29 ottobre 2015

Chi perde paga di Stephen King recensito da Miriam Ballerini

 
CHI PERDE PAGA                                  di Stephen King
© 2015 Sperling & Kupfer
ISBN 978-88-200-5903-3   Pag. 470  € 16,92

Quando uscì Mr Mercedes, il penultimo romanzo di King, già si sapeva che sarebbe stata una trilogia.
Ebbene, Chi perde paga, è il secondo volume dove possiamo rincontrare il detective in pensione Hodges, gli amici che abbiamo conosciuto nel primo volume e anche, seppur immobile in una stanza, il serial killer di Mr Mercedes.
Questo romanzo mi è piaciuto di più, mi ha coinvolta e ha spinto la curiosità di vedere come andava a finire, facendomi inseguire la storia dentro le pagine.
Si parla di Rothstein, uno scrittore che, dopo il primo capolavoro in cui compare il personaggio Jimmy Gold, nel secondo libro relega il suo eroe a un ruolo che a Morris Bellamy non piace proprio.
Saputo che lo scrittore si è ritirato, lui e due compari penetrano nella sua casa per derubarlo. Morris lo uccide, perché si sente tradito dalla penna dello scrittore.
Ruba i soldi dalla cassaforte, ma per Morris il tesoro più prezioso riguarda un numero considerevole di blocchetti scritti a mano dove lo scrittore, negli anni, ha scritto altri due romanzi, riscattando Jimmy Gold.
Morris uccide anche i suoi complici.
La vita a volte è davvero assurda, anche nei romanzi, perché non viene preso per questi crimini, ma bensì perché, ubriaco, stupra una donna e si becca 30 anni di carcere.
Nel frattempo, vicino a casa, ha sepolto in un baule il suo tesoro.
La sua casa viene acquistata da una famiglia che ha due figli, Pete trova il tesoro.
Suo padre figura fra una delle vittime di cui tanto si è narrato in Mr Mercedes, la sua famiglia ha bisogno di soldi e lui pensa bene, tramite lettere anonime, di recapitare loro 500 dollari al mese per aiutarli. Ma anche per Pete il vero tesoro sono i taccuini e le storie che contengono.
Lo storia si fa intricata e arriva al suo apice di tensione quando Bellamy esce dal carcere e torna a cercare i taccuini, avido di sapere cosa contengano. In fondo ha aspettato trent’anni per poterli leggere! Ma con sua sorpresa il baule è vuoto!
Arriva a Pete e qui entrano in scena il detective e i suoi amici, i quali, interpellati dalla sorella del ragazzo che si dice preoccupata per il fratello, scopriranno tutta la vicenda.
L’ossessione per la storia di Jimmy Gold, la ritorsione contro lo scrittore che ha maltrattato il suo personaggio, agli amanti di King ricorda un poco Misery non deve morire.
Ma qui è tutta un’altra storia.
Il finale ci fa già intuire come potrebbe cominciare il terzo libro della trilogia… lo aspettiamo avidamente!!!
Dai tre romanzi sarà tratta una serie televisiva.


© Miriam Ballerini

23 ottobre 2015

IL PROBLEMA DEL CAOS NELLA VOLONTÀ SCHOPENHAUERIANA di Vincenzo Capodiferro

IL PROBLEMA DEL CAOS NELLA VOLONTÀ SCHOPENHAUERIANA

Il problema del caos è stato sempre presente nella filosofia, sin dall’antichità. La parola caos deriva dal greco e significa “disordine”. Questo termine è strettamente correlato al suo opposto, il “cosmos”, l’ordine. C’è un bipolarismo di fondo che domina tutto l’universo: le sue tracce sono presenti in tutte le antiche cosmogonie, come quella di Esiodo. Prendiamo, ad esempio, la serie dei numeri pari e quella dei dispari in Pitagora. Abbiamo riscontrato l’idea di caos, soprattutto nei filosofi “irrazionalisti”, come Schopenhauer, Nietzsche, e Freud. Ci viene da pensare, ad esempio, all’abisso della volontà di Schelling, al mondo dell’esistenza di Kierkegaard, fatta di libertà, possibilità ed angoscia, alla Volontà di Schopenhauer, all’Es di Freud. Però ricollegheremmo questo problema ancestrale della filosofia, al grande dualismo tra fenomeno e noumeno di kantiana memoria; questo dualismo è sempre presente nella filosofia moderna e si esprime in modi diversi: in Fichte come Io e Non-Io; in Freud come Io ed Es, in Schopenhauer come rappresentazione e Volontà, in Nietzsche come Apollo e Dioniso. Schopenhauer esprime questo senso del caos nel mondo inteso come Volontà. Infatti la Volontà è una forza cieca ed inarrestabile, quindi caotica, cioè non sottoposta ad alcuna regola, ad alcuna legge, e questa domina tutto l’universo in tutte le sue manifestazioni, alias fenomeni, ed in tutti i “gradi di oggettivazione”, sia le Idee, che le realtà naturali: forze, come impenetrabilità, magnetismo, gravità; regno minerale, regno vegetale, regno animale, “regnum hominis”. Questa volontà si manifesta innanzitutto come “corpo” in noi stessi, come brama di vivere, quindi è un impulso caotico che innanzitutto sperimentiamo nella nostra stessa essenza e che è causa di infelicità, di dolore e di noia, che sono, secondo il filosofo di Danzica, le note caratteriali di ogni essere vivente. Di qui si spiega il pessimismo cosmico, che accomuna il filosofo tedesco al nostro Leopardi. «Essa è l’intimo essere, il nocciolo di ogni singolo ed egualmente del tutto» (“Il mondo come Volontà e Rappresentazione”). Infatti la volontà di vivere pervade ogni essere della natura sia pure in forme distinte e secondo gradi di consapevolezza diversa, che vanno da quelli della materia organica, in cui si manifesta in modo inconscio, fino a quelli dell’uomo, in cui risulta pienamente consapevole. Il mondo fenomenico risulta quindi l'oggettivazione della volontà, che costituisce la cosa in sé e che si realizza in differenti gradi. Il problema è: come è possibile che una volontà cieca ed irrazionale possa oggettivarsi in gradi così diversi e perfetti di realtà? La volontà primordiale è inconscia, è energia e impulso. Questa volontà caotica, in greco è il “telema”, contrapposto alla “Bulesi”, che è, invece, la volontà ordinata, quella che Kant celebra nella Ragion Pratica, e Rousseau la definiva “Volontà Generale”. Noi abbiamo cercato di risolvere il problema ammettendo le due volontà: una cosmica e una caotica ed entrambe coesistono nell’uomo. La volontà caotica è libera, cieca, eterna, indistruttibile, ma non è l’unica che regge l’universo intero e procede dall’Uno insieme all’altra.

Vincenzo Capodiferro

“OLTRE IL MARGINE” DI SERGIO PASQUANDREA «Una poesia con un ché del primo Montale che… vive una tensione a scavalcare il margine» recensione di Vincenzo Capodiferro


“OLTRE IL MARGINE” DI SERGIO PASQUANDREA
«Una poesia con un ché del primo Montale che… vive una tensione a scavalcare il margine»

Sergio Pasquandrea è nato a San Severo, in provincia di Foggia, nel 1975. Vive a Perugia, ove insegna e collabora con l’Università. Ha pubblicato diverse raccolte di versi, come: “Approssimazioni” (2014); “Topografia della solitudine” (2010); “Parole agli assenti” (2011). Molti suoi testi sono presenti in diverse riviste ed in blog letterari. Ha pubblicato nel 2014 anche un libro di racconti: “Volevo essere Bill Evans”; nonché il volume: “Breve storia del pianoforte jazz. Un racconto in bianco e nero”. Quest’opera “Oltre il margine” è pubblicata da Fara, Rimini 2015 e risulta vincitrice del Concorso Faraexcelsior 2015. Come suggerisce Daniele Gigli, quella di Sergio è «una poesia con un ché del primo Montale che tuttavia, diversamente da quello, vive una tensione a scavalcare il margine di separazione e riparo dal mondo». E Vincenzo D’Alessio: «Come capita agli innovatori Pasquandrea media la scrittura dei poeti del Novecento aggiungendovi la salinità della sua pungente ironia, nella ricerca di quel “margine” che da secoli chiede alla poesia di svelare “l’animo nostro informe”. Il momento della creatività poetica è un cammino nel silenzio del Tempo ed il Nostro, nel suo dialogo con chi legge, lo ribadisce: “il senso è oltre il margine/ delle parole nel bianco indiviso/ della pagina vuota”». La lirica del Pasquandrea tende stridulamente a stabilire una metafisica dell’esistente: «… La Bellezza/ non redimerà il mondo:/ la Bellezza è il dolore più crudele/ quello che agisce alla radice stessa/ del nervo …». Montale con pennate magistrali descrive questa condizione della esistenziale, heideggeriana, trascendenza dell’essere: «Tutte le cose portano scritto più in là». Vi sono molti temi trasposti nella poesia di Sergio che toccano l’anima. Riprendiamone alcuni: «Essere sveglio mentre tutti dormono». E come non ricordare l’oscuro Eraclito: il mondo appartiene agli svegli, mentre i dormienti vivono nel proprio mondo? La poesia è profonda illuminazione, come quel «M’illumino…». C’è qualche richiamo psicologista, come in “Enigmistica del’Es”: «Il lapsus mi denuncia un desiderio/ inconscio di regressione pre-umana». E in “Oltre il margine”, l’ultima poesia, Sergio si interroga appunto: «”Come nasce la poesia” è la domanda/ alla quale più spesso mi capita/ di non rispondere». È l’eterna domanda di Hordelin: perché i poeti nel tempo della povertà? È la domanda che assillava Heidegger. La poesia di Sergio, a volte prosaica, cerca di cogliere il senso di una vita sfuggente, i cui attimi non sempre sono petali cadenti di fiori, o portatori di gaudio. Questo “cogliere l’attimo” non sempre giulivo e felice, ma significa: vivi l’esistente! Ci richiama cioè all’esistenza, al senso profondo dell’essere. E l’esistente molte volte è intriso di quel montaliano male di vivere. Ci si trova in una condizione di “gettatezza” nel nulla, sempre per adusare delle espressioni care ad Heidegger. L’attimo sfila come l’anguilla di Montale, è come «l’anima verde che cerca/ vita là dove solo/ morde l’arsura e la desolazione/ la scintilla che dice/ tutto comincia quando tutto pare/ incarbonirsi, bronco seppellito…». È come la vita di Saba: «La vita, la mia vita, ha la tristezza/ del nero magazzino di carbone,/ che vedo in questa strada …». E ancora: «… Le foglie/ morte non fanno a me paura, e agli uomini/…». E il grande profeta Omero ci ammonisce: quale la generazione delle foglie, tale è quella degli uomini.

Vincenzo Capodiferro

22 ottobre 2015

Antologia "I sogni nel cassetto"


Un progetto al quale ho avuto l'onore di partecipare. I soldi raccolti sono stati devoluti agli ospiti anziani dell'Istituto Don Gnocchi di  Malnate. Si può fare ancora molto!

16 ottobre 2015

TEODICEA A cura di Vincenzo Capodiferro

TEODICEA
A cura di Vincenzo Capodiferro

È uscito da poco alle stampe “Teodicea”, a cura di Vincenzo Capodiferro, presso l’editore Christian Cavinato. Si tratta di una stracciata raccolta di meditazioni di una donna nascosta, Renèe, una carmelitana scalza che visse nel Dipartimento, ancora più nascosto dell’Aveyron a sud della Francia, nel secondo Ottocento. E proprio in quel Dipartimento sorge la città di Albi: contro gli Albigesi fu indetta una crociata nel ‘200 da papa Innocenzo III. Siamo nella Francia della Terza Repubblica, in cui a parte gli opportunisti, le recrudescenze contro i cristiani erano molto pungenti, sebbene non arrivassero a quelle dei neo-martiri odierni. Le meditazioni sono stracciate perché parte degli scritti è stata lacerata dalla raccolta. Renèe è una donna straordinaria: ci ha lasciato questo gioiello in uno scrigno. Il testo è corredato da un “Trattato sull’argomento ontologico” a cura di Vincenzo Capodiferro, in difesa di quello spinoso argomento, che da Anselmo a Gödel ha fatto tanto discutere di sé: tanto che Kant si mise con tutto l’impegno a smontarlo nella sezione della “Dialettica Trascendentale” della “Critica della Ragion Pura”, dedicata alla teologia razionale. Come mai un argomento tanto discusso scosse le menti di tutti: Cartesio, Spinoza, Leibniz, Kant, Hegel e tanti altri?  Forse perché qualcosa di vero è nascosto nel discorso di Anselmo! La Teodicea di Renèe tocca tutti i temi profondi di questa scienza, fondata da Leibniz: dal problema  dell’esistenza di Dio a quello del rapporto tra Dio e mondo, dalla libertà dell’uomo al dramma del male. Vi è esposta una teoria dell’Impersonalismo, che si riallaccia alla tradizione mistica tedesca. Vi sono riportati discorsi bellissimi di personaggi del tempo, più o meno famosi, come De Maistre e Balmes. Teodicea significa “Giustizia di Dio”. Dopo Leibniz il nome si estese ad intendere tutta la teologia naturale, tanto che Kant medesimo la divide in tre parti, tali a giustificare l’operato divino: nella santità in presenza del male morale, nella bontà in presenza del male fisico, nella giustizia in presenza del male metafisico. È in grande problema di sempre, che preoccupava Leibniz: se Dio esiste perché il male? Se non esiste, perché il bene? Il mistero dell’iniquità accompagna sempre quello della bontà divina. E proprio Leibniz reinterpretando Agostino, risponde: il male metafisico consiste nella semplice imperfezione, il male fisico nella sofferenza, il male morale nel peccato. L’intento è più che altro di valorizzare queste donne ascose, donne meravigliose, che ci hanno lasciato scritti sublimi, come la “Passione” di anonima lucchese e “Sentieri di giorni beati” di anonima religiosa. Sono donne che pur non volendo uscire dall’anonimato hanno vissuto straordinariamente e con grandiosa dignità ed hanno tracciato sul terreno orme esemplari, che noi seguiamo con piacere e stima. 

Maria Pia Romano, il libro 'Dimmi a che serve restare' Di Antonio V. Gelormini

Maria Pia Romano, il libro
'Dimmi a che serve restare'

Di Antonio V. Gelormini

Sono due i fili che tengono insieme gli ultimi romanzi di Maria Pia Romano con la vena poetica della stessa autrice, che non perde la leggerezza elegante del sospiro letterario nell’affrontare le pareti aspre della prosa e le cataratte - a volta traditrici - della narrazione.
La forza della radice, più che il rigore della desinenza, e la declinazione subliminale di un tema: attraverso i vari aspetti che la quotidianità dell’esistere si preoccupa, di volta in volta, di assumere o di coinvolgere nelle emozioni provate e rivissute in ciascun personaggio immaginato.
L’Amore di “Onde di follia”  (Besa), l’Anello de “L’anello inutile” (Besa), L’Attesa de “La cura dell’attesa” (Lupo) e l’Assenza in “Dimmi a che serve restare” (Il Grillo), l’ultimo lavoro della scrittrice salentina appena edito e distribuito in libreria, sono tutte testimonianze tipiche dell’essere donna e manifestazioni coraggiose di affrontare le prove impervie che la vita ci riserva, col coraggio e la tenacia sfoderati in maniera decisa, per difendere con piglio meridiano e spirito femminile quanto di più caro ci possa stare vicino.
Un percorso che è gioco di sponda negli sguardi a pilastri della letteratura italiana, come Dante, Petrarca, Leopardi ed ora Foscolo, che in quest’ultimo lavoro - insieme agli altri - trova una sorta di sintesi nell’adagio con forza di Salvatore Quasimodo“Sono ancora qui, / il sole gira alle spalle / come un falco / e la terra ripete / la mia voce nella tua”.
romano maria pia
 
Un canto che continua a salire dal Salento, questa volta - più che altre - sulle note e nei versi dei Negramaro, che restano la vera colonna sonora di un romanzo: dove il silenzio forzato di un’assenza diventa armonia di ricordi, emozioni, sensazioni, nostalgie, gelosie, orgoglio, rassegnazione e riscatto, per un vero e proprio concerto da camera - a più voci - per la vita.
Un figlio che idealizza l’assenza. Un padre che preferisce insegnare il coraggio, più che la prudenza. Il padre d’un padre di un figlio che riesce a vedere il colore delle nuvole e quello delle lacrime. Una moglie incapace di reagire al dolore, fino a quando il balsamo del tempo non riuscirà a scioglierlo in un sorriso liberatorio. La compagna di una vita, che nasconde le lacrime sott’acqua, ma resta la “bitta” a cui ancorare le fragilità altrui.
negramaro ape
 
Personaggi, sentimenti e situazioni che, nello sciabordio di una narrazione di estate in estate, rinnovano l’esercizio in altalena di ogni scrittore: raccontare raccontandosi o, viceversa, raccontarsi raccontando. Per raccogliere la sfida e non restare eccellenza “imbrigliata” negli 88 toni di una tastiera, ma di usare le potenzialità di questo “doppio infinito” come ali, per volare nell’assoluto senza tempo e senza spazio della libertà senza confini.
“I libri sono uomini”, dice Tiziana - una dei protagonisti del romanzo di Maria Pia Romano - a cui Paolo aveva però ricordato, come aveva fatto anche a suo figlio Giovanni, che: “I libri sono dei piccoli viaggi”. Sarà anche per questo che, richiudendo il libro a fine lettura, ci si accorge che l’interrogativo - in realtà - si scioglie nell’imperativo, per esorcizzare la rassegnazione: “Dimmi a che serve restare”.
(gelormini@affaritaliani.it)

09 ottobre 2015

LA TEMPESTA DEL SECOLO di Stephen King recensito da Miriam Ballerini

 LA TEMPESTA DEL SECOLO                       di Stephen King
© 2000 Sperling & Kupfer
ISBN 88-200-3002-0   86-I-2000
Pag. 432  € 12,86

Ho acquistato questo libro anni fa, quando uscì in Italia, come sempre faccio a ogni nuovo libro di King. Eppure, solo oggi sono riuscita a leggerlo.
Al primo approccio non riuscii ad andare al di là delle prime pagine. Perché? Il motivo è molto semplice: non è un romanzo, bensì è scritto come una sceneggiatura.
Eccone un esempio: “ESTERNO: NUVOLE DI TEMPESTA IN ARRIVO – GIORNO.
Teniamo l’inquadratura per un momento, poi scendiamo lentamente su una casetta bianca….”
Eppure, se riuscirete a superare la lettura che a un primo approccio appare frammentata, non riuscirete più a smettere di leggere!
King ricrea una comunità, col suo stile tipico, dove buoni e cattivi si mescolano, ognuno col proprio carattere e le proprie caratteristiche. In questo caso siamo su un’isola, un luogo inventato appositamente dall’autore.
Una fortissima tempesta di neve sta arrivando e gli abitanti dell’isola si preparano ad affrontarla.
Fra loro fa l’apparizione uno strano personaggio. Un uomo? Un mago? Un mostro?
Uccide una donna e si siede comodamente ad aspettare in poltrona che lo trovino e lo arrestino. Linoge, questo il nome col quale si fa chiamare, ha poteri sovrannaturali, riesce a manovrare le persone, soprattutto le persone che già sono intaccate da qualche difetto.
Ucciderà molta gente durante la tempesta del secolo, e sempre scriverà un messaggio: datemi quel che voglio e me ne andrò.
Ma cosa vuole questa specie di stregone?
Semplice: lui non vivrà per sempre e vuole solo un bambino al quale insegnare tutto quello che sa.
Leggendo non ci si accorge più che è scritto in modo anomalo, ma, anzi, il metodo col quale è formato ci aiuta a vedere ancora meglio le scene e i particolari.
Come si legge in quarta di copertina: King dà un’impronta nuova alla sua scrittura, realizzando quello che è, nella sua forma più alta, un film da leggere.

© Miriam Ballerini

04 ottobre 2015

DIARIO DI UNA RAGAZZA DEL SUD DI MIRIAM BALLERINI E LINA PICCIONE Un disegno verista della condizione femminile “dal tramonto all’alba” dei tempi

DIARIO DI UNA RAGAZZA DEL SUD DI MIRIAM BALLERINI E LINA PICCIONE
Un disegno verista della condizione femminile “dal tramonto all’alba” dei tempi

“Diario di una ragazza del sud” è un disegno realistico ed attento che l’ autrice, Miriam Ballerini schizza su di una terra di vita, molto sentita, che si ricollega al meridionalismo ancestralizzato. Oggi questa terra deve essere forte più che mai, perché i fiumi di profughi invadono l’Europa leggiadra. Lo sradicamento e l’impianto in altre terre può darsi che sia traumatico e che le piante ne soffrano, ma a volte, invece, è proprio un’ancora di salvezza. È il caso della protagonista di questo diario, Maria Sole, che nell’emigrazione ha trovato la liberazione. Maria Sole è una di quelle tante «donne a cui sono state tarpate le ali che hanno tanto lottato e che ancora lottano per la libertà». Così recita la dedicazione dell’ autrice. Non a caso tra le prime battute il diario inizia proprio attraverso l’immagine del tramonto e della sera. L’occaso del sole è l’occasione che richiama a Sole. «Maria Sole uscì dal ristorante e si fermò un momento in cima ai tre gradini. Certo, i tramonti hanno la capacità di riempirti l’anima, ma forse sono le albe quelle che rimangono impigliate nei pensieri». E ci ricorda Foscolo: «Forse perché della fatal quiete/ Tu sei l’immago a me sì cara vieni/ O Sera!»: la sera ci conduce al Nulla Eterno ed aspetta la sua alba di resurrezione. E ci ricorda con parole di verismo, molto simili a quelle del diario balleriniano, il Verga sconsolato:  «La sera, appena cade il sole, si affacciano all’uscio uomini arsi dal sole, sotto il cappellame di paglia e colle larghe mutande di tela, sbadigliando e ritirandosi le braccia, e donne seminude, colle spalle nere, allattando i bambini già pallidi e disfatti». O con le parole di Salvatore Di Giacomo: «La padrona preparava i lumi. Un grande silenzio s’era fatto per le vie. La dolcezza del tramonto penetrava l’anima …». Maria Sole vive il dramma di essere donna. C’è una figura storica che si staglia tra le pagine di vita, quella del padre e padrone. Essere donna significa “essere inferiore”. In ciò riassumiamo il “complesso di inferiorità”. D’altronde Freud e Lacan, galantuomini e perbenisti, avevano visto nella donna un “uomo castrato”, o una “Lupa” verghiana. Non avevano fatto altro che perpetrare ancora quella cultura millenaria della “Fallo”. Nel 1600 la donna non aveva il diritto neppure di godere del coito del matrimonio. È rimasta famosa la “camicia giansenista”, una camicia accollata e lunga fino ai piedi: aveva un foro soltanto nella parte corrispondente alla vagina e niente più! La morale giansenista era severissima e frenò quella evoluzione che già si era avuta col Rinascimento. Essa ha avuto un influsso fino ai nostri giorni, almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale. In Sicilia, fino a pochi decenni fa, si poteva ancora trovare ricamata sulle lenzuola, o all’angolo di un cuscino, la frase: «Non per il piacer mio, ma per dare un figlio a Dio!». È questo il profondo senso di questo sentito diario di vita, ben desumibile da alcune battute: «Mi guardo intorno e vedo che, anche se i tempi sono cambiati, c’è ancora chi soffre per mano di un uomo che non sa riconoscere nella donna un suo pari. Ecco perché ho voluto raccontare la mia storia». E l’auspicio che la buona letteratura vuole affidarci è proprio un motto di E. Vedder, riportato sempre nella dedicazione del bellissimo libro di Ballerini: non importa quanto freddo sia l’inverno, dopo c’è sempre primavera. Questo motto riprende il senso di quell’alba di resurrezione che si aspetta dopo il tramonto “Alla Sera”.

Vincenzo Capodiferro

I GIOVANI E L’EUROPA : UNA SFIDA DA VINCERE di Antonio Laurenzano

               
 I  GIOVANI  E  L’EUROPA : UNA SFIDA DA VINCERE
                                                     di  Antonio Laurenzano

“L’occupazione giovanile è una delle maggiori priorità per la Commissione europea”, ha affermato di recente Marianne Thyssen, Commissaria responsabile per l’occupazione e gli affari sociali.
I giovani europei di oggi costituiscono una generazione che vive in un contesto sociale, demografico, economico e tecnologico in rapida evoluzione. L’attuale generazione di giovani europei è la prima ad essere cresciuta in un’Europa pacifica, in gran parte priva di frontiere. Un’Europa dove i giovani possono muoversi liberamente, lavorare e apprendere più semplicemente rispetto al passato, un’Europa diversa da quella in cui sono cresciuti i loro nonni o anche i loro genitori.
Il dinamismo e le prospettive del futuro dell’Europa sono nelle mani dei giovani. Sono infatti il loro talento e la loro energia e creatività che contribuiranno alla crescita del Vecchio Continente rendendolo più competitivo e l’aiuteranno a superare la crisi economica e finanziaria attuale. Si tratta di una immensa risorsa che non viene adeguatamente utilizzata e che l’Europa non può permettersi di sprecare, ma si tratta anche di un fenomeno di crisi sociale cui l’Europa deve porre fine. I tassi di disoccupazione giovanile hanno raggiunto livelli senza precedenti e molto preoccupanti attestandosi in media al 23% nell’intera Ue, con alcuni Stati in cui la disoccupazione supera il 50% nelle fasce fra i 16 e i 25 anni.
Sette milioni e mezzo di giovani europei non hanno un’occupazione, né seguono un corso di studi o una formazione, con seri rischi di esclusione sociale. Sono dati allarmanti che impongono un impegno straordinario da parte dell’Europa: non ci sarà una crescita economica sostenibile se non saranno ridotte le diseguaglianze a cominciare dalla riduzione della disoccupazione giovanile. La disoccupazione giovanile ha un forte impatto sia sugli uomini che sulla società e l’economia. Se le tendenze attuali non verranno rapidamente invertite, i livelli odierni di disoccupazione giovanile rischiano di danneggiare le prospettive di occupazione a lungo termine con gravi ripercussioni per la crescita e la coesione sociale future.
Oggi più che mai per trovare il lavoro sono necessarie competenze specifiche e di elevata qualità. Una migliore cooperazione nel campo dell’istruzione e della formazione contribuirà ad innalzare i livelli di competenza per ovviare agli squilibri nell’offerta e nella domanda di lavoro. Puntare su  sistemi di istruzione e di formazione professionale qualificata attraverso la creazione di un quadro europeo per l’istruzione che favorisca senza difficoltà e vuoti d’azione il passaggio dalla scuola al mondo del lavoro.
Particolarmente interessante e ricca di prospettive è la IOG, “Iniziativa per l’occupazione giovanile”, adottata nel febbrai 2013 a Bruxelles per fronteggiare il problema giovanile: fornire un sostegno finanziario ai Paesi membri per l’attuazione nell’Unione delle misure a favore dell’occupazione giovanile. L’iniziativa si inserisce nel più ampio progetto “Strategia Europa 2020”, una complessa e articolata azione per il futuro europeo per i giovani cittadini. Al fine di rilanciare l’economia dell’Ue, sono stati individuati alcuni obiettivi  da raggiungere entro il 2020, mirati ad aumentare le opportunità di occupazione dei giovani, favorendo il loro inserimento nel mercato del lavoro, e a migliorarne la qualità dell’istruzione e della formazione.

Eliminare, in particolare, gli ostacoli per  gli studenti e i tirocinanti nell’Ue, aiutare i giovani a sviluppare le loro competenze per una più facile collocazione lavorativa. Adeguare l’istruzione e la formazione alle loro esigenze, incoraggiarli a utilizzare le borse di studio o la formazione all’estero, sollecitare i Paesi dell’Unione ad adottare provvedimenti per semplificare la transizione dal mondo scolastico a quello del lavoro.  Ma la raccomandazione più importante inserita nel progetto “Strategia Europa 2020” è l’invito della Commissione europea rivolto agli Stati membri, alle parti sociali e alla società civile a collaborare in sinergia ai fini della realizzazione delle misure a favore del futuro dei giovani. Una sfida sociale da vincere insieme.

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano Addio al “Patto di stu...