL BUCO NERO DEL PENSIERO 

“NIETZSCHE CREDE DI AVER RISOLTO IL PROBLEMA FONDAMENTALE DELL’UOMO, DIMOSTRANDO CHE IL MONDO NON HA UNO SCOPO”. A LUI SI ISPIRÒ ADOLF HITLER

Nel 1889, l’anno in cui Frederick Nietzsche impazzì definitivamente, Adolf Hitler nacque e nocque, come avrebbe scritto l’immortale Ennio Flaiano. Se le date sono importanti, questa data del 1889, rappresenta certamente una di quelle fondamentali verso il processo inarrestabile alla decadenza umana e la follia, sul cui baratro, spesso abbiamo idea di ballare. Fu durante il suo soggiorno a Torino, il 3 gennaio del 1889, che l’immane e diabolico pensatore fu colto da un attacco di follia e perse definitivamente la lucidità mentale.
Nel decennio precedente questo uomo aveva composto le sue opere principali: Aurora(1881), La Gaia Scienza (1882), Così parlò Zarathustra (1883-1885), Al di là del bene e del male (1886), Genealogia della morale (1887) e del suo ultimo anno di lucidità 1888 sono: Il caso Wagner e Il Crepuscolo degli idoli. Infine postumi verranno pubblicati: L’AnticristoEcce homo e Nietzsche contra Wagner. Quando questo titano del pensiero umano muore Gabriele D’annunzio, altro pazzoide visionario, compone in sua memoria un poema dal titolo In morte di un distruttore e le opere di Nietzsche verranno, in seguito, tradotte in tutte le lingue del mondo, diventando un successo editoriale senza pari, facendo divenire quest’uomo l’autore di riferimento di pensatori e scrittori del calibro di Thomas Mann tanto per fare un altro nome immane.
Ma cosa aveva pensato, detto e, soprattutto, scritto questo essere umano per divenire tanto importante e tanto immane, per tutta la storia del mondo successiva alla sua morte, avvenuta nel 1900? Proprio lui che in vita aveva condotto un’esistenza da reietto. Una sorta di paria rifiutato dalla società per la sempre più evidente e crescente pazzia che lo costrinse nelle mani della madre e, infine, della sorella che egli detestava per via anche del fatto che si considerava un discendente di puro sangue polacco e odiava, udite, udite, il sangue tedesco della sua famiglia da parte femminile. Nietzsche nelle sue opere titaniche e mefistofeliche aveva scritto null’altro che la perdita del senso dell’uomo nella storia andando a rappresentare in questo modo la nascita della destra in seno al pensiero contemporaneo. La svolta a destra diede ergo l’illusione di riempire quel vuoto creato con l’assassinio di Dio che il folle pensatore aveva creato. Si andò, da allora in poi, verso l’ignoto. Egli si identificò con il padre un pastore protestante, un uomo di Dio, mentre lui predicò la morte di Dio e scrisse un libro intitolato l’Anticristo.
Quando impazzì scrisse di essere, in ecce homo contemporaneamente Dionisio e il Crocifisso e questa innata e intima contraddizione unita alla tensione sempre presente si ritrova in tutte le sue opere titaniche. Nietzsche è un continuo aforisma, infatti, del sentirsi debole ed esaltare la forza, sentirsi pessimista ed esaltare l’ottimismo, essere disperato e cercare di dare speranza. Nietzsche afferma “che non ci sono fatti, solo interpretazioni” pertanto, dopo aver ammazzato Dio, ammazza anche la Storia cui nega la veridicità assoluta che si ha quando si parla dei fatti e non delle opinioni e delle interpretazioni che si fanno sui fatti, negando ad essa, appunto, la base logica dei fatti sulla quale poggia il sapere storico: essere l’interpretazione dei fatti. Ma partendo dai fatti medesimi.
L’incontro con Wagner segnerà per sempre la sua vita e, da allora, egli scriverà attorno ai temi della nascita della tragedia e dell’eterno ritorno all’uguale che cancelleranno l’immagine perfetta e, per lui, falsa del mito della tragedia greca e andranno con il tema del ritorno all’uguale a cancellare anche la nozione di una Storia quale marcia verso il progresso umano. Nietzsche crede di aver risolto il problema fondamentale dell’uomo, dimostrando che il mondo non ha uno scopo. Egli chiama questo fenomeno, non a caso, la morte di Dio. Questo concetto darà la stura e la nascita al nichilismo.
Nietzsche dice “Dio è morto perché noi lo abbiamo ucciso: siamo stati noi uomini con la nostra intelligenza, scienza, sapere a far morire Dio” che non muore, quindi, come cantava Guccini solo nei campi di concentramento che di Nietzsche sono i figli diretti e dilettissimi, ma inizia a morire nelle università. Nietzsche, infatti, dopo aver fatto morire Dio, cavalca la tigre della distruzione e preannuncia la guerra, anzi il trionfo della guerra, da dove nascerà il suo superuomo tanto decantato nella fase propositiva e non più distruttiva della tematica della sua filosofia. Sentiamolo con le sue stesse parole: “Voi uomini superiori, imparate questo da me, sul mercato nessuno crede a uomini superiori. E, se volete parlare lì, sia pure! Ma la plebe dirà ammiccando: Noi siamo tutti uguali!”. Così Nietzsche uccide il mito dell’uguaglianza e ci precipita nel baratro. In quel buco nero della storia del mondo come lo chiamerà Pezzetti che sarà il Nazismo, Sobibor, la soluzione finale e l’Olocausto.
Questa immane tragedia che Nietzsche aveva profetizzato dicendo “Conosco la mia sorte. Al mio nome si legherà un giorno il ricordo di qualcosa di immenso” nei suoi frammenti postumi e dicendo chiaramente “Io porto la guerra” e specificando “Non la guerra tra popolo e popolo […] non tra ceto e ceto […] Io porto una guerra che attraversa tutti questi casi assurdi come popolo, ceto, razza, professione, educazione, istruzione: una guerra come tra l’ascesa e il declino, tra volontà di vita e sete di vendetta contro la vita, tra probità e perfida bugiarderia…” e la cui opera centrale, “La volontà di potenza”, sembra proprio descrivere gli aberranti sogni folli hitleriani. Questo avviene perché Nietzsche creando il super uomo crea necessariamente quelli che saranno i sotto uomini, sui quali e dei quali, la svastica farà strame e strage.
In una vita che non ha più senso, senza morale e, soprattutto, senza finalità, ma semplicemente come il dispiegarsi di una potenza, avviene la metamorfosi del mostro nazista sulle parole di Nietzsche, sulla sua teoria e sulle note di Wagner. Questa assenza di moralità, di senso e di valori, si ripercorre dai tempi passati del Nazismo e del Fascismo a quelli odierni dell’ipercapitalismo attuale, dove un Renzi può dire non è più tempo per il posto fisso, negando, parte del senso della vita, che costituisce il lavoro per ciascun uomo, nell’assordante e ignavo silenzio di un popolo stanco e depresso.
E ancora in questo vuoto, quindi, ecco riapparire la mancanza di senso data alla vita profetizzata dal mefistofelico tedesco Nietzsche. Siamo soli. Senza avere nemmeno più un Marx o un Feuerbach che additino il senso del domani, del sol dell’avvenir, quel senso dato alla vita, finalmente restituita agli uomini. Non il paradiso in terra, ma la terra in terra, ecco cosa era nei loro sogni il comunismo che ha potuto far dire a un uomo come Giacomo Matteotti di fronte alla canaglia fascista: “Ucciderete me, ma l’idea (il senso) che c’è in me, non la ucciderete mai”.

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano Addio al “Patto di stu...