31 agosto 2015

LA VOCE DEI MORTI di Simon Beckett recensito da Miriam Ballerini

LA VOCE DEI MORTI                                    di Simon Beckett
© 2011 Bompiani/RCS libri S.p.A.
ISBN 978-88-452-0112-7   Pag. 448   € 7,90

Primo libro di Beckett che leggo, ma, dal sottotitolo: “La nuova indagine del medico legale David Hunter” si arguisce che il protagonista non è un nuovo personaggio. Ed ecco che, indagando, si scopre che ci sono altri tre romanzi della serie dedicati al medico forense e che hanno venduto ben oltre cinque milioni di copie nel mondo!
Hunter, antropologo forense, viene chiamato in causa quando viene ritrovato un cadavere sepolto in un bosco. Tempo prima, Jerome Monk, un serial killer feroce e dall’aspetto quasi animalesco, era stato arrestato per l’omicidio di due sorelle e di una ragazza alla quale pare appartengano le ossa appena ritrovate.
La squadra investigativa, composta da diversi elementi, si mette al lavoro per cercare di scoprire dove possano essere anche le altre due vittime; viene portato sul campo pure lo stesso serial killer che, però, pare non ricordare dove le abbia sepolte.
Tutto finisce in un niente di fatto e, ciascun membro della squadra, torna alla propria vita.
Hunter alla sua famiglia, moglie e figlia, ma che da lì a breve, in seguito a un incidente stradale, verranno uccise.
Passa del tempo, Monk fugge di prigione e Sophie Keller, anche lei al tempo consulente del caso, ricontatta Hunter.
Lui parte per raggiungerla, la trova nella sua casa svenuta e ferita.
Da quel momento comincia a delinearsi uno scenario diverso con tante zone d’ombra. Fra la paura del serial killer libero d’uccidere ancora, agli scontri fra i membri della squadra, comincia ad apparire un disegno assolutamente inconsueto.
Tutto ciò accompagna il lettore, fra certezze e colpi di scena, fino alla fine.
Un thriller scritto con perizia, ricerca e abilità.
Mi piace molto il finale e come dimostri che anche il nero possa diventare bianco…


© Miriam Ballerini

Un funerale e sei detenuti suicidi in trenta giorni

Un funerale e sei detenuti suicidi in trenta giorni


Roma Regina Coeli, Terni, Teramo, Pisa, Alba e Carinola. Sono le sei carceri italiane nelle quali, in soli trenta giorni si sono tolti la vita altrettanti detenuti. E il dato oggettivo solleva le proteste del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. (Fonte: agenzia Adnkronos, 22 agosto 2015)

Si potrebbe dire che d'estate i mass media vanno in vacanza ed è difficile trovare notizie interessanti e solo i funerali coloriti con la musica di un noto film attirano l'attenzione di politici, funzionari di Stato, giornali e televisione. E il dramma che sei detenuti si sono tolti la vita in un mese nelle nostre "civili" e "democratiche" galere non interessa a nessuno. Il nostro è veramente uno strano paese se ci s'indigna di più per un funerale in stile zingaresco o "mafioso" (per chi non conosce la mafia) o alla Totò (sembra che quella carrozza la usasse il noto attore nei suoi film e feste) che per la morte di sei persone nelle mani dello Stato.
L'altro giorno una guardia che legge i miei articoli in rete mi ha detto che non gli piace come e quello che scrivo perché parlo sempre male di loro e del carcere. Gli ho sorriso (i sorrisi sono le "armi" migliori dei prigionieri) e gli ho risposto che molti detenuti hanno qualcosa da dire, ma sono in pochi quelli che lo dicono e ancora meno quelli che hanno il coraggio di scriverlo. Pensandoci bene forse quella guardia non ha tutti i torti, perché in fondo il carcere non è poi cosi crudele e cinico come appare, perché esegue solo il suo compito per cui gli uomini l'hanno creato, e semmai sono le persone che lo rendono cinico e crudele.
In questi giorni pensavo che i detenuti conducono la vita più "sicura" al mondo, forse anche perché è difficile che facciano un incidente stradale. Eppure i dati dicono che i detenuti si tolgono la vita e muoiono più delle persone libere. Nessuno però dice nulla del fatto che hanno buoni motivi per farlo perché il carcere in Italia non insegna molte cose, ma una cosa la sa fare molto bene, sa "convincerti" a toglierti la vita. Spesso i detenuti si domandano perché devono continuare a vivere anziché farla finita con una vita che tanto spesso è un inferno.
E ammazzarsi non è affatto una domanda, ma una risposta perché per un detenuto a volte è più importante morire che vivere, per mettere fine allo schifo che ha intorno. Purtroppo spesso in prigione la vita è un lusso che non ti puoi permettere e per smettere di soffrire non puoi fare altro che arrenderti, perché in molti casi nelle nostre "Patrie Galere" vale più la morte che la vita.
Il Ministro della giustizia Andrea Orlando da poco ha istituito gli Stati generali sull'esecuzione della pena. Sono stati formati diciotto tavoli e sono state coinvolte valide personalità del mondo della cultura, della magistratura, del volontariato, della politica e dell'amministrazione penitenziaria. Spero che qualcuno di loro si domandi perché molti detenuti in Italia preferiscono morire piuttosto che vivere. Io lo so. E se volete saperlo anche voi scendete nei gironi più bassi dell'inferno e scoprirete un mondo da Medioevo, ma con meno umanità di allora.

Carmelo Musumeci
Carcere di Padova, agosto 2015

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