La pena liquida a cura di Daniel Monni
LA PENA LIQUIDA
“una pietra riceve una certa quantità di movimento da una causa esterna
che la spinge, per la quale, cessato l’impulso della causa esterna, continua
necessariamente a esser mossa. Dunque questo permanere della pietra nel
movimento è coatto, non perché necessario, ma perché deve essere definito
dall’impulso di una causa esterna. E ciò che si dice qui della pietra deve
intendersi di qualunque cosa particolare. Poniamo ora, se vogliamo, che la
pietra, mentre continua a muoversi, pensi e sappia di sforzarsi, per quanto può,
di persistere nel movimento. Questa pietra, certamente, in quanto è consapevole
unicamente del suo conato al quale non è affatto indifferente, crederà di essere
liberissima e di non persistere nel movimento per nessun’altra causa se non
perché lo vuole”
-SPINOZA B., Tutte le opere, Milano, 2010, pagine 2111-2113-
La “recente” teoria della modernità liquida, ipotizzata dal
Bauman, prende le mosse dalla seguente riflessione: “I liquidi, a differenza
dei corpi solidi, non mantengono di norma una forma propria. I fluidi, per così
dire, non fissano lo spazio e non legano il tempo. Laddove i corpi solidi hanno
dimensioni spaziali ben definite ma neutralizzano l’impatto -e dunque riducono
il significato- del tempo (resistono con efficacia al suo scorrere o lo rendono
irrilevante), i fluidi non conservano mai a lungo la propria forma e sono sempre
pronti (e inclini) a cambiarla; cosicché ciò che conta per essi è il flusso
temporale più che lo spazio che si trovano a occupare e che in pratica occupano
solo per un momento. In un certo senso i corpi solidi annullano il tempo,
laddove, al contrario, il tempo è per i liquidi l’elemento più
importante1 ”. Tale weltanschauung ci consente, molto
probabilmente, di affrontare -mutatis mutandis- anche il problema della
pena e, più precisamente, di quella carceraria.
Il carcere, in particolare, sembra essere divenuto -a partire
dall’epoca illuminista- il corpo solido più definito nelle forme: un deus ex
machina caratterizzato da un’elevata dimensione spaziale ed in grado,
soprattutto, di annullare il tempo. È proprio l’annullamento del tempo del
condannato la caratteristica che potrebbe indurci -forse più delle altre- a
credere che la pena carceraria, soprattutto allorquando si veste della
perpetuità, “non ha nessuna funzione, è la vendetta dei forti, dei
vincitori, della moltitudine […] è il male che rende innocente chi lo
sconta2 ”. Sono le caratteristiche della pena detentiva,
d’altronde, che la conducono a vivere nel paradosso: se è vero, ed è vero, che
il carcere “nasce” come la risposta del diritto penale lo è, altrettanto,
la circostanza secondo la quale tale pena sembra “morire” nella rinnovata(?)
veste di problema del diritto penale. Se non è certamente raro leggere in
una sentenza della Corte Costituzionale che la “difesa sociale [è un]
interesse di rilievo costituzionale sotteso alla necessaria esecuzione della
pena3 ”, infatti, non lo è, parimenti, leggere che benché
“nei media, nella società e nella sfera politica c’è chi continua a credere
che il carcere possa riabilitare [tale pena, in realtà] di fronte
all’opinione pubblica porta il peso di un segreto, il segreto del suo
fiasco4 ”.
Il carcere palesa quotidianamente i propri limiti e
cionnonostante sembra legittimare la propria esistenza su postulati propri a
quella “necessità del male” tanto cara a Schelling, secondo il quale è il male
lo strumento attraverso il quale può rivelarsi il bene. Il bene, in questo caso,
è la rieducazione del condannato enunciata dall’art. 27 della Costituzione: un
principio che pare, francamente, diametralmente opposto alle finalità perseguite
(coscientemente o meno) dal carcere. Che il carcere debba esistere unicamente
per rivelarci il principio rieducativo?
Fuori dalla metafora si potrebbe dire che la rieducazione, oggi
più che mai, sembra essere uno dei grandi progetti dell’età moderna che, suo
malgrado, subisce la sferzante “temperie culturale postmoderna [la
quale] si connota per l’abbandono dei grandi progetti dell’uomo, elaborati a
partire dalla stagione illuministica5 ”. Si potrebbe dire che
leggere parole come “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”
appare, oggi, più il frutto delle letture serali dell’uomo dabbene che non della
carta costituzionale. Il problema della pena carceraria, tuttavia, non può e non
deve essere ri(con)dotto alle elucubrazioni, più o meno dotte, di singoli
intellettuali poiché permea di sé la società tout court e non solo,
come alcuni vorrebbero far credere, la sua parte “peggiore”.
Il carcere, si potrebbe dire, diviene un problema nel momento in
cui è concepito come una soluzione: per alcuni, infatti, cessa di essere il
problema del diritto penale allorquando si palesa come “la” risposta (più o meno
efficiente) alla pericolosità sociale. Non è un caso, a modestissimo parere di
chi scrive, che tutti gli strumenti predisposti dall’ordinamento con il
dichiarato scopo di rieducare i condannati (si pensi alla concessione dei
benefici penitenziari) siano, di volta in volta, sacrificati sulla base di
valutazioni ispirate, direttamente od indirettamente, al concetto di
pericolosità sociale, in spregio all’equazione cardine dell’ordinamento
penitenziario: “trattamento=rieducazione6 ”.
La deriva securitaria della modernità, in sostanza, consegna al
diritto penale concetti altri ed ulteriori rispetto alla rieducazione quale,
in primis, la pericolosità sociale. Tale concetto finisce col rendere
“liquida” la pena carceraria poiché, anziché renderla definita nello spazio e
nel tempo, la plasma della propria fluidità e la rende capace, per tale fatto,
di lambire qualsivoglia soggetto ritenuto socialmente pericoloso: il carcere,
attraverso la pericolosità sociale, diviene, in nuce, la panacea di
ogni male.
Cos’è, d’altronde, la pericolosità sociale? La tipizzazione di
tale concetto ci indica che è socialmente pericoloso il soggetto che ha commesso
un fatto preveduto dalla legge come reato “quando è probabile che commetta
nuovi fatti preveduti dalla legge come reati7 ”. Il giudizio di
pericolosità sociale, inoltre, si effettua sulla scorta dei parametri valutativi
di cui all’art. 133 c.p. e tiene, dunque, conto della gravità del reato,
della capacità a delinquere del reo e (guardando al passato) della
recidiva. Al di là della lettura di saggi lombrosiani, a modestissimo
parere di chi scrive, è alquanto arduo accertare giudizialmente la propensione a
delinquere di un soggetto: impossibile fermare con durevoli tratti l’evanescenza
dell’animo umano. Se diviene, dunque, quasi impossibile calcolare giudizialmente
la possibilità che un soggetto commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come
reato il giudicante, molto probabilmente, fonderà il proprio accertamento su
elementi altri ed ulteriori come la gravità del reato commesso e la recidiva:
guarderà, dunque, più alle azioni passate che a quelle future. Tale valutazione
è, in sostanza, contraria alla volontà dei costituenti di rieducare il reo
poiché, molto probabilmente, la pena rieducativa dovrebbe guardare le azioni
future del condannato anziché quelle passate.
La tipizzazione della pericolosità sociale, non a caso, si rileva
nell’art. 203 del c.p. ed attiene alle misure di sicurezza. Le misure di
sicurezza e le pene, come noto, danno vita al c.d. doppio binario. Nel momento
in cui, tuttavia, le pene cessano di legittimarsi come strumenti rieducativi e,
casomai, si propongono come risposta alla pericolosità sociale i due binari
(delle misure di sicurezza e delle pene) si palesano come quelle due rette
parallele destinate a non incontrarsi mai nella finitezza per ricongiungersi,
poi, nell’infinitezza: la pena, in parole povere, finisce col rivelare la sua
novella(?) natura di misura di sicurezza, seppur larvata.
Molto probabilmente questa riflessione provocatoria -ma non
troppo- giustificherà l’inarcamento di qualche sopracciglio e, purtuttavia,
appariva doverosa. Se l’ordinamento giuridico e, in particolare, il diritto
penale continuano a porre la pericolosità sociale ad architrave della loro
stessa esistenza, la pena, non potrà non divenire una misura di sicurezza. Il
carcere, infatti, in tal caso diviene liquido e si erige a risposta ed a
soluzione a qualsivoglia male della società sana, ed invade ed occupa ogni
spazio lasciato libero dalle pene cadute, ormai, nel disuso e nell’oblio.
L’eclissarsi del pluralismo penale coincide con la (ri)scoperta
del carcerocentrismo moderno e ci consegna un diritto penale liquido che nel
vestire le misure di sicurezza da pene ci lascia un carcere tanto libero dalle
influenze esterne (quali ad esempio il consenso elettorale ed il populismo)
quanto quella “pietra” -narrata da Spinoza- dalla sua spinta originaria.
Daniel Monni
1 BAUMAN Z., Modernità liquida, Milano, 2019, pagina
XXXII
2 MUSUMECI C., L’urlo di un uomo ombra. Vita da
ergastolo ostativo, Messina, 2013, pagina 12
3 Corte Costituzionale, 12 aprile 2017, n. 76
4 MATHIESEN T., Perché il carcere?, Torino, 1996, pagina
174
5 MOCCIA S., Presentazione Convegno Nazionale Associazione
Italiana Professori di Diritto Penale, citato in Rivista Italiana di
Diritto e Procedura Penale, fascicolo III, 2018, pagina 1667
6 Relazione della IV Commissione Permanente, relatore Felisetti,
sul disegno di legge n. 2624-A del 1974
7 Art. 203 c.p.
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