30 dicembre 2007

La cicogna della democrazia

di Antonio V. Gelormini

Avevamo appena ricordato, dopo il lieto evento di Betlemme, il primo martire dei cristiani, e ci si accingeva a celebrare i 60 anni della Costituzione Italiana, che ci tocca invece improvvisamente raccoglierci nel dolore, per celebrare una nuova martire della democrazia. Benazir Bhutto, la cicogna pakistana, la prima donna premier di un Paese musulmano, è caduta vittima dell’ennesimo fanatico attentato kamikaze, a due settimane dalle nuove elezioni politiche in Pakistan.

C’è già chi addita le mani insanguinate del Governo Musharaff o le canne ancora fumanti dei turbanti di Al Qaeda. Moderni Erode di una Terra senza promesse. L’attentato ad orologeria aveva fallito il bersaglio qualche mese fa. Una strage degli innocenti di 140 fra uomini e donne suoi sostenitori. Questa volta hanno fatto centro. Ma la novità di Rawalpindi è che stavolta non si tratta di un gesto di sfida o di un atto di intimidazione. L’assassinio di Benazir Bhutto è, invece, la testimonianza una grande paura.

Erode ha paura di questa sorta di “Madonna della democrazia”. Il suo sacrificio potrebbe dare linfa ai risentimenti celati dietro e sotto i veli di migliaia di burqa. La sua forza e il suo coraggio potrebbero diventare modello per milioni di mogli, di figlie, e di madri, da sempre relegate a sorbirsi i fondo schiena più offensivi dell’intera società islamica.

Nel bene o nel male, è dai tempi dei Giardini dell’Eden che nel gesto di una donna è racchiuso il segreto per stravolgere il mondo. Da oggi Benazir Bhutto sarà icona senza barba e senza baffi per l’Islam del futuro. La cui vera bomba atomica sarà racchiusa in quel trillo liberatorio, tipico di ogni donna musulmana, che darà voce a una costante e crescente consapevolezza. Sapere di essere l’autentico riscatto dell’Islam, in barba ad ogni antico o moderno profeta di sventura.

(
gelormini@katamail.com)
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26 dicembre 2007

Il Veglio di Dante e quello di Daniele







Tu stavi osservando o re, ed ecco una statua, una statua enorme, di straordinario splendore, si ergeva davanti a te con terribile aspetto. Aveva la testa d'oro puro, il petto e le braccia di argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte di creta.

(Daniele II - 31,33)

Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver' Dammiata
e Roma guarda come süo speglio.
La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e 'l petto,
poi è di rame infino a la forcata;
da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che 'l destro piede è terra cotta;
e sta 'n su quel più che 'n su l'altro, eretto.
(Inferno XIV - 103, 111)

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24 dicembre 2007

L’ARTE DEL MARINAIO JOSEPH CONRAD

di Augusto da San Buono
 
Conrad è un vagabondo, un marinaio e un artista, amava dire J. Galsworthy, esaltando la conoscenza diretta degli uomini e delle cose dello scrittore anglo-polacco, oltre che la forza narrativa dei suoi primi romanzi marinareschi, (“La follia di Almayer”, “Un reietto delle isole”, “Il nero del Narcisio”) che s’impongono subito all’attenzione per un’evocazione meravigliosamente plastica delle isole e dei mari dell’estremo oriente nei quali aveva navigato, e per i temi tipici di Conrad: la solitudine, il tradimento, l’inganno, l’autoillusione, il lento declino morale, la fedeltà e l’integrità personale distrutta da interessi materiali, la coscienza morale. Storie di caratteri forti e di anime grandi, il viaggio, la nave, la potenza della tempesta, i grandi capitani come MacWhirr, in “Tifone”, la cui debole voce “allontanò placidamente l’urugano”. Personaggi che rappresentano il trionfo della spirito della disciplina e l’incarnazione di una tradizione antica (Conrad voleva che la disciplina fosse un atto interiore, disprezzava l’indisciplina, e odiava la disciplina meramente esteriore), personaggi che vengono descritti con particolari visivi di grande potenza espressiva e forte suggestione. Si tratta quasi sempre di qualcosa di più di una storia marinaresca ed è per questo che non amava che si parlasse di lui come scrittore di avventure. “ Noi avvertiamo – commenta Raymond Leavis – le forze ostili della natura che minacciano di distruzione i suoi marinai, ma non gli abissi metafisici che si spalancano sotto la vita e la coscienza”.
Per quella “specie di nobiltà innata, aspra, sdegnosa e un po’ disperata” (Gide), per quel suo essere un “autentico gentiluomo polacco fino alla punta delle dita travestito da marinaio britannico ” (Russell), Conrad era molto amato da scrittori e intellettuali contemporanei, ma il suo temperamento e la sua educazione riuscivano bene a nascondere l’altro suo se stesso, il lupo di mare inquieto che, per fuggire l’avventura, il pericolo e la morte nel giuoco dei rapporti umani di terraferma, cercava sempre l’avventura, il pericolo e la morte nella solitudine, sul mare. E poi c’era il narratore, il romanziere - Conrad che descrive se stesso, eroe solitario, quasi sempre un fuggiasco, un fallito, segnato da una sventura o da un rimorso, stretto parente dell’angelo caduto, caro ai romantici, che conquista la sua identità affrontando la prova con stoicismo, compiendo il suo destino come un dovere. (“Il romanzo – diceva - è storia, storia interiore, o non è niente. Il romanzo, più della storia, è vicino alla verità”), ma la sua arte non era quella di Stevenson dove un pirata è un pirata, o descrittiva tipo Balzac, assolutamente no. “La sua arte non ricalca la realtà prima dell’uomo, ma l’uomo prima della realtà”, dice acutamente Ramon Fernandez. Egli descrive come fanno gli impressionisti della pittura, che colgono il momento in cui la luce illumina le cose. “Lui evoca esperienze soggettivamente integrali perché l’impressione equivale alla totalità della percezione e perché l’uomo la subisce nella sua totalità, con tutte le sue forze. La sua grande originalità consiste nell’aver applicato questo impressionismo alla conoscenza degli esseri umani”.
 
Il cerchio infame del mondo coloniale
Conrad - secondo Moravia – non è solo uno scrittore originale, ma un vero e proprio classico della modernità, uno scrittore costantemente in crisi con sé stesso, con la sua coscienza e la coscienza del mondo, prigioniero nel cerchio magico dell’onore tradito, delle “tenebre”, e della propria coscienza infelice, causa di salvezza e dannazione insieme. E’ lo scrittore che rappresenta come nessun altro la coscienza del fenomeno del colonialismo inglese, che è fenomeno costitutivo della società capitalistica. Nessuno prima di lui aveva descritto il cerchio infame del mondo coloniale, che a quel tempo, nel collo dell’imbuto di fine secolo, al passaggio tra Otto e Novecento, era al proprio apice. Nessuno come lui ha descritto lo sfruttamento bestiale dei paesi che poi saranno chiamati del “terzo mondo”, in cui “l’uomo bianco” è assoluto dominatore, e ritiene suo diritto questo dominio, e la cosa più naturale sfruttare, schiavizzare, brutalizzare, praticare la più bieca forma di razzismo nei confronti di altre creature umane che hanno una pelle diversa. Scrive Conrad negli “Ultimi saggi:“La conquista del mondo, che generalmente significa strapparlo a coloro che hanno un diverso colore della pelle o il naso un po’ più piatto, non è una bella cosa se la si guarda da vicino... Si esprime come semplice rapina, con violenza, omicidio aggravato su vasta scala… è la più abbietta gara al saccheggio che mai abbia sfigurato la storia della coscienza umana”). E il paese che più di ogni altro incarna questi principi è proprio la civilissima Inghilterra imperiale di quel tempo, la patria della libertà, che lo ha adottato, gli ha dato la cittadinanza, lo ha fatto membro della Marina Britannica, lui, nato polacco da una coppia di patrioti costretti all’esilio dal dispotismo zarista, lui, Jozef Teodor Konrad Korzeniowski, un apolide, uno sbandato, un reietto che grazie alla generosa Inghilterra è divenuto lo stimato e apprezzato capitano di lungo, e ha navigato per vent’anni in quasi tutti i mari del mondo, ma in particolare nell’arcipelago malese, vedendo centinaia di città, migliaia di paesaggi, milioni di volti, e vivendo situazioni estreme di attesa, di speranza, di solitudine, di morte.

Lord Jim e il gioco degli specchi.
Una volta lasciato il mare, scoperta la vocazione irrinunciabile di scrittore, Conrad si è posto il problema: come raccontare, trasfigurandole, tali esperienze senza venir meno ad un dovere elementare di riconoscenza personale al paese che lo aveva adottato, che lo aveva forse “salvato” da strade e sentieri pericolosi (il traffico d’armi, il gioco d’azzardo, i torbidi amori), come conciliare la sua coscienza morale e il debito di riconoscenza, come evitare di sporcarsi le mani raccontando la verità, e cioè discoprendo anche il volto ignobile e spietato dell’impero britannico?
Fu così che nacquero due capolavori, due romanzi fondamentali del fare letteratura come l’intendeva lui, ossia che scava fino all’osso la nuda verità, Lord Jim , - “uno dei più belli che io conosca – scrive Gide -, ma anche uno dei più tristi, sebbene sia uno dei più esaltanti “, il dramma dell’onore, o meglio di quando si manca all’onore, in cui adotta per la prima volta la tecnica della narrazione obliqua, del racconto nel racconto, ossia la vicenda viene raccontata da una persona che racconta ciò che gli ha raccontato una seconda persona, che magari a sua volta lo ha sentito da una terza persona – un espediente per allontanare da sé la materia narrata, un gioco di specchi che sfuma o sospende il giudizio etico sul colonialismo e sul ruolo dell’Inghilterra, ma anche una realtà che va in frantumi, uno scrittore che non è più il deus ex machina che tutto sa, e racconta la realtà delle cose, ma un poveruomo che annaspa, che va in pezzi, e che non sa più cosa sia la realtà. E poi “Cuore di tenebra”, a cui si è ispirato Francis Ford Coppola nel film Apocalypse Now, in cui il personaggio principale, Kurtz, a differenza di Jim che si era ritirato in un luogo inaccessibile per espiare la sua colpa, facendo del bene alla locale popolazione primitiva, tiranneggia in modo spaventoso i poveri abitanti della regione africana.

Cuore di tenebra , “the horror”
Quest’ultimo romanzo, libro di denuncia dell’orrendo sistema di sfruttamento praticato dai belgi in Congo, è anche un viaggio alla scoperta degli abissi più atroci dell’animo umano, è un libro che si rifà al tempo in cui Conrad era ufficiale in 2^ di un vaporetto belga, il Rois de Belges, che risaliva il fiume Congo per recuperare un agente coloniale ammalato, i cui metodi brutali avevano messo in allarme la compagnia coloniale belga . Kurtz, (in realtà un certo Klein) muore a bordo del battello pronunciando le sue ultime parole “the horror, the horror”, che Eliot avrebbe messo emblematicamente in epigrafe alla sua “Terra desolata”. Un libro, quello di Conrad, che diventa parabola profonda di esperienze umane psichiche e morali in cui ciascuno di noi si trova esposto alla minaccia dell’ oscurità, della tenebra, ovvero del male, che può sorprenderci nel nostro intimo in qualunque momento, quando meno ce lo aspettiamo. Cedric Watts, uno dei biografi di Conrad, lo descrive come “un’autobiografia obliqua, un taccuino di viaggio, una storia d’avventura, un’odissea psicologica, una satira politica, una prosa simbolica, una commedia nera, un melodramma spirituale e una riflessione scettica”, ma anche – dice Sandro Veronesi – l’urgenza di evidenziare in tutta la sua drammaticità il problema principale dell’umanità in senso lato, ovvero la frammentazione dell’io. La conoscenza di sé che spaventa fino ad inorridire, ciascuno di noi può trovare Kurtz dentro sé stesso. E chi più ne ha, più ne metta. Si tratta di un classico, alla maniera di Calvino, e avrà sempre qualcosa da dire. Infatti il libro ha più di cent’anni (è stato pubblicato nel 1902), ma continua a essere attuale, ad ispirare altri libri, film, album musicali, testi teatrali, balletti e musical, una catena senza fine, perché in quel libro di tenebre, di discesa agli inferi, c’è tutto il male che – grazie all’ ”uomo bianco” - avrebbero conosciuto i paesi cosiddetti sottosviluppati, il male che è all’interno della società occidentale, il male che è sete di potere economico e politico, il male che è nella retorica dell’eloquenza che difende il suo abominevole operato di distruzione e morte, il male di Kurtz che si traveste di fascino, magia ipnotica, avorio e sesso (Kurtz è tedesco, ma è figlio di padre inglese e madre francese, e lavora per una compagnia belga), il male che è nel cuore di tutte le nazioni dell’Europa occidentale che praticano il colonialismo e vengono coinvolte nella figura emblematica di Kurtz (ricordiamo ancora la maschera gigantesca e deforme di Marlon Brando nei panni di quella figura demoniaca), il male che è dentro di noi e che Conrad incessantemente esplora, frugando tra i ricordi degli anni di vita attiva. Ed ecco i racconti di mare e di solitudine, di abbandono spirituale e disperazione. Perché viene sempre il momento in cui gli uomini, a cui “sono dati amore, forza, coraggio, dimenticano tutto, dimenticano lealtà, rispetto e bellezza della vita”.
 
La laguna e l’inferno dantesco
Detto questo, viene un po’ da ridere nel rammentare come per tutti quelli della mia generazione, Conrad venisse accomunato alla famiglia letteraria degli scrittori d’avventure, ai Jules Verne e ai Salgari, per citare i più nobili (ancora adesso, mi si dice, alcuni suoi libri vengono etichettati come libri per “ragazzi”) mentre i difficili complessi romanzi dello scrittore anglo-polacco sono talora privi di avventura, ma così pieni di magia di mistero, di animismo, che è proprio delle civiltà primitive, ma anche e soprattutto di solitudine, condanna cui non è possibile sfuggire, di ricerca disperata di luce in un mondo di tenebra, di nostalgia di un fratello, di un doppio su cui scaricare in parte il senso di angoscia contestuale alla vita, di pulsione di morte, che gioca un ruolo preminente nella mente umana e assume vari simbolismi e diverse figurazioni. Nel racconto “La laguna”, ad esempio, ci sono figurazioni che sembrano mutuate dall’inferno dantesco:“Nella calura dell’aria ogni albero, ogni foglia, ogni ramo, ogni viticcio di rampicante, ed ogni petalo dei minuti fiorellini pareva immerso in una immobilità perpetua e definitiva”. Nell’immobilità assoluta della natura, ecco la “canoa del bianco che pareva varcare i portali di un territorio da cui la memoria stessa del moto si fosse allontanata per sempre”. E poi foreste che parlano, fiumi infernali che corrono dritti a oriente, “ all’Oriente che accoglie luce e tenebre”, fiori immoti, bagliori sinistri, e il grido ripetuto di un uccello, “grido stridulo e fioco, che rimbalza nell’acqua liscia e si spegne prima di toccare l’altra sponda nel più soffocante silenzio del mondo”.
Conrad è stato più volte in Italia (la traversata da Venezia a Trieste è stato il suo battesimo marino), conosce diverse città di mare in cui è approdato con la sua nave, ama molto Capri, dove è stato più volte con la famiglia, conosce la letteratura italiana, conosce Dante e la Divina Commedia. E i portali che la barca del bianco varca “richiamano” la porta dell’inferno dantesco oltre la quale “si convien lasciare ogni sospetto” e ogni memoria del mondo. Il tutto costituisce la premessa di un epilogo tragico, la risposta ad una dinamica che ruota intorno ad un nucleo centrale, la pulsione della morte. ”Io vado incontro alla morte, voi alla vita, solo Dio sa chi di noi abbia ricevuto una sorte migliore”, dice Socrate ai suoi giudici. Queste parole sono sullo sfondo del racconto di Conrad, e anche il risvolto psicologico di chi pone troppi quesiti, troppe domande destinate a restare tutte senza risposta in un mondo privo di illusioni, “immerso nel cuore di una tenebra immensa”.
 
Il melting polt di Conrad
Conrad è un uomo senza miti e senza illusioni, un nemico dell’ideologia, della demagogia e di ogni forma di retorica, ma c’è in lui la “coscienza morale”, anzi è lo storico della coscienza sensibile, disse di lui Henry James, “un’ansia di obiettività lo divora”, aggiunse Th. Mann, - e quell’ansia è la cifra della sua arte, unitamente ad una grande passione per la verità e un grande amore della libertà”. E questo amore, unitamente a quello per la letteratura, gli era stato trasmesso da suo padre Apollo, scrittore e traduttore, che era stato uno dei promotori dell’insurrezione polacca nel 1863 contro la Russia zarista. Fatto prigioniero, esiliato, morirà giovane, di tisi, preceduto da sua madre, Eva Bobrowska, anche lei morta di tisi a 34 anni, anche lei ardente patriota e donna di cultura. Il piccolo Konrad rimane orfano a soli otto anni, viene adottato dallo zio materno Tadeusz Bobrowski, che appartiene alla piccola aristocrazia terriera, cresce leggendo i romanzi d’avventura di Fenimore Cooper, i resoconti di esploratori come Mungo Park e James Cook, conosce l’epopea di David Livingstone e Henr Morton Stanley, ammira gente come Francis Drake e James Brook, che definisce “cercatori di verità”. Compulsa gli atlanti, sogna. A sedici anni scappa e va per mare, sui battelli costieri marsigliesi (conosce perfettamente la lingua francese), dove si faceva il contrabbando d’armi. Poi solca l’Atlantico verso i Carabi e il Venezuela, sperpera una piccola fortuna al casinò, accumula debiti di gioco, inscena un improbabile suicidio sparandosi al petto ma in direzione della spalla e non del cuore. E’ un periodo turbolento, dove si intrecciano trasgressione e momenti di depressione, forse c’è in mezzo anche una torbida vicenda amorosa che si concluderà con un duello in cui il giovane Conrad rimane ferito. Lo zio si fa carico dei suoi debiti di gioco, ma s’affretta a scrivergli che “i limiti della stupidità permessi alla sua età sono stati valicati”. Conrad ha quasi ventuno anni, non ha un soldo in tasca ed ha abusato delle finanze dello zio, inoltre la Marina Francese, a causa delle sue turbolenze, non gli rinnova il permesso di navigare. E’ a questo punto che cambia radicalmente la sua vita, comincia la sua trasformazione in quello che diventerà Joseph Conrad, “nobiluomo polacco rivestito da marinaio britannico”. Trova un imbarco sul Mavis che issa bandiera inglese e fa rotta per Costantinopoli, poi riempie le stive di semi di lino nel mar d’Azov e dirige per la madre patria. Il 18 giugno 1878 attracca nel porto di Lowestof e Conrad mette piede per la prima volta in Inghilterra, non conoscendo una sola parola d’inglese, ma imparerà presto. Passa nella Marina Britannica dove raggiungerà presto il grado di Capitano di lungo corso.
“Conrad è uno dei primi esempi di scrittori con una doppia esperienza, una doppia anima, una doppia lingua”, scrive Tommasi Lampedusa . “E’ un maledetto polacco che scrive in un inglese che non esiste da nessuna parte, io mi rifiuto di considerarlo scrittore inglese“, replica la terribile Virginia Wolf.
In realtà l’inglese era la sua terza lingua (avrebbe potuto scrivere in polacco , o francese), una lingua che aveva appreso in età adulta, e lo rallentava, ma la sua era una scelta d’elezione, amava quella patria e quella lingua, anche se il suo linguaggio era una sorta di melting pot etnico e culturale antelitteram, quel melting pot che oggi è divenuto il fondamento stesso dell’anglicità, che è il risultato di infinite immigrazioni, di infinite contaminazioni, di infinite infiltrazioni provenienti dal continente europeo e dagli altri continenti, dai vichinghi, galli, russi, ebrei ai bengalesi e indiani. Ed è forse proprio questo melting pot, una delle grandi ricchezze della Gran Bretagna, che conferisce una particolare valore alla prosa di Conrad, certamente il meglio dell’ultima letteratura inglese. Del resto – scrive Guido Alpa – che dire di un paese la cui aristocrazia è stata radicata dai francesi, l’architettura fondata dagli italiani, il sistema bancario e commerciale organizzato dagli ebrei, dove i reali hanno limpide origini tedesche, e la lingua è un misto di latino, sassone, francese, indiano e americano?
 
La linea d’ombra
Conrad ottenne il successo letterario con “Chance” (Destino), che in America diventò un best-seller, e gli decretò la celebrità, ripagandolo di tutte le sue amarezze, ristrettezze economiche (a quarant’anni aveva messo su famiglia, moglie e due figli) e momenti di vero e proprio panico di fronte al suo grave compito di scrittore. Ad un certo punto, la sua responsabilità gli era sembrata troppo grande per i suoi mezzi: si era rimesso a studiare Shakespeare, Turgenev, Dostoevskij e i grandi narratori francesi, in specie Flaubert e Maupassant, alimentando la sua passione per il mare con la lettura di opere specializzate di carattere marinaro, onde formarsi uno stile in cui ogni particolare doveva essere elaborato in maniera estremamente precisa.
Il successo era arrivato tardi, nel 1914, dieci anni prima di morire, dopo vent’anni di carriera letteraria. Ora aveva cinquantasette anni, ma se ne sentiva addosso il doppio. Scrive altri due libri di mare, Vittoria (1915) e La linea d’ombra (1917), che dedica al figlio primogenito Borys, prossimo ad andare in guerra, “e a tutti gli altri che come lui hanno attraversato nella prima giovinezza la linea d’ombra della loro generazione”. In questo romanzo breve si ritrovano i temi centrali di Conrad: la solitudine dell’individuo, in balia dei colpi del caso in cui spesso il mare è eletto a simbolo; e proprio sul mare i suoi eroi devono conquistare la loro identità affrontando le prove che il destino ha loro riservato.
Sostiene Mario Fortunato che Conrad trasferiva in ambienti nuovi problemi psicologici sottili tipici della vecchia Europa, prendeva personaggi dostoevskiani e li sbatteva in piena jungla, ma tutto ciò è stato capito molto tardi, dopo che i suoi contemporanei lo avevano etichettato come autore per ragazzi e il cinema holliwodiano si era affrettato a comprare i diritti cinematografici di tutti i suoi romanzi. Nessun autore come lui è stato saccheggiato, ma anche minimizzato, banalizzato dal cinema, anche da parte di grandi registi come Orson Welles, Hitchocock e Wajda, che hanno ripreso lo scenario esotico, esacerbando una sorta di sensazionalismo interno ai testi. Ma, si sa, la differenza tra opera di scrittura e opera di immagini è sempre stata piuttosto marcata. Il cinema è una cosa, il libro un’altra, d’accordo, e nel caso di Conrad siamo in presenza di uno scrittore troppo misterioso, troppo segreto per poter essere usato dal cinema, un po’ come Proust, come Kafka, che hanno creato con le loro opere mondi nei quali si può entrare da molte porte, ma non da quella del cinema e del teatro, perché il senso della loro opera non si nasconde nella storia o nei concetti che essa mette in campo, bensì nell’opera stessa, paradigma della vita. Grazie anche ai libri, che gli hanno permesso di indagarsi, di conoscersi, Conrad ha oltrepassato la sua personale linea d’ombra, non una, ma tante volte, perché tante sono le giovinezze della vita, e tante le linee d’ombra da attraversare. E ogni volta si è chiesto se per caso quella sarebbe stata l’ultima.
La vita è tragica follia/ Ridiamoci sopra e facciamo allegria/ Abbasso la malinconia/ Porgimi un gotto di Malvasia/ La vita è tragica follia.
Poco prima di morire, per un infarto, il 3 agosto 1924, a Bishopsbourne, nel Kent, a Conrad, mentre si discuteva di una possibile candidatura al Nobel, ormai famosissimo, gli era stato chiesto qual era il “messaggio” che i suoi libri lasciavano ai giovani. Al che Conrad si era arrabbiato moltissimo, come se fosse stato offeso:“ Come si può pensare – scrisse ad un amico – qualcosa di più stupido di una domanda del genere rivolta ad un uomo come me, che non ha mai gettato in faccia al mondo nessun “messaggio”?
Sarebbe stato in conflitto – scrive Elio Chinol – con la sua personalità e anche con la sua poetica, con la sua convinzione fondamentale che un’opera d’arte “è molto raramente limitata ad un significato esclusivo e non tende necessariamente a una conclusione definitiva”. In un’opera d’arte, in sostanza, si riflette la stessa ambiguità che è la vita, e lui lo ha ben evidenziato con un procedimento narrativo basato sull’alternanza e la sovrapposizione di diversi punti di vista. Sui fatti concreti prevale l’atmosfera conradiana, e resta una parte di mistero per sempre insondabile.
Che cosa rimane di lui e dei suoi romanzi? Andiamo a leggere insieme i versi di Spenser, incisi sulla sua lapide, nel piccolo cimitero di Canterbury:
Il sonno dopo la fatica, il porto dopo i mari in tempesta,
La quiete dopo la guerra, la morte dopo la vita, danno conforto.
 

18 dicembre 2007



I racconti di Versailles – 12 – di Bruna Alasia

IL MINISTRO DELLA MODA

racconto dodicesimo

I castello di Marly, santuario di ritiro e svago di Luigi XIV, trascurato da Luigi XV, espropriato dalla rivoluzione, oggi non esiste più. Ma quando Luigi XVI il 17 giugno 1774 vi arrivò col seguito, per quanto ordine e pulizia non fossero esemplari, giardini e getti d’acqua splendevano. Fatti scendere i signori dalle carrozze, gli stallieri portarono a bere in un laghetto muli e cavalli che lanciarono nitriti di gioia. Il re si sistemò nella prima camera a nord con vista sulla fontana dello Specchio e, riflettendo sulla decisione di farsi vaccinare contro il vaiolo, pensò non sarebbe tornato indietro, malgrado la paura. Pur convinto che Maria Antonietta dovesse restar lontana dalla politica, aveva seguito il suo consiglio di farsi inoculare insieme ai fratelli per rimandare la scelta dei ministri: la vaccinazione, fissata per il giorno dopo l’ arrivo a Marly, fece vivere giorni di apprensione.
Maria Antonietta, le cognate e la principessa di Lamballe, una sera ne parlavano sedute in terrazza a prendere il fresco.
- Siete preoccupata? – chiese alla regina la contessa di Provenza.
- Ho fiducia in Jamberthon, è un bravo medico… i genitori della ragazza dalla quale è stato preso il pus sono lavandai che danno molte garanzie morali…
- Il duca di Croÿ dice che abbiamo rischiato tutto in un colpo solo, i nostri mariti sono la Francia… - asserì la contessa di Artois
- Ma per Voltaire la nazione è stata toccata e istruita…
- Puah! I filosofi… – esclamò con disprezzo la contessa di Provenza.
Quasi volesse cambiare discorso Maria Antonietta si alzò:
- Rientriamo… si sta facendo buio.
Le cognate e la principessa la seguirono. Imboccando la galleria, la regina si accorse che il pavimento era seminato di cocci e che una vetrata era andata in frantumi.
- Cosa è successo?
- Colpa del duca di Chartres e del signor de Fitz-James - spiegò la principessa di Lamballe - si divertivano a sparare con la pistola, una pallottola è rimbalzata su una statua e ha spaccato la vetrata che per poco non è caduta in testa alla duchessa di Chartres e a madame de Genlis…
- Andiamo a vedere…
Attraversarono corridoi e scale scortate da servitori muniti di torce che le condussero da madame de Genlis, al piano rialzato, in un padiglione sul versante di Louvaciennes.
Stéphanie du Crest de Saint Aubin, sposata al conte di Genlis, aveva ventotto anni. Colta e intelligente, amava lo studio, scriveva bene e si dilettava di musica. A Marly non era contenta della sistemazione perché doveva stare in una stanza divisa da un tramezzo con una dama sconosciuta: quando suonava, non sapendo se l’altra era infastidita, provava imbarazzo. Ma quella sera accordò l’arpa e decise di cantare. Le note risuonarono al buio e le quattro donne udirono quella voce intonata. Appassionata dello stesso strumento, Maria Antonietta si fermò: ebbe l’impressione di trovarsi alle serate musicali di Schonbrün e gli occhi le si inumidirono.
- Silenzio! – portando un dito alla bocca fece segno di non muoversi e rimasero a lungo in ascolto. Finalmente madame de Genlis, vinta dalla stanchezza, smise. Maria Antonietta applaudì imitata dalle altre. La Genlis apparve sulla porta: sorpresa, avvampò piegandosi in un inchino.
- Non sono degna di tanto onore…
- Anch’io suono l’arpa e l’adoro, avete un bella voce… - disse la regina
- Suonerò per voi maestà…
- Mi hanno detto che avete rischiato un incidente…
- Nulla di grave: una pallottola del duca di Chartres ha rotto una vetrata, manderò a pulire appena farà giorno…
- A me piace cantare assieme ad altri…
- E’ il più grande onore che fate…
Al saluto della sovrana Madame de Genlis si inchinò di nuovo e frastornata si ritirò nella stanza. Pensò che Maria Antonietta l’aveva implicitamente invitata a seguire i suoi concerti privati e il cuore le si gonfiò di orgoglio. Intellettuale che aspirava a diventare scrittrice, studiosa dei filosofi, sentiva di valere solo attraverso la benevolenza della regina. Il giorno dopo tutti erano al corrente dell’elogio.
Il tempo passava. Luigi XVI ebbe un’eruzione di vaiolo al naso, ai polsi e al petto ma il 30 giugno lui e i suoi fratelli si ritrovarono in perfetta salute. Il popolo esultò inneggiando al loro coraggio. La corte tirò un sospiro di sollievo. La principessa di Lamballe consigliò madame de Genlis di partecipare alle serate di musica. La contessa ringraziò, promise ma non si adoperò. Con sorpresa scoprì un vago disagio al pensiero di trascurare i libri per il regale salotto: Maria Antonietta non leggeva quasi mai, di che avrebbero parlato? Censurò quei pericolosi interrogativi ripromettendosi di entrare nella cerchia di sua maestà il giorno dopo, ma in capo a due settimane era riuscita solo a farsi cambiare stanza e ad alloggiare in un appartamento più confortevole, con vista sul giardino.
***
Finita la convalescenza dei rampolli reali, iniziò un periodo spensierato. La regina, che non aveva mai visto nascere il sole, ebbe dal consorte il permesso di raggiungere di notte le alture dei giardini di Marly per ammirare l’aurora. Il marito, pigro com’era, rimase a letto. Per evitare problemi lei si fece accompagnare da un seguito numeroso. Il sole si alzò prima violaceo, poi roseo, finché brillò pienamente sul castello adagiato nel verde come una spada preziosa.
Luigi Filippo duca di Chartres, in seguito d’Orleans, che a Marly aveva fracassato una vetrata ed era andato all’ escursione notturna con sua maestà, ne raccontava i particolari alla moglie durante un pranzo:
- Strillava unglaublich! unglaublich! al sole che sorgeva…
- E che vuol dire?
- Incredibile.
- Dovrebbe smetterla col tedesco…
Il duca addentò un cosciotto di cappone:
- Purtroppo è la sua lingua… gira un libello pieno di cattiverie che si chiama Il sorgere dell’aurora… dice che la regina trascurata dal marito quella notte è andata a fare un’orgia con uomini e donne… c’è chi spera di farle ripassare la frontiera con le calunnie…
La contessa di Chartres si asciugò le labbra con il tovagliolo:
- Le ho presentato Rose Bertin, una sarta grandiosa … riceverà anche Boehmer un gioielliere che vuole venderle dei diamanti…
- Maurepas è preoccupato per le finanze! Vorrebbe ministri eccellenti, gente vicina al vecchio parlamento, agli esiliati, ai filosofi e enciclopedisti, illuminati insomma… ma il re fa resistenza, è antiquato!
- Bisognerà convincerlo… - concluse con calma la moglie mentre un valletto serviva il sorbetto al limone.
***
La stanza di Maria Antonietta a Marly aveva quattro finestre ad angolo, un caminetto di marmo viola, una tappezzeria preziosa, in lana e seta con ricami d’oro, rappresentante il trionfo degli dei, con in alto le armi di Francia e in basso le iniziali degli incoronati. Un porta mimetizzata nel muro comunicava con il suo gabinetto. Da lì, quel pomeriggio, fu fatto passare il gioielliere svizzero Charles August Boehmer che molti le avevano raccomandato. Cerimonioso e avido, sorrise con cupidigia deponendo davanti alla regina uno scrigno che aprì con cura.
- Ammirate maestà…
Maria Antonietta, miope, si avvicinò per rendersi conto: sei diamanti, di prodigiosa grandezza, a forma di pera. Ne fu colpita al cuore.
- Quanto chiedete monsieur Boehmer?
- Quattrocentomila luigi.
- Diamine!
Con la coda dell’occhio osservò la dama di compagnia: madame Campan alzò le sopracciglia. Maria Antonietta si fece pensierosa.
- Erano orecchini destinati a madame du Barry dal nostro Beneamato… - sottolinò Boehmer – hanno una forma splendida, sono purissimi, perfettamente uguali tra loro…
- Voglio attingere al mio appannaggio, non alle casse del regno monsieur Boehmer…
Lui sistemò i diamanti come nella montatura.
- Ammirate i pendagli…
Sua maestà li soppesò a lungo.
- Nella parte alta potreste incastonare dei brillanti che già posseggo – e restituì al gioielliere due pietre – in basso però i vostri sono ineguagliabili... Quanto volete?
- Trecentosessantamila luigi – rassegnato l’uomo sospirò.
- Vi farò pagare ogni anno da una mia incaricata, in quattro o cinque rate. Firmiamo il contratto?
Boehmer prese un foglio di carta pergamena e la regina ordinò calamaio e sigillo.
***
Nel salotto ampio e luminoso con le vetrate aperte sul giardino, Maria Antonietta, la principessa di Lamballe, la contessa di Provenza, la contessa di Artois, la duchessa di Chartres che aveva coinvolto madame de Genlis, parlottavano mentre la servitù passava con infusi, piattini di bon bon, liquori e tabacco profumato. Aria di eccitazione e festa per un incontro importante : arrivava a Marly, a mostrare le nuove creazioni, Rose Bertin che, dopo una folgorante carriera di modista a Parigi, aveva aperto il Grand Mogol, atelier d’ alta classe nel faubourg Saint-Honoré, conquistando tutte le dame più in vista.
Annunciata dal gran ciambellano Rose entrò senza imbarazzo, seguita da graziosissime lavoranti e facchini che trascinavano bauli. Si inchinò, regalando un sorriso di guance sane sotto un’acconciatura dal fiocco enorme. Aveva voce squillante e persuasiva: secoli dopo il suo elemento naturale sarebbe stato la TV. Non mise tempo in mezzo, fece portare casse e ragazze dietro un paravento e ordinò di prepararsi come stabilito. La sfilata colse occhi adoranti.
- Il copricapo da sempre è stato un ornamento – spiegò Rose – non era mai successo che rappresentasse un evento, fosse simbolo di qualcosa… ma con l’avvento dei miei poufs ho cambiato la storia del cappello: ecco ad esempio il più semplice detto Ifigenia in Aulide…
Una giovinetta slanciata, con riccioletti biondi girò la sala mostrando una testa ornata di cerchietti neri con fiori, una veletta e una falce di luna.
- Da impazzire … - sussurrò Maria Antonietta.
- E’ in vostro onore maestà - esclamò mademoiselle Bertin – sappiamo quanto amate Gluck!
L’apparizione che seguì sollevò un’esclamazione di sorpresa: la modella aveva sul capo una composizione di piantine ramificate e dentellate con fiori arancio, viola e gialli. Sulla terza svettava un cipresso, sulla quarta un covone di grano, la quinta sfilò con una cornucopia piena di frutti e altissime piume. Si disposero a un lato del salone.
Sua altezza iniziò a battere le mani ridendo felice e tutti la seguirono.
- Vi ho mostrato i poufs alla circostanza - disse Rose Bertin – realizzati per esprimere i sentimenti dell’occasione… lutto per il defunto re, speranza e abbondanza nel regno di Luigi XVI… richiedono lungo lavoro artistico e molta fantasia.
- Assolutamente nuovo! – commentò Maria Antonietta.
- La vostra generosità è infinita ma – e qui la modista alzò la voce sottolineando con tono da ministro – il nuovo in realtà è sempre quello che abbiamo dimenticato.
La frase colpì persino madame de Genlis, la regina assentì, il silenzio si fece solenne.
- Ora la creazione più gloriosa, quella che celebra un atto di coraggio, una nuova era… - e sottolineò l’entrata con elegante gesto delle braccia: le signore trattennero il fiato e il paravento tremò.
- Pouf all’inoculazione! – gridò Rose Bertin.
Da dietro il separé apparve una seducente rossa con un cappello alto un metro che attraverso un sole nascente, un olivo con serpente attorcigliato, un bastone prezioso, svettante e infiorato, celebrava la vaccinazione di Luigi XVI.
***
Jean Frédérich Phélypeaux de Pontchartrain, conte di Maurepas, primo consigliere di sua maestà, aveva la sensazione fastidiosa che Luigi XVI, senza mai dirgli di no, facesse tuttavia di testa sua, non lo tenesse in nessun conto e malgrado le sedute, i comitati interministeriali, le riunioni, si confidasse solo con persone del vecchio entourage, leggesse la corrispondenza in segreto e prendesse decisioni non suscitate da lui. Non ostile per principio a filosofi e illuminati, Maurepas era convinto della necessità di ripulire lo stato dalla vernice dispotica, riammettendo il parlamento di magistrati cacciato da Luigi XV, cambiando i ministri, malvisti e compromessi, con altri più popolari. Partigiano della monarchia assoluta ma con moderazione, credeva che ciò servisse alla sopravvivenza della corona, a stabilire tra questa e i corpi intermedi un equilibrio più utile, moderno e duraturo. Se non si fosse imposto, pensava, il suo ruolo si sarebbe esaurito e avrebbe dovuto rinunciare all’incarico per non rendersi ridicolo. Decise così di dar battaglia. Chiamato a Marly dal re, nel gabinetto della Cipria, fingendo interesse a un dipinto raffigurante il Beneamato, Maurepas lasciò trapelare le sue intenzioni:
- La parola d’ordine maestà dev’essere economia – disse con aria grave - il paese è in piena crisi fiscale e le spese di corte l’aggravano. Dignitari e servitori sono più di novecento solo a Versailles… senza contare che a Choisy devono portare una livrea azzurra, a Compiégne una verde… il lutto ci è costato millequattrocento livree nere, migliaia di metri di stoffa nera per gli arredi, migliaia di viola per le carrozze… quattro milioni di luigi costa il personale della regina… cinquantamila luigi di candele sostituite anche se non usate… ci vuole un ottimo controllore delle finanze al posto dell’attuale!
- Ma Terray è molto competente! Perché lo dovrei cambiare?
- Terray non si preoccupa della sorte del popolo, un controllore generale deve avere un altro spessore!
Luigi allargò gli occhi e scrollò le spalle.
- Comunque – continuò pacatamente Maurepas - bisognerà assegnare gli incarichi a gente che dia un segno di cambiamento… gente come… Malesherbes, per esempio.
- Malesherbes? – il re si alzò e prese a camminare lungo le librerie – Non voglio saperne, è un enciclopedista pericoloso! Ha diretto la biblioteca esercitando la censura con estrema indulgenza verso le idee nuove. Lo sanno tutti che ha fatto passare clandestinamente in Francia esemplari dell’enciclopedia nel doppio fondo della sua carrozza!
Maurepas desistette, comprese che non era ancora il momento. Ottenne solo di esercitare una sorveglianza più stretta sul consiglio reale delle finanze. Ma, non molto tempo dopo, a Luigi XVI venne recapitata una lettera anonima, davvero opportuna, che accusava Terray di avere sottoscritto un accordo segreto, che gli lasciava profitti illeciti, con una compagnia per il commercio del grano. L’accusa, assolutamente falsa, sortì il suo effetto e il re, che era onesto e aveva molta paura degli scandali, scrisse a Maurepas di trovargli subito un altro controllore.
***
Maria Antonietta a Marly vedeva il marito leggere dossiers, note e memorie, esaminare con fatica conti e cifre. Aveva notato che non era più andato a caccia e non aveva forgiato serrature. Se cercava di avvicinarlo curiosa lui copriva geloso le sue carte: “ Lasciatemi, sto lavorando”. Ma la regina non pretendeva immischiarsi, perché la politica con i suoi intrighi l’annoiava, era semmai rimproverata da sua madre perché noncurante a riguardo. Viveva la nuova condizione con piacere, intenzionata a godere dei privilegi che le spettavano.
Se quella sera salì le scale che conducevano al gabinetto della cipria era solo per parlare a Luigi del Petit Trianon, lo splendido padiglione appartenuto a madame Pompadour e alla du Barry, che lui le aveva appena regalato.
- Posso disturbarvi monsieur?
Il re le diede un’occhiata seccata.
- E’ cosa rapida?
- Si tratta del Petit Trianon…
- Ebbene?
- Mi avete fatto un grande dono… ma vorrei valorizzarlo e pensavo all’architettto Mique per degli abbellimenti…
- Dobbiamo parlare ora?
- Siete voi a disporre delle finanze…
- Non c’è fretta, rientreremo tra mesi a Versailles…
- Come volete…
- Comunque – aggiunse Luigi più tenero – mi fa piacere il vostro interesse.
- A me spiace che l’assegnazione degli incarichi vi preoccupi… - rispose Maria Antonietta e uscì dalla stanza.
Sbuffò: se fosse dipeso da lei avrebbe fatto presto a scegliere le persone perché, a differenza del re, si fidava del suo fiuto e non degli altri. Primo fra tutti, se avesse potuto, avrebbe designato davvero, come qualcuno insinuava sarcastico, Rose Bertin gran ministro della moda.

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17 dicembre 2007

Il destino dei suicidi


Quando si parte l'anima feroce
dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.
Cade in la selva, e non l'è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.
Surge in vermena e in pianta silvestra:
l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.

(Inf. XIII - 94, 102)

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13 dicembre 2007

"Il ventre della terra" di Valentina Francolino

Il ventre della Terra

Valentina Francolino

Collana: Bianca - Le bussole.
Genere: romanzo. Pagg: 272.
Prezzo: euro 9.50.

ISBN: 978-88-95288-02-4.

Una storia ammonitrice sul nostro rapporto con la natura e l’ambiente. Uno sguardo sull’immediato futuro al quale stiamo alacremente lavorando. Una pausa per comprendere il nostro presente in virtù di un lungo viaggio di apprendistato attraverso il tempo e i continenti, Londra, Parigi, i monasteri greci di Meteore, l’India dell’Himalaya, le leggende di popoli antichi, di uomini leggendari, le speranze e disillusioni della specie umana. Una ricerca di amore, di scoperta, di salvezza, di vulcani, di vette innevate, di invisibili valli alberate. Una visione caustica degli effetti della stupida sete di potere, dello scempio causato dall’ottusità umana, su ciò che stiamo causando alla natura, su quale dovrebbe essere il nostro compito in relazione ad essa e su come lo trasgrediamo. Un romanzo che vola e attanaglia nel farci vedere tutto ciò che ci accadrà se non mutiamo rotta. La Terra dell’inquinamento, dei continenti svuotati, dell’assenza di animali e di piante, dei cibi artificiali, dell’uomo di vita media di 40 anni. Il mondo dove ci si affretta coperti da mantelline anti-UV, cosparsi di creme barriera, dove non esistono più cibi solidi, verdure, né carne, e nel quale ci cibiamo come gli astronauti, attraverso nutrimenti liofilizzati in busta. Il mondo delle foreste uccise, dell’ossigeno prodotto artificialmente da colossi dell’industria che regnano incontrastati sui governi e decidono le sorti dell’umanità.
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Info dalla newsletter di Gingko edizioni.
www.gingkoedizioni.it

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10 dicembre 2007

Il filo di Arianna


Lo savio mio inver' lui gridò: «Forse
tu credi che qui sia 'l duca d'Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse?
Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene».

(Inf. XII; 16-21)

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08 dicembre 2007

Anita e Garibaldi: dieci anni d'amore e di guerra

Nel 200° dalla nascita dell'eroe

di Augusto da San Buono



1. La più perfetta delle creature

C’era stato il polverone, il grido e la caduta, la liberazione, la conquista, poi Anita dalla pelle cupa ,una creola dotata di vera dignità spagnola , che aveva antenati indiani e portoghesi .

C’era stato il vento teso che si fa tempesta , il naufragio, la morte dei fratelli italiani, la luce fresca che segue sempre una tempesta , infine lo strazio dei ricordi , la solitudine , la disperazione… poi Anita, con il suo volto velato che si posava sull’oceano e andava alla deriva nel pizzo del suo strascico nuziale. Anita: una donna forte, coraggiosa, un’amazzone, ma anche una vera compagna , che gli avrebbe dato quattro figli e l’avrebbe amato come nessun’altra , per tutto il corso della sua breve vita, come lui aveva desiderato.

“Avevo bisogno d’una donna che mi amasse subito!... sì, una donna!, e trovai Anita, la più perfetta delle creature…Da quel giorno non ho desiderato più niente. Il mio viso , come il viso del sole, era sfiorato dal suo sguardo, che era come una pioggia leggera, calma, sul mare”

Le pietre sono il tempo, e Anita ora è pietra , alabastro risorgimentale . Le sue spoglie sono là, racchiuse nel marmo del suo mausoleo , a Roma, sul colle del Gianicolo, nel suo monumento a cavallo , con il figlio in braccio e la pistola in pugno, icona della pura amazzone, con i capelli lunghi e nerissimi raccolti nella crocchia , e il vento del sud sopra di lei , due secoli di vento, che si avvolge su se stesso e si sotterra nel giorno della pietra, come il villaggio sperduto in cui era nata, Morrinhas, nel Brasile meridionale , il 30 agosto del 1821, un villaggio di farrapos , straccioni, della provincia di Santa Caterina .

Garibaldi l’aveva sognata nelle foreste del Rio Grande , tra raffiche turchesi di pappagalli in fuga, alberi ribollenti di corvi, e le raccoglitrice di manghi . La vide bella e quieta , colla blusa rossa e un fiume di capelli neri , tra gli alti girasoli . Era una pausa della luce, un sorso di acqua di fonte, e i suoi seni ampi e sodi maturavano sotto i suoi occhi. Il corsaro la vide forte e ambrata , agile come una gazzella scura, leggera come una brezza marina, fiammeggiante nella veemenza di un tramonto tropicale. “Tutte le donne riograndesi sono belle di forme, e generose nel donarsi, ma Anita era il mio ideale, il mio sogno pensiero che si fa donna, il mondo vero, la mia vita , e la mia morte.”.

2. Non gli disse che era sposata

Poi la rivide , nella realtà , questa figura sognata, vagheggiata e fu a Laguna , il piccolo porto di Santa Caterina , diventato repubblica indipendente con il nome di “Giuliana” ( perché si era in luglio), imbandierato delle nuove insegne verde bianco e giallo oro ; la rivide sul molo , con il cannocchiale , dalla sua nave in rada , ed era lei, in tutto, nell’alta statura, nella fierezza, nel seno prepotente , nel passo sicuro. Scese a terra , e la incontrò nella casa dove viveva . Era il 27 luglio 1839 e le cose intorno a loro ardevano. Andarono entrambi in estasi.

“Restammo entrambi a guardarci reciprocamente come due persone che non si vedono la prima volta, e che cercano nei lineamenti l’una dell’altra qualche cosa che agevoli una reminescenza , che appartenga al sogno”.

Tu devi essere mia, le dice in italiano. E poi , in portoghese, le chiede qual è il suo nome. Aninhas , dice la ragazza. Nel mio paese si dice Anita .Per me sarai per sempre Anita. Io vivo sull’acqua, solo. Senza moglie e senza figli. Ho circumnavigato ogni mare , ogni possibilità umana , per arrivare a te, Anita, e finalmente ti ho trovata. Staremo sempre insieme.

E Ana Maria Ribeiro Da Silva , detta Aninhas , mezza portoghese e mezza indiana, rispose: sì, sarò tua, e ci faremo una piccola casa sull’ acqua grigia del porto , con le finestre sempre spalancate al sole , e anche alla pioggia e al vento. E se vuoi metteremo anche la bella bandiera della repubblica verde bianco e giallo oro, che mi ha donato mio zio Antonio , quando è entrato a Laguna, anche lui rivoluzionario , come te, Josè (Anita sapeva benissimo chi era lui, l’aveva visto in chiesa , tra i comandanti, e gli era parso meraviglioso, con la barba bionda e gli occhi azzurri). Ma non gli disse che era da quattro anni sposata con un calzolaio , Manoel Duarte Aguiar , Manoel dei cani , come lo chiamavano a Laguna , perché era contornato dai cani , a cui la madre , Maria Antonia de Jesus , vedova con tre figlie a carico, l’aveva promessa e data , a soli quattordici anni d’età, affinché la ragazza potesse sfamarsi.

Aninhas non voleva mentire allo straniero , al bel corsaro dai capelli biondi come il sole, da cui era fortemente attratta ( “Io dico Josè Garibaudi , ed è un nome che mi fa sognare una vita in paesi misteriosi, bellissimi, lontani . Viene da un paese chiamato Italia, l’hai mai sentito nominare ?“, chiede alla sorella). Anita non disse che era sposata perché si sentiva una donna libera , e non tanto perché il suo matrimonio era stato uno sfacelo , e il marito , arruolatosi con gli imperialisti di don Pedro II , all’arrivo dei farrapos , i rivoluzionari a cui apparteneva Garibaldi , se ne era scappato da Laguna senza più dare notizie di sé ( poteva già essere morto, come ipotizza qualche biografo) , ma perché Manoel dei cani si era rivelato fin dall’inizio un vero e proprio “omme ‘e merda”, per dirla alla napoletana. La maltrattava e la teneva segregata in casa , era costantemente ubriaco, e quando era sobrio era un vero pusillanime, sempre dalla parte del più forte, meschino , vile e codardo. Insomma non degno di lei , non dico del suo amore, - che non c’era mai stato – ma della sua stima e del suo rispetto. E questo per una sorta di codice d’onore non scritto delle donne sudamericane do quel tempo , che erano forti e coraggiose , e spesso si dovevano difendere da sole dalla brutalità degli uomini e dalla natura esuberante, ma allo stesso tempo erano donne capaci di estrema fedeltà e dedizione , pronte a qualsiasi sacrificio e alla totale sottomissione ai loro uomini , che seguivano anche nelle imprese guerresche , purchè questi si dimostrassero uomini veri , con le palle, dotati di coraggio , cuore , lealtà, con vivo senso della libertà , dell’ amicizia, spirito di sacrificio e solidarietà umana, valori che valevano più di qualsiasi legge scritta, e che Anita aveva trovato nel suo Josè. Una come lei , fiera e selvaggia come una cavalla di purissima razza , non si sarebbe mai adattata a vivere con un uomo che non amava e stimava , anche se le carte dicevano che era il marito. A dirla tutta , c’è chi, come Silvia Alberti de Mazzeri, una delle sue tante biografe , sostiene che il matrimonio tra Anita e Duarte non fu neppure consumato, ma forse questo è eccessivo.

Quel che è certo e che tra i due l’amore non c’era mai stato , e che quando venne Josè Garibaudi, come lo pronunciava lei, la diciottenne Anita non esitò a lasciare tutto e tutti, familiari e amici, casa e patria, e a seguirlo dovunque, come un’ombra, stargli accanto per tutta la sua breve vita, dieci anni intensi, pieni di avvenimenti , di speranze, di promesse, ma anche anni di durissime privazioni, fortemente drammatici , che solo una donna come lei avrebbe potuto sopportare.

3. I miei occhi ti scoprono nuda.

Anita era alta, scura di pelle, robusta, dal corpo muscoloso e il petto sviluppato, viso ovale un po’ lentigginoso , capelli nerissimi, lunghi fino alla vita e sciolti , fiera e brusca nei movimenti, tanto risoluta nelle azioni di guerra da stupire lo stesso Garibaldi. Aveva gli occhi a mandorla , immensi, che gettavano una luce che poteva essere fiamma di sdegno ( a soli quattordici anni aveva spiaccicato il sigaro sul viso di un carrettiere dallo sguardo troppo insistente e molesto), o torrenti languidi di una calda pioggia di sguardi, come lo furono per il suo Josè , a cui , ( “a prima vista si riconosceva l’amazzone in lei”, dirà Gustav Hoffstetter , uno dei tanti ufficiali stranieri di Garibaldi) , probabilmente insegnò a cavalcare (o quantomeno a perfezionare la sua tecnica) , in quei primi giorni di intenso innamoramento. Cavalcavano insieme sulla spiaggia , dove rimanevano per ore e ore, spesso ci dormivano pure e ci facevano l’amore, sulla sabbia. Anita vi era abituata, fin da ragazzina, quando scappava di casa e restava via , col suo cavallo, per giorni e giorni ,e alla sera dormiva su quella stessa spiaggia.

“ Anita , splendida amazzone, i miei occhi ti scoprono nuda e ti ricoprono di una calda pioggia d’amore. In te canta il vento di prima mattina, e i tuoi seni si fanno arpe profumate. In piena notte il tuo riso è come il fogliame fragoroso dei grandi alberi , e quando scendi dal letto la tua camicia di luna è un lungo strascico azzurro.”
Fu un’estate indimenticabile , giorni e notti di piena e pura sensualità, che proseguirono a bordo del Rio Pardo, la nave su cui Garibaldi aveva issato le proprie insegne di comandante della flotta della Repubblica di Santa Caterina. Ma intanto le truppe e la flotta imperialiste tornavano alla carica, e bisognava difendere la città.

4. L’amazzone brasiliana

E Anita non si tira indietro. E’ al fianco del suo Josè, partecipa attivamente a varie azioni di guerra in cui rischiano entrambi di perdere la vita, come nello scontro con le navi dell’armata imperiale, nella baia di Imbituba , il 3 novembre 1839, durante la disperata difesa di Laguna. E’ lei stessa che spara la prima cannonata contro la flotta nemica preponderante, è lei che anima colla voce le ciurme sbigottite, è lei che soccorre i feriti, incurante della pioggia di pallottole e di una cannonata che la travolge fra i cadaveri. Ma Anita si rialza e in mezzo a membra e corpi mutilati , vesti e bandiere in fiamme che le intorno nell’aria, imbraccia un fucile e con il suo coraggio e il suo vigore restituisce fiducia ai marinai nascosti sottocoperta, gridando e agitando la sciabola: “ Mais fogo , mais fogo!” E quegli uomini , sentendosi umiliare da una donna, reagiscono, riprendono a combattere, superano le difficoltà del momento. Ma la potenza della flotta imperiale è schiacciante, non c’è possibilità di difesa. Garibaldi la invia a chiedere rinforzi al generale Canabarro , ordinandole di far pervenire la risposta per mezzo di un portaordini. Ma l’amazzone brasiliana è degna di lui, e se ne va , passando sulla laguna alta sulla baia, sprezzante del pericolo, e porta personalmente la risposta, negativa, che convince il corsaro ad affondare le navi, mettendo però in salvo le munizioni, che vengono affidate sempre a lei, sposa-guerriera , la “fanciulla dinamitarda, che nel petto azzurro e nero del ferro esplode come sole ardente, che s’apre come ferita, che parla come un guerriero; a lei , figlia del fuoco , che ha dentro di se lo spirito del fuoco , e l’addensamento del sangue , il vapore rosso , e la preghiera retta che libera e sublima”

Dopo alterne peripezie, Anita, partecipa eroicamente all'ultima battaglia navale della Barra , il 15 novembre 1939, trasportando in salvo per dodici volte le munizioni di bordo con una piccola barca, da sola, sotto il fuoco nemico, prima che Garibaldi incendi le sue navi.

La guerra prosegue via terra, con Anita sempre indomita, a cavallo, con la spada sguainata, sottoposta a prove incredibili di resistenza alla fatica, alla sete, alla fame , nutrendosi di sole bacche e radici per giorni e giorni , spronando i compagni di lotta ad andare avanti, a combattere, stanando gli imboscati e i vigliacchi a suon di fucilate. Anita , fiamma e fumo, grano di energia forgiata nel granito dormiente , salamandra, stella caduta nelle foreste del Rio Grande du Sol , è tra i protagonisti della battaglia di Santa Vittoria, del 15 dicembre 1839, in cui 500 repubblicani sconfiggono 2000 imperiali, ma nella battaglia successiva, di Curitibanos , del 18 gennaio 1840, viene fatta prigioniera , ma riesce a fuggire per tornare dal suo Josè, e quando le dicono che è morto , torna sul campo di battaglia , lo cerca tra i cadaveri a lume di una torcia , aggirandosi tutta la notte come una disperata. Lo piange morto, ma Josè è vivo, l’hanno visto combattere a pochi chilometri da lì , e allora lei accorre , è al suo fianco, galoppano ancora insieme e riescono incredibilmente a trovare il tempo anche per l’amore.

“Io marciavo a cavallo con accanto la donna del mio cuore , degna dell’universale ammirazione…E che m’importava il non aver altre vesti che quelle che mi coprivano il corpo, e di servire una povera Repubblica che a nessuno poteva dare un soldo? Io avevo una sciabola e una carabina , che portavo attraversata sul davanti alla sella…La mia Anita era il mio tesoro, non meno fervida di me per la sacrosanta causa dei popoli e per un vita avventurosa…comunque andasse l’avvenire ci sorrideva fortunato , e più selvaggi si presentavano gli spaziosi americani deserti , più dilettevoli e più belli ci parevano”.

5. Nasce Menotti

Non si fermano neppure quando Anita rimane incinta , anzi l’eroina prosegue a cavalcare, lotta , grida, cade, si rialza, torna in sella e vi rimane fino all’ultimo mese di gravidanza. E’ il 6 settembre 1840 quando nel piccolo villaggio di Mostazas, in una casa di campagna , nasce il loro primogenito , Menotti Domingo , con un’ammaccatura sulla testa, ricordo della caduta da cavallo.

Josè e Anita ora hanno un figlio , ma mancano di tutto, perfino dei pannolini del piccolo , che avvolgono nel fazzoletto che il padre abitualmente porta al collo. Garibaldi va a procurarsi viveri e indumenti adatti al piccolo, ma il primo centro abitato è Settembrina, una località distante qualche centinaio di chilometri. Va sotto la pioggia torrenziale , attraverso campagne inondate, con la volontà disperata di un padre che deve far campare il proprio figlioletto. Anita rimane sola. La casa viene circondata dagli imperiali, ma ella riesce a eludere l'accerchiamento lanciandosi a cavallo, montando a pelo, seminuda e col neonato di soli dodici giorni in braccio appena avvolto nel fazzoletto dell’eroe, rimanendo nascosta nel bosco per quattro giorni al freddo e alla pioggia , alimentandosi con radici e frutti silvestri , mentre lo allatta; finché Garibaldi riesce a rintracciarla. Sono sfiniti. E intorno a loro è uno sfacelo , i soldati sono allo sbando più completo, ubriachi, incapaci di battersi, disertano, rimangono una quarantina di fedelissimi privi di tutto, col morale sotto i tacchi. Ormai non c’è più scopo di continuare la guerra, dice Anita , guardando il bambino. E lui, che aveva pensato di combattere per il popolo contro la tirannia e il malgoverno , ora s’accorgeva che il popolo non stava sempre dalla sua parte , e che non erano solo i suoi avversari a conoscere il malgoverno e la tirannia, lui che aveva sperato che questa fosse una guerra nazionale , secondo il desiderio di Mazzini , ma ora vedeva la nazionalità sperdersi nelle pampas , e che ne era venuta fuori la solita guerra civile dove ci si scanna tra fratelli , e perfino gli italiani si trovavano in entrambi i campi e s’ammazzavano fra di loro , doveva ammettere che sì, Anita aveva ragione. No, non era così facile continuare a pensare a se stesso come a un cavaliere errante , con l’inebriante sensazione di stare dalla parte del giusto, del futuro, del progresso. Garibaldi, pur essendo un sentimentale, un romantico, un don Chisciotte, non poteva ingannasi per lungo tempo. Alla fine , come tutti gli idealisti , restava ferito anche lui dalle lame affilate della dura realtà dei fatti e doveva ammettere che anche questa era una sporca guerra. Nell'aprile del 1841 chiede ed ottiene dal Generale Bento Gonçalves di lasciare l'esercito repubblicano In cambio dei servigi resi alla rivoluzione gli vengono dati 900 capi di bestiame, che lo trasformano in gaucho . Con Anita e il piccolo Menotti, si dirige verso l’Uruguay, dove c’è una forte comunità italiana , e dopo cinquanta giorni avventurosi ,con ruberie dei gauchos da lui ingaggiati , le piene del Rio Negro , e le malattie delle bestie, percorrendo più di 600 chilometri , arriva a Montevideo, con le sole pelli di circa duecento animali da cui ricava appena cento scudi necessari per comprare un vestito per Anita e per sè. “Nessun comandante rivoluzionario sudamericano – annota Montanelli - fu pagato così poco”.

6. Era morbosamente gelosa

A Montevideo , Anita e Josè, regolarizzano la loro posizione , si sposano nella chiesa di San Francesco d’Assisi il 26 marzo 1842, alla morte (presunta) del precedente marito di Anita, il calzolaio Duarte . Intanto avevano affittato una modesta casetta: una cucina dal soffitto basso e annerito dal fumo, due camerette , un terrazzino da cui si vedeva il porto, e un cortile con un pozzo. Era tutto ciò che desiderava Anita , indifferente agli agi e alle ricchezze, abituata ad adattarsi a una vita povera e difficile , ma felice di un’esistenza che le permette di ritrovare ogni giorno l’uomo a cui ha dedicato la vita. Ma lo tiene d’occhio , lo conosce bene, sa che è volubile , seduttore, e soprattutto sempre pronto a lasciarsi sedurre.

Anita ora è solo madre e moglie perduta nel tunnel dell’onice , ma il fuoco della famiglia rimane la sua passione, la sua certosina pazienza, il suo tormento, mentre il corsaro Josè si è trasformato prima in venditore ambulante di casalinghi, con scarso successo, poi in professore di matematica e di storia e geografia nel collegio diretto da un sacerdote d’origine còrsa, padre Paolo Semidei, ma i guadagni continuano ad essere miseri, tant’è che in casa Garibaldi, allietata dalla nascita di un’altra bambina , Rosita, nata nel 1843 (successivamente nasceranno , il 22 febbraio 1845, Teresita e , il 28 marzo 1847, Ricciotti) , non ci sono sedie sufficienti e mancano perfino le candele.

Anita e Josè hanno un solo vestito , e i bambini si coprono alla meno peggio. Ma Anita , nonostante la povertà e l’isolamento dovuto alla sua rozzezza d’estrazione contadina , all ‘analfabetismo, e al fatto che era una brasiliana di lingua portoghese, è ugualmente felice, e si fa in quattro: fa la madre, la moglie, ma fa anche la sarta , per contribuire al magro bilancio economico.

“Josè, Josè, ora io sono sposa e madre. Non più guerrillera. Nel letto ora siamo
in quattro , ma siamo una sola cosa, amore, spiga e fuoco. Un solo sangue ci scorre nelle vene , ed è come un fiume“.

7. Un'altra guerra

L’importante è che il suo Josè sia vicino a lei. “Affettuosissima , e con l’ amore devoto di una schiava – scrive di lei Jesse White Mario - , pronta a qualsiasi sacrificio per l’uomo adorato, Anita diventa selvaggia , allorché presa dall’incubo della gelosia. Ella non tollerava rivali e quando sospettava di averne una , si presentava al marito con due pistole in mano, una da scaricare contro di lui, l’altra contro il rivale”.

Ora è gelosa di Mary Ausley , la moglie del rappresentante inglese a Montevideo e costringe Josè a tagliarsi barba e capelli, nel tentativo di renderlo meno attraente.

Ma il timore suo più grande è di vederlo di nuovo “sposato” alla guerra, e lei, con tre figli piccoli da allevare, non potrà essergli vicino .E la cosa puntualmente , fatalmente si verifica. Tra Uruguay e Argentina , scoppia la guerra dei fiumi, perché si combatterà prevalentemente sul Rio della Plata e sul Parana . E il Capo di Stato uruguaiano , generale Rivera , non dimentica che tra gli oltre cinquemila italiani che sono a Montevideo ( un sesto della popolazione ) , nel suo paese c’è anche il famoso corsaro Giuseppe Garibaldi che ha combattuto per la repubblica riograndese. Gli offre il grado di colonnello e il comando della flotta , o meglio di quel che rimane della flotta , che è stata sbaragliata da quella argentina, comandata dal famoso ammiraglio Brown, un irlandese che era stato allievo di Nelson. E il guerriero italiano non può sottrarsi, in nome dei loro comuni ideali, per l’Italia , per l’umanità (il dittatore argentino Rosas è un bieco tiranno, spalleggiato dal traditore uruguaiano, generale Oribe) . In realtà , il Nizzardo non vede l’ora di tornare combattere dopo quei mesi di vita mediocre, dopo quel pantano di monotonia in cui speranza, passione, consapevolezza di sé si spezzettano in umili tentavi di sbarcare il lunario , o vengono soffocate dai piagnistei di un bambino , o di una donna, sia pure la sua moglie ex guerriera. … E poi Montevideo , la città in cui vivre , è sotto assedio, un assedio che durerà oltre otto anni , e che farà parlare Alexander Dumas di “Nuova Troia”, “una lotta che servirà d’esempio alle generazioni venture di tutti i popoli che non vorranno soggiacere alle prepotenze”, e farà assurgere l’eroe biondo italiano a emblema , mito del coraggio e della libertà dei popoli, difensore dei deboli e degli oppressi . Grazie anche all’abile penna del romanziere francese, il personaggio Garibaldi diventerà presto famoso in tutta l’Europa.

In effetti, i resti della flotta uruguaiana fatta a pezzi da Brown sono formati da quattro navi malmesse , e l’impresa appare subito disperata, impossibile, ma sono queste le situazioni che Garibaldi predilige, e ne darà ampia dimostrazione ottenendo l’ammirazione e il rispetto dello stesso ammiraglio Brown e di un giovane ufficiale , Bartolomeo Mitre, che combatteva in campo avverso, e che diverrà prima generale e poi presidente della Repubblica Argentina: “Lo vidi la prima volta al ritorno dal Rio Grande , dove aveva lasciato una fama romanzesca per il suo coraggio e per la sua elevazione morale. Lo sentii cantare l’inno della Giovine Italia con voce dolce e vibrante. Poi lo rividi in piedi sulla poppa della sua navicella armata, tranquillo , dominatore come il genio della battaglia, e mi sembrò che gli uomini e le imbarcazioni obbedissero all’impulso della sua volontà . E compresi il suo potere d’attrazione in mezzo al pericolo…Garibaldi sotto un’apparenza modesta e pacifica celava un genio ardente e una mente popolata di sogni grandiosi… L’impressione che ne ricevetti fu di una mente e di un cuore non equilibrati fra di loro , di un’anima infiammata da un fuoco sacro, votata alla grandezza e al sacrificio . Ne trassi la persuasione che era un vero eroe in carne e ossa , con un ideale sublime , con teorie di libertà esagerate e mal digerite , in possesso tuttavia di elementi per eseguire grandi cose…”

8. La morte di Rosita

Ci aveva visto giusto. Ma la sorte di Montevideo non è in gioco sul mare, o sui fiumi . La lotta essenziale ha luogo a terra e anche in questo campo Garibaldi, diventerà – anche grazie alla stampa europea e degli Stati Uniti, - una figura eroica. In quel tempo , tutti gli abitanti di Montevideo , assediata, si erano impegnati nella lotta, avevano patito la fame, la sete, la carestia , erano stati colpiti da malattie infettive e soprattutto i più deboli, gli anziani e i bambini erano morti. Tra questi , anche la a piccola Rosita . Aveva a poco più di due anni d’età ed era morta a seguito di un’epidemia di scarlattina. Anita era impazzita di dolore , aveva delirato per giorni e giorni , fino al punto in cui Josè aveva dovuto portarla con sé, in guerra, per starle vicino in qualche modo. Anita ora fa l’infermiera di campo, curai e assiste i feriti , ma continua ad essere in preda a una grande depressione per la scomparsa della piccola Rosita.

Partecipa alla famosa battaglia di San Antonio del Salto dove Garibaldi , con soli 190 uomini , sconfigge 1.500 avversari del generale Oribe . Ma è l'ultima volta . Torna ben presto a occuparsi dei suoi figli nell'umile casetta di Montevideo, oggi divenuta museo, soffrendo privazioni di ogni genere. Nel giugno del 1847 Garibaldi è addirittura nominato comandante generale di tutte le forze di difesa di Montevideo, ma si dimette quasi subito dalla carica e - spinto dalle notizie incoraggianti che arrivano dalla penisola- decide di tornare in Italia , dopo aver rifiutato una grande estensione di terra, con relative case e bestiame, che il Presidente Fruttuoso Rivera gli aveva offerto in dono per i rilevanti servizi prestati a favore della Repubblica d’Uruguay.

9. Ritorno in Italia

Anita si imbarca qualche mese prima di lui, il 27 dicembre 1847, insieme ai suoi figli Menotti, Teresita e Ricciotti , accompagnata da un giovane ufficiale della Legione Italiana di Montevideo, Medici , e sbarca a Genova. Poi raggiunge Nizza , e va a vivere con la madre di Garibaldi, con cui non avrà un buon rapporto. Donna Rosa è una fervente cattolica praticante, la guarda con sospetto , perché sa del precedente matrimonio della “brasiliana” , e non è del tutto convinta che lei sia vedova. Anita per diversi mesi convive malissimo con quella suocera diffidente e ostile e se non fosse per i bambini se ne tornerebbe in Brasile . Ma aspetta con ansia il suo Josè , che è partito in aprile del 1848 con la nave “Speranza” insieme a 61 legionari italiani . Garibaldi, dopo varie peripezie in un Europa infiammata dalle rivoluzioni ( il 1848 è l’anno delle barricate. Si spara a Parigi, Vienna, Berlino, Amsterdam, Budapest, Bruxelles, Milano, Napoli, Palermo, ovunque si chiede, e si pretende con ogni mezzo la libertà e l’indipendenza), accolto trionfalmente ,

approda a Nizza il 21 giugno 1848 e ricomincia subito a combattere, inevitabilmente , irrevocabilmente “sposato” alla guerra. Va a Firenze, Bologna, Ravenna , poi sul lago Maggiore , infine viene chiamato a Roma, dove è caduto il Papa e si è instaurata la Repubblica con il triumvirato Mazzini-Saffi-Armellini. Siamo alla fine del quarantotto, e Garibaldi entra a Roma con la sua pittoresca legione fatta di “uomini – scrive lo scultore inglese Gibson - abbronzati dal sole, coi capelli lunghi e arruffati , e i cappelli conici ornati da piume nere e ondeggianti, coi visi allampanati bianchi di polvere e incorniciati da barba incolta, con le gambe nude , che si accalcano intorno al loro capo, che, montato su un cavallo bianco, era perfettamente statuario nella sua bellezza virile”. I garibaldini , dirà Pisacane, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, “sono una massa di briganti “. In effetti nella legione regnano confusione , indisciplina e rissosità, ma quando si tratta di battersi nessuno degli altri contingenti ( i bersaglieri di Luciano Manara , i “borboni” di Pisacane, i “pontifici” di Roselli) lo sa fare meglio delle “camice rosse”.

Garibaldi , afflitto da reumatismi , che lo tormenteranno per tutta la vita, portato a spalla dal suo attendente , il gigantesco negro Aguilar , che va in giro con una lancia dipinta di rosso, viene raggiunto dalla moglie, il 15 marzo 1949 subito dopo la proclamazione ufficiale della Repubblica romana. Anita rimane qualche settimana con il suo Josè, lo assiste, lo cura, lo rianima, ci fa l’amore , e concepisce il quinto figlio, ma quando il generale si riprende le intima di tornare a Nizza, dai figli. E lei stavolta obbedisce. Intanto il corpo dei garibaldini si è allargato, gli uomini, studenti, borghesi, ragazzi giovanissimi provenienti da ogni parte d’Italia, sono arrivati ad essere circa un migliaio.

Ma le cose, a Roma, si complicano. Dopo l’appello di Pio IX alle potenze cattoliche per il ricupero del potere temporale, tutti, Austria, Francia, Spagna, Napoli, il Granducato di Toscana , inviano uomini e armi a Roma. Alla fine se ne conteranno ottantaseimila , ordinati e ben equipaggiati, contro i complesivi circa 20mila volontari degli eserciti della Repubblica, sparsi nel vasto territorio dello Stato Pontificio , per lo più raccogliticci e senza nessuna esperienza di guerra, tranne i veterani di Garibaldi . A Roma ce ne sono circa la metà, compresi i bersaglieri lombardi di Luciano Manara. Siamo uno a otto, o uno a nove, situazioni in cui Garibaldi si è venuto a trovare nel passato, ma ora è diverso. Roma non è Montevideo , e le possibili entrate in città sono infinite, impossibili da presidiare. I primi ad intervenire sono i francesi comandati dal generale Oudinot , che il 30 aprile 1849 sferrano l’attacco verso il Granicolo e Villa Sciarra. Sono più di 30mila uomini muniti di numerose batterie d’artiglieria , un parco d’assedio vasto , e validi reparti del genio. La lotta è dura, feroce, spietata, impari. Ma il solito Garibaldi non molla di un centimetro , ed è l’unico, con le sue leggendarie camice rosse di Montevideo, che riesce a battere i francesi, che nel frattempo si sono impadroniti di Villa Pamphili.

La situazione precipita rapidamente , Mazzini lo chiama, gli chiede un’opinione confidenziale sul da farsi , lui risponde: “ Giacchè mi chiedete ciò che io voglio, ve lo dirò: qui io non posso esistere per il bene della Repubblica che in due modi: o dittatore il limitatissimo , o milite semplice. Scegliete”. E’ evidente che ci sono stati dei contrasti con il Comandante in capo dell’esercito, il generale Roselli, , un romano, ex ufficiale del genio dell’esercito pontificio, che non ha nessuna esperienza di questo tipo di guerra, ma anche con Carlo Pisacane , ex ufficiale borbonico, che non fa mistero del suo disprezzo per gli uomini comandati da Garibaldi.

Il dilemma rimane irrisolto. Garibaldi continua a battersi come un leone, con episodi di grande eroismo , ma non gli viene concesso di adottare i suoi metodi da guerrillero sudamericano, ( come ad esempio inseguire l’esercito francese in rotta, dopo la prima battaglia sul Gianicolo : “Noi avremmo potuto , profittando della sua debolezza e della sua paura, ricacciarlo in mare”) , che lo hanno portato nel passato a combattere e vincere anche in situazioni più disperate di queste. Ma ormai non c’è più nulla da fare, i capisaldi della resistenza, il Vascello, San Pancrazio , Villa Spada, sono caduti, schiacciato da forze infinitamente superiori non ha più scampo, l’unica via che gli rimane è la fuga.

10. La morte di Anita

E’ in questa situazione di estremo caos , con i francesi che bombardano Villa Spada, che viene di nuovo raggiunto da Anita. E’ il 26 gugno 1849 e Anita ha viaggiato per mare fino a Livorno, proseguendo per Roma in carrozza, nonostante sia incinta di quattro mesi. Dentro di sé ha deciso che non avrebbe mai più lasciato il marito, unica sua ragione di vita. E a nulla valgono le insistenze di Josè affinché si metta in salvo, perché Roma sta per essere presa
dai francesi . ma lei non lo fa neppure finire di parlare che eccola già vestita da uomo, con in capelli tagliati , in uniforme da ufficiale dei legionari , pronta a partire , insieme a lui, coi volontari garibaldini. Eccola , come ai bei tempi, cavalcare nell’avanguardia, al fianco del suo Josè. Eccola, con l’abituale fierezza di amazzone , gridare il suo disprezzo ai codardi che sbandano per l’attacco di pattuglie austriache alle porte di San Marino .Ma in realtà Anita soffre terribilmente gli infiniti disagi di questa affannosa fuga. Viene colpita da una forte febbre, deperisce, s’indebolisce rapidamente. Ma Garibaldi rifiuta di arrendersi agli austriaci, vuole raggiungere a tutti i costi Venezia, che ancora resiste ( capitolerà il 22 agosto 1849), e supplica Anita di rimanere in quella ospitale terra di rifugio. Tornerà a prenderla quanto prima. Ma Anita non ne vuole sapere: “Tu vuoi lasciarmi”, gli dice. E’ sola, in terra straniera, di cui parla a mala pena la lingua, non ha più nemmeno il conforto degli amici venuti con lei dall’Uruguay, tutti morti, o in marcia con Garibaldi.

I fuggiaschi proseguono la marcia attraverso sentieri poco battuti, qualcuno si ritira, altri si sperdono. Anita è consumata , divorata dalla febbre, soffre la sete, si ristora con un melone, frutto di stagione. A Musano, nella casa parrocchiale, riposa col marito. ( faranno riconsacrare la chiesa, contaminata dal nemico numero uno del papato), arrivano a Cesenatico, porto di pescatori , dove Garibaldi , con Anita, sempre più grave , s’imbarca su un bragozzo per raggiungere Venezia, seguito dagli altri fuggiaschi . Navigano tutta la giornata , seguendo da lontano la costa. Ma a Goro , a ottanta chilometri da Venezia, la flottiglia dei bragozzi viene avvistata da un brigantino austriaco, che spara due cannonate intimorendo i pescatori . Che si arrendono. Ma prima fanno in tempo a sbarcare i passeggeri non graditi. Garibaldi prende tra le braccia Anita , scende nell’acqua fino all’altezza del petto, e raggiunge la spiaggia percorrendo 400 metri a guado, saluta i compagni, don Bassi, il cappellano dei garibaldini, Giovanni Livraghi, tornato in Italia con lui sulla “Speranza” da Montevideo, Angelo Brunetti, capopopolo romano detto Ciceruacchio , coi figli Luigi e Lorenzo rispettivamente di sedici e tredici anni. Saranno tutti fucilati dagli austriaci.

Rimane con il solo Leggero , al secolo il maddalenino Giovan Battista Coliolo, uno dei reduci di Montevideo, che si mette in contatto con il colonnello Nino Bonnet , i cui fratelli hanno combattuto e sono caduti nella difesa di Roma. Bonnet gli fornisce abiti e lo aiuta nella fuga, una penosa marcia di ore su un terreno difficile. Gli dice che lo può mettere in salvo verso la Toscana e gli impone di separarsi da Anita, che ,adagiata su un carro trainato da buoi, sembra ormai agli estremi. Bonnet dà a Garibaldi un suo abito , è sera, viene una barca a prelevarlo, per condurlo attraverso la laguna. Ma Anita si attacca al marito. Non vuole rimanere sola. Garibaldi guarda Bonnet : “ Voi non potete neppure lontanamente immaginare quanti e quali servigi mi abbia reso questa donna…quale e quanta tenerezza ella nutra per me! Io ho verso di lei un immenso debito di riconoscenza e d’amore…Lasciate che mi segua!”

Ma ormai si è troppo ritardati l’imbarco e tutto si complica. I barcaioli , insospettiti e timorosi della rappresaglia austriaca lasciano i passeggeri a metà strada , ma non li denunziano. Bonnet ottiene la cooperazione dei barcaioli più coraggiosi, si rimettono in moto, dopo cinque ore raggiungono la Chiavica di Mezzo, sull’argine sinistro del Po. E’ mezzogiorno del 4 agosto 1849 , e Anita è ormai in agonia. E’ impossibile continuare a trasportarla. Avvisato, accorre , con un biroccio, Battista Manelli, un patriota conosciuto da Garibaldi. Anita viene adagiata su un materasso e dei cuscini. E’ morente. Il biroccino procede lentamente , come un carro funebre, sotto il sole cocente del pomeriggio di agosto. Garibaldi segue Anita a piedi e terge con un fazzoletto una spuma bianca che esce dalle labbra della moglie agonizzante. A sera, alle Mandriole, poco distante da Ravenna , alla fattoria Ravaglia, li attende un medico. In quattro prendono il materasso dagli angoli, trasportano Anita nella camera da letto dei Ravaglia.

“Nel posare la mia donna in letto, scoprii sul suo volto la fisionomia della morte . Le presi il polso…più non batteva! Avevo davanti a me la madre dei miei figli ch’iom tanto amavo ! Cadavere!”

E’ una morte misera, quella di Anita, come misera è stata la sua vita. Muore su un carretto , o su un letto altrui, vestita di panni regalati per carità, muore lontano dalla patria e dalla famiglia. Ha lasciato tutto e tutti , anche i figli, (li ha raccomandandoti al padre negli ultimi momenti di lucidità) per stare fino alla fine vicino al suo uomo , sua sola ragione di vita e l’ unico conforto è stato quello di averlo avuto accanto nei momenti estremi.

Ora il suo Josè piange la sua fanciulla dinamitarda, ed è un pianto senza fine. Anita non si sveglierà più, non aprirà più gli occhi , non si aggirerà più come un sole insonne nella notte nera e bianca in cerca del suo Josè; ora la memoria Brucia, è fatta di lacrime salate, è nube, pioggia, neve ardente, ormai i fiumi del suo corpo sono essiccati, i paesaggi nei suoi occhi dissolti, l’acqua e l’aria dei suoi pensieri dissolti. Tutte le cose d’intorno soffrono , anche l’erba e gli insetti ostinati si fermano. E già s’innalzano muri di pietra nella memoria. .

Ma deve andare, è braccato, non può sostare.

“Poveraccio – diranno i fratelli Ravaglia - , era già uscito, quanto rientra , va verso la fredda salma , vi sin getta sopra con tutta l’anima, e si scioglie nuovamente in amarissimo pianto. Le toglie la sopravveste , i sandali, un fazzoletto e un anello e me li porge. No, teneteli voi, generale, è giusto così, diciamo mio fratello ed io. E poi che non può aspettare oltre. Deve andare . E’ sfinito. Mi chiede un tozzo di pane. E mi dice di dare sepoltura cristiana alla salma , che sia portata a Ravenna e le si facciano solenni funerali. Si è scordato che è massone , ed ateo, e che non ha in tasca neppure una moneta per pagare il biroccio che ha portato Anita….La sera stessa di quel giorno, 4 agosto 1849, avvolgemmo la salma in un lenzuolo , scavammo di fretta una fossa poco profonda in un terreno incolto , a circa un chilometro dalla fattoria , e vi deponemmo il cadavere , coprendolo con un po’ di terra.”

Sei giorni dopo una ragazza giocando nei paraggi di quella tomba, vede sporgere dalla sabbia una mano e un avambraccio rosicchiati dalle bestie. Vengono avvertiti i gendarmi, il cadavere è dissotterrato , esaminato e sezionato dal medico legale. Viene riconosciuto per quello della “ donna che accompagnava Garibaldi” e sepolto di nuovo in un vero cimitero, grazie alla pietà di un povero parroco locale, don Francesco Bozzacchi, che ricompone i resti di Anita , in avanzata decomposizione, e celebra un funerale religioso.

Nel 1859 le spoglie di Anita sono per volontà di Garibaldi trasportate a Nizza; oggi riposano tumulate nel monumento innalzatole sul Gianicolo il 30 maggio del 1932 e inaugurato da Benito Mussolini con queste parole: “Anita , Madonna laica del nostro Risorgimento, simbolo del coraggio femminile che nessun altra donna italiana seppe eguagliare , conciliò sempre durante la rapida avventurosa sua vita i doveri della madre e della combattente intrepida al fianco di Garibaldi”.

Certamente Ana Maria de Jesus Ribeiro, possedeva un fascino ed un carattere davvero eccezionali per la sua epoca, e forse per ogni epoca. Ma Anita - dice Montanelli - non era Giovanna d’Arco , e non capi mai gli ideali del marito , tuttavia li condivise sempre fino in fondo , fino a morirne , ritenendoli sacrosanti perché tali lui li riteneva . “Anita si sacrificò e morì per suo marito , - scrive Mino Milani , uno dei garibaldinologi più noti - e il suo unico ideale fu la famiglia, o più precisamente l’amore coniugale , e va riconosciuto che si tratta di valori oggi desueti”.

Tu gridi come ad un uomo cui sia morta la moglie, come un dio che ha perduto la sua razza, - dice don Giovanni Verità a Garibaldi, mentre lo accompagna lungo la strada di Modigliana per l’attraversamento degli Appennini , - ma già domani griderei di meno. Perché sarai libero e rivedrai il mare che è stato il tuo primo amico , e sarà anche l’ultimo. Fu profetico in tutto, questo prete carbonaro. E l’eroe gli donò la cosa più preziosa che avesse: l’anello nuziale diAnita.

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