26 febbraio 2008


I racconti di Versailles – 14 - di Bruna Alasia

UN DIADEMA SCOMODO
Racconto quattrordicesimo


11 giugno 1775. Il sole sorgeva su Reims quando ebbe inizio il rito sacro.
Il duca di Bouillon, gran ciambellano, sentendo bussare, alzò il mento e, impostando il tono, chiese:
- Chi venite a cercare?
- Il re – rispose il vescovo di Laon.
Nessuno si mosse, bussarono di nuovo.
- Il re dorme – disse il duca.
- Vogliamo il re – ripeté il prelato.
Nessuno aprì.
- Vogliamo Luigi XVI, che Dio ci ha dato come re! – la terza volta il vescovo gridò altisonante e le porte si spalancarono.
Seduto sul letto, pronto per l’incoronazione, apparve Luigi nell’ abito argenteo, calze e scarpe abbinate, giarrettiere al ginocchio, tocco nero con candide piume fra i diamanti, mantello foderato di ermellino, così pesante per quel giorno estivo! L’aria imbambolata, stanco del viaggio, stressato dai preparativi, aveva caldo al punto da grondare sudore. Si mosse verso la cattedrale, scortato dal seguito. Sin dall’alba la folla si era raccolta lungo il percorso, avida del magnifico corteo di prelati, guardie, alabardieri, aristocratici, gran dame, ufficiali della corona: ammirata e curiosa ma infastidita tuttavia da quel lusso spudorato.
Al passaggio delle carrozze molti invocavano a mani giunte:
- Maestà dateci il pane… -
Orribili volti emaciati, bocche sdentate!
Primi a entrare in chiesa i membri più elevati del clero e dell’aristocrazia, al braccio del Vescovo di Laon Luigi si raccolse accanto all’acquasantiera, poi prese a marciare lungo la navata centrale mentre insieme all’organo squillavano le trombe, rullavano i tamburi. Aprivano la strada il connestabile di Francia, che brandiva la spada, le autorità di corte, i principi del sangue. Il cardinale La Roche-Aymon, grato a Dio per avergli fatto celebrare i momenti più importanti di quel secolo, ricevette il sovrano all’altare sul quale stavano disposti gli abiti regali. Ebbe luogo il rito dell’acqua benedetta, fu intonato il Veni creator. Emozionato e confuso, Luigi giurò solennemente di mantenere la pace nella chiesa e, più flebilmente perché poco convinto, di sterminare gli eretici. La vestizione iniziò con la camicia cremisi, il gran ciambellano gli calzò stivali viola speronati, mantello celeste coi gigli di Francia. L’arcivescovo gli cinse la spada di Carlo Magno e Luigi la tenne con la punta in alto mentre il coro cantava.
Nella luce che fendeva la navata, Papillon de la Ferté, levigato intendente dei minuti piaceri, che tanto si era speso per quel grande giorno, d’un tratto si sentì meno preoccupato perché il più era stato fatto. Guardando l’ anfiteatro costruito per Maria Antonietta, i pari, il palcoscenico su cui poggiava il trono, si concedette il lusso di pensare: “Non aveva torto il duca di Croy a definirlo spettacolo d’opera, ma l’effetto è grandioso… se solo sapessi quanto costa, abbiamo superato il preventivo…” si grattò la parrucca. “ Turgot per risparmiare voleva restare a Parigi…. ”
Poi, finalmente , vide il cardinale La Roche-Aymon prendere la corona.
“Seimila luigi” calcolò Papillon sapendo che era stata fatta apposta perché quella del nonno era stretta, ma guardando il brillante concluse: “il regent è splendido”.
La Roche-Aymon tenne alto quel diadema d’ oro, rubini, smeraldi, zaffiri, per un tempo che sembrò interminabile.
Finalmente lo pose sul capo :
- Che Dio vi cinga di gloria e giustizia. Vi armi di forza e coraggio, che benedetto dalle nostre mani, pieno di fede e santità, arriviate alla corona del regno eterno”.
I presenti trattennero il fiato. Il silenzio si fece solenne.
Luigi inaspettatamente sussurrò:
- Mi da fastidio…
Il cardinale finse di non sentire. Chi udì rimase interdetto, trasalì Papillon de La Ferté. Subito si levò il coro, si formò un corteo, il re fu sollevato e posto sul trono dal quale benedisse gli astanti. Per tre volte La Roche-Aymon gridò:
- Vivat Rex in aeternum!
Le porte della cattedrale si spalancarono, la folla irruppe, gli uccellatori liberarono in cielo centinaia di colombe, si alzò il Te deum.
Papillon de la Fertè, finite le sei stressanti ore del cerimoniale, lasciò la cattedrale di Reims schiacciato nella ressa.
Provato come dopo un esame, si avviò pensando che finalmente poteva riposare:
- Contando toghe, mantelli, paramenti e parures, avremo speso un milione di luigi… ma resterà indimenticabile…
Sul piazzale sorrise.
***
Maria Antonietta non amava la sua camera da letto a Versailles, sapeva che quel sontuoso talamo era un trono, simbolo del potere di chi assicura la dinastia, desiderava ardentemente mettervi al mondo dei Delfini: sua madre lo aveva fatto con arte e lei non poteva essere da meno, ma proprio questo paragone sommato alle aspettative altrui erano un peso, solenne, inospitale, enorme come quel salone. Sapeva che lì avrebbe ricevuto da regnante le visite ufficiali e la corte, lì avrebbe misurato la propria onnipotenza e immortalità, privilegio concesso agli eletti ma, senza capirne il motivo, anche dopo l’incoronazione, aveva continuato a preferire i “piccoli appartamenti”, ai quali accedeva attraverso porte nascoste dietro le tende dell’ alcova d’apparato. Sotto Luigi XIV e XV i piccoli appartamenti, in una costruzione a tre piani che si affacciava su un cortile buio, erano stati vani di servizio: le loro stanze minuscole, non più spaziose di quelle dove oggi vive la classe media, si prestavano all’intimità e sfuggivano all’ etichetta, cosa che Antonia adorava. Le due biblioteche, il salone dorato, soprattutto l’ ottagonale Meridiana, col suo lettuccio a specchio, le consolles, i cagnolini in lacca del Giappone inviati da Maria Teresa , le poltroncine pastello, nascondevano un regno privato.
Le undici del mattino, a uno scrittoio della Meridiana Antonietta attendeva Rose Bertin, la modista che le aveva confezionato l’abito per la cerimonia di Reims: creazione con ricami in pietre talmente pesanti che alla maestra del guardaroba, la duchessa di Cossé, per portarlo era stato consigliato un sostegno apposito e costoso.
La regina lesse la lettera da spedire:
Versailles 22 giugno 1775
Signora, mia cara madre
L’incoronazione è stata perfetta. Tutti sembravano essere felici di vedere il re.(…) Le cerimonie della chiesa sono state interrotte al momento dell’incoronazione dalle acclamazioni più toccanti. Non ho saputo trattenermi, le lacrime sono colate mio malgrado e mi è sembrato che ciò fosse apprezzato. Per tutto il tempo del viaggio ho fatto del mio meglio per rispondere ai saluti popolari benché facesse davvero caldo e la folla fosse immensa, ma non recrimino per la fatica che non mi ha turbato. E’ cosa sconvolgente e insieme felice essere ricevuti tanto bene solo due mesi dopo la rivolta e malgrado il caro prezzo del pane, che malauguratamente continua. E’ cosa prodigiosa, propria dei Francesi, lasciarsi influenzare dai cattivi consigli ma ritornare in se rapidamente. E’ certo che scoprendo gente che nella disgrazia ci tratta tanto bene, ci sentiamo ancora più obbligati a lavorare per il loro benessere. Il re mi è sembrato penetrato da questa verità. Da parte mia, so bene che non dimenticherò mai in tutta la mia vita (dovesse durare cent’anni) il giorno dell’incoronazione.

Sentendo le guardie vociare nel cortile capì che stava arrivando qualcuno, nascose i fogli. Fu annunciata la sarta che entrò, le guance fulgide di belletto, il sorriso largo e invitante. Il personale di servizio la fulminò: una plebea accedeva alle intimità della regina, non era mai successo! Scandaloso!
Rose si inchinò profondamente.
La regina, in una lunga veste da camera.
- Fate vedere i tessuti…
- Certo Maestà…. – Rose aprì un bauletto, ne trasse una seta ricamata con penne di pavone.
Maria Antonietta scosse la testa.
– Ricorda le tende del letto…
- Cosa dite mai! - continuò a frugare… - ecco qualcosa di più semplice, un blù meno vivo…
- No…
La modista tirò fuori tutto disponendolo sulle poltrone.
- Avrei voluto vedervi durante l’incoronazione… mi è spiaciuto che madame de Cossé non abbia portato l’abito sull’apposito sostegno!
- Il figlio di madame è malato – disse Maria Antonietta - dopo una vaccinazione è diventato zoppo… dovrà portarlo in certe terme della Savoia, bisognerà fare a meno della duchessa…
- Speriamo che la contessa di Artois faccia un bambino sanissimo e bellissimo! - ma, incontrato lo sguardo dell’altra, la Bertin si bloccò. Che gaffe: il parto della cognata non metteva certo sua maestà di buon umore!
***
Il 6 agosto 1775, alla presenza di tutta la corte, la contessa di Artois diede alla luce il primo nato dell’ultima generazione dei Borboni. Come per ogni evento ufficiale fin dal mattino e per tutta la giornata, incuranti del caldo, gli abitanti di Versailles e di Parigi si erano precipitati a palazzo per seguire da vicino la situazione: assiepati attorno alla camera della partoriente, a stento tenuti a bada dalle guardie, nel chiasso e nella calca, bramavano sapere. Quando corse voce che il bambino era un maschio, grosso e sanissimo, ci fu chi inneggiò e brindò al nuovo delfino. Luigi XVI assegnò al nipote il titolo di duca di Angoulême. Maria Antonietta rimase accanto alla cognata fino a sera, reprimendo disagio e umiliazione. Appena la puerpera fu riportata nel suo letto, decise anche lei di accomiatarsi. Provata, depressa e stanca, sentiva il bisogno di star sola: attraversò la sala delle guardie e raggiunse le scale ma, d’improvviso, con stupore si trovò di fronte una folla immensa. Deglutì. Avanzò cercando di darsi un tono.
Alcune pescivendole si staccarono dal gruppo:
- Maestà… quando arriva la bella notizia?
Antonietta finse di non capire.
- Un delfino non lo fate?
Si diresse verso la sua camera, le donne la seguirono.
- Il re non ce la fa? Cercate di incoraggiarlo! Che aspettate?! Gli uomini non vi piacciono?
Le risa si fecero irrefrenabili.
Antonietta affrettò il passo, tra sghignazzi e bestemmie correva, nel timore di scoppiare in singhiozzi, per infilare la porta.
- Madame Campan! – chiamò con sgomento aprendola e subito richiuse.
***
Nell’attesa di un figlio che non veniva, di un marito che non era tale, nonostante gli sforzi e la costruzione di un passaggio tra i loro appartamenti, Maria Antonietta si circondava di bambini, quelli delle dame del seguito o delle cameriere. Ricoprendoli di attenzioni viveva l’illusione di accarezzare il suo erede al trono: le piaceva coccolare i piccoli, sbaciucchiarli, affondare i polpastrelli nelle loro carni tenere, ne desiderava ardentemente uno suo perché si sarebbe riscattata.
Un giorno di fine estate, mentre attraversava in calesse Louvaciennes, cielo terso e vento delicato rendevano più facile il respiro. Ascoltava stormire gli alberi e pensava alla sua infanzia, alle distese verdi dell’impero austriaco, a sua madre. Al casale Saint Michel, sotto un passaggio ad arco, una nuvola le ricordò un cavallo nell’atto di saltare. La indicò al postiglione ma una frenata gettò tutti nello scompiglio.
- Che succede?! – Maria Antonietta balzò in piedi.
- Un bambino è finito sotto gli zoccoli...
Il cocchiere scese, lo estrasse e lo palpò attentamente. La regina si sporse e incontrando uno sguardo azzurro di quattro anni, biondissimo, viso tondo, sano e luminoso, si intenerì.
- Si è fatto male?
- Neanche un graffio maestà.
Sua nonna, uscita dalla capanna, afferrò il nipote.
- Jacques! Perché dai fastidio? Vieni via…
- Aspettate! – ordinò Maria Antonietta – questo bambino ha la madre?
- No madame, mia figlia è morta lasciandomene cinque…
Il viso della regina si fece raggiante:
- E’ il cielo che me lo ha mandato! Questo bambino è mio…
La vecchia la guardò interrogativa.
- Con me prendo questo piccolino – si infervorò la regina - e avrò cura di tutti gli altri…
- Davvero?
- Non siete d’accordo?
- Ne sono felice… – la nonna allargò un sorriso dovuto – ma Jacques è cattivo, vorrà rimanere con voi?
- Datemelo.
Maria Antonietta lo prese tra le braccia e lo fece sedere sulle sue ginocchia.
- Starà bene, state tranquilla… quando vorrete venire a trovarlo vi sarà permesso… gli altri li metteremo in collegio, cresceranno come dei gentiluomini…
- Ah, beh… - fece la vecchia a metà tra lo stupore e un sollievo misto a dolorosa incertezza - E’ un bambino molto cattivo, siete sicura?
- Sono sicura, Jacques si abituerà a me e sarà felice.
Il suo tono era perentorio, l’anziana non osò replicare.
- E’ il destino che me lo ha mandato – chiarì sua maestà – senza dubbio per consolarmi finché non avrò un bambino mio…
La nonna guardava il nipotino con apprensione, non realizzando cosa fosse capitato: supponeva un colpo di fortuna ma provava una sofferenza acuta all’idea di lasciarlo andare. La regina baciò il delizioso visetto, lui la guardava serio.
- Continuiamo la passeggiata – ordinò al cocchiere e rivolta alla contadina – vi daremo notizie…
Tuttavia appena il calesse si mosse Jacques prese a scalciare e a lanciare altissimi urli.
- Lasciami puttana, dove mi porti?! Nonna, nonna… aiutooo!
- Fai il buono…
- Va a farti fottere … - le diede un calcio in uno stinco.
- Vi siete fatta male? – gridò madame Campan che le sedeva accanto – è davvero pestifero!
- Non è nulla – rispose Maria Antonietta – ma è meglio tornare subito a casa.
Partirono al galoppo.
A palazzo la meraviglia di vedere la regina con un contadinello per mano fu grande! Quando compresero che sarebbe stato adottato, scambiarono quel capriccio per un atto di benevolenza senza tener conto di Jacques che tutta la notte urlò, pianse, chiamò sua nonna, suo fratello Luigi, sua sorella Marianna. Maria Antonietta non si intenerì, lo affidò alla moglie di un lacché perché gli facesse da bambinaia e gli mise nome Armand.
Il piccolo due giorni dopo fu ricondotto da lei. Indossava un abitino bianco con i merletti, una sciarpa rosa a frange d’argento, un cappello guarnito di piume.
- Sei bellissimo! - esclamò Maria Antonietta
Jacques non rispose.
- Adesso andiamo a colazione insieme, contento?
Il bambino avrebbe voluto rispondere di no ma lo avevano ammonito a non dispiacere sua maestà: ebbe paura e rimase zitto.
Sedettero a tavola.
- Verrai da me tutte le mattine… alle nove… pranzeremo insieme e qualche volta pranzeremo anche con il re…
Una lacrima cadde nel piatto di Jacques.
- Mangia – ordinò perentoria Maria Antonietta.
Lui ingollò un cucchiaio di minestra, sgradevole come mai era capitato dall’ amata nonna che lo nutriva di verdura appassita.
Jacques con il tempo si abituò, rimase a corte molti anni: non si sa quanti, né si conosce con esattezza il suo destino. Di sicuro Maria Antonietta all’inizio, almeno finché non ebbe figli suoi, si prodigò per lui, si interessò alla sua educazione, lo chiamava il mio bambino, lo baciava e lo stringeva al seno come faceva da piccola con il suo bambolotto preferito.

Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@alice.it

23 febbraio 2008

Il destino degli indovini


Come 'l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso,
ché da le reni era tornato 'l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché 'l veder dinanzi era lor tolto.

(Inferno XX - 10,15)
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16 febbraio 2008

Il silenzio dell'innocenza

IL SILENZIO DELL’INNOCENZA di Somaly Mam
© 2006 Casa editrice Corbaccio s.r.l. Milano Pag. 173 € 13,60

Non ero pronta a leggere quello che ho trovato in questo libro. Quando si pensa alla verità, non la si disegna mai tanto atroce quanto, poi, ci si presenta.
In questo saggio ci sono pagine che vanno al di là dell’orrore, dell’immaginario.
Nelle parole di Somaly Mam troverete ricostruite scene tremende, pagine dure, dolori inesprimibili; ma nonostante questo, vi invito caldamente a leggerlo. Perché certe verità vanno sapute. Se ne deve discutere, bisogna inorridire, passare parola; perché il silenzio, il girarsi dall’altra parte pensando che tanto non ci riguarda, non farebbe che aggiungere un punto in più a favore di persone che dall’ omertà traggono la loro forza.
Somaly Mam è cambogiana e ci narra la sua storia fatta di stupri, violenze, torture. Venduta e rivenduta come schiava del sesso, dolorosamente ne è uscita e ha fondato l’AFESIP, un’associazione non governativa a vocazione internazionale che lotta contro le cause e le conseguenze dello sfruttamento sessuale, con un’attenzione specifica verso le bambine e le adolescenti.
Perché di questo Somaly ci parla: di bambine di cinque o sei anni in su, vendute e violentate. Sfruttate fino a quando l’aids o qualche altra malattia le uccide.
Bambine cambogiane, vietnamite e tailandesi, che vivono in un mondo dove regna il silenzio sull’illecito. Dove le stesse madri, altre donne! le vendono e, una volta sverginate, le ricuciono per farle sembrare ancora pure e guadagnarci ancora.
Si parla di uomini che, lasciati liberi di fare, si permettono di tutto, di tutto. E non solo uomini del luogo, sappiamo bene che dall’Europa partono comitive di uomini per vacanze particolari.
Somaly sta portando avanti la sua battaglia nonostante le minacce di morte scagliate contro di lei e la sua famiglia.
Ringrazia Emma Bonino, la quale ha avuto una parte fondamentale negli aiuti umanitari da ministro in Europa.
Di questo stiamo parlando: “ Al centro vive una ragazza da parecchi anni. Abbiamo condotto delle ricerche per suo conto, ma si rifiuta di stare con la madre: aveva otto anni quando la vendette.
……… In seguito la costrinsero a perdere la verginità; le strofinarono la pelle e la cosparsero di crema schiarente per conferirle una carnagione più appetibile e siccome si rifiutava di sottomettersi a questi trattamenti, la picchiarono diversi giorni di seguito. Dopo essere stata riempita di botte, fu consegnata ai clienti e, una volta avvenuta la deflorazione, la ricucirono naturalmente senza anestesia e la rivendettero a un altro bordello. E così via fino all’età di dieci anni, quando la salvammo
”.
E queste le parole di Somaly: “Scrivo questo libro per due ragioni. Innanzitutto mi rivolgo alle ragazze vittime della prostituzione per dire e mostrare loro che esiste una via d’uscita, che si può venir fuori dall’incubo, porvi fine; anche se la maggior parte non sa leggere, spero che qualcuno riferirà loro la mia testimonianza. In secondo luogo vorrei far capire alle persone che non ne sono direttamente coinvolte che la prostituzione forzata distrugge le ragazze che ne restano vittime, che sono marchiate a vita, che sarà molto difficile per loro, se non impossibile, trovare un giorno la felicità nell’esistenza. Vorrei anche che questo libro fosse un appello lanciato a tutti i governi del mondo, non solo quello della Cambogia, perché s’impegnino di più nella lotta contro allo sfruttamento sessuale delle donne e dei bambini: le vittime sono vittime dappertutto”.
Per chi fosse interessato:
www.afesip.org

© Miriam Ballerini
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04 febbraio 2008

Clemente, papa da Occidente


Ma più è 'l tempo già che i piè mi cossi
e ch'i' son stato così sottosopra,
ch'el non starà piantato coi piè rossi:
ché dopo lui verrà di più laida opra
di ver' ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.
(Inferno XIX, 79-84)
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01 febbraio 2008

Il sorriso della Gioconda

di Augusto da San Buono

Un atto di venerazione
Vi è forse capitato, come è capitato a me diversi anni fa (e a tanti altri, credo), di andare a Parigi solo per vedere la Gioconda, incanalati, pressati come sardine, lungo la Grande Galerie del Louvre, nella sala VI, dietro migliaia di persone, per l’incessante quotidiano pellegrinaggio alla Regina incontrastata dell’Arte, all’opera più famosa di tutti i tempi? Allora avrete capito che non è una visita, ma un vero e proprio atto di venerazione, uno straordinario sincretismo religioso , che si realizza in nome dell’arte. Gente di tutte le latitudini, di tutte le religioni, di tutte le razze, di tutti i ceti sociali, di tutte le lingue, si ritrova là, disposta a semicerchio, nel santuario di Monna Lisa, davanti alla “reliquia” , alla silente icona di Parigi ( ironia della sorte per un’opera italianissima) dipinta da uno dei più grandi geni – forse il più grande – che l’Italia e l’umanità abbia mai avuto: Leonardo da Vinci. E tu ti ritrovi lì, a fulminare di flashes quell’oggetto misterioso , quel sorriso enigmatico, insieme ad altri affamati di mistero, in particolari ai giapponesi che fanno clic-clic ovunque, al bidè sbreccato, alla nuca del corazziere, alla coda del cavallo, alla manica del prete, all’ombra del cane sull’asfalto, alla risata, la monetina, la marmellata, al cinto ernario, immaginiamoci alla Gioconda.

Sorrido perché so di potervi far del male
Ma in realtà Monna Lisa tu non la vedi , tutt’al più la intravedi . C’è una distanza di sicurezza, c’è la vetrina blindata che racchiude l’immaginetta – fissata alla parete col cemento , protetta da due lastre di vetro antiproiettile a tripla lamina , poste a venticinque centimetri l’una dall’altra . Tu la puoi solo immaginare, la Gioconda. Alla fine te la rivedi sul depliant, o ne compri una delle tantissime orrende copie che stanno vicino alla biglietteria. E ti porti a casa quella , oppure quella presa in fotografia, ma potrebbe essere una qualsiasi magari costruita da te stesso, come hanno fatto a milioni, artisti celebri compresi ( Legér , Dalì, Duchamp, Magritte , Warhol , Botero , ecc) nell’intento di sacralizzarla, o dissacrarla. E’ una specie di wudu, Monna Lisa, che trovi dappertutto dai purganti ai preservativi. Quando fu trasferita a Tokio , nel 1974, molti giapponesi passarono la notte sui marciapiedi per avere accesso tra i primi al fanum dove li aspettava – scrive Ceronetti – “col sorriso alzato , la crudele Lisa... Circa cento milioni di giapponesi pazienti, muniti di una o più macchine fotografiche con rullo vergine, si sono messi in fila , dalle isole settentrionali dell’arcipelago al monte Fuji, per godersi dieci secondi d’immersione in quel sorriso gelato, più mercuriale del mare di Minamata... Era come far bere loro una cesellata tazzina di cicuta. Con quell’ ambiguo sorriso dipinto , sapientemente svuotato di umano, molto più simile al sorriso delle immagini visnuite e shivaite indiane che a quelle di una donna dell’Occidente , con quel sorriso che è una trappola aperta sembrava che la Gioconda dicesse:”Sorrido perché so di potervi far del male”. Ed è questa la ragione di molti sorrisi, conclude Ceronetti.

Da Napoleone a Orlan , tutte le follie in nome della Gioconda
E tuttavia chissà cosa darebbe uno , non necessariamente giapponese , per poter aprire quel tabernacolo blindato , per poter vedere da vicino quel sorriso stregato , che eccita tumulti e follìe, da Francesco I , che la acquistò, a Napoleone Bonaparte che se la portò in camera da letto, a Gautier (“sta in piedi silenziosa/ accanto ai flutti risonanti”) Baudelaire ( “Angelo sorridente/ specchio misterioso”) Valery e D’Annunzio che delirarano dinanzi alla femme fatale , ma c’è chi , da lei sedotto, addirittura la rapì , come Vincenzo Peruggia , un decoratore italiano che lavorava al Louvre , che se la portò sottobraccio uscendo dal museo. Fu un affare di Stato. Si sospettarono dapprima i tedeschi, poi Apollinaire ( che finì in prigione ) e la banda Picasso, ma anche i marinettiani, tutta gente che aveva più volte manifestato verso la Gioconda intenzioni omicide. I servizi segreti la cercarono ovunque, a Pietroburgo, in America, in Nuova Zelanda. Finchè ricomparve, consegnata agli Uffizi di Firenze, dove avrebbe dovuto stare, secondo il ladro pittore dilettante italiano, e il 31 dicembre 1913, con una folla delirante, ritornò nel suo covo, a Louvre, pronta a ricominciare, con la folla incredibile di devoti sparsi in tutto il mondo , alla teoria degli sguardi, dei sospiri e dei delirii, delle mai sopite follìe ( c’è stato , nel 1956, un boliviano , Hugo Unzaga Villegas che scagliò una sassata contro la tavola, danneggiandola all’altezza del gomito, perché non poteva resistere al suo sorriso; e l’industriale Leon Mekusa che s’innamorò perdutamente della Gioconda al punto da vendere tutte le sue imprese e farsi assumere come custode del Louvre, in modo tale di essere il primo la mattina a salutare Monna Lisa. Ma il massimo della stravaganza lo ha compiuto ,nel 1990, una donna , tale Orlan, che si è sottoposta a intervento di chirurgia plastica per assomigliare “ esattamente” alla Gioconda) . Ma la Gioconda deve subire anche delle visite tecnico-sanitarie, come se fosse una creatura in carne e ossa.

I segreti di Monna Lisa rivelati da un tecnico
Una volta l’anno , infatti, s’apre il tabernacolo di Monna Lisa, si misura la temperatura della Gioconda, se ne verifica l’integrità, si controllano le eventuali dilatazioni del supporto ligneo. Sono solo pochissimi i privilegiati che possono affermare di aver visto veramente la Gioconda, di averla annusata, odorata, toccata. La massa adorante dei visitatori si deve accontentare dell’ostensione più che della visione. “Entrano nel museo docili – diceva Bernard Berenson – al comando delle guide, corrono davanti al capolavoro, si inchinano dinanzi ad esso ed escono felici senza aver capito nulla”. E’ vero, purtroppo. Posso confermare. Ma un giorno ho avuto il raro privilegio di parlare con uno degli studiosi che hanno visto veramente la Gioconda. Non posso rivelare il suo nome, né le circostanze del nostro colloquio, ma ecco quel che mi ha detto sull’opera più celebrata del mondo, che sembrerebbe fatta di una materia particolarmente preziosa….“In realtà – mi dice Antoine (nome convenzionale, ovviamente) – si tratta di una tavoletta di pioppo alta settantasette centimetri e larga 53, che forse, in un lontano passato, è stata addirittura ridotta perché non si adattava alla cornice, oppure si dovevano rifare i bordi ammalorati. Se c’era un legno che Leonardo non usava mai era il pioppo (gli preferiva il noce, il cipresso, il sorbo, il pero e mille altri legni), ma stavolta, forse l’unica volta, lo fece. Ci passò sopra uno strato fine ma molto compatto di gesso e sopra questa preparazione stese i colori di base: blu nella zona superiore del paesaggio, rosso nella zona inferiore. La pittura a olio venne applicata per strati di velature con uso di ocre rosse e gialle , biacca e forse anche lacche. Ci lavorò un mucchio di tempo, quando ce l’aveva il tempo (praticamente mai) , ma non la finì. Non sono state completate le due colonne che incorniciavano ai lati la signora, il parapetto alle sue spalle e un punto del paesaggio a sinistra. Il ritratto risulta essere stato modificato in corso d’opera . Leonardo aveva impostato diversamente il volto , privo di velo, più smagrito nelle guance, senza i capelli che cadono in prossimità del petto e soprattutto senza sorriso.
La Gioconda senza sorriso? Ma è proprio sicuro?

Certo che sono sicuro. Aveva la bocca serrata in un’espressione seriosa, quasi amara. Sovrapponendo colore, mediante sottili e ripetute velature, il maestro cambiò i connotati della dama, e questo conferma la lunga elaborazione del quadro e la graduale trasformazione fino al punto che osserviamo oggi.
C’è qualche traccia d’antichi restauri, ma la materia pittorica della Gioconda si è perfettamente conservata, se si escludono una fenditura visibile in alto sopra il capo della donna e il piccolo danno sul gomito sinistro , provocato da una pietra lanciata contro il quadro da uno squilibrato nel 1956. C’è da dire però che l’ingiallimento delle vernici hanno alterato le tonalità originali dei colori; Se ci si fa caso, l’incarnato appare giallastro e il paesaggio è accordato su toni verdastri. Non si riesce inoltre a capire se Leonardo abbia dipinto o meno le sopracciglia. Secondo alcuni testimoni del 1600 la donna non doveva averle , secondo il Vasari invece ce l’aveva e come, e Leonardo li dipinge da par suo: “Le ciglia …i peli nella carne, dove più folti e dove più radi …non potevano essere più naturali”. E’ un enigma. Ma si è propensi a credere che maldestre puliture antiche abbiano fatto sparire quei fragilissimi particolari di natura, dipinti in punta di pennello.
Ma c’è chi, come Federico Zeri, avrebbe voluto invece ulteriormente pulire quel quadro. “Le strane atmosfere sfumate in realtà non esistono e sono dovute solo alle innumerevoli mani di vernice, e allo sporco che stanno sulla superficie del quadro… Una volta restituita al quadro la sua pelle originaria, il mistero della Gioconda si vanificherebbe”.
Naturalmente nessuno osa avventurarsi in un’operazione del genere a rischio di cancellare il famosissimo “sorriso” della Gioconda.

Ma chi è veramente la donna raffigurata?
Oggi ci sono un’infinità di supposizioni, di ipotesi, le più assurde, fantasticate , strampalate, ma secondo me bisogna rifarsi al Vasari e lui dice che si tratta di Lisa Gherardini nata a Firenze nel 1479 da una famiglia di non altissimo lignaggio, una bellissima madonna fiorentina che a diciannove anni aveva sposato il mercante e notabile fiorentino Francesco del Giocondo, già due volte vedovo, e vent’anni più anziano di lei. Nel 1502, o 1503, Del Giocondo aveva commissionato a Leonardo il ritratto della giovane moglie, ma non fece i conti con la lentezza e la mania di perfezione del maestro, che si portò con sé il ritratto quando si trasferì nel 1507 in Lombardia. Leonardo lo tenne con sé anche quando si trasferì in Francia, nel castello dsi Cloux presso Amboise, al servizio di Francesco I, e lo finì tra il 1510 e il 1513. Alla sua morte ( 2 maggio 1519) il quadro venne in possesso del suo allievo Gian Giacomo Caprotti da Oreno detto il Salaì (il diavoletto), che aveva seguito Leonardo in Francia. E il Salaì, (o i suoi eredi) lo vendette al re di Francia per ben 2604 lire tornesi, pari a 12mila franchi, allora una cifra molto considerevole.
Il Vasari aveva conosciuto la Gioconda, che visse fino all’età di sessantatre anni, e dice che Monna Lisa era bellissima, e mentre il maestro la ritraeva, c’era chi sonasse, o cantasse per lei, e buffoni che la facevano stare allegra, per levarle quel che di quel malinconico che c’è quasi sempre nei ritratti “Et in questo di Lionardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana a vederlo, et era tenuta cosa meravigliosa, per non essere vivo altrimenti".
Con buona pace di Zeri, quel sorriso (o ghigno) incantatore c’era già, ed era quello che aveva esercitato un’attrattiva irresistibile su Antonio Betis, il segretario del Cardinale d’Aragona, che si era recato a Amboise a far visita al maestro nell’ottobre del 1517, e poi ne parlò al suo padrone, e questi al re Francesco I di Francia, che volle il quadro ad ogni costo e, vedutolo, se ne invaghì follemente. Se lo portò nel suo museo personale, il castello di Fontainebleu, e lì rimase fino alla sua morte.
La Gioconda, come abbiamo accennato , è stata anche molto odiata, soprattutto da artisti e critici contemporanei. Ma c’è stata – e c’è tuttora – gente che ha trascorso un’intera vita per carpire il segreto, o i segreti della Gioconda. C’è stato chi nel quadro ha ricercato rapporti matematici, geometrie occulte, riferimenti astrologici, e c’è stato chi ha sostenuto che la Gioconda è in realtà il ritratto non di una donna, ma di un uomo, Leonardo stesso. E c’è stato chi recentemente ha ravvisato una impressionante somiglianza con l’attore americano Michael Douglas.
Una donna incinta?

Ma il segreto della Gioconda , il segreto del suo sardonico sorriso, fa parte dei misteri dell’universo, è nel volto del vecchio, come nello sguardo del bambino, nel mare, o in un tramonto . Certo siamo di fronte ad un’opera senza precedenti nel campo della ritrattistica, non solo per la forte introspezione
psicologica che il volto esprime, ma perché lo stesso Leonardo avverte l’esigenza di dare una svolta alla pittura ed esorta i pittori ad essere “universale”, come annota nei suoi appunti. Un ritratto deve risultare assolutamente diverso e innovativo rispetto a quelli impeccabili, ma senza vita, della tradizione italiana e fiamminga del quattrocento. Bisogna che i ritratti respirino, come creature vive, bisogna dare un’anima al volto che si dipinge. E lui gliela data l’anima a quel volto di Monna Lisa. Con infinite sottilissime velature le ha dato il palpito del sangue sotto la cute, le ha dato l’intensità di uno sguardo con occhi lucidi, le ha dato quel sottile gioco espressivo dei muscoli facciali che formano il sorriso. Ed anche le mani sono eloquenti veicoli di verità, come il paesaggio sullo sfondo , in una atmosfera pregna di sostanza aerea. Bisogna – dice il maestro – che il ritratto si trasfiguri in un ritratto ideale, che contenga tutti i ritratti possibili, nel quale la posa, la bellezza del soggetto, il suo armonioso inserirsi nel contesto naturale, rimandino a valori più alti, ovvero alla virtù, moralità, nobiltà, castità, amor di Dio. Forse è quella impalpabile bellezza interiore , il vero segreto della Gioconda, e il suo sorriso non è sardonico, non è ambiguo, non è un ghigno, ma l’espressione della verecondia modestia di una donna sposata, e forse anche incinta.

Libero circuito culturale, da e per l'Insubria. Scrivici a insubriacritica@gmail.com

Intervista a Gian Battista Vaghi

Como
INTERVISTA A GIAN BATTISTA VAGHI

Gian Battista Vaghi, del Circolo Cooperativa di Minoprio(CO), è il promotore di interessanti mostre di pittura e di fotografia, con la collaborazione del PubLoga e la Biblioteca di Minoprio.
L’ho incontrato una sera nel Pub, i cui gestori Gabriele Bacuzzi e Lorenzo Saladanna, hanno messo a disposizione i loro locali per fare usufruire ai clienti di qualcosa di più che una serata a bersi una birra.
Ci sediamo a uno dei tavolini in legno, con il sottofondo della radio accesa e le palle da biliardo che sbattono fra loro, durante il gioco di alcuni ragazzi in una saletta su un piano rialzato.
La parete del pub, ornata con catenelle e ganci per appendervi quadri e fotografie, è ora vuota, dopo che è terminata l’ultima mostra durata da Natale 2007 al 14 gennaio 2008.
Quando è nato questo progetto?
Quattro anni fa, nel 2004, dopo che si era provveduto alla sistemazione dei locali del circolo che era rimasto vuoto per un periodo. Lo riaprirono Lorenzo e Gabriele e, da allora, abbiamo iniziato la nostra collaborazione. Sono due ragazzi davvero interessati e disponibili.
Con quali intenti?
L’intento era di dare quel quid in più, che oltre a un luogo di ricreazione, si potesse creare un approccio col mondo della cultura, della pittura e della fotografia. Portando svariate ambientazioni e tecniche. Aggiungendo alla parte esclusivamente visiva della mostra, anche serate a tema in cui l’autore possa venire e parlare della propria esperienza di viaggio o della tecnica di ripresa, e di pittura.
Quali sono state, finora, le difficoltà incontrate?
Sicuramente quella di invogliare le persone a partecipare. Non abbiamo un calendario fisso. Stiamo attenti a fare delle mostre che siano curate, magari qualcuna in meno, ma buona.
E le soddisfazioni? (Il suo sorriso dice tutto!)
Tante! Ma più di tutto quando la gente arriva qui e trova la parete vuota e, subito, domanda se non ci sia più niente in mostra.
Progetti futuri?
Continuare come stiamo facendo, magari aggiungendo qualcosa che riguardi l’apprendimento, interessando i giovani alle varie tecniche, con seminari brevi, con lezioni.

Ci siamo fatti la nostra chiacchierata bevendo un buon caffè.
Vaghi è alla continua ricerca di persone che vogliano mettere la loro passione in mostra, sia quella pittorica o fotografica. Chi fosse interessato può rivolgersi direttamente a lui (335-1893595) o ai gestori del PubLoga.
Inoltre, se volete passare qualche momento piacevole, magari bevendovi una bibita seduti ad ammirare i quadri appesi sulla parete del Pub, seguite il mio consiglio: PubLoga, Via Vittorio Veneto a Minoprio.

Miriam Ballerini
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