LE PERIODICHE di Marcello de Santis
foto di gruppo di suonatori cantanti e danzatori
nella Napoli di una volta
Era una decina di anni fa. Il mio amico Pino, di Frattamaggiore (Napoli), ma da
anni stabilitosi qui dalle mie parti, mi invitò a partecipare a una
"periodica", e con me altri amici e suoi conoscenti. Accettai di buon
grado, amante come sono di cose napoletane e speranzoso almeno di ascoltare
qualche canzone o poesia napoletana. Eravamo invitati ad ascoltare e a
recitare.
Pino dettò anche l'argomento che ognuno doveva rispettare nella sua esibizione;
dovevamo creare dunque, o cercare, un'opera in ogni campo della cultura da
presentare nella serata. Il tema era: Come
pioveva.
Fu indimenticabile, quella serata, come lo furono le altre che seguirono
ininterrottamente per ormai dieci anni.
Io presentai La ballata della pioggia, una ballata estemporanea e pazzerella,
in versi, che piacque molto. Non ricordo se di questa prima serata Pino fece
una raccolta dei testi, corredata da fotografie, come poi fece per le
successive. Io ho le due raccolte che egli fece poi delle opere e delle foto
della seconda e della terza che si tennero a casa sua, nella stupendo rustico
all'uopo preparato con tanto di amplificazione microfoni e alcuni strumenti
musicali pronti per essere adoperati.
2a periodica 22 marzo 2003
periodica di primavera: Pane pomodoro e basilico
3a periodica 7 giugno 2003
periodica dei colori: Giallo van gogh.
Oggi la periodica dell'amico Pino come ho detto, continua, una all'anno, verso
novembre, di sera, e finisce con tante buone cose da mangiare, (ognuno porta
qualcosa, (qualcuno la sua specialità), dalla pasta al forno alle penne
all'arrabbiata, dalla pasta e fagioli alle lenticchie con salsicce; dalle
frittate alle insalate russe, dai panini imbottiti ai taralli napoletani; e poi
i dolci, a volontà, compresi profiteroles e bigné).
La prima volta, ricordo, con la sua chitarra a tracolla (è anche un estroso
cantante - e in questa veste si presenta ogni volta - e attore di commedie
napoletane con una compagnia locale di bravi appassionati), si portò davanti al
microfono, dette il benvenuto a tutti noi (ognuno dei presenti con mogli e
mariti e anche figli grandi) e illustrò l'intento della serata; spiegò che
cos'era la "periodica", molti infatti non la conoscevano; facendo una
breve storia della stessa.
E' ciò che mi accingo a fare qui io, sperando di farvi cosa gradita.
Nelle periodiche ci si riuniva per stare insieme, ma soprattutto per ascoltare
musiche e parole di future canzoni o poesie o arie di opere. Tra un bicchierino
di liquore e un dolcetto.
Nelle dimore dei signori, queste riunioni si tenevano nei famosi salotti, in
alternativa a quelli propriamente letterari, in cui, davanti alle persone che
ascoltavano, si esibivano, di volta in volta, i partecipanti stessi alle
pomeridiane o serate. Va detto che queste riunioni si organizzavano anche tra la
gente del popolo; e anche del popolino. In questo caso nella sala delle più o
meno modeste case prestate all'uopo da uno dei partecipanti (il padrone di
casa) ci si radunava intorno ad un modesto grammofono, e ci si limitava ad
ascoltare canzoni romantiche napoletane o canzoni comiche, o scenette
divertenti, le famose "macchiette", (che però, è bene precisarlo, si
presentavano anche nelle case dei nobili o dei benestanti).
Nei salotti nobili, che erano i luoghi più importanti delle case, arredati con
maggiore cura, se possibile, nell'abbondanza e nel calore proprio di un
ambiente che era delegato ad accogliere gli ospiti i più diversi, si offrivano
ogni genere di prelibatezze, presentate agli ospiti arrivati in vesti eleganti,
il tutto disposto in bell'ordine in cospicue tavolate di buffet freddi.
salotto letterario francese del 700.
I salotti in cui si tenevano le periodiche, che sarebbero nate a Napoli circa un secolo e mezzo dopo, derivano proprio da quelli di allora.
Anche a quei tempi, dunque, si riunivano amanti della cultura, (nella foto una signora sta leggendo un'opera di Molière), e anche allora si declamavano versi (non ancora canzoni),ma si discuteva anche di filosofia e di politica.
All'inizio erano gli stessi padroni di casa a fare gli inviti con lo scopo
precipuo di presentare le loro opere; recitare o cantare; una zia al
pianoforte, un figlio o una figlia a cantare, e la mamma e il papà ad ascoltare
compiaciuti e a ricevere omaggi e complimenti dai presenti. I partecipanti
erano agli inizi amici e parenti, più tardi gli inviti ad esibirsi vennero
estesi anche ad altri potenziali sconosciuti artisti nel campo della musica o
della poesia; o della recitazione.
Nelle case (modeste) della gente comune, invece, si radunavano famiglie intere,
vale a dire il vicinato dell'ospite; era lui che quasi sempre aveva un
grammofono che si onorava di mettere a disposizione. A fine serata poi, o al
termine della pomeridiana sul primo imbrunire, si mangiavano dolcetti comuni, o
anche gelati, ma per lo più taralli; bagnati da bicchieri di vino (da cui il
termine oggi ancora molto in voga, "finire a tarallucci e vino", a significare
"in modo prettamente amichevole").
Un cenno su questo dolce di Napoli, il tarallo, (dolce diffuso anche in tutto
il meridione in generale): un impasto di acqua e farina con sugna e pepe,
rinforzato e ingentilito con mandorle.
Come stiamo vedendo, dunque, era lo stato sociale dei partecipanti a queste
riunioni a determinare il genere della manifestazione e del mangiare.
Soffermiamoci sulle periodiche che si tenevano nei salotti dei signori, (quelli
dei nobili, per intenderci), che sono poi quelle che hanno dato la fama al
termine di "periodica", termine determinato dal fatto che le
pomeridiane o le serate d'arte si ripetevano nel tempo, con date stabilite di
volta in volta.
Al termine di una serata ci si dava nuovo appuntamento; e ognuno, allo stesso
tempo partecipante attore e spettatore (e critico attento del cui parere si
teneva molto conto) aveva tutto il tempo per preparare magari una nuova poesia,
un nuovo testo di canzone, e il musicista per lavorare a una nuova melodia che
poi - rivestiti i versi di una poesia - veniva presentata come canzone; e così
che sono nate molte grandi canzoni napoletane.
Più tardi si presentavano, invitati magari perché già di una certa notorietà,
anche attori dilettanti o cantanti alle prime armi; e anche improbabili
personaggi con scketc divertenti, e scenette comiche; nacquero in questo modo
le macchiette molte delle quali diventate celebri. C'erano canzoncine ironiche
alternate in genere a monologhi spiritosi o versi burloni, sempre
accompagnai da una musica che si adattava perfettamente al testo (una deriva
senz'altro dalle opere buffe della fine '700).
L'interprete degli scketc presentava un personaggio della vita reale, che
andava dall'esattore delle tasse all'onorevole o al guappo, facendone una
caricatura esasperante il più delle volte, trasformando in senso comico il
carattere e la fisionomia; e si usavano espressioni a doppio senso, spesso
volgari, ma anche grotteschi; con lo scopo precipuo di far ridere.
Uno dei più assidui frequentatori dell'ambiente era Armando Gill, che è
considerato il primo cantautore della canzone sia italiana che napoletana. Si
chiamava Michele Testa, Armando Gill era il suo nome d'arte, era nato a Napoli
nel 1877 e ivi morì nel '45 alla bella età di 78 anni; è sua la più famosa canzone
italiana di tutti i tempi: Come pioveva, scritta nel 1918.
Era anche molto spiritoso, tanto che amava presentarsi a queste periodiche,
annunciando la canzone che intendeva presentare - di cui era autore sia del
testo che della musica, in questo modo:
versi di Armando, musica di Gill, cantati da sé medesimo.
Era - come detto - la Napoli di una volta, quella dell'ottocento, per
intenderci, e anche del primo novecento; quella, ricordate? delle cartoline con
il pino.
eccolo il famoso pino ad ombrello sul panorama del golfo di Napoli con sullo sfondo il Vesuvio
Il pino è stato abbattuto nel 1984 a causa di una malattia che ne ha minato la
vita
L'albero che era il simbolo della città aveva ormai 129 anni, era stato ritratto da tutti i pittori e i fotografi del mondo.
il pino era stato piantato verso la metà dell'ottocento sul clinale vicino alla chiesa di Sant'Antonio, sulla collina di Posillipo, immortalata poi in moltissime canzoni classiche napoletane.
La periodica non era esattamente un "fare salotto", tutt'altro; ci si
riuniva per fare spettacolo, per esibirsi in maniera artistica o quasi. I
principali personaggi di queste assemblee erano, come detto, attori, cantanti,
poeti; e musicisti (di pianoforte o di mandolino e calascione); erano allo
stesso tempo interpreti e pubblico; un insieme generalmente di poche persone,
spesso competenti e preparate. A volte un pianista e un cantante c'erano anche
nelle sale dei meno abbienti, laddove il pubblico era senz'altro più numeroso e
più caloroso, anche se meno competente (ma non tanto, alla fin fine). Si dava
modo così a giovani e talvolta giovanissimi, per lo più esordienti - siano essi
cantanti o compositori - di presentare le proprie opere, che se valide avevano
immediatamente una diffusione di una certa importanza.
Vedremo tra poco in quale maniera.
Per esemplificare facciamo il caso di una canzone.
I tre protagonisti di essa, l'autore delle parole, l'autore della musica e il
cantante (o solo due, se uno di essi era anche l'interprete) presentavano la
canzone; il musicista accompagnando al pianoforte o il cantante; e l'autore del
testo, magari fumandosi una sigaretta da un lungo bocchino, assisteva
appoggiato al piano. E se la melodia era bella e di rapida presa, e la
spontanea partecipazione dei presenti esprimeva il loro consenso con applausi
più o meno caldi, il successo era quasi scontato.
Si suonava e cantava a primavera, o in estate, e le finestre del salotto erano
spalancate magari sul mare di via Chiaia o sul lungomare di via Partenope; o
sui balconi di Posillipo.
Se la riunione si teneva in una sala di gente popolana, le porte del vascio o
la finestra del quartino si apriva magari su un angusto vicolo del Monte di
Dio, o su una delle stradine che salgono più o meno parallele ai quartieri
spagnoli.
In ogni caso di sotto o fuori c'era sempre un pubblico suppletivo che come
quello invitato in casa, ascoltava con attenzione e godeva con gioia le
esecuzioni musicali e canore. E si ripeteva là per là il motivo accattivante e
- quando eclatante - lo si imparava immediatamente, trasportandolo in
giro. Nei giorni successivi della canzone si stampavano le "copielle"
che erano il mezzo principe della diffusione del motivo e delle parole.
La copiella, come dice la parola stessa, era costituita da un solo foglio, cui
erano stampate le parole, e anche, più spesso, anche alcune righe dello
spartito musicale; spesso questo foglio era stampato clandestinamente, e si
diffondeva abusivamente in giro per i quartieri della città. E se ne
appropriavano i suonatori ambulanti, quei signori che col tempo sarebbero
diventati poi posteggiatori veri e propri con una propria professione. Che
cantavano e ricantavano per le vie per i vichi per le piazze di Napoli il
motivo nuovo, che dopo un po' nuovo più non era.
Quando le copielle venivano stampate dalle case editrici, che ne erano
proprietarie (avendo acquisito i diritti della musica e delle parole) queste
venivano vendute a prezzi accessibilissimi, alla portata di tutte le tasche. Se
poi una canzone diventava molto nota grazie a una serata o una pomeridiana di
una periodica, veniva ripresentata anche in successive periodiche, invitando gli
autori e il cantante (che magari era diventato celebre anche lui, grazie alla
sua voce e alla canzone) a nuove serate; e qui venivano accolti con il calore e
il rispetto che era loro dovuto; e con il titolo, talvolta, di
"maestro".
Le copielle venivano dunque vendute e distribuite in varie maniere. Uno dei
modi era quello che usavano i trascinatori dei pianini o organini che a Napoli
cominciarono a spargersi all'inizio dell'ottocento. La gente si affollava
intorno a questo strumento ad ascoltare la musica che usciva fuori da una cassa
armonica rurale, al cui interno ruotava un cilindro dentato; strumento che
arrivava trainato da un somaro o spinto tenendolo per le due stanghe dallo
stesso suonatore.
Il suonatore era anche il "venditore di musica"; guai infatti ad
appellarlo come un questuante che chiedeva per vivere; egli era un venditore di
musica, una professione di tutto rispetto.
Stimato e stimatissimo e dagli autori delle parole e delle musiche delle
canzoni, e dagli stessi editori che affidavano loro le copielle da vendere.
un pianino che porta affisse le copielle di canzoni
Il pianino che fu inventato nel lontano 1700 da tale Giovanni Barberi di
Modena, funzionava con lo stesso sistema di un carillon.
Constava di un cilindro che ruotando su se stesso
faceva vibrare delle punte che mettevano in azione delle corde che producevano suoni e note musicali,
Passava dunque il pianino annunciato di lontano dalle note della musica, e di
tanto in tanto si fermava. Allora dai piani superiori si affacciavano le donne
di casa per ascoltare le novità della canzone napoletana, non ancora diventata
"classica". E "scendevano" il famoso cestino che usavano
per tirare su la spesa del droghiere o del fruttivendolo sotto casa; per
raccogliere la copiella che lo stesso suonatore metteva dentro il cestino
ritirando il soldo che era dentro. Intanto da basso le persone fattesi intorno,
spesso accompagnavano cantando la musica che usciva dal pianino.
Vogliamo ricordare due dei più celebri trascinatori di pianini,
Carluccio 'o calamaioe
Ciro Pantolese
Carluccio, nativo del rione Ponticelli, girava per le strade e i vicoli di
Napoli a portare la musica col suo pianino ambulante; la storia dice che fu sua
la colpa, se di colpa si può parlare, della morte dei pianini; si era nell'anno
1938, e in occasione di una visita del Fuhrer a Napoli ebbe la brillantissima
idea di caricare il meccanismo del suo strumento con l'inno di Garibaldi.
Fu accusato di antinazismo e arrestato, e processato, poi subito scarcerato per
l'intervento di un gerarca amico. Ma fatto più grave fu la bomba che cadde su
una rimessa di pianini in via Foria, che distrusse il capannone e con tutti i
suoi più di cento pianini; e data la povertà del momento e la carenza di
materie prime, non se ne ricostruì nemmeno uno.
Ciro Pantolese fu l'ultimo venditore di musica.
Abbandonò quella sua povera ma dignitosa professione alla fine degli anni '50
del secolo scorso; aveva ottantadue anni. Purtroppo a Napoli non c'era più chi
fabbricava i rulli degli organini perché i venditori di musica e copielle
diminuivano sempre più, allora ne erano rimasti solo una ventina, e l'incisore
di rulli era uno solo, tale Pasquale Barbato, che decise di smetterla con quel
suo lavoro ormai poco redditizio; doveva pensare a moglie e figli, e pensò bene
di abbandonare e trasferirsi al nord con tutta la famiglia; ciò che decretò la
fine dei pianini ambulanti.
Chiudiamo questo breve escursus sui pianini e sulle copielle con la storia
della canzone Je te voglio bene assaje.
Era un periodo quello in cui nacque la periodica, tranquillo in un certo senso,
e la vita dei napoletani si svolgeva come sempre all'insegna di quella allegria
insita nella gente di questa già allora meravigliosa città, che già sotto re
Carlo III (1739-1754) che regnò benvoluto (e rimpianto quanto fu costretto a
tornare in Spagna) per venticinque anni, già un secolo prima.
C'era stata sotto la sua reggenza una organizzazione migliore dei quartieri
della città ed era stata quasi sconfitta la miseria; quel re giovanissimo aveva
messo in atto e portato a termine il risanamento (abbattimento di case
diroccate e ricostruzione) di molti quartieri malsani della città stessa; ma
anche la costruzione di stupendi nuovi palazzi.
A lui succedettero altri Borbone, il figlio Ferdinando, il figlio di questi
Francesco e così di seguito di padre in figlio, gli ultimi: Ferdinando II e
Francesco II (inizio 1800 fino alla fine, 1894).
E' il periodo migliore per le periodiche.
In una di queste nacque una canzone che in breve fece il giro della città e non
solo, la famosissima Te voglio bene assaje.
Era l'anno 1835; e dopo qualche tempo già tutte le donne di casa di Napoli
cantavano i versi della canzone. Fu la prima grande canzone diventata poi
classica, che andò a prendere il posto della canzone popolare; la canzone
napoletana aveva finalmente un autore. Era opera di un certo Raffaele
Sacco. che divenne conosciuto grazie a questa composizione, che si affermò alla
Festa di Piedigrotta.
Bene, si vuole che Raffaele Sacco che faceva l'ottico di professione (aveva
studiato la materia, e fu anche inventore di strumenti ottici; aveva un
esercizio molto frequentato e ben avviato a Napoli). fosse un frequentatore
assiduo prima dei salotti; era richiestissimo per la sua simpatia e per la sua
arte letteraria; e quindi delle periodiche; si dice che dedicasse le parole
della canzone a una signora dell'alta società di cui era innamorato e con la
quale pare avesse una relazione intima.
Nell'anno della composizione Raffaele era vicino ai 50, ed era già conosciuto e
apprezzato in quanto sapeva improvvisare versi e canzoni così, all'impronta;
bastava offrirgli uno spunto su un qualsiasi argomento, e il gioco era fatto.
In questi salotti gli si chiedeva soprattutto di improvvisare in rima. E lui
non si faceva certo pregare.
Quanto all'autore della musica, (si dice Gaetano Donizetti, ma la cosa sembra
improbabile, dato che egli in quel periodo dopo aver messo in scena al San
Carlo la Lucia di Lammermour, si trovava a Parigi per dirigere altre opere), fu
un compagno di Raffaele, il musicista Filippo Campanella.
Perché si pensa che la canzone sia nata o quanto meno presentata per la prima
volta in una periodica? Perché in quella pomeridiana di festa e di musica
Raffaele Sacco annunziò ai presenti di avere scritto una canzone, e che
desiderava farla ascoltare. Come sempre la finestra era aperta, e come sempre
sulla strada la gente si ammassava ad ascoltare. Alla fine di una, di due, di
tre esecuzioni, tutta la sala cantava in coro il ritornello
j' ... te voglioooo beneeee assaaaajeeee
e tuuu nun pienze.. ameee....
e altrettanto faceva la gente per strada, che sciamando più tardi verso casa
intonava la canzone e la portava ai suoi cari e ai suoi amici, nei vichi, nelle
stradette, nelle piazze e piazzette di Napoli. E nei vasci della gente più
povera dove si organizzavano come detto - anche là - riunioni per cantare e
stare insieme e bere e giocare a carte, la canzone ebbe un successo clamoroso.
E, da ultimo, perché in breve ne fu stampata su una copiella; e di questa ne
furono duplicate e vendute in pochissimo tempo - pensate - più di 180mila.
Poi ci pensò la gara cui Te voglio bene assaje partecipò, a Piedigrotta di
quell'anno 1835. Che ne determinò - pur non vincendo - il successo
imperituro.
nella foto un carro allegorico
che scorre in occasione della Festa di Piedigrotta 1935
Il carro ebbe il primo posto nel concorso omonimo,
l'oggetto rappresentato era in sintonia con il titolo della canzone che vinse la Piedigrotta di quell'anno:
"'E ricchezze d''o mare di Raimir
Molti ne scrissero e ne satireggiarono, tanto era il clamore di quelle note in
ogni angolo e in ogni casa della città.
Un poeta anonimo ebbe a scrivere, scherzosamente:
"
Addio mia bella Napoli,
fuggo da te lontano.
Perché ti par sì strano,
tu mi dirai, perché?
Perché son stufo ormai
di udir quella canzone,
Te voglio bene assaje
e tu nun pienze a mme!"
fine
marcello de santis