24 dicembre 2007

L’ARTE DEL MARINAIO JOSEPH CONRAD

di Augusto da San Buono
 
Conrad è un vagabondo, un marinaio e un artista, amava dire J. Galsworthy, esaltando la conoscenza diretta degli uomini e delle cose dello scrittore anglo-polacco, oltre che la forza narrativa dei suoi primi romanzi marinareschi, (“La follia di Almayer”, “Un reietto delle isole”, “Il nero del Narcisio”) che s’impongono subito all’attenzione per un’evocazione meravigliosamente plastica delle isole e dei mari dell’estremo oriente nei quali aveva navigato, e per i temi tipici di Conrad: la solitudine, il tradimento, l’inganno, l’autoillusione, il lento declino morale, la fedeltà e l’integrità personale distrutta da interessi materiali, la coscienza morale. Storie di caratteri forti e di anime grandi, il viaggio, la nave, la potenza della tempesta, i grandi capitani come MacWhirr, in “Tifone”, la cui debole voce “allontanò placidamente l’urugano”. Personaggi che rappresentano il trionfo della spirito della disciplina e l’incarnazione di una tradizione antica (Conrad voleva che la disciplina fosse un atto interiore, disprezzava l’indisciplina, e odiava la disciplina meramente esteriore), personaggi che vengono descritti con particolari visivi di grande potenza espressiva e forte suggestione. Si tratta quasi sempre di qualcosa di più di una storia marinaresca ed è per questo che non amava che si parlasse di lui come scrittore di avventure. “ Noi avvertiamo – commenta Raymond Leavis – le forze ostili della natura che minacciano di distruzione i suoi marinai, ma non gli abissi metafisici che si spalancano sotto la vita e la coscienza”.
Per quella “specie di nobiltà innata, aspra, sdegnosa e un po’ disperata” (Gide), per quel suo essere un “autentico gentiluomo polacco fino alla punta delle dita travestito da marinaio britannico ” (Russell), Conrad era molto amato da scrittori e intellettuali contemporanei, ma il suo temperamento e la sua educazione riuscivano bene a nascondere l’altro suo se stesso, il lupo di mare inquieto che, per fuggire l’avventura, il pericolo e la morte nel giuoco dei rapporti umani di terraferma, cercava sempre l’avventura, il pericolo e la morte nella solitudine, sul mare. E poi c’era il narratore, il romanziere - Conrad che descrive se stesso, eroe solitario, quasi sempre un fuggiasco, un fallito, segnato da una sventura o da un rimorso, stretto parente dell’angelo caduto, caro ai romantici, che conquista la sua identità affrontando la prova con stoicismo, compiendo il suo destino come un dovere. (“Il romanzo – diceva - è storia, storia interiore, o non è niente. Il romanzo, più della storia, è vicino alla verità”), ma la sua arte non era quella di Stevenson dove un pirata è un pirata, o descrittiva tipo Balzac, assolutamente no. “La sua arte non ricalca la realtà prima dell’uomo, ma l’uomo prima della realtà”, dice acutamente Ramon Fernandez. Egli descrive come fanno gli impressionisti della pittura, che colgono il momento in cui la luce illumina le cose. “Lui evoca esperienze soggettivamente integrali perché l’impressione equivale alla totalità della percezione e perché l’uomo la subisce nella sua totalità, con tutte le sue forze. La sua grande originalità consiste nell’aver applicato questo impressionismo alla conoscenza degli esseri umani”.
 
Il cerchio infame del mondo coloniale
Conrad - secondo Moravia – non è solo uno scrittore originale, ma un vero e proprio classico della modernità, uno scrittore costantemente in crisi con sé stesso, con la sua coscienza e la coscienza del mondo, prigioniero nel cerchio magico dell’onore tradito, delle “tenebre”, e della propria coscienza infelice, causa di salvezza e dannazione insieme. E’ lo scrittore che rappresenta come nessun altro la coscienza del fenomeno del colonialismo inglese, che è fenomeno costitutivo della società capitalistica. Nessuno prima di lui aveva descritto il cerchio infame del mondo coloniale, che a quel tempo, nel collo dell’imbuto di fine secolo, al passaggio tra Otto e Novecento, era al proprio apice. Nessuno come lui ha descritto lo sfruttamento bestiale dei paesi che poi saranno chiamati del “terzo mondo”, in cui “l’uomo bianco” è assoluto dominatore, e ritiene suo diritto questo dominio, e la cosa più naturale sfruttare, schiavizzare, brutalizzare, praticare la più bieca forma di razzismo nei confronti di altre creature umane che hanno una pelle diversa. Scrive Conrad negli “Ultimi saggi:“La conquista del mondo, che generalmente significa strapparlo a coloro che hanno un diverso colore della pelle o il naso un po’ più piatto, non è una bella cosa se la si guarda da vicino... Si esprime come semplice rapina, con violenza, omicidio aggravato su vasta scala… è la più abbietta gara al saccheggio che mai abbia sfigurato la storia della coscienza umana”). E il paese che più di ogni altro incarna questi principi è proprio la civilissima Inghilterra imperiale di quel tempo, la patria della libertà, che lo ha adottato, gli ha dato la cittadinanza, lo ha fatto membro della Marina Britannica, lui, nato polacco da una coppia di patrioti costretti all’esilio dal dispotismo zarista, lui, Jozef Teodor Konrad Korzeniowski, un apolide, uno sbandato, un reietto che grazie alla generosa Inghilterra è divenuto lo stimato e apprezzato capitano di lungo, e ha navigato per vent’anni in quasi tutti i mari del mondo, ma in particolare nell’arcipelago malese, vedendo centinaia di città, migliaia di paesaggi, milioni di volti, e vivendo situazioni estreme di attesa, di speranza, di solitudine, di morte.

Lord Jim e il gioco degli specchi.
Una volta lasciato il mare, scoperta la vocazione irrinunciabile di scrittore, Conrad si è posto il problema: come raccontare, trasfigurandole, tali esperienze senza venir meno ad un dovere elementare di riconoscenza personale al paese che lo aveva adottato, che lo aveva forse “salvato” da strade e sentieri pericolosi (il traffico d’armi, il gioco d’azzardo, i torbidi amori), come conciliare la sua coscienza morale e il debito di riconoscenza, come evitare di sporcarsi le mani raccontando la verità, e cioè discoprendo anche il volto ignobile e spietato dell’impero britannico?
Fu così che nacquero due capolavori, due romanzi fondamentali del fare letteratura come l’intendeva lui, ossia che scava fino all’osso la nuda verità, Lord Jim , - “uno dei più belli che io conosca – scrive Gide -, ma anche uno dei più tristi, sebbene sia uno dei più esaltanti “, il dramma dell’onore, o meglio di quando si manca all’onore, in cui adotta per la prima volta la tecnica della narrazione obliqua, del racconto nel racconto, ossia la vicenda viene raccontata da una persona che racconta ciò che gli ha raccontato una seconda persona, che magari a sua volta lo ha sentito da una terza persona – un espediente per allontanare da sé la materia narrata, un gioco di specchi che sfuma o sospende il giudizio etico sul colonialismo e sul ruolo dell’Inghilterra, ma anche una realtà che va in frantumi, uno scrittore che non è più il deus ex machina che tutto sa, e racconta la realtà delle cose, ma un poveruomo che annaspa, che va in pezzi, e che non sa più cosa sia la realtà. E poi “Cuore di tenebra”, a cui si è ispirato Francis Ford Coppola nel film Apocalypse Now, in cui il personaggio principale, Kurtz, a differenza di Jim che si era ritirato in un luogo inaccessibile per espiare la sua colpa, facendo del bene alla locale popolazione primitiva, tiranneggia in modo spaventoso i poveri abitanti della regione africana.

Cuore di tenebra , “the horror”
Quest’ultimo romanzo, libro di denuncia dell’orrendo sistema di sfruttamento praticato dai belgi in Congo, è anche un viaggio alla scoperta degli abissi più atroci dell’animo umano, è un libro che si rifà al tempo in cui Conrad era ufficiale in 2^ di un vaporetto belga, il Rois de Belges, che risaliva il fiume Congo per recuperare un agente coloniale ammalato, i cui metodi brutali avevano messo in allarme la compagnia coloniale belga . Kurtz, (in realtà un certo Klein) muore a bordo del battello pronunciando le sue ultime parole “the horror, the horror”, che Eliot avrebbe messo emblematicamente in epigrafe alla sua “Terra desolata”. Un libro, quello di Conrad, che diventa parabola profonda di esperienze umane psichiche e morali in cui ciascuno di noi si trova esposto alla minaccia dell’ oscurità, della tenebra, ovvero del male, che può sorprenderci nel nostro intimo in qualunque momento, quando meno ce lo aspettiamo. Cedric Watts, uno dei biografi di Conrad, lo descrive come “un’autobiografia obliqua, un taccuino di viaggio, una storia d’avventura, un’odissea psicologica, una satira politica, una prosa simbolica, una commedia nera, un melodramma spirituale e una riflessione scettica”, ma anche – dice Sandro Veronesi – l’urgenza di evidenziare in tutta la sua drammaticità il problema principale dell’umanità in senso lato, ovvero la frammentazione dell’io. La conoscenza di sé che spaventa fino ad inorridire, ciascuno di noi può trovare Kurtz dentro sé stesso. E chi più ne ha, più ne metta. Si tratta di un classico, alla maniera di Calvino, e avrà sempre qualcosa da dire. Infatti il libro ha più di cent’anni (è stato pubblicato nel 1902), ma continua a essere attuale, ad ispirare altri libri, film, album musicali, testi teatrali, balletti e musical, una catena senza fine, perché in quel libro di tenebre, di discesa agli inferi, c’è tutto il male che – grazie all’ ”uomo bianco” - avrebbero conosciuto i paesi cosiddetti sottosviluppati, il male che è all’interno della società occidentale, il male che è sete di potere economico e politico, il male che è nella retorica dell’eloquenza che difende il suo abominevole operato di distruzione e morte, il male di Kurtz che si traveste di fascino, magia ipnotica, avorio e sesso (Kurtz è tedesco, ma è figlio di padre inglese e madre francese, e lavora per una compagnia belga), il male che è nel cuore di tutte le nazioni dell’Europa occidentale che praticano il colonialismo e vengono coinvolte nella figura emblematica di Kurtz (ricordiamo ancora la maschera gigantesca e deforme di Marlon Brando nei panni di quella figura demoniaca), il male che è dentro di noi e che Conrad incessantemente esplora, frugando tra i ricordi degli anni di vita attiva. Ed ecco i racconti di mare e di solitudine, di abbandono spirituale e disperazione. Perché viene sempre il momento in cui gli uomini, a cui “sono dati amore, forza, coraggio, dimenticano tutto, dimenticano lealtà, rispetto e bellezza della vita”.
 
La laguna e l’inferno dantesco
Detto questo, viene un po’ da ridere nel rammentare come per tutti quelli della mia generazione, Conrad venisse accomunato alla famiglia letteraria degli scrittori d’avventure, ai Jules Verne e ai Salgari, per citare i più nobili (ancora adesso, mi si dice, alcuni suoi libri vengono etichettati come libri per “ragazzi”) mentre i difficili complessi romanzi dello scrittore anglo-polacco sono talora privi di avventura, ma così pieni di magia di mistero, di animismo, che è proprio delle civiltà primitive, ma anche e soprattutto di solitudine, condanna cui non è possibile sfuggire, di ricerca disperata di luce in un mondo di tenebra, di nostalgia di un fratello, di un doppio su cui scaricare in parte il senso di angoscia contestuale alla vita, di pulsione di morte, che gioca un ruolo preminente nella mente umana e assume vari simbolismi e diverse figurazioni. Nel racconto “La laguna”, ad esempio, ci sono figurazioni che sembrano mutuate dall’inferno dantesco:“Nella calura dell’aria ogni albero, ogni foglia, ogni ramo, ogni viticcio di rampicante, ed ogni petalo dei minuti fiorellini pareva immerso in una immobilità perpetua e definitiva”. Nell’immobilità assoluta della natura, ecco la “canoa del bianco che pareva varcare i portali di un territorio da cui la memoria stessa del moto si fosse allontanata per sempre”. E poi foreste che parlano, fiumi infernali che corrono dritti a oriente, “ all’Oriente che accoglie luce e tenebre”, fiori immoti, bagliori sinistri, e il grido ripetuto di un uccello, “grido stridulo e fioco, che rimbalza nell’acqua liscia e si spegne prima di toccare l’altra sponda nel più soffocante silenzio del mondo”.
Conrad è stato più volte in Italia (la traversata da Venezia a Trieste è stato il suo battesimo marino), conosce diverse città di mare in cui è approdato con la sua nave, ama molto Capri, dove è stato più volte con la famiglia, conosce la letteratura italiana, conosce Dante e la Divina Commedia. E i portali che la barca del bianco varca “richiamano” la porta dell’inferno dantesco oltre la quale “si convien lasciare ogni sospetto” e ogni memoria del mondo. Il tutto costituisce la premessa di un epilogo tragico, la risposta ad una dinamica che ruota intorno ad un nucleo centrale, la pulsione della morte. ”Io vado incontro alla morte, voi alla vita, solo Dio sa chi di noi abbia ricevuto una sorte migliore”, dice Socrate ai suoi giudici. Queste parole sono sullo sfondo del racconto di Conrad, e anche il risvolto psicologico di chi pone troppi quesiti, troppe domande destinate a restare tutte senza risposta in un mondo privo di illusioni, “immerso nel cuore di una tenebra immensa”.
 
Il melting polt di Conrad
Conrad è un uomo senza miti e senza illusioni, un nemico dell’ideologia, della demagogia e di ogni forma di retorica, ma c’è in lui la “coscienza morale”, anzi è lo storico della coscienza sensibile, disse di lui Henry James, “un’ansia di obiettività lo divora”, aggiunse Th. Mann, - e quell’ansia è la cifra della sua arte, unitamente ad una grande passione per la verità e un grande amore della libertà”. E questo amore, unitamente a quello per la letteratura, gli era stato trasmesso da suo padre Apollo, scrittore e traduttore, che era stato uno dei promotori dell’insurrezione polacca nel 1863 contro la Russia zarista. Fatto prigioniero, esiliato, morirà giovane, di tisi, preceduto da sua madre, Eva Bobrowska, anche lei morta di tisi a 34 anni, anche lei ardente patriota e donna di cultura. Il piccolo Konrad rimane orfano a soli otto anni, viene adottato dallo zio materno Tadeusz Bobrowski, che appartiene alla piccola aristocrazia terriera, cresce leggendo i romanzi d’avventura di Fenimore Cooper, i resoconti di esploratori come Mungo Park e James Cook, conosce l’epopea di David Livingstone e Henr Morton Stanley, ammira gente come Francis Drake e James Brook, che definisce “cercatori di verità”. Compulsa gli atlanti, sogna. A sedici anni scappa e va per mare, sui battelli costieri marsigliesi (conosce perfettamente la lingua francese), dove si faceva il contrabbando d’armi. Poi solca l’Atlantico verso i Carabi e il Venezuela, sperpera una piccola fortuna al casinò, accumula debiti di gioco, inscena un improbabile suicidio sparandosi al petto ma in direzione della spalla e non del cuore. E’ un periodo turbolento, dove si intrecciano trasgressione e momenti di depressione, forse c’è in mezzo anche una torbida vicenda amorosa che si concluderà con un duello in cui il giovane Conrad rimane ferito. Lo zio si fa carico dei suoi debiti di gioco, ma s’affretta a scrivergli che “i limiti della stupidità permessi alla sua età sono stati valicati”. Conrad ha quasi ventuno anni, non ha un soldo in tasca ed ha abusato delle finanze dello zio, inoltre la Marina Francese, a causa delle sue turbolenze, non gli rinnova il permesso di navigare. E’ a questo punto che cambia radicalmente la sua vita, comincia la sua trasformazione in quello che diventerà Joseph Conrad, “nobiluomo polacco rivestito da marinaio britannico”. Trova un imbarco sul Mavis che issa bandiera inglese e fa rotta per Costantinopoli, poi riempie le stive di semi di lino nel mar d’Azov e dirige per la madre patria. Il 18 giugno 1878 attracca nel porto di Lowestof e Conrad mette piede per la prima volta in Inghilterra, non conoscendo una sola parola d’inglese, ma imparerà presto. Passa nella Marina Britannica dove raggiungerà presto il grado di Capitano di lungo corso.
“Conrad è uno dei primi esempi di scrittori con una doppia esperienza, una doppia anima, una doppia lingua”, scrive Tommasi Lampedusa . “E’ un maledetto polacco che scrive in un inglese che non esiste da nessuna parte, io mi rifiuto di considerarlo scrittore inglese“, replica la terribile Virginia Wolf.
In realtà l’inglese era la sua terza lingua (avrebbe potuto scrivere in polacco , o francese), una lingua che aveva appreso in età adulta, e lo rallentava, ma la sua era una scelta d’elezione, amava quella patria e quella lingua, anche se il suo linguaggio era una sorta di melting pot etnico e culturale antelitteram, quel melting pot che oggi è divenuto il fondamento stesso dell’anglicità, che è il risultato di infinite immigrazioni, di infinite contaminazioni, di infinite infiltrazioni provenienti dal continente europeo e dagli altri continenti, dai vichinghi, galli, russi, ebrei ai bengalesi e indiani. Ed è forse proprio questo melting pot, una delle grandi ricchezze della Gran Bretagna, che conferisce una particolare valore alla prosa di Conrad, certamente il meglio dell’ultima letteratura inglese. Del resto – scrive Guido Alpa – che dire di un paese la cui aristocrazia è stata radicata dai francesi, l’architettura fondata dagli italiani, il sistema bancario e commerciale organizzato dagli ebrei, dove i reali hanno limpide origini tedesche, e la lingua è un misto di latino, sassone, francese, indiano e americano?
 
La linea d’ombra
Conrad ottenne il successo letterario con “Chance” (Destino), che in America diventò un best-seller, e gli decretò la celebrità, ripagandolo di tutte le sue amarezze, ristrettezze economiche (a quarant’anni aveva messo su famiglia, moglie e due figli) e momenti di vero e proprio panico di fronte al suo grave compito di scrittore. Ad un certo punto, la sua responsabilità gli era sembrata troppo grande per i suoi mezzi: si era rimesso a studiare Shakespeare, Turgenev, Dostoevskij e i grandi narratori francesi, in specie Flaubert e Maupassant, alimentando la sua passione per il mare con la lettura di opere specializzate di carattere marinaro, onde formarsi uno stile in cui ogni particolare doveva essere elaborato in maniera estremamente precisa.
Il successo era arrivato tardi, nel 1914, dieci anni prima di morire, dopo vent’anni di carriera letteraria. Ora aveva cinquantasette anni, ma se ne sentiva addosso il doppio. Scrive altri due libri di mare, Vittoria (1915) e La linea d’ombra (1917), che dedica al figlio primogenito Borys, prossimo ad andare in guerra, “e a tutti gli altri che come lui hanno attraversato nella prima giovinezza la linea d’ombra della loro generazione”. In questo romanzo breve si ritrovano i temi centrali di Conrad: la solitudine dell’individuo, in balia dei colpi del caso in cui spesso il mare è eletto a simbolo; e proprio sul mare i suoi eroi devono conquistare la loro identità affrontando le prove che il destino ha loro riservato.
Sostiene Mario Fortunato che Conrad trasferiva in ambienti nuovi problemi psicologici sottili tipici della vecchia Europa, prendeva personaggi dostoevskiani e li sbatteva in piena jungla, ma tutto ciò è stato capito molto tardi, dopo che i suoi contemporanei lo avevano etichettato come autore per ragazzi e il cinema holliwodiano si era affrettato a comprare i diritti cinematografici di tutti i suoi romanzi. Nessun autore come lui è stato saccheggiato, ma anche minimizzato, banalizzato dal cinema, anche da parte di grandi registi come Orson Welles, Hitchocock e Wajda, che hanno ripreso lo scenario esotico, esacerbando una sorta di sensazionalismo interno ai testi. Ma, si sa, la differenza tra opera di scrittura e opera di immagini è sempre stata piuttosto marcata. Il cinema è una cosa, il libro un’altra, d’accordo, e nel caso di Conrad siamo in presenza di uno scrittore troppo misterioso, troppo segreto per poter essere usato dal cinema, un po’ come Proust, come Kafka, che hanno creato con le loro opere mondi nei quali si può entrare da molte porte, ma non da quella del cinema e del teatro, perché il senso della loro opera non si nasconde nella storia o nei concetti che essa mette in campo, bensì nell’opera stessa, paradigma della vita. Grazie anche ai libri, che gli hanno permesso di indagarsi, di conoscersi, Conrad ha oltrepassato la sua personale linea d’ombra, non una, ma tante volte, perché tante sono le giovinezze della vita, e tante le linee d’ombra da attraversare. E ogni volta si è chiesto se per caso quella sarebbe stata l’ultima.
La vita è tragica follia/ Ridiamoci sopra e facciamo allegria/ Abbasso la malinconia/ Porgimi un gotto di Malvasia/ La vita è tragica follia.
Poco prima di morire, per un infarto, il 3 agosto 1924, a Bishopsbourne, nel Kent, a Conrad, mentre si discuteva di una possibile candidatura al Nobel, ormai famosissimo, gli era stato chiesto qual era il “messaggio” che i suoi libri lasciavano ai giovani. Al che Conrad si era arrabbiato moltissimo, come se fosse stato offeso:“ Come si può pensare – scrisse ad un amico – qualcosa di più stupido di una domanda del genere rivolta ad un uomo come me, che non ha mai gettato in faccia al mondo nessun “messaggio”?
Sarebbe stato in conflitto – scrive Elio Chinol – con la sua personalità e anche con la sua poetica, con la sua convinzione fondamentale che un’opera d’arte “è molto raramente limitata ad un significato esclusivo e non tende necessariamente a una conclusione definitiva”. In un’opera d’arte, in sostanza, si riflette la stessa ambiguità che è la vita, e lui lo ha ben evidenziato con un procedimento narrativo basato sull’alternanza e la sovrapposizione di diversi punti di vista. Sui fatti concreti prevale l’atmosfera conradiana, e resta una parte di mistero per sempre insondabile.
Che cosa rimane di lui e dei suoi romanzi? Andiamo a leggere insieme i versi di Spenser, incisi sulla sua lapide, nel piccolo cimitero di Canterbury:
Il sonno dopo la fatica, il porto dopo i mari in tempesta,
La quiete dopo la guerra, la morte dopo la vita, danno conforto.
 

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