27 marzo 2014

La voce di Cesira Ambrosio di Vincenzo Capodiferro

LA VOCE DI CESIRA AMBROSIO
Poetessa dell’amore e del dolore

Cesira Ambrosio è nata a Balvano, in una regione remota ed ancestrale del nostro Bel Paese, la Basilicata. La madre era lucana, il padre napoletano, ingegnere al Genio civile. È vissuta per molti anni a Napoli, ove ha compiuto i suoi studi. Racconta sempre che nella sua giovinezza abitava vicino di casa a Totò, il quale spesso incoraggiava quella promettente studentessa, quando la vedeva passare per strada con il grembiule e l'antica cartella che usavano un tempo gli alunni. Vive oramai da anni a Potenza, ove ha insegnato per molti anni. Fin da giovane ha nutrito un notevole interesse per la composizione lirica, dedicandosi alla poesia già dalla prima adolescenza. Al 1991 risale la sua prima raccolta Aprendo l’anima. E poi a seguire: Il ricordo è poesia (1995); Sogni senza avvenire (2005); Momenti di grazia (2010) con intermezzi pittorici dell’artista Mario Bochicchio. Molte altre sue liriche sono state pubblicate in varie e molteplici antologie. Numerosissimi i riconoscimenti letterari, che non stiamo a ricordare, ma che attestano una grande indole e stanno a significare la grandezza del talento letterario di Cesira Ambrosio. Il cammino della sua poesia è un continuo messaggio consolatorio. Come Boezio lo trovò nella filosofia, così Cesira nella poesia, per cui potremmo affermare che tutta la sua opera è tutta un De consolatione poesiae. È una risposta d’amore al dramma esistenziale di una donna, un dramma caratterizzato da profonde e dolorose vicissitudini familiari, ma anche da momenti belli e significativi. Cesira è vissuta a Napoli fino all’età di 25 anni. Nel 1962 è venuta a Potenza. La prima volta, come lei stessa ci racconta, fu abbagliata dal candore della neve. Era, come è, difficile a Napoli, provare una tale emozione! A Potenza conobbe il suo consorte, col quale ha convissuto molti anni della sua esistenza. In Cesira vi è la passionale anima napoletana e la fredda, razionale anima potentina, o “potenzese” nel gergo locale. È stata sempre la maestra amata, materna. Vogliamo citare, come esempio - ma del resto sarebbe impossibile riportare qualche assaggio della sua nutrita produzione poetica senza un adeguato commento - una sua poesia in onore di San Domenico Savio: Preghiera dei Cantori «Ti prego, Madre Santa nella rosea e profumata aurora, fa che io ti possa molto amare e che le tue parole mi siano care. Con la tua divina forza, offrimi bei pensieri, perché protetto dal tuo amore, possa da solo andare. Tu, del mondo, divina luce sei, a Te, il più bel fiore dono sulle note del mio canto. È miracolo della mia poesia, nasce dal cuore, diventa poi, per Te, melodia! Amen». Questo miracolo della poesia in Cesira ha trovato una bella ed autentica espressione. Trai premi più significativi basta ricordare che nel 2003, dalle Edizioni Universum di Trento, è stata nominata ”Letterato del XXI secolo”.

Vincenzo Capodiferro

Carmelo Musumeci, Zanna blu le avventure nella recensione di Annamaria Cotrozzi


Carmelo Musumeci, Zanna Blu. Le    avventure  Gabrielli Editore

Recensione di Annamaria Cotrozzi*

Impreziosito dalla presentazione di Margherita Hack, il libro della avventure del lupo Zanna Blu è un avvincente racconto-metafora non facilmente riconducibile a un unico e preciso genere letterario, e altrettanto non facilmente definibile in riferimento alla tipologia di lettori a cui può essere rivolto. Certamente le singole storie (inanellate a formare un piccolo romanzo mediante una tecnica raffinata che, proprio nella chiusa di ognuna, colloca il finale provvisorio che sarà ripreso, con le stesse parole, all’inizio della successiva) hanno i tratti distintivi delle fiabe per bambini. Che si tratti di fiabe è suggerito intanto dal loro sfondo paesaggistico, in quanto portano a volo il lettore in un luogo fatato, incantato e incantevole nel suo fascino siderale, anche se, al contempo, pervaso di raggelante solitudine, di coraggio misto a paura, teatro di continui pericoli e sempre nuovi cimenti, dominato da una luna immensa, che rischiara il buio di spazi infiniti. Ecco, la luna: lontana ma partecipe (l'adiuvante principale, secondo le categorie proppiane, che a buon diritto possono essere applicate a queste fiabe di ambientazione nordica), amica che talora nasconde il volto dietro le nubi per non vedere e non soffrire, ma che altre volte provvidenzialmente soccorre, e sempre si fa tramite dei messaggi d'amore che il lupo protagonista e gli altri lupi le affidano, nei momenti più drammatici, mandando lunghi ululati verso il suo volto di luce. "Tutte le volte che ci sarà la luna piena e avrai bisogno di me, potrai chiamarmi e io risponderò": sono le parole di Lupo Mannaro morente, ed è significativo che sia proprio un licantropo, la creatura spaventosa che nell'immaginario collettivo è la meno adatta a rivestire un ruolo da buono, a salvare ed adottare Zanna Blu da piccolo, a dargli la protezione e il calore della famiglia che non ha. Ed ecco, nella magia del racconto fantastico, l'ammonimento a non lasciarsi ingannare dalla prima apparenza delle cose, e a non subire il condizionamento dell'ingiusto pregiudizio ("Spesso, infatti, gli uomini e i lupi hanno bisogno del cattivo di turno per sfogare la loro rabbia e la loro frustrazione: tanto, un povero Lupo Mannaro lo trovano sempre per riversargli addosso le loro paure"). Fiabe, dunque, però anche favole: in senso tecnico, in quanto vi agiscono animali, che, pur con i debiti rovesciamenti (sto pensando al giustamente ironico "in bocca all'uomo"), incarnano comportamenti, vizi e virtù degli uomini, e in quanto ogni volta sono portatrici, come nella favola di tradizione esopica, di insegnamenti morali, talora veicolati in modo implicito, talora posti a esplicito commento della storia narrata. Non si pensi, però, che nella narrazione delle avventure di Zanna Blu la "morale della favola", che senza dubbio è sempre leggibile, riconoscibile almeno in filigrana, sbilanci il racconto spostando troppo il focus sul piano etico e diminuendo, di conseguenza, la magia del fiabesco: al contrario, il cosiddetto "messaggio" riesce a farsi cogliere con semplicità, senza allentare né il ritmo narrativo né il continuo effetto di suspense. Siamo e restiamo nel regno meraviglioso della fantasia, dove tutto può accadere, e dove, per dirla pascolianamente, il fanciullino che è in noi può gioire dell'onnipotenza della volontà unita all'amore, attendersi e ottenere il prodigio salvifico, assistere ogni volta, come nei sogni più belli, alla trasformazione (a cui lo scrittore finisce con l'abituarci) dei cattivi in buoni (in quei buoni che da sempre, nell'intimo del loro cuore, avevano desiderato essere). I due piani, quello del fiabesco puro e quello dell'apologo, della riflessione morale messa in campo per via di immagini, si intersecano talvolta in modo naturale, senza forzature: per esempio in alcuni interventi-chiave del narratore, introdotti in forma di rapido commento (il più icastico: "non esistono persone o lupi cattivi, esistono solo azioni buone o cattive").
Il lettore, adulto o bambino che sia, impara presto ad abbandonarsi alla dimensione fantastica del racconto, e da quel momento sa che tutto può accadere, perché appunto siamo nel mondo onnipotente della fantasia, dove il prodigio rientra, per convenzione, nelle regole del gioco. E' così che finiamo con l'aspettarci che Zanna Blu, il lupo buono mille volte ferito e moribondo, ritrovi ancora una volta, anche quella volta in più, le forze non per una stentata sopravvivenza, ma per una nuova corsa, anzi per un volo verso la meta di sempre, attraverso le gelate terre del nord, la Siberia, la Groenlandia, il mare ghiacciato o in tempesta, in una geografia ridisegnata come accade, appunto, in sogno, dove anche le distanze sconfinate possono essere percorribili e superabili, nonostante tutto. La salvezza di Zanna Blu, nei momenti di massimo rischio, quando l'antagonista di turno (che poi diverrà adiuvante per la successiva avventura) pare avere la meglio sul povero lupo sfinito, è raggiunta coi famosi salti mortali (perciò, di fatto, salti "vitali"), sempre variati, sempre oltre il limite raggiunto col precedente: quando pensiamo di aver assistito al salto più difficile, più sorprendente, più acrobatico possibile (il doppio salto mortale, quello all'indietro, il quintuplo...), la fantasia dello scrittore ne inventa un altro (e a quel punto un po' ci contavamo, ammettiamolo). A proposito di questa meravigliosa specialità di Zanna Blu, va ricordata una piacevole sorpresa regalataci da Carmelo: è la figlia femmina di Zanna Blu, la coraggiosa Coda Bianca, ad aver imparato di nascosto a fare i salti mortali, imitatrice ed erede del padre in questi "impossibili" slanci fisici verso l'alto, verso la salvezza e la libertà.
Il racconto, nel suo procedere, esce dai confini del genere "fiaba" o "favola" e lascia sempre maggiore spazio a un complesso e originale gioco metaletterario, con l'intervento sempre più frequente dell'autore. Il genere letterario di riferimento diventa in realtà, a poco a poco, incrocio, o meglio ancora commistione, fusione di generi, in un amalgama che è anche un interessante e innovativo esperimento di scrittura: il piano del racconto fantastico viene ad appoggiarsi sul piano della realtà autobiografica di Carmelo Musumeci, al punto che significante e significato combaciano nell’attribuzione, ad alcuni lupi, di nomi di persone che hanno segnato passaggi importanti della vita dell'autore:  un esempio per tutti, Lupo Don Oreste. Attraverso il racconto, divenuto ormai corale, delle avventure del lupo Zanna Blu e degli altri lupi (solitari o in branchi), il veicolo letterario scelto dallo scrittore assume sempre più le caratteristiche, o almeno le connotazioni, del diario, della testimonianza: è il suo modo di consegnare a tutti noi lettori in generale, ma probabilmente ai suoi cari in modo specifico, la narrazione sofferta del suo percorso esistenziale e delle sue speranze. Tuttavia, si badi bene, gli evidenti richiami al reale non tolgono nulla al fascino del racconto d’invenzione, nel quale sono via via intessuti. Lo scrittore Carmelo entra, sì, autobiograficamente nel racconto, ma in che modo? Dapprima come autore la cui penna può salvare o lasciare morire Zanna Blu, in seguito come personaggio il cui agire appartiene ormai al flusso narrativo della vicenda fantastica, e con essa si confonde. La favola di animali dai tratti psicologici "antropomorfi" diventa in tal modo favola "mista", di animali e uomini pronti a incontrarsi nel gran finale (che, ovviamente, non rivelerò).
Da sottolineare, sul piano narratologico, la complessità e varietà dei modi con cui Carmelo si lega al proprio racconto, entrando "fisicamente" nel libro: ora proiettandosi in Zanna Blu stesso, ora persino mettendosi in un rapporto di surreale competizione con lui, fino a divenirne, addirittura, rivale e antagonista. Rinunciando al ruolo tradizionale dello scrittore di racconti di invenzione, che è quello di narratore onnisciente, Carmelo mostra di non sapere, o di non aver deciso (che è la stessa cosa) come le cose andranno a finire, e riconosce quindi a se stesso la facoltà di cambiare idea, vale a dire di cambiare il racconto in corso d'opera: con questo espediente lo scrittore riesce a spiazzare del tutto il lettore, scoraggiandolo, fra l'altro, da ogni tentativo di interpretazione psicanalitica troppo scontata, da manuale.
Anche sul piano stilistico lo scrittore sceglie di non attenersi a un registro univoco, e così l’andamento narrativo tipico della fiaba, con i suoi dialoghi seri e drammatici, con le descrizioni solenni, è tuttavia punteggiato ora qua ora là di qualche battuta scherzosa, e non mancano, per quanto riguarda le scelte di lessico, incursioni veloci nel linguaggio colloquiale anche un po' brusco, ma di sicuro effetto vivacizzante.
Di questo libro restano impresse nella mente e nel cuore del lettore anche le bellissime dediche – ricche di pathos, ma prive di retorica - poste sotto il titolo dei singoli capitoli: didascalie di un mondo di affetti in cui nessuno viene dimenticato, e che anche noi  lettori a poco a poco impariamo a conoscere. Anche in forza di queste presenze reali, evocate dallo scrittore a illuminare il senso profondo di ogni tappa del racconto, quando tutto sembra perduto noi sappiamo che non è così: la sua penna saprà ancora tracciare le parole che riapriranno il varco alla speranza.


*Annamaria Cotrozzi
 Ricercatrice Università di PISA, Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica

26 marzo 2014

Causa e effetto



CAUSA E EFFETTO

Leggo: "Mio marito al mio bambino: non parlare in italiano, ti prendono per ricchione".
Caserta, Campania, Italia...
Questa frase detta da un padre al figlio apre uno squarcio su un mondo d’ignoranza, intesa proprio come non conoscenza.
Ci sarebbe da scriverci un trattato di psicologia sui danni postumi  che un atteggiamento del genere può causare a un minore.
Andiamo per ordine: il lato culturale. Italia, paese che raccoglie diverse culture, tradizioni, dialetti. Tutti assolutamente da rispettare; ma la lingua che unisce tutte queste realtà, l’italiano, appartiene alla nostra identità.
Già i giovani, con la tecnologia, con la stupida mania dei cellulari a tutti i costi, stravolgono quella che è una lingua ricca e varia, che se ben appresa, sa dare molto in fatto di espressione, colore e letteratura. Quindi un padre che vieta al figlio di parlare italiano, gli preclude la possibilità di imparare, di studiare, di crescere in quanto uomo di cultura.
Il lato sessuale: si nasce, si cresce covando in sé la propria sessualità. Si è donne, si è uomini, si è omosessuali. Esserlo non significa essere deviati o anormali. È solo e unicamente essere nati con un’altra espressione della propria personalità. Affossare e reprimere la personalità del bambino, può causare seri danni al suo futuro di individuo.
Il senso di colpa: il bambino rispecchia il suo comportamento nei confronti dei genitori come se usasse una cartina di tornasole. Se viene troppo affermato, crescerà con una autostima che lo porterà a prevaricare, a non avere limiti, a non provare vergogna e buon senso. Questo messo davvero in parole povere!
Se, al contrario, lo si denigra, lo si affossa, lo si fa vergognare di continuo (qui, addirittura per qualcosa che non ha senso!), sarà una persona insicura, sofferente, la cui autostima sarà sempre sotto la soglia del normale.
Un genitore non è il padrone della vita che dà, ma è il mezzo per formare un nuovo individuo, fornendogli gli strumenti per crescere e diventare indipendente. Ha il compito di educare, ma il dovere di rispettare le tendenze di quella che è una persona.
Quindi, vediamo come questo genitore, che dimostra di non avere gli strumenti adatti per essere un buon genitore, con una sola stupida frase, rischia di stravolgere il cammino di suo figlio.
Avere figli è una grossa responsabilità, fare il genitore il mestiere più difficile in assoluto. Si sbaglia, comunque, ma col dialogo, il rispetto, si è sempre in tempo per riparare e ricucire. In questo caso, l’eredità che lascia questo padre è solo un grosso danno col quale avrà a che fare il bambino una volta adulto e, nel peggiore dei casi, gli effetti che il suo malessere potrà avere su chi gli starà accanto.
Ricordiamoci sempre che, per creare una persona violenta, una persona “svalorata”, una persona che fa del male agli altri, c’è sempre alla base altrettanta violenza: mancanza di valori, affermazione del male.

© Miriam Ballerini

24 marzo 2014

Frida e Diego di Marcello De Santis

FRIDA E DIEGO di Marcello De Santis
Sfogliando un piccolo volume di opere d'arte, senza, debbo confessare, un interesse particolare, tra le altre tele che ho visionato mi sono apparsi alcuni autoritratti femminili che mi hanno colpito in modo particolare, per l'espressione a dir poco severa del soggetto ritratto. Sono di una artista che non avevo mai visto, e della quale non avevo mai sentito neppure parlare. Il suo nome mi diceva poco, anzi, non mi diceva niente: Frida Kahlo, di cui parlerò tra poco.


Frida Kahlo 1907-1954

Sono venuto più tardi a conoscenza  - leggendo le notizie su di lei - che è stato girato anche un film qualche anno fa sulla sua vita; e sul suo rapporto duraturo ma non sempre idilliaco con un altro artista pittore (sconosciuto per me anche lui), Diego Rivera. Questa simbiosi tra due artisti pittori mi ha colpito molto, e ho pensato che come me, non molti, e forse neppure coloro che sono addentro nel campo della pittura come studiosi o appassionati, sono a conoscenza di questi due, per me, grandi personaggi. Con l'acquisire notizie sui due non so chi mi abbia poi appassionato di più, tra i due; forse la figura preponderante nel rapporto è quella di Diego, ma anche lei, la Frida in ogni momento ha imposto spesso la sua grande personalità.
Avventura appassionante il loro rapporto d'amore. Credo che prenderà anche voi. Seguitemi, dunque.

Diego Rivera nasce a Guanajuato, una meravigliosa città a nord di Città del Messico verso la fine del 1800 (1887); aveva un nome lunghissimo, o meglio una sfilza di nomi come si usa nei paesi dell'america latina, vogliamo leggerli? ecco:Diego María de la Concepción Juan Nepomuceno Estanislao de la Rivera y Barrientos Acosta y Rodríguez; e scusate se è poco, ma noi lo chiameremo soloDiego.


visione della città di Guanajuato 
posta a 2000 metri sul mare
che mostra le case coloratissime 

Grazie a due importanti borse di studio, si reca giovanissimo in Europa; in Spagna studiò alla scuola di Eduardo Chicharro;  fu anche in Italia; ma fu in Francia che si avvicina ai vari movimenti del primo novecento: primi fra tutti cubismo e futurismo. Qui sposa una pittrice russa, tale Angelina Beloff. Poi torna in Messico dove esercita la sua arte che ha preso una direzione ben precisa: i murales, con un fine ben preciso: politico e sociale, diventando in breve il più bravo rappresentante di questo genere di pittura. Si sposa ancora, dopo aver avuto una figlia da una donna Marie Vorobeb, che non volle riconoscere; stavolta conGuadalupe Marìn, unione che dura solo cinque anni e dà due figlie. Divorzia. Nel 1929 sposa Frida.


Una bellissima foto color seppia, nella quale 
Diego è con la moglie Frida, che aveva sposato nell'anno 1929

Diego Rivera era un uomo alto, grosso, all'apparenza rozzo, forse meglio definirlo un omaccione robusto e con una pancia prominente; affatto di bella prestanza; mentre la sua Frida era minuta ed esile da non dire (anche se forte di carattere). Per avere un'idea della figura di Diego si può avere oltre che dalle foto, soprattutto dai ritratti e autoritratti.

Diego in due ritratti eseguiti da Amedeo Modigliani 
che il pittore conobbe a Parigi

Frida conobbe Rivera quando andò lei stessa a trovarlo per mostrargli alcune sue opere; ed avere un suo giudizio. Dico: andò lei stessa, e vi parrà strano: invece no,  perché la ragazza all'età di 17 anni aveva avuto un terrificante incidente di macchina che la ridusse in condizioni pietose (delle quali tra poco diremo) paralizzandone tra le altre cose i movimenti; aveva dunque da poco ripreso a camminare, anche se sopportando dolori che non l'avrebbero mai più abbandonata per tutta la vita. Si recò dunque "con le proprie gambe" dal pittore già famoso per i suoi immensi straordinari murales. Rivera mostrò tutto il suo interesse per le tele; e le fece i complimenti.
Frida aveva 20 anni meno di colui che poi diventerà suo marito, per ben due volte. Era nata infatti nel 1907 a Coyoacán una vasta zona a nord di Città del Messico, sede di scavi delle antiche popolazioni che l'abitarono fin dal 300 a.c.


Frida, uno dei tanti autoritratti

Il padre era immigrato tedesco che sposò una donna del posto. Quando scoppiò la rivoluzione messicana nell'anno 1910 dunque Frida aveva tre anni, ma lei ha sempre sostenuto di essere nata proprio nel periodo della rivoluzione; in tal modo "si sentiva figlia della rivoluzione", come affermava.
Ma veniamo al grave incidente che ha indirizzato la sua vita. Come detto aveva 17 anni, un autobus su cui viaggiava si scontrò con un tram. Spaventoso. Rimase gravemente ferita: varie fratture per tutto il corpo: alle vertebre lombari le più gravi, ma anche il bacino ne subì addirittura cinque. Per non dire del piede e della gamba destra, fratturati in ben 11 punti. Sfortuna delle sfortune, un corrimano dell'autobus, staccatosi nell'urto tremendo, l'infilzò e la passò da parte a parte, entrando dal fianco e uscendo dalla vagina. Subì una quarantina di interventi che la condizionarono enormemente. 
Va detto anche che Frida (all'anagrafe Magdalena Carmen Frida) era nata con una strana malattia, che fece pensare a una forma di poliomielite (che forse giudicarono fosse ereditaria, infatti anche la sorella più piccola ne soffriva). Si trattava invece di "spina bifida", una malformazione del midollo spinale (prenatale) che comporta una chiusura anomala di alcune vertebre. Per anni dovette vegetare stando a letto, prima in ospedale, e poi, dimessa, a casa. Il busto, confezionato appositamente per lei sulla sua figura, busto che la stringeva per tutto il corpo, la privava di quasi ogni movimento. Da quel momento la vita di Frida va avanti portandosi nell'anima rabbia e dolore, e facendo dell'artista una persona all'apparenza fragile ma forte dentro risoluta a vivere la sua vita tutta intera.


Frida - autoritratto - la colonna spezzata, 1944
è l'opera che più rappresenta la vita di Frida 
segnata per sempre dal grave incidente che subì a 17 anni.
Qui la ragazza si dipinge in piedi con alle spalle un deserto 
(che abbia voluto rappresentare la sua vita da quel momento?)
La faccia con una espressione troppo seria, quasi triste, che guarda e non vede.
E' nuda, con delle cinte che la stringono forte per tenerla diritta
ma con tutto il dolore che ha dentro di sé, 
rappresentato dai tanti chiodi che sono infitti nella carne viva

Doveva trovare, Frida, un modo per passare il tempo nella posizione scomodissima che  l'amareggiava non poco, insieme al futuro nero che aveva costantemente davanti agli occhi. I genitori s'inventarono il modo di agevolarla; le fecero costruire un letto con una specie di baldacchino, con uno specchio in alto in modo che potesse vedersi. Costretta in questa scomoda posizione, Fridaleggeva, leggeva molto, specialmente libri di politica, e in particolare sul movimento comunista. Poi il papà le regalò dei colori e delle tele. Frida vedeva solo il suo viso e immaginava o vedeva anche il suo corpo martoriato. E prese a dipingersi, ché non poteva ritrarre che se stessa. Nacquero i primi autoritratti. Solo molto più tardi, il gesso e l'altro materiale dell'imbragatura fu rimosso e poté cominciare i primi esercizi di deambulazione; e pian piano riprese in qualche modo il suo camminare.

Torniamo al rapporto con Diego Rivera. Una volta ripreso a camminare volle dunque far vedere le sue opere al pittore; e si recò a casa sua. Questi giudicò i suoi dipinti di una modernità assoluta; e la ricoprì di elogi e consigli fino a divenire il suo pigmalione. E dato che anche lui era inserito nella cultura e nella politica comunista messicana (i suoi murales riportavano solo grandi scene anche con personaggi del partito, messi qua è là), la inserì nel suo ambiente; lei ne fu conquistata, tanto che divenne una attivista (nel 1928 si iscrisse al partito).
Prima o poi, era destino, doveva scoppiare l'amore, era scritto; lei si innamorò, lui ricambiò, e quel che doveva avvenire avvenne; si sposarono un anno dopo, nel '29, anche se Frida sapeva che Diego era un donnaiolo, e conosceva le molte avventure amorose del pittore (che era, lo abbiamo detto più sopra, al suo terzo matrimonio).


Frida e Diego

Nei suoi dipinti il pittore messicano era solito ritrarre la gente anche se collocava le persone in situazioni che ricordavano la politica e il suo militarismo nel partito comunista. Presto abbiamo detto si dedica ai grandi affreschi creando murales mai più superati per bellezza e interesse da altri dopo di lui. I colori sono vivaci e gli argomenti sono quelli propri della rivoluzione messicana di inizio 1900. Una rivoluzione dura e lunga che durò ben 17 anni (1910-1917) e che terminò con la promulgazione della nuova costituzione. Ma il suo impegno non finì con essa, perché scoppiò la rivoluzione russa ed egli si prodigò ancora, come del resto fece per tutta la vita, portando i suoi sentimenti e le sue idee sui molti murales messicani e non.


Diego Rivera: murales del Palacio National

Diego Rivera fu chiamato in America, per dipingere alcuni muri e alcune opere per la fiera internazionale di Chicago; andarono insieme, lui e Frida; in quel periodo di intenso lavoro, lei rimase incinta; sembrava che dovesse andare tutto bene, ma quando era già avanti colla gravidanza abortì a causa della sua fragilità e delle condizioni del suo corpo che risentivano chiaramente dell'incidente e delle mille operazioni subite. Tornarono in Messico, anche perché a Diego Rivera furono revocati gli incarichi che erano stati stabiliti. La causa della rescissione dei contratti fu questa. Dipingeva affreschi su un muro all'interno del Rockefeller Center di New York, gli venne l'idea di ritrarre in uno dei tanti volti del murale il volto di Lenin. Gli fu intimato - all'esame di una commissione - di cancellarlo, Ma il pittore rifiutò. Ecco il murale incriminato


Palacios Bellas Artes - Città del Mexico: il murales di Diego Rivera 
Sulla destra guardando, è riconoscibilissimo il volto di Lenin. Qui sotto un ingrandimento del particolare


Lenin nel particolare del murale al Rockefeller Center di New York
ma della copia riprodotta dall'artista una volta tornato a Città del Mexico.
Infatti l'orginale del Rockefeller Center a seguito del suo rifiuto su fatta cancellare, 
ed oggi là esiste una nuova opera, di molto inferiore a quella di Diego, 
dipinta da un artista sconosciuto

Contemporaneamente al suo lavoro le sue scappatelle extramatrimoniali (e talvolta molto più che semplici scappatelle) si moltiplicavano, e Frida sapeva; e sopportava. Anche se qualche volta sentendosi sola e abbandonata si consolò anche lei per ripicca con amanti sporadici, e anche con esperienze omosessuali occasionali. Ebbe allora diversi amanti dell'altro sesso; tra tutti una relazione abbastanza seria con Lev Trotsky, sì, proprio quella della rivoluzione russa, emigrato laggiù, e ospitato in casa dei coniugi Rivera per alcun tempo, prima di avere una seria discussione sulle idee di portare avanti la lotta contro il potere con Diego; allora lasciò la casa.


Lev Trotsky

Trotsky venne ucciso nel 1940 proprio là, al paese di Frisa, nella sua dimora a Coyoacàn da tale Ramòn Mercader un emissario stalinista; che gli ficcò una piccozza nel cranio, mentre era prono alla sua scrivania a leggere un articolo di politica. Un altro amante (si dice) fosse André Breton, il pittore francese che portò le sue opere a Parigi in una mostra. Breton ebbe a dire di lei che fosse "una surrealista creatasi con le sue mani"; definizione che sapeva le avrebbe portato giovamento e riconoscimenti, ma che respinse sempre; voleva essere originale per conto suo.
Non ne poté più; fu lei a prendere la decisone cruciale; separarsi; ma non voleva rompere i ponti definitivamente con il suo maestro e marito. Decisero di vivere in due case, vicine e pure collegate tra di esse; la scusa era di avere ognuno il proprio spazio per lavorare, ma in realtà era perché Frida non sopportava più le relazioni extra del suo uomo.
Anno 1939.
Erano passati dieci anni dal matrimonio dei due, e Frida chiese il divorzio. La causa scatenante fu l'accorgersi della relazione di Diego anche sua sorellaCristina. Divorzio che ottenne. Ma stettero lontani appena un anno ché Diegotornò da Frida, che nonostante tutto amava ancora. E tanto anche, le fece una nuova dichiarazione d'amore. Si proclamò pentito. Lei si piegò (l'amava anche lei, del resto), e l'anno dopo, nel 1940, si risposarono a San Francisco.


Diego Rivera: scalone del Palacio National 
Città del Messico 1929-1930

Frida apprese moltissimo in pittura dello stile misto alle idee politiche di Diego Rivera, tanto che continuò sì a dipingere autoritratti, ne fece tantissimi; ma stavolta tutti con fattezze e caratteristiche antichissime, proprie delle donne messicane, per tenere sempre vive le tradizioni del suo paese che amava. Vissero insieme fino alla morte di Frida avvenuta nel 1954; negli ultimi tempi gli arti inferiori si infettarono e per una cancrena che rese irrecuperabile una gamba, questa le venne amputata.

Nel 1950 Rivera fece i dipinti per l'opera Canto General di Pablo Neruda. Cinque anni dopo, alla morte della moglie, si sposò una quarta volta, con tale Emma Hurtado, ed emigrò in Russia per sottoporsi ad una operazione chirurgica. Non si riprese più, visse per altri due soli anni e alla età di 70 anni morì a Città del Messico dove era tornato.
Postiamo qui ancora due autoritratti dei grandi artisti, sperando di fare cosa gradita al lettore:



Frida scrisse e portò avanti un diario molto prezioso per le notizie che ci ha fatto avere; in esso - tra le altre cose - memore della definizione di "surrealista" datale da André Breton, lasciò questa frase: pensavano che anche io fossi una surrealista, ma non lo sono mai stata. Ho sempre dipinto la mia realtà, non i miei sogni.
Una settimana prima di morire Frida volle vergare di sua mano qualcosa sulla sua ultima tela; intinse il pennello in un barattolino di vernice rosso sangue, e scrisse il suo nome, Frida, seguita dalla data e dal suo paese, Coyaocàn. e - in lettere maiuscole - VIVA LA VIDA.

marcello de santis

21 marzo 2014

Commiato - l'ultimo romanzo di Umberto Lucarelli

COMMIATO. L’ULTIMO ROMANZO DI UMBERTO LUCARELLI
Bello anche il titolo”. E speriamo che non sia l’ultimo…

«Commiato (bello anche il titolo, con quel tanto di controllato, eppure doloroso distacco che la parola porta con sé) è un bel romanzo breve di Umberto Lucarelli o – se si preferisce – un lungo racconto che si divide in due parti. La prima è dedicata al commiato dell’io narrante dalla madre, la seconda dal padre». Non poteva usare parole più concise Roberto Carusi nella sua prefazione Una oggettiva soggettività per descrivere l’opera, edita da Bietti, Milano 2014. È l’autore che si rapporta karmicamente e se vogliamo anche freudianamente alle figure genitoriali. Il “Commiato” si prospetta nella mentalità del Lucarelli come un’autoanalisi che è individuale, ma nello stesso tempo cosmica, cioè delinea delle junghiane figure ancestrali. Mi verrebbe da pensare subito ad Adamo ed Eva. L’ontogenesi coincide con la filogenesi: il cammino del singolo prefigura quello della specie. In questo senso dobbiamo guardare a queste figure genitoriali prospettate da Umberto. L’uomo è microcosmo, la sua autobiografia racchiude, come in uno scrigno, anche quella dell’universo intero. La vita, d’altronde, è ben sintetizzata dal Nostro, sin dalle prime battute: «Morire è come nascere, è questione di fiato, arriva un’aria e tu respiri, va via l’aria e non respiri più» (p. 17). La vita è respirazione. «Cosa sono i ricordi? Sono come quelle foto che perderanno colore, tutto è destinato a finire, a sbiadire e a corrompersi. Ciò che resta è il nulla, il niente assoluto, il vuoto profondo…». C’è un riflesso di nihilismo esistenzialistico, quasi di humeano scetticismo. L’uomo stesso è un fascio di impressioni che si riflette nel palcoscenico della vita. E questa vita stessa, come proferivano tutti i poeti, i filosofi, i saggi, gli scrittori, da Cartesio a Schopenhauer, da Nietzsche a Freud, è sogno infinito. Molto belle allora le parole di questo commiato, sia quelle rivolte alla madre, che quelle rivolte al padre. Ne riportiamo solo degli assaggi: «la vita stessa è a termine, eppure continua. La gente prima ti dice condoglianze, dopo un po’ ti chiede se è passata, ora va un po’ meglio, come stai? Cos’è che va un po’ meglio? … Chiusa la bara, fatto il funerale, si torna al lavoro, si torna alla normalità, come se la nostra vita non consistesse nel morire» (p.29). E al padre: «Siamo ricordo, sogno. Un po’ di voce. Li guardava il babbo i suoi amici, li elencava. Vedo fantasmi, diceva, vedo persone, ma mi pare di non conoscerle, sarò vicino a morire. E i suoi occhi cerchiati di grigio, i capelli sottili, tirati indietro» (p. 75). Proprio come dicevamo! Siamo tutti, per usare un titolo di Turgenev, padri e figli, figli che diventano padri e figlie che diventano madri nel turbinio errante dell’esistenza.

Vincenzo Capodiferro

17 marzo 2014

Amabili resti di Alice Sebold




AMABILI RESTI                  di Alice Sebold
© Edizioni E/O 2002 dal mondo.
ISBN 88-7641-513-0    Pag. 371  € 18,00

Prima di avvicinarmi a questo libro, ne sono stata attratta per aver visto una trasposizione teatrale, quindi il film.
La storia mi piaceva molto, soprattutto per l’originalità di far raccontare gli avvenimenti da una vittima deceduta.
È un libro che, se appassionati del genere, lo si legge presi letteralmente per mano dalla protagonista: la piccola Susie Salmon di 14 anni, stuprata e uccisa dal suo vicino di casa.
Susie si trova in Cielo, un cielo che ripropone ciò che si desidera: la casa, i luoghi, i mobili… e, da
lassù, si può continuare a seguire la vita delle persone care lasciate, in questo caso brutalmente, a
se stesse.
Molti i particolari che emergono leggendo il libro e che, nel film, non vengono citati: le emozioni di Susie, lasciate in sospeso. Il suo primo bacio e lei che non diverrà mai adulta, che mai proverà esperienze, emozioni, sensazioni che sua sorella Lindsey sta sperimentando. E lei, lì accanto, ne è felice e le raccoglie come sue.
Inevitabilmente, per le persone che rimangono vive, le cose continuano ad accadere e, per ognuno, assimilare il concetto della scomparsa e della morte della ragazza, è un percorso intimo e personale.
Il padre impazzisce di dolore, quasi non accorgendosi che ha al fianco un’altra figlia e un figlio più piccoli, che comunque continuano ad esserci e ad avere bisogno di lui.
Il fratellino che, troppo piccolo, chiede dov’è Susie e che, una volta adulto, affronterà tutto in modo più maturo.
La sorella che procede e si rende conto di essere viva, che questo non è una colpa.
La madre che trova rifugio nelle braccia del poliziotto che segue le indagini; abbandonerà la famiglia, per poi tornarci.
E, protagonista quasi invisibile come il suo personaggio: George Harvey, il serial killer. Susie è solo una delle tante vittime di quest’uomo dall’apparenza insignificante. Che quasi non lo si nota, ben integrato nel tessuto sociale, gentile e cortese. Un anonimo costruttore di case di bambola.
Nel romanzo troviamo anche il suo punto di partenza, il perché un bambino possa crescere diventando un mostro.
E, non da ultima, Ruth, amica di Susie che riesce a vederla, a sentirla.
Tanto che un giorno il Cielo, concede che le due si scambino i loro corpi: Ruth riesce così a entrare in comunicazione con l’Aldilà, riuscendo a incontrarsi con le donne delle quali ha “sentito” la presenza dopo la loro morte violenta. Susie, invece, riesce a fare l’amore col suo primo e unico ragazzo, sentendo così, cosa avrebbe provato da viva, se fosse cresciuta.
È complesso come libro, anche se cerca di spiegarci cose difficili in modo semplice. Unica pecca qualche passaggio un po’ contorto, poco comprensibile.
In fondo al libro troviamo una piccola nota biografica sulla scrittrice: il suo primo libro parlava dello stupro che aveva subito nel 1981.
Ho trovato dolorosamente stupendo che non ci sia odia nel suo scrivere, ma solo il desiderio di avvertire, di mostrare le conseguenze, di condividere come il male crei il male.

© Miriam Ballerini

Intervista al Presidente del Consiglio Regionale della Lombardia Raffaele Cattaneo

Intervista al Presidente del Consiglio Regionale della Lombardia Raffaele Cattaneo

           RIFORME COSTITUZIONALI : UN NODO DA SCIOGLIERE
        Il ruolo delle autonomie locali – Il dibattito sul Titolo V della Costituzione                                                   di Antonio Laurenzano


E' in corso nel Paese un dibattito a più voci sulla Riforma del Titolo V della Costituzione, quello che disegna le autonomie locali: regioni, province e comuni. la Legge di riforma del 2001 modificò sostanzialmente il riparto delle competenze legislative e finanziarie fra Stato e Regioni nell'intento di dare allo Stato italiano una fisionomia più' "federalista", si tratta ora di riequilibrare il rapporto fra i vari livelli di governo e renderli compatibili con l'autonomia di spesa e fiscale.
Per fare luce su un tema di vitale importanza per il futuro delle comunità' locali e quindi dei cittadini, ne parliamo con il Presidente del Consiglio  Regionale della Lombardia, Raffaele Cattaneo.
-Quale utilità hanno le Regioni? I livelli intermedi di governo locale servono davvero o sono soltanto enti inutili, come spesso vengono dipinti dai mass media all'opinione pubblica?
Il dibattito è stato riaperto dal neo premier Matteo Renzi che ha ributtato sul tavolo il tema delle riforme costituzionali. Il Consiglio regionale ne ha discusso il 13 e il 25 febbraio durante ben due sedute tematiche nelle quali, su mia proposta, abbiamo approfondito il tema delle riforme approvando un ordine del giorno e un allegato condiviso a Roma con i Presidenti di tutti i Consigli regionali italiani. Il tema delle riforme istituzionali è certamente di grande attualità nel dibattito politico ed è sotto gli occhi di tutti il formidabile attacco che in questi mesi si sta attuando nei confronti delle autonomie locali: dal patto di stabilità che ha amputato la capacità di azione dei comuni, alla prospettata cancellazione delle province, trasformata poi nella mera  eliminazione  dei livelli elettivi.

-Ma l’attacco alle autonomie locali è soltanto una variabile della “spending review”? Qual è la vera posta in gioco?
Contrastare la deriva in atto è necessario innanzitutto per una ragione ideale: senza più alcun livello istituzionale tra il cittadino singolo e lo Stato, senza corpi intermedi, società di mezzo, autonomie locali e sociali ci sarà solo meno libertà reale, meno difese dalle invadenze dello Stato e meno benessere per tutti. Non è certo un nuovo centralismo che potrà risolvere i problemi del Paese. Ma è ancor più grave che sfugga ai più nel dibattito attuale - tutto centrato sul tema dei costi della politica, delle indennità, degli sprechi (che certo, sia ben chiaro, vanno contrastati) - la consapevolezza che le autonomie rappresentano un baluardo reale per la libertà di tutti.

-Qual è il ruolo dei corpi intermedi nel rapporto fra Stato e cittadino? In cosa si concretizza la loro centralità istituzionale?
 Una società senza corpi intermedi è una società più debole e più esposta a tentazioni autoritarie. Il rischio che stiamo correndo è altissimo: sacrificare le autonomie locali, buttandole via senza renderci conto del danno che facciamo alla vita concreta di tutti. Ambiti come la sanità, scuola, agevolazioni per le imprese, regole per il commercio, il territorio, l'ambiente, giusto per fare alcuni esempi, sarebbero veramente gestiti meglio delegando le competenze a Roma anziché sul territorio? Ecco perché la Lombardia sul tema del Senato delle Regioni, riforma del Titolo V e revisione degli assetti dei livelli intermedi di governo ha ritenuto di lanciare una proposta. Innanzitutto, sul superamento del bicameralismo perfetto, attraverso la costituzione di un Senato delle Regioni e delle Autonomie che dovrà essere composto per almeno due terzi da rappresentanti provenienti dalle Regioni e per il terzo rimanente dagli Enti locali, entro un numero complessivo non inferiore a 80 e non superiore a 200, tenendo conto della popolazione di ciascuna Regione.

-A quali risultati dovrebbe pervenire la Riforma del Titolo V? Si arriverà a un nuovo e più equilibrato rapporto fra Stato e Regioni?
Sulla riforma del Titolo V, l'idea è quella di lasciare la potestà legislativa esclusiva dello Stato solo per le materie sulle quali vi è un oggettivo e prevalente interesse nazionale. È anche opportuno riflettere sulla riduzione del numero attuale delle Regioni italiane con l’obiettivo di costituire enti regionali più ampi (si può ad esempio scendere da 20 a 9), mantenendo le province o comunque enti di area vasta elettivi in numero inferiore all'attuale (50/60 anziché 107) e limitando al minimo la creazione di città metropolitane (ne bastano 3).

-La Regione Lombardia come si pone nel dibattito in corso a difesa delle autonomie locali?
La Lombardia all’interno di questo dibattito per prima ha tenuto una posizione costruttiva e di contenuto, consapevole del suo ruolo di traino del regionalismo italiano. Il mio auspicio è che ora anche in sede di Conferenza delle Regioni sia possibile ottenere una posizione unanime di tutti i governatori, così come già avvenuto durante la Conferenza dei Presidenti delle assemblee legislative. Solo una posizione forte e univoca di tutte le Regioni potrà contribuire a preservare il patrimonio inestimabile delle nostre autonomie.

12 marzo 2014

Appunti per la ricerca di una direzione di Maria de Carlo



APPUNTI PER LA RICERCA DI UNA DIREZIONE
Saggio su Martin Buber di Maria De Carlo

In questo saggio, Appunti per la ricerca di una direzione, edito da Graphie, l’autrice Maria De Carlo affronta il controverso tema della crisi dell’uomo contemporaneo nella filosofia di Martin Buber. Due istinti dominano l’uomo: quello buono, in linguaggio buberiano della “direzione”, e quello cattivo, della “non-direzione”. L’uomo contemporaneo ha smarrito la via che conduce a Dio. L’uomo si ritrova, per adusare una metafora dantesca, in una sorta di crisi di mezza età, in una “selva oscura”, ove “la dritta via era smarrita”. La causa principale di questo smarrimento va ricercata nel profondo egoismo dell’estremo individualismo in cui è incappata l’umanità. Questa malattia, accentuata dal materialismo e dal consumismo sfrenato compromette, la capacità dialogica dell’essere umano. L’uomo dell’età tecnologica non parla più, o per citare una forte espressione heideggeriana «L’uomo contemporaneo non pensa più!». Questa malattia lo porta, come scrive De Carlo «alle più alte vette della solitudine e della disumanizzazione». Di qui la forte esigenza di interrogarsi, di mettersi in ricerca. È il caso di ricordare Socrate: una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta. Di qui l’importanza di ritrovare una direzione: «Sapere dove andare equivale a dar senso a ogni nostro gesto, a ogni nostro incontro, a ogni nostra scelta». In una società baumanianamente liquida, ove non vi sono più punti di riferimento, non più isole, continenti, persino scogli, in questo infinito mare, siamo come naufraghi che a stento ci aggrappiamo a qualche relitto. In questa condizione il classico “animale razionale” ha preso la strada della perdizione, dell’incostanza, è rimasto solo l’arcipelago degli ego. In un aggregato atomico di individui che si mescolano o dividono secondo leggi meccaniche o casuali non vi è più spazio per una direzione. La direzione richiede una finalità. L’atomismo degli aggregati sociali, il molecolarismo ontologico, l’alienazione dissacrante della tecnologia onnicomprensiva ci hanno portato ad un’età critica, dall’umanesimo siamo passati pian piano con l’involuzione della rivoluzione scientifica prima, poi quella industriale fino all’epoca postindustriale, ad disumanesimo integrale. Gli intellettuali, tra cui Buber, ci avevano avvertito. Maria de Carlo è nata a Potenza. Laureata in filosofia è docente, giornalista, pubblicista e saggista. Ha pubblicato, tra l’altro: Uscire dall’egoità. Saggio su Emmanuel Levinas.

Vincenzo Capodiferro

Le periodiche di Marcello De Santis



LE PERIODICHE di  Marcello de Santis



foto di gruppo di suonatori cantanti e danzatori 
nella Napoli di una volta


Era una decina di anni fa. Il mio amico Pino, di Frattamaggiore (Napoli), ma da anni stabilitosi qui dalle mie parti, mi invitò a partecipare a una "periodica", e con me altri amici e suoi conoscenti. Accettai di buon grado, amante come sono di cose napoletane e speranzoso almeno di ascoltare qualche canzone o poesia napoletana. Eravamo invitati ad ascoltare e a recitare.
Pino dettò anche l'argomento che ognuno doveva rispettare nella sua esibizione; dovevamo creare dunque, o cercare, un'opera in ogni campo della cultura da presentare nella serata. Il tema era: Come pioveva.
Fu indimenticabile, quella serata, come lo furono le altre che seguirono ininterrottamente per ormai dieci anni.
Io presentai La ballata della pioggia, una ballata estemporanea e pazzerella, in versi, che piacque molto. Non ricordo se di questa prima serata Pino fece una raccolta dei testi, corredata da fotografie, come poi fece per le successive. Io ho le due raccolte che egli fece poi delle opere e delle foto della seconda e della terza che si tennero a casa sua, nella stupendo rustico all'uopo preparato con tanto di amplificazione microfoni e alcuni strumenti musicali pronti per essere adoperati.
2a periodica 22 marzo 2003 
periodica di primavera: Pane pomodoro e basilico

3a periodica 7 giugno 2003
periodica dei colori:  Giallo van gogh.

Oggi la periodica dell'amico Pino come ho detto, continua, una all'anno, verso novembre, di sera, e finisce con tante buone cose da mangiare, (ognuno porta qualcosa, (qualcuno la sua specialità), dalla pasta al forno alle penne all'arrabbiata, dalla pasta e fagioli alle lenticchie con salsicce; dalle frittate alle insalate russe, dai panini imbottiti ai taralli napoletani; e poi i dolci, a volontà, compresi profiteroles e bigné).
La prima volta, ricordo, con la sua chitarra a tracolla (è anche un estroso cantante - e in questa veste si presenta ogni volta - e attore di commedie napoletane con una compagnia locale di bravi appassionati), si portò davanti al microfono, dette il benvenuto a tutti noi (ognuno dei presenti con mogli e mariti e anche figli grandi) e illustrò l'intento della serata; spiegò che cos'era la "periodica", molti infatti non la conoscevano; facendo una breve storia della stessa.
E' ciò che mi accingo a fare qui io, sperando di farvi cosa gradita.

Nelle periodiche ci si riuniva per stare insieme, ma soprattutto per ascoltare musiche e parole di future canzoni o poesie o arie di opere. Tra un bicchierino di liquore e un dolcetto.
Nelle dimore dei signori, queste riunioni si tenevano nei famosi salotti, in alternativa a quelli propriamente letterari, in cui, davanti alle persone che ascoltavano, si esibivano, di volta in volta, i partecipanti stessi alle pomeridiane o serate. Va detto che queste riunioni si organizzavano anche tra la gente del popolo; e anche del popolino. In questo caso nella sala delle più o meno modeste case prestate all'uopo da uno dei partecipanti (il padrone di casa) ci si radunava intorno ad un modesto grammofono, e ci si limitava ad ascoltare canzoni romantiche napoletane o canzoni comiche, o scenette divertenti, le famose "macchiette", (che però, è bene precisarlo, si presentavano anche nelle case dei nobili o dei benestanti).

Nei salotti nobili, che erano i luoghi più importanti delle case, arredati con maggiore cura, se possibile, nell'abbondanza e nel calore proprio di un ambiente che era delegato ad accogliere gli ospiti i più diversi, si offrivano ogni genere di prelibatezze, presentate agli ospiti arrivati in vesti eleganti, il tutto disposto in bell'ordine in cospicue tavolate di buffet freddi.


salotto letterario francese del 700.
I salotti in cui si tenevano le periodiche, che sarebbero nate a Napoli circa un secolo e mezzo dopo, derivano proprio da quelli di allora. 
Anche a quei tempi, dunque, si riunivano amanti della cultura, (nella foto una signora sta leggendo un'opera di Molière), e anche allora si declamavano versi (non ancora canzoni),ma si discuteva anche di filosofia e di politica.

All'inizio erano gli stessi padroni di casa a fare gli inviti con lo scopo precipuo di presentare le loro opere; recitare o cantare; una zia al pianoforte, un figlio o una figlia a cantare, e la mamma e il papà ad ascoltare compiaciuti e a ricevere omaggi e complimenti dai presenti. I partecipanti erano agli inizi amici e parenti, più tardi gli inviti ad esibirsi vennero estesi anche ad altri potenziali sconosciuti artisti nel campo della musica o della poesia; o della recitazione. 

Nelle case (modeste) della gente comune, invece, si radunavano famiglie intere, vale a dire il vicinato dell'ospite; era lui che quasi sempre aveva un grammofono che si onorava di mettere a disposizione. A fine serata poi, o al termine della pomeridiana sul primo imbrunire, si mangiavano dolcetti comuni, o anche gelati, ma per lo più taralli; bagnati da bicchieri di vino (da cui il termine oggi ancora molto in voga, "finire a tarallucci e vino", a significare "in modo prettamente amichevole").
Un cenno su questo dolce di Napoli, il tarallo, (dolce diffuso anche in tutto il meridione in generale): un impasto di acqua e farina con sugna e pepe, rinforzato e ingentilito con mandorle. 

Come stiamo vedendo, dunque, era lo stato sociale dei partecipanti a queste riunioni a determinare il genere della manifestazione e del mangiare.

Soffermiamoci sulle periodiche che si tenevano nei salotti dei signori, (quelli dei nobili, per intenderci), che sono poi quelle che hanno dato la fama al termine di "periodica", termine determinato dal fatto che le pomeridiane o le serate d'arte si ripetevano nel tempo, con date stabilite di volta in volta.
Al termine di una serata ci si dava nuovo appuntamento; e ognuno, allo stesso tempo partecipante attore e spettatore (e critico attento del cui parere si teneva molto conto) aveva tutto il tempo per preparare magari una nuova poesia, un nuovo testo di canzone, e il musicista per lavorare a una nuova melodia che poi - rivestiti i versi di una poesia - veniva presentata come canzone; e così che sono nate molte grandi canzoni napoletane.  
Più tardi si presentavano, invitati magari perché già di una certa notorietà, anche attori dilettanti o cantanti alle prime armi; e anche improbabili personaggi con scketc divertenti, e scenette comiche; nacquero in questo modo le macchiette molte delle quali diventate celebri. C'erano canzoncine ironiche alternate in genere a monologhi spiritosi  o versi burloni, sempre accompagnai da una musica che si adattava perfettamente al testo (una deriva senz'altro dalle opere buffe della fine '700).
L'interprete degli scketc presentava un personaggio della vita reale, che andava dall'esattore delle tasse all'onorevole o al guappo, facendone una caricatura esasperante il più delle volte, trasformando in senso comico il carattere e la fisionomia; e si usavano espressioni a doppio senso, spesso volgari, ma anche grotteschi; con lo scopo precipuo di far ridere.
Uno dei più assidui frequentatori dell'ambiente era Armando Gill, che è considerato il primo cantautore della canzone sia italiana che napoletana. Si chiamava Michele Testa, Armando Gill era il suo nome d'arte, era nato a Napoli nel 1877 e ivi morì nel '45 alla bella età di 78 anni; è sua la più famosa canzone italiana di tutti i tempi: Come pioveva, scritta nel 1918. 
Era anche molto spiritoso, tanto che amava presentarsi a queste periodiche, annunciando la canzone che intendeva presentare - di cui era autore sia del testo che della musica,  in questo modo:
versi di Armando, musica di Gill, cantati da sé medesimo.

Era - come detto - la Napoli di una volta, quella dell'ottocento, per intenderci, e anche del primo novecento; quella, ricordate? delle cartoline con il pino.


eccolo il famoso pino ad ombrello sul panorama del golfo di Napoli con sullo sfondo il Vesuvio
Il pino è stato abbattuto nel 1984 a causa di una malattia che ne ha minato la vita
L'albero  che era il simbolo della città aveva ormai 129 anni, era stato ritratto da tutti i pittori  e i fotografi del mondo.
il pino era stato piantato verso la metà dell'ottocento sul clinale vicino alla chiesa di Sant'Antonio, sulla collina di Posillipo, immortalata poi in moltissime canzoni classiche napoletane.

La periodica non era esattamente un "fare salotto", tutt'altro; ci si riuniva per fare spettacolo, per esibirsi in maniera artistica o quasi. I principali personaggi di queste assemblee erano, come detto, attori, cantanti, poeti; e musicisti (di pianoforte o di mandolino e calascione); erano allo stesso tempo interpreti e pubblico; un insieme generalmente di poche persone, spesso competenti e preparate. A volte un pianista e un cantante c'erano anche nelle sale dei meno abbienti, laddove il pubblico era senz'altro più numeroso e più caloroso, anche se meno competente (ma non tanto, alla fin fine). Si dava modo così a giovani e talvolta giovanissimi, per lo più esordienti - siano essi cantanti o compositori - di presentare le proprie opere, che se valide avevano immediatamente una diffusione di una certa importanza.
Vedremo tra poco in quale maniera.

Per esemplificare facciamo il caso di una canzone.
I tre protagonisti di essa, l'autore delle parole, l'autore della musica e il cantante (o solo due, se uno di essi era anche l'interprete) presentavano la canzone; il musicista accompagnando al pianoforte o il cantante; e l'autore del testo, magari fumandosi una sigaretta da un lungo bocchino, assisteva appoggiato al piano. E se la melodia era bella e di rapida presa, e la spontanea partecipazione dei presenti esprimeva il loro consenso con applausi più o meno caldi,  il successo era quasi scontato.
Si suonava e cantava a primavera, o in estate, e le finestre del salotto erano spalancate magari sul mare di via Chiaia o sul lungomare di via Partenope; o sui balconi di Posillipo.
Se la riunione si teneva in una sala di gente popolana, le porte del vascio o la finestra del quartino si apriva magari su un angusto vicolo del Monte di Dio, o su una delle stradine che salgono più o meno parallele ai quartieri spagnoli.
In ogni caso di sotto o fuori c'era sempre un pubblico suppletivo che come quello invitato in casa, ascoltava con attenzione e godeva con gioia le esecuzioni musicali e canore. E si ripeteva là per là il motivo accattivante e - quando eclatante - lo si  imparava immediatamente, trasportandolo in giro. Nei giorni successivi della canzone si stampavano le "copielle" che erano il mezzo principe della diffusione del motivo e delle parole.

La copiella, come dice la parola stessa, era costituita da un solo foglio, cui erano stampate le parole, e anche, più spesso, anche alcune righe dello spartito musicale; spesso questo foglio era stampato clandestinamente, e si diffondeva abusivamente in giro per i quartieri della città. E se ne appropriavano i suonatori ambulanti, quei signori che col tempo sarebbero diventati poi posteggiatori veri e propri con una propria professione. Che cantavano e ricantavano per le vie per i vichi per le piazze di Napoli il motivo nuovo, che dopo un po' nuovo più non era.
Quando le copielle venivano stampate dalle case editrici, che ne erano proprietarie (avendo acquisito i diritti della musica e delle parole) queste venivano vendute a prezzi accessibilissimi, alla portata di tutte le tasche. Se poi una canzone diventava molto nota grazie a una serata o una pomeridiana di una periodica, veniva ripresentata anche in successive periodiche, invitando gli autori e il cantante (che magari era diventato celebre anche lui, grazie alla sua voce e alla canzone) a nuove serate; e qui venivano accolti con il calore e il rispetto che era loro dovuto; e con il titolo, talvolta, di "maestro".

Le copielle venivano dunque vendute e distribuite in varie maniere. Uno dei modi era quello che usavano i trascinatori dei pianini o organini che a Napoli cominciarono a spargersi all'inizio dell'ottocento. La gente si affollava intorno a questo strumento ad ascoltare la musica che usciva fuori da una cassa armonica rurale, al cui interno ruotava un cilindro dentato; strumento che arrivava trainato da un somaro o spinto tenendolo per le due stanghe dallo stesso suonatore.
Il suonatore era anche il "venditore di musica"; guai infatti ad appellarlo come un questuante che chiedeva per vivere; egli era un venditore di musica, una professione di tutto rispetto.
Stimato e stimatissimo e dagli autori delle parole e delle musiche delle canzoni, e dagli stessi editori che affidavano loro le copielle da vendere.


un pianino che porta affisse le copielle di canzoni
Il pianino che fu inventato nel lontano 1700 da tale Giovanni Barberi di Modena, funzionava con lo stesso sistema di un carillon.
Constava di un cilindro che ruotando su se stesso
faceva vibrare delle punte che mettevano in azione delle corde  che producevano suoni e note musicali,

Passava dunque il pianino annunciato di lontano dalle note della musica, e di tanto in tanto si fermava. Allora dai piani superiori si affacciavano le donne di casa per ascoltare le novità della canzone napoletana, non ancora diventata "classica". E "scendevano" il famoso cestino che usavano per tirare su la spesa del droghiere o del fruttivendolo sotto casa; per raccogliere la copiella che lo stesso suonatore metteva dentro il cestino ritirando il soldo che era dentro. Intanto da basso le persone fattesi intorno, spesso accompagnavano cantando la musica che usciva dal pianino.

Vogliamo ricordare due dei più celebri trascinatori di pianini, Carluccio 'o calamaioe Ciro Pantolese

Carluccio, nativo del rione Ponticelli, girava per le strade e i vicoli di Napoli a portare la musica col suo pianino ambulante; la storia dice che fu sua la colpa, se di colpa si può parlare, della morte dei pianini; si era nell'anno 1938, e in occasione di una visita del Fuhrer a Napoli ebbe la brillantissima idea di caricare il meccanismo del suo strumento con l'inno di Garibaldi.
Fu accusato di antinazismo e arrestato, e processato, poi subito scarcerato per l'intervento di un gerarca amico. Ma fatto più grave fu la bomba che cadde su una rimessa di pianini in via Foria, che distrusse il capannone e con tutti i suoi più di cento pianini; e data la povertà del momento e la carenza di materie prime, non se ne ricostruì nemmeno uno. 

Ciro Pantolese fu l'ultimo venditore di musica.
Abbandonò quella sua povera ma dignitosa professione alla fine degli anni '50 del secolo scorso; aveva ottantadue anni. Purtroppo a Napoli non c'era più chi fabbricava i rulli degli organini perché i venditori di musica e copielle diminuivano sempre più, allora ne erano rimasti solo una ventina, e l'incisore di rulli era uno solo, tale Pasquale Barbato, che decise di smetterla con quel suo lavoro ormai poco redditizio; doveva pensare a moglie e figli, e pensò bene di abbandonare e trasferirsi al nord con tutta la famiglia; ciò che decretò la fine dei pianini ambulanti.  

Chiudiamo questo breve escursus sui pianini e sulle copielle con la storia della canzone Je te voglio bene assaje.

Era un periodo quello in cui nacque la periodica, tranquillo in un certo senso, e la vita dei napoletani si svolgeva come sempre all'insegna di quella allegria insita nella gente di questa già allora meravigliosa città, che già sotto re Carlo III (1739-1754) che regnò benvoluto (e rimpianto quanto fu costretto a tornare in Spagna) per venticinque anni, già un secolo prima. 
C'era stata sotto la sua reggenza una organizzazione migliore dei quartieri della città ed era stata quasi sconfitta la miseria; quel re giovanissimo aveva messo in atto e portato a termine il risanamento (abbattimento di case diroccate e ricostruzione) di molti quartieri malsani della città stessa; ma anche la costruzione di stupendi nuovi palazzi. 
A lui succedettero altri Borbone, il figlio Ferdinando, il figlio di questi Francesco e così di seguito di padre in figlio, gli ultimi: Ferdinando II e Francesco II (inizio 1800 fino alla fine, 1894).
E' il periodo migliore per le periodiche.

In una di queste nacque una canzone che in breve fece il giro della città e non solo, la famosissima Te voglio bene assaje.
Era l'anno 1835; e dopo qualche tempo già tutte le donne di casa di Napoli cantavano i versi della canzone. Fu la prima grande canzone diventata poi classica, che andò a prendere il posto della canzone popolare; la canzone napoletana aveva finalmente un autore.  Era opera di un certo Raffaele Sacco. che divenne conosciuto grazie a questa composizione, che si affermò alla Festa di Piedigrotta. 

Bene, si vuole che Raffaele Sacco che faceva l'ottico di professione (aveva studiato la materia, e fu anche inventore di strumenti ottici; aveva un esercizio molto frequentato e ben avviato a Napoli). fosse un frequentatore assiduo prima dei salotti; era richiestissimo per la sua simpatia e per la sua arte letteraria; e quindi delle periodiche; si dice che dedicasse le parole della canzone a una signora dell'alta società di cui era innamorato e con la quale pare avesse una relazione intima.

Nell'anno della composizione Raffaele era vicino ai 50, ed era già conosciuto e apprezzato in quanto sapeva improvvisare versi e canzoni così, all'impronta; bastava offrirgli uno spunto su un qualsiasi argomento, e il gioco era fatto. In questi salotti gli si chiedeva soprattutto di improvvisare in rima. E lui non si faceva certo pregare.
Quanto all'autore della musica, (si dice Gaetano Donizetti, ma la cosa sembra improbabile, dato che egli in quel periodo dopo aver messo in scena al San Carlo la Lucia di Lammermour, si trovava a Parigi per dirigere altre opere), fu un compagno di Raffaele, il musicista Filippo Campanella.

Perché si pensa che la canzone sia nata o quanto meno presentata per la prima volta in una periodica? Perché in quella pomeridiana di festa e di musica Raffaele Sacco annunziò ai presenti di avere scritto una canzone, e che desiderava farla ascoltare. Come sempre la finestra era aperta, e come sempre sulla strada la gente si ammassava ad ascoltare. Alla fine di una, di due, di tre esecuzioni, tutta la sala cantava in coro il ritornello
j' ... te voglioooo beneeee assaaaajeeee
e tuuu nun pienze.. ameee...
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e altrettanto faceva la gente per strada, che sciamando più tardi verso casa intonava la canzone e la portava ai suoi cari e ai suoi amici, nei vichi, nelle stradette, nelle piazze e piazzette di Napoli. E nei vasci della gente più povera dove si organizzavano come detto - anche là - riunioni per cantare e stare insieme e bere e giocare a carte, la canzone ebbe un successo clamoroso. E, da ultimo, perché in breve ne fu stampata su una copiella; e di questa ne furono duplicate e vendute in pochissimo tempo - pensate - più di 180mila.

Poi ci pensò la gara cui Te voglio bene assaje partecipò, a Piedigrotta di quell'anno 1835. Che ne determinò - pur non vincendo -  il successo imperituro.


nella foto un carro allegorico 
che scorre in occasione della Festa di Piedigrotta 1935
Il carro ebbe il primo posto nel concorso omonimo,
l'oggetto rappresentato era in sintonia con il titolo della canzone  che vinse la Piedigrotta di quell'anno:
"'E ricchezze d''o mare di Raimir

Molti ne scrissero e ne satireggiarono, tanto era il clamore di quelle note in ogni angolo e in ogni casa della città.
Un poeta anonimo ebbe a scrivere, scherzosamente:

"Addio mia bella Napoli, 
fuggo da te lontano. 
Perché ti par sì strano, 
tu mi dirai, perché? 

Perché son stufo ormai 
di udir quella canzone, 
Te voglio bene assaje 
e tu nun pienze a mme!
"

fine 
marcello de santis


ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

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