30 giugno 2014

Anniversario di sangue di William Katz - recensione di Miriam Ballerini



ANNIVERSARIO DI SANGUE              di William Katz
© 1997 Sperling Paperbach s.r.l. Super Best Seller
ISBN 88-7824-743-X 86-I-97   Pag. 290  € 7,50

Conosco già Katz come autore e, di lui, ho sempre apprezzato il modo asciutto e veloce di scrivere. Anche in questo romanzo non ha usato fronzoli o frasi fatte; la storia viene narrata con lucidità ed è
ricca di colpi di scena.
Un thriller che prende dalla prima all’ultima pagina, che spinge a leggere, a proseguire, confluendo da una situazione all’altra, come la teoria dei vasi comunicanti.
Bret e la moglie Sarah per il loro ventesimo anniversario di nozze, decidono di ripetere la cerimonia. Con loro gli amici di sempre Shel e Ramy, che si giureranno di nuovo eterno amore, così come fecero nelle loro prime nozze a quattro.
Sembrerebbe tutto così romantico, perfetto… invece Bret e Ramy hanno una relazione che i loro rispettivi coniugi scoprono, ma che preferiscono tacere, perché la speranza è l’ultima a morire. Ma c’è di più, Sarah scopre che l’adorabile marito non ha una sola relazione extra coniugale, ma bensì due! Non sa cosa pensare: da una parte c’è lui, la sua solidità e il suo amore, dall’altra quest’altro uomo che lei non conosce.
Eppure, è lui a volere fortemente le seconde nozze, ha organizzato tutto, anche il nuovo matrimonio dei loro amici, così come era avvenuto la prima volta… loro quattro ancora insieme e ripromettersi amore.
Bret e Ramy, intanto, stanno tramando per far sì che l’omicidio che hanno intenzione di perpetrare contro i loro coniugi, passi come un attentato terroristico.
Tutto è fasullo in questo romanzo, non ci sono certezze, non ci sono lieti fine, per nessuno.
Ben costruito, ingegnoso, freddo, calcolato, una storia che regge.
Forse il finale è, rispetto a tutto il libro, un poco frettoloso, con una conclusione descritta sommariamente, ma di certo non rovina l’atmosfera respirata per tutte le pagine.

© Miriam Ballerini

NOETICA. RICERCA SULL’INFINITA MENTE L’ultima opera filosofica di Vincenzo Capodiferro



NOETICA. RICERCA SULL’INFINITA  MENTE
L’ultima opera filosofica di Vincenzo Capodiferro

Il titolo dell’opera è Noetica. Ricerca sull’infinita Mente. Il titolo originario era Trattato sull’univocità dell’Intelletto, tanto a significare un intimo senso - dis-senso, dunque di rottura dalla tradizione ontologica occidentale, la quale afferma, sebbene sotto diversi aspetti, l’univocità dell’ente, da Parmenide, il maestro venerando e terribile, a Severino ancora. Come sosteneva il compianto nostro maestro Antonio Motta, il quale ci ha guidato nella nostra formazione filosofica e storica, il titolo è l’opera. Questo racchiude pertanto il significato profondo di tutto il lavoro: l’Ente esiste nell’Intelletto, non fuori di esso. Quest’opera è dedicata al professore Giuliano Broggini di Varese, un pensatore originalissimo e nascosto, una guida per noi ricercatori dell’Uno. Per noi seguaci della scuola platonica ed agostiniana, è importante questa ricerca della Verità, la quale altro non è che il suo ricordo: «Quando uno per mezzo della dialettica, indipendentemente da tutte le sensazioni, tenta di cogliere col suo ragionamento quello che ciascuna cosa è in sé, e non si ferma prima di aver compreso con il pensiero che cosa è il bene, egli giunge all’estremità stessa dell’intelligibile» (Repubblica, VII, 532a). Questa ricerca della Verità altro non è che il ricordo di Dio che è in noi stessi: redi in te ipsum, noli exire, in interiore hominis habitat Veritas. Noetica è nell’antico linguaggio filosofico la Scienza del Nous, dell’arcano Intelletto. Quest’opera vuole ricostruire quella che era una delle più antiche scienze dell’antichità, quella del Pensiero stesso. Nous, noesi, nel linguaggio di Platone e di Aristotele indicava la più alta attività intellettuale dell’uomo, quasi a toccare i limiti dello Spirito stesso. Anassagora è il primo a parlare dell’Intelligenza creatrice: «L’Intelligenza è infinita e dotata di forza autonoma, non mescolata con cosa alcuna, ma solo di per sé sussiste» (fr. 12). Ed è il Nous il protagonista di questo cammino filosofico: da Anassagora ad Aristotele, da Cartesio a Kant, da Hegel fino ad Heidegger, il Nous ricompare riconsiderato sempre in termini diversi. «Ora io sono una cosa vera e veramente esistente;» scrive Cartesio, «ma che cosa? L’ho detto: una cosa che pensa. Che cos’è una cosa che pensa? È una cosa che dubita, che intende che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che anche immagina e che sente» (Metitationes, II). Che cos’è una cosa che pensa? È questo è uno dei più grandi interrogativi dell’umanità ed a questa domanda, che assillava Cartesio vicino alla stufa, tenta di dare dei riscontri questo studio sulle nostre facoltà intellettuali. La risposta si trova paradossalmente proprio nella stufa: il Pensiero, come proferiva Eraclito, è Fuoco. Al contrario della Fenomenologia hegeliana, nella Noetica si parte dal piano infinito per giungere infine a quello finito. C’è una introduzione dovuta alla Filosofia, poi nella prima parte si ha la disamina di tutte le facoltà della mente infinita. Infine si passa dal piano trascendentale -  nel senso kantiano - o infinito a quello empirico, o finito: vengono riconsiderate le facoltà noetiche trascendentali sotto la prospettiva dell’esperienza esistenziale e non trascendentale. Lo schema che abbiamo seguito sostanzialmente è il seguente:


SENSIBILITÀ  estetica         Sensazione
                                                  Percezione
                                                 Appercezione
                      
                          sinestetica   Impressione
                                                 Affezione
                                                 Immaginazione

ENTELECHIA istinto
                                 volontà
                                  arbitrio

INTELLETTO rappresentazione
                                giudizio
                                ragione


La sensibilità estetica è quella esterna, quella sinestetica è quella interna. La differenza è essenziale per capire questi mondi così diversi del nostro orizzonte noetico, o conoscitivo. L’entelechia - dall’etimologia greca - è la facoltà di poter conseguire liberamente dei fini. Anche qui si procede per gradi: dall’istinto, che è la base che ci accomuna agli altri animali fino alla libertà, peculiarità dell’uomo. L’intelletto, infine, secondo la canonica classica viene considerato nei suoi diversi aspetti, dalla rappresentazione alla ragione. I termini fondamentali della scienza noetica sono da un lato l’infinita Mens e dall’altro il suo perenne oggetto, che è la Res, come la definirono gli Stoici, la Cosa, il Tì.  Questo Qualcosa universale rimanda naturalmente ad un Tis, o Quis, o Chi: la Persona infinita, che sta alla base del pensiero onniveggente. La persona umana altro non è che una delle infinite scintille che si sprigiona dalla Persona universale e si accende nel mondo e nella storia, è una minutissima cellula, che diviene gemma piena di luce. Tutto pervade il Pensiero: il conoscente e il conosciuto. Tutto si conosce in virtù di questa sostanza noetica, o res cogitans nel senso cartesiano. Questa fa parte di noi ed a di là delle differenze che appaiono come fenomeni sul piano del finito, unico è il modus percipiendi; l’Intelletto non è unico, come sosteneva Averroè, però potremmo dire che è univoco, cioè si riferisce a tutti gli infiniti termini del Tutto nello stesso modo. Diversi ad esempio possono essere le visioni, però stessi sono gli occhi come organi vedenti, in noi, come anche in altri esseri senzienti. Questo studio è thriller  filosofico, un ripensamento, sebbene estrinseco, della kantiana Critica della Ragion Pura. Questa Ragion pura è lo stesso Nous che ricompare in modo diverso. Possiamo paragonare in questo senso la filosofia a come descrive la devozione San Francesco di Sales nella sua Filotea: un mazzetto di fiori. I fiori sono sempre gli stessi, ma la disposizione fa sì che un mazzo sia diverso dagli altri o più bello degli altri. Questo lavoro rappresenta un tassello di una grande trilogia, che ha per oggetto i temi fondamentali del pensiero filosofico occidentale: il pensiero, il mondo e l’io. A questi corrispondono tre scienze diverse: la noetica, la cosmologia, o filosofia della natura e la psicologia, o filosofia dello spirito. Ci manca un altro tema, Dio, questo sarà compreso nella cosmologia, come principio universale. Per il resto un libro - come afferma un grande -  è soltanto la metà dell’opera, l’altra e la miglior metà è lo spirito del lettore.

23 giugno 2014

Tiziano Terzani di Marcello de Santis

TIZIANO TERZANI

Nel luglio di dieci anni fa moriva a Orsigna, un paesino nella valle omonima in provincia di Pistoia, molto lontano dal capoluogo, Tiziano Terzani, giornalista e scrittore, inviato speciale di Repubblica del Corriere della Sera. 
Aveva 66 anni, era nato nell'anno 1938  quindi aveva un anno meno di me: 
Grande è stata la mia emozione quando ho avuto modo di conoscerlo, in una pausa dei suoi continui viaggi in Oriente, in occasione di un Festivaletteratura a Mantova. Ricordo, era un tardo pomeriggio e stava seduto coi suoi amici al tavolo di un bar all'aperto, in piazza Broletto.

Tiziano Terzani
Firenze 1938 - Orsigna 2004

Me ne andavo a passeggio in cerca di autori, scrittori e poeti, che quell'anno infioravano la manifestazione, che dura una settimana e richiama ogni anno il meglio della cultura mondiale.
Era là, sorridente, bello nella sua figura ieratica, con la stupenda barba bianca che già incorniciava il suo viso importante. Ci avvicinammo io e i mei amici, e scambiammo poche parole, discreti,  per non disturbare, ma ebbi il tempo di chiedergli un autografo che mi rilasciò sul piccolo diario chiamato Cento Autori, che viene distribuito ai visitatori e agli spettatori degli eventi culturali della manifestazione.

Questo è il bar in piazza Broletto a Mantova
Non ricordo l'anno, né mi va di andare a trovare  - per semplice pigrizia - quel piccolo diario con l'autografo, nascosto tra i miei quasi cinquemila libri della mia libreria nel mio piccolo studio, ma era un caso fortunato che aderisse al Festival, dato che stava sempre fuori; dal 1972 al 2004 è stato infatti in Estremo oriente, insieme alla famiglia, alla moglie Angela e ai figli Folco, scrittore anche lui, e Saskia.

Era corrispondente di un importante giornale tedesco e collaborava, come ho già detto, con alcuni giornali italiani, anche con L'espresso,
mi pare. Scrittore importante, tradotto in tantissime lingue nel mondo, nei suoi libri racconta della sua vita, delle sue esperienze, tante, che ha vissuto fuori d'Italia; altri invece raccolgono le sue corrispondenze da quelle terre lontane. Ha narrato tra le altre cose della guerra in Vietnam, della Cina, della Russia e della sua fine. Alcuni dei suoi libri sono stati editi dopo la morte a cura del figlio Folco e della moglie Angela.

Scrisse nella sua opera postuma "La fine è il mio inizio", edita da Longanesi nell'anno 2006  

L’Orsigna l’ha trovata mio padre [...]. 
Si era iscritto a quella che si chiamava l’università popolare, 
che non era un’università, era un club per fare gite. 
La domenica con un autobus andavano di qua e di là 
e con una di quelle gite negli anni Venti 
lui, giovanissimo e operaio, 
arrivò per la prima volta in questa valle. [...] 
ero spesso malato, avevo “le ghiandoline” 
e la carne di cavallo non mi bastava più. 
«Questo ragazzo ha bisogno d’aria buona, d’aria pulita» 
disse il medico.

Questo vuol essere un breve ricordo del grande scrittore, e modesto mio omaggio a lui; e un saluto alla memoria.

marcello de santis

18 giugno 2014

CON L'AMORE DI UN CONIGLIO di Giacomo Pedroni

CON L'AMORE DI UN CONIGLIO di Giacomo Pedroni
2013  Youcanprint
 
Un breve riassunto del libro e, in calce, il parere di un lettore:
Alessandro Sereni, trentottenne, a causa della crisi economica si ritrova disoccupato a gennaio del 2011. A ciò si aggiunge la sua ex fidanzata che gli comunica di aver deciso di convivere con un altro uomo. Senza lavoro e affetti Alessandro si rifugia nell'alcool e progetta il suicidio. A pochi chilometri da lui la crisi sconvolge anche la vita di Stefano e Fiorella. Conviventi da 3 anni e molto legati al loro coniglio Dado, devono trasferirsi in Repubblica Ceca perché l'azienda dove lui lavora si sposterà li per continuare l'attività. Costretti a privarsi di Dado, pubblicano un annuncio con cui dicono che lo regaleranno. Quella notte Alessandro, intenzionato a uccidersi, legge l'annuncio e viene colpito dallo sguardo del coniglio. Ottenuto l'animale, che lui chiamerà Pallino, in poco tempo ritornerà in lui il desiderio di vivere.
Un libro delicato, poetico che, dalla tragedia annunciata della triste storia narrata, appassiona di eguale forza ribelle e salvifica, riuscendo ad essere, al contempo, sia un urlo di vita sia un canto libero di amore assoluto per gli animali.

17 giugno 2014

ASSOCIAZIONISMO E VOLONTARIATO di Antonio Laurenzano

                                       
ASSOCIAZIONISMO E VOLONTARIATO  
La risposta all’individualismo per la promozione sociale    
di  Antonio  Laurenzano

“Volontari, facciamo la differenza!”:  questo lo slogan che l’Unione europea scelse per proclamare il 2011 “Anno europeo del volontariato”. “Il volontariato è una delle dimensioni fondamentali della cittadinanza e della democrazia, nella quale assumono forma concreta valori europei quali la solidarietà e la non discriminazione e in tal senso contribuirà allo sviluppo armonioso delle società europee”. Con questa motivazione il Consiglio europeo di Bruxelles intese proporre alla comunità internazionale il riconoscimento dell’attività di volontariato e il suo valore umanitario nella consapevolezza che il “Terzo settore”, e il variegato mondo dell’associazionismo a esso collegato,  rappresenta  un pilastro importante nella promozione del benessere sociale. In Europa almeno 3 cittadini su 10, ben oltre 100 milioni di persone, secondo i dati forniti da Eurobarometro, fanno volontariato in vari settori (solidarietà, arte e cultura, ambiente, sostegno umanitario, ma anche sport) e l’80% di loro afferma che la partecipazione attiva nella società è parte fondamentale della loro vita.
In Italia il welfare è sempre più gestito dal “volontariato”. Nel 2012 è stata stimata una base di circa sette milioni di persone di età superiore ai 14 anni coinvolta in varia misura e con vario impegno temporale nelle attività di volontariato. Forte l’incremento di volontari registrato nel decennio 2001-2010: circa 1,2 milioni di unità, pari al 17,9%, con punte che hanno sfiorato il 25% nel Nord del Paese.
L’insieme delle realtà non-profit, il cosiddetto “Terzo settore”, realtà che non sono Stato (vale  a dire ente pubblico nelle sue diverse articolazioni), né mercato (vale a dire attività economica finalizzata al profitto) è un mondo vasto e articolato, che va dall’associazionismo, al volontariato, alla cooperazione sociale, portatore di differenti gradi di coscienza sociale. I soggetti occupati nel Terzo settore, nella loro eterogeneità, rispecchiano la diversità sociale poiché sono coinvolte persone di tutte le età, donne e uomini, persone aventi background  etnici  e religiosi diversi. Espressione  di  partecipazione civile per lo sviluppo equilibrato della società e il rafforzamento della coesione sociale. E’ rilevante il valore, anche economico, del volontariato, soprattutto se rapportato a quelle aree di intervento, in primis  l’assistenza socio-sanitaria, dove è carente la presenza dello Stato. E’ la risposta vincente a un inquietante individualismo per l’affermazione di un nuovo modello di welfare.
Cento milioni di persone in Europa al servizio degli altri, impegnate con azioni di solidarietà sociale. Un numero importante  destinato ad aumentare nel tempo. La crescita di nuove forme di partecipazione sociale si è accompagnata alla crisi dell’associazionismo tradizionale, in particolare di partito. Di questa crescita ne sono ben consapevoli i rappresentanti dell’associazionismo e del volontariato. E’ anzi diffusa tra di essi la convinzione che la riforma istituzionale non possa limitarsi agli organi di governo e parlamentari, ma che si debba riconoscere come l’associazionismo e il volontariato sia divenuto un canale fondamentale di partecipazione popolare, di “cittadinanza attiva”, per l’attuazione del principio costituzionale della “sussidiarietà orizzontale”.
Obiettivo di fondo: suscitare una presa di coscienza collettiva , sensibilizzare  l’opinione pubblica e mettere in rete la solidarietà per rimuovere egoismi (privati) e  ritardi (pubblici). L’ auspicio  è che le associazioni di servizio, le imprese e i governi possano lavorare insieme per realizzare un habitat che permetta al volontariato di rafforzarsi. Facilitare cioè il lavoro dei volontari e incoraggiare altri ad impegnarsi al loro fianco per costruire legami sociali  forti e duraturi, per far crescere  il volontariato, ridurne la frammentazione e migliorarne la qualità. E’ questa la strada tracciata  per promuovere risposte creative ed efficaci ai bisogni dei più deboli e contribuire alla promozione umana della persona, nella speranza di costruire un mondo migliore e più sicuro. Di fronte al disinteresse del mercato ad occuparsi di sociale, di fronte alla riduzione di risorse pubbliche, dietro il paravento della “sussidiarietà”, associazionismo e volontariato rappresentano l’architrave imprescindibile di un nuovo sistema di relazioni sociali.

16 giugno 2014

La protesta antisanzionista del regime di Vincenzo Capodiferro


L’ITALIETTA ALL’IMPRESA D’ETIOPIA

La protesta antisanzionista del regime


Nel 1916 diviene imperatrice d’Etiopia Zauditù, figlia di Menelik. Il reggente è il ras Tafari Makonnen, il quale nel 1928 assume il titolo di negus neghesti, cioè re dei re e viene incoronato imperatore col nome di Hailè Selassiè I nel 1930. I ripetuti incidenti di frontiera tra soldati italiani ed abissini sono solo l’ultima goccia che fa traboccare il vaso della guerra italo-etiopica. Già nel caldo autunno del 1935 il regime fascista inaugura una vera e propria azione di penetrazione nell’impero etiopico. Gli incidenti provocati ai pozzi di petrolio di Ual-Ual in Abissinia danno a Benito Mussolini il pretesto formale per invadere il corno d’Africa e così allungare lo stivale d’Italia. Le truppe italiane, grazie alla superiorità delle armi e degli effettivi, riescono facilmente a rompere la debole resistenza abissina. Il 6 maggio del 1936 l’esercito italiano entra trionfalmente ad Addis Abeba. Il 9 maggio Mussolini proclama la fondazione dell’Impero. Il re Vittorio Emanuele III assume il titolo di imperatore d’Etiopia. L’impresa d’Etiopia è la seconda felice impresa coloniale italiana, dopo quella di Libia, voluta da Giovanni Giolitti per accontentare i nazionalisti. Il 18 ottobre del 1912, con la pace di Losanna, la Turchia riconosce la sovranità italiana in Libia. Nel 1909 Enrico Corradini aveva organizzato l’Associazione Nazionalista Italiana (ANI), cui aveva aderito anche Gabriele D’Annunzio. Contro l’«Italietta meschina e pacifista» il vate italico aveva propugnato, invece, una Superitalia antidemocratica e onnipotente. Mussolini così finalmente aveva portato a compimento l’antico piano della guerra d’Africa (1885-1896), che si era conclusa con la clamorosa disfatta di Adua il 1 marzo del 1896, la quale era costata tanto da far dimettere lo stesso Francesco Crispi. Subito dopo l’aggressione all’Etiopia, la Società delle Nazioni, per iniziativa della Gran Bretagna, imperialista per eccellenza, impone all’Italia le sanzioni economiche. Non è la lotta contro l’imperialismo, ma è la lotta tra due imperialismi. Alla base dell’imperialismo britannico vi è la concezione puritana, calvinista e capitalista. Già nel 1651 il Lord Protettore Oliviero Cromwell, con l’Atto di Navigazione, aveva sancito che il trasporto di tutte le merci da e per l’Inghilterra doveva essere effettuato soltanto su navi inglesi. La coscienza imperiale è rafforzata dalla convinzione di essere chiamati a promuovere in tutto il mondo il progresso e la civiltà sottomettendo le nazioni. Tommaso Carlyle (1785-1881) pone le basi ideologiche della missione universalistica della nazione eletta degli inglesi. Charles Dilke (1843-1911) parla di un mondo che va anglicizzandosi sempre di più. È ciò che di fatto sta accadendo oggi: l’inglese è diventato la lingua globale. E così altri, come R. Seeley e R. Kipling: il fardello dell’uomo bianco.  È l’apoteosi di una missione nazista “ante litteram”. Non diversamente in altre nazioni si sviluppa questo complesso di superiorità. In Germania possiamo citare Fichte, Hegel e Nietzsche. In Italia possiamo citare Gioberti, con il suo “Primato”. L’imperialismo fascista, invece, trovava la sua naturale giustificazione nella rievocazione retorica della romanità perduta. Il Mediterraneo doveva ridiventare Romano. Già nell’aprile del 1926 in un discorso tenuto a Tripoli il Duce aveva esaltato il Mare Nostrum  ed aveva contrapposto i regimi fascisti a quelli democratici. Ma c’è di più. «La mia dottrina,» scrive Mussolini nel 1932, «era stata la dottrina dell’azione. Il fascismo nacque da un bisogno di azione e fu azione». La mitizzazione dell’attivismo come forza motrice della storia era stata ispirata al Figlio del Fabbro da un lato da George Sorel, il quale, portando alle estreme conseguenze il marxismo rivoluzionario, vedeva nella lotta e nella violenza spontanea delle masse l’unico mezzo di redenzione sociale. Dall’altro lato era stata ispirata da Alfredo Oriani (1852-1909), sostenitore di una missione imperiale e civilizzatrice dell’Italia nel mondo. Paradossalmente il fascismo è figlio del socialismo al pari del comunismo. Dopo l’impresa d’Etiopia il sempre più fermo atteggiamento britannico contro l’espansione fascista nel Mediterraneo induce il Duce a riavvicinarsi alla Germania di Hitler. Così si spiega l’intervento nel luglio del 1936, in accordo col Fuhrer, nella guerra civile spagnola a favore di Franco. Mussolini invia reparti di “volontari”, costretti a partire, nonché convogli di materiale bellico. L’Italia si disinteressa all’indipendenza austriaca ed addirittura approva l’Anschluss nel marzo del 1938. Non dimentichiamo che lo stesso Mussolini si era opposto ai piani nazisti. Il 7 giugno del 1933 per iniziativa del Duce viene firmato a Roma il Patto delle Quattro Potenze: Francia, Inghilterra, Germania e Italia si impegnano a mantenere la pace. A pensare che nel luglio del 1934, quando fallisce il putsch di Vienna per l’Anschluss alla Germania, Mussolini invia due divisioni al Brennero e si impegna a garantire l’indipendenza dell’Austria e nell’aprile del 1935 nella Conferenza di Stresa, Italia, Francia e Gran Bretagna, condannano apertamente la violazione degli obblighi della Società delle Nazioni da parte della Germania e riaffermano lo spirito pacifista di Locarno. L’impresa d’Etiopia e il conseguente atteggiamento inglese nei confronti dell’Italia fa invertire l’asse delle alleanze in Europa. Mussolini abbandona la tradizionale linea d’intesa con la Francia e l’Inghilterra, già seguita dal Giolitti, e si rivolge alla Germania, come aveva fatto, invece, Crispi con Bismarck. Come al trionfo del Secondo Reich l’”Italietta meschina e pacifista” si fa ammaliare dalla Germania, così accade all’apoteosi del Terzo Reich. Hitler diviene il nuovo protagonista della storia d’Europa e tutti stanno a guardare attoniti e perplessi alla resurrezione della fenice. Anche oggi vi è una resurrezione economica della Germania: Germania capta ferum victorem coepit. La Germania ha riconquistato l’intera Europa in termini economici, non vi è nulla da eccepire in ciò. Ma torniamo agli anni ’30. La stessa Francia ed Inghilterra, con la coscienza sporca di Versailles, perseguono la politica dell’appeasement: la pace a tutti i costi. C’è una differenza di fondo però: mentre Bismarck era un abile statista, Hitler un guerrafondaio. Il conflitto abissino rompe il fronte di Stresa. Il premier Laval assume un atteggiamento molto ambiguo: innanzitutto partecipa alle sanzioni inflitte all’Italia dalla Società delle Nazioni. D’altro canto però avanza una proposta di mediazione che trova il suo seguito nell’accordo italo-britannico dell’aprile del 1938: l’Inghilterra riconosce la sovranità italiana in Abissinia, in cambio Mussolini si impegna a ritirare le truppe italiane della Spagna alla fine della Guerra Civile. I rapporti franco-italiani comunque si incrinano sempre di più. Il 6 novembre del 1937 l’Italia aderisce al patto  anti-comintern, firmato l’anno prima dalla Germania e dal Giappone. Hitler offre a Mussolini un’alleanza, sancita poi il 22 maggio del 1939, col noto Patto d’Acciaio. L’Italia e la Germania si impegnano ad intervenire militarmente in caso di guerra. Nell’aprile dello stesso 1939, l’Italia occupa l’Albania. Il presidente della repubblica albanese Ahmed Zogu a partire dal 1925 aveva abbandonato la tradizionale politica filo-slava e si era avvicinato all’Italia. Con i patti di Tirana nel 1927 il paese cade sotto la tutela italiana. Nel 1928 il presidente diventa re Zohu. Eppure viene detronizzato e Vittorio Emanuele III assume anche il titolo di re di Albania, oltre che di imperatore d’Etiopia. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, il 1 settembre del 1939, l’Italia proclama la non belligeranza. Eppure dopo il crollo delle difese francesi, Mussolini, certo della vittoria tedesca, dichiara guerra alla Francia ed all’Inghilterra. Sappiamo poi come va a finire. Però anche all’interno delle logiche belliche i piani del Duce erano molto chiari: conquistare le colonie inglesi in Africa, in modo da allungare lo Stivale al Corno, e ritagliarsi uno spazio vitale nei Balcani. Fu il fallimento della campagna di Grecia da parte delle milizie fasciste a trascinare il Fuhrer nella campagna balcanica. Questa campagna, vinta grazie ai carri tedeschi, più che ai muli italiani che trasportavano ancora le baionette del 1915, frutta all’Italia la costa dalmata e il Montenegro, mentre la Croazia è retta dal duca Aimone da Spoleto e la Grecia amministrata da italiani e tedeschi. Nel settembre dello stesso 1940 l’avanzata italiana in Egitto viene frustrata dalla controffensiva inglese. Ciò trascina il Fuhrer nella campagna d’Africa, ove il nuovo Kaiser invia l’Afrikakorp guidato dall’abile Erwin Rommel, la volpe del deserto. L’impresa d’Etiopia paradossalmente trascina l’Italia nel vortice della Germania nazista. Mussolini che aveva goduto di una certa fama a livello internazionale, soprattutto in Inghilterra, e ne sarebbe stato testimonianza il carteggio Churchill-Mussolini, perde di credibilità di fronte all’imperialismo inglese. L’Inghilterra d’altra parte, perseguendo ancora la settecentesca politica dell’equilibrio, non aveva interesse in Europa, ma non voleva essere disturbata nelle colonie. L’Italia stava disturbando l’imperialismo inglese. Le colonie non portarono alcun beneficio all’Italia, se non quello retorico di avere il posto al sole, come avevano fatto le maggiori potenze europee, né l’Etiopia, né la Libia, lo scatolone di sabbia. Riportiamo in ultima analisi, alcuni inni fascisti antisanzionisti, per rendere più vivo il contesto storico di cui stiamo discutendo. Documenti: «Padre nostro. Pirata nostro che sei inglese, sia maledetto il nome tuo, venga a crollare per sempre  il regno e l’impero tuo. Sia sanzionata la volontà e la bestialità tua, come in mare così in terra. Lascia per oggi e per sempre le tue mire sul nostro posto al sole. Rimborsaci i nostri crediti del 1915 e del 1918. Come il Negus, nostro debitore, ci rimborserà a noi. Così sia» (Antisanzionista 1935). «Credo. Io credo in Lucifero inglese e delinquente, creatore delle rapine e dei massacri, ed in Eden suo figliolo plurimo nostro boia, concepito per opera dello spirito massonico. Nacque dalla Società delle Nazioni, patì con Ponzio Pilato, ma non morì, né fu sepolto e neppure dopo tre giorni crepò, ma scese all’Inferno, alla destra del padre suo, che giudicherà quanto sia stupido, compresi i suoi degni compagni Litrinof, Benes, Titulescu» (Antisanzionista 1935). «Ave Maria. Ave Maria, gratia plena, fa che non suoni più la sirena, fa che non vengano gli aeroplani, fa che stia bene fino a domani, ma se una bomba vuol venire giù, Santa Maria pensaci tu. Gesù, Giuseppe e Maria, fate che gli Inglesi perdano la via. Così sia» (Ave Maria, 1942). «In nome del duce, la sera senza luce, il giorno senza pane, la notte cogli aeroplani. Credo in Dio, Signore del cielo e della terra, credo nella sua giustizia e nella sua verità, credo nella resurrezione dell’Italia tradita, credo nel fascismo e nella nostra vittoria. Alle armi! Popolo italiano! Per l’onore e per la libertà» (Radio-Repubblica di Salò, 1944). Abbiamo riportato alcune significative testimonianze popolari di protesta antisanzionista, fomentata naturalmente al regime fascista. Per il resto citiamo alcune considerazioni di Denis Mack Smith: «Essendosi l’opinione pubblica italiana completamente sconcertata per le sconfitte della Libia e della Grecia, Mussolini dichiarò che aveva scarsa fiducia nella razza italiana, troppo facile al sentimentalismo. Giunse persino a dire che gli italiani erano, secondo lui, una razza di pecore. Vent’anni di fascismo non erano bastati a trasformarli; sarebbero stati necessari venti secoli. Il suo tentativo di galvanizzare la popolazione e di farle adottare il nuovo stile fascista era evidentemente fallito» (Storia d’Italia 1861-1958, Bari 1959, p. 753).

Vincenzo Capodiferro

SOPRAVVIVERE AI CAMBIAMENTI Romanzo del giovane autore Giulio Ruggeri




SOPRAVVIVERE AI CAMBIAMENTI
Romanzo del giovane autore Giulio Ruggeri

Il terzo libro del giovane autore potentino Giulio Ruggieri s’intitola “Sopravvivere ai cambiamenti” e narra delle vicende di un imprenditore quarantenne palermitano, Ettore Tobia, che riesce a raggiungere importanti riconoscimenti professionali in vita, con la sola forza di volontà. Dopo anni di duro lavoro, il protagonista intuisce, però, che è giunto il momento di dare una svolta significativa alla sua vita, spostando il baricentro degli interessi e dei valori che lo hanno sino a quel momento guidato.
Una coscienza di sé smarrita negli anni, a causa degli affanni quotidiani e dei tanti sforzi profusi nell’ossessione per il lavoro. Fortunatamente, una grande volontà anima lo spirito di Ettore, la stessa che consente di crearsi un impero e che, attraverso continui tormenti, gli permette di intraprendere la scalata per quel cambiamento spirituale che lo condurrà alla purificazione dell’anima. Dopo una vita trascorsa all’insegna del soddisfacimento degli interessi materiali, Ettore decide di mettersi dall’altro lato del sistema produttivo. Sperimenta la condizione umana e lavorativa quotidiana della classe operaia, per superare le passate logiche legate esclusivamente al profitto e che, in un certo senso, lo hanno disumanizzato.
L’opera letteraria, al di là dei singoli tecnicismi, consente come sempre fa la letteratura in qualità, di veicolare esperienze e valori che hanno una portata universale e vede nella spiritualità e nella tensione mistica che anima l’interiorità del protagonista, una delle chiavi di volta per ben comprendere il messaggio di cui l’autore si fa portavoce. La volontà di cambiare vita del protagonista, richiede una capacità di adattamento e sopravvivenza al cambiamento che consente di scoprire e/o riscoprire se stesso attraverso la consapevolezza dell’altro da sé. Non a caso, è qui presente il tema filosofico e letterario dell’alterità, a cui il protagonista si rapporta, scoprendo concetti assolutamente innovativi per la propria coscienza come quello di fratellanza, condivisone e l’amore per il prossimo.
L’anelito alla conoscenza della verità attraverso il rapporto con l’altro da sé, implica tuttavia che l’uomo debba innanzitutto cercare la verità all’interno di sé e della propria coscienza, secondo l’insegnamento dell’antico precetto agostiniano “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas” (Non andare fuori, rientra in te stesso: è nel profondo dell’uomo che risiede la verità). La risposta ai bisogni intimi dell’uomo può essere trovata tramite la fede. La fede è espressione di un bisogno di trascendenza dai limiti della dimensione terrena, di tensione dell’uomo verso l’infinito, dell’anelito a Dio nella speranza di salvare la propria anima, ed resta una delle possibilità insite nel libero arbitrio. Non a caso, le opere letterarie che durano nel tempo quasi sempre esprimono esigenze umane universali che, pur applicandosi a casi individuali, possono avere un valore e una portata collettiva. Nel testo, come spiegato dallo stesso autore, grande estimatore del pensiero del giornalista Tiziano Terzani, che ha nella conoscenza della cultura, delle tradizioni e delle forme di pensiero di matrice orientale, uno dei suoi massimi punti di forza, vi è anche un confronto implicito tra religioni, soltanto apparentemente distinte e separate come buddismo e cristianesimo. Si tenta poi di analizzare la moderna società e le sue evidenti contraddizioni, come quella di incentrare grandi sforzi nella produzione, per lo più di accessori, per la vita dell’uomo, senza curarsi minimamente di coltivare l’equilibrio individuale dei singoli.
La morale del romanzo è quella di stimolare l’uomo a un cambiamento di prospettiva, attraverso cui poter comprendere che non tutto è dovuto e che il lavoro non è il fine dell’attività umana, ma lo strumento necessario per mettere a frutto talenti e potenzialità individuali da mettere al servizio del bene di tutti.

Emanuele Pesarini

14 giugno 2014

Intervista alla band Banana



INTERVISTA ALLA BAND BANANA

Dal 6 al 9 giugno 2014  per le strade di Ascona, in Canton Ticino, è stato possibile assistere a spettacoli di vario genere da parte di numerosi artisti.
È stata, questa, l’undicesima edizione dell’ormai noto festival degli artisti di strada.
Giocolieri, fantasisti, acrobati, musicisti, ballerini… a ogni stand, ininterrottamente,  era possibile assistere a eventi di diverso genere. Intorno moltissima gente che, nonostante il caldo, partecipava a spettacoli esposti con facilità al pubblico, ma che richiedono davvero capacità particolari.
Fra tutti gli artisti che ho avuto modo di vedere e ascoltare, una band italiana, di ragazzi che arrivano da Torino, si sono offerti per questa intervista che vi riporto di seguito.

Quando nasce il vostro gruppo?
A capodanno del 2013, quando ci siamo trovati senza cenoni o feste a cui partecipare e siamo andati a suonare in centro a Torino per festeggiare. In realtà suoniamo insieme da molto più tempo in diverse formazioni e in particolare nella Bandragola Orkestar, una banda di sedici elementi.

Siete già partiti come artisti di strada o avevate altri intenti?
Ognuno di noi ha fatto un suo percorso, ma ci siamo trovati tutti a suonare in strada una decina di anni fa con la formazione più grande. Certo, probabilmente nessuno di noi quando ha iniziato a studiare musica pensava alla strada come palcoscenico. Ma per tutti è stata una piacevole scoperta.

Cosa significa, per voi, essere artisti di strada?
Suonare in strada vuol dire contatto diretto col pubblico, un pubblico che in gran parte magari si trova lì per caso e non pensava di imbattersi in uno spettacolo. La spontaneità e la semplicità delle reazioni sono l'aspetto più piacevole. Insieme ai complimenti, naturalmente. Complimenti mai forzati, che rappresentano una conquista: se quello che fai non piace, la gente se ne và.

Dove di esibite di solito?
Ovunque ci chiamino. Oltre ai festival di musica e teatro di strada suoniamo per feste di piazza, sagre, concerti privati, matrimoni. D'inverno anche nei locali. E quando non ci chiamano, andiamo in centro a Torino a "fare cappello", un modo per provare i brani e raccogliere fondi per la pizza... Ma in genere avanza qualcosa anche per la spesa della settimana.

È il vostro lavoro o nella vita fate altro?
Anche qui ognuno ha la sua storia. Diciamo che per la maggior parte di noi è l'attività principale, almeno nelle stagioni calde. Poi si arrotonda, chi insegnando musica, chi in un laboratorio di fisica...

Perché questo nome?
Ci sembrava abbastanza stupido da rappresentarci bene!

Ringrazio i componenti della band:
Alberto Agliotti - sax baritono
Giorgio Cotto - trombone
Luigi Daffara - sax tenore e voce
Davide Fiale - percussioni
Sebastiano Giordano - tromba
Davide Tilotta - sax contralto, triangolo e un tempo maracas (ora non più, le ha perse ad Ascona...)

© Miriam Ballerini

13 giugno 2014

Malerba di Carmelo Sardo e Giuseppe Grassonelli

"Malerba" la storia drammaticamente vera di un uomo che uccideva per sopravvivere e per vendetta.

Malerba", erba cattiva: lo chiamavano così nel paese siciliano dove è nato. La sua storia comincia quando, ragazzino, viene spedito in Germania per allontanarlo da una giovinezza scapestrata. Ad Amburgo si inserisce in un ambiente di night e belle donne. Con le carte è abilissimo: al tavolo verde bara e si arricchisce. Coltiva nuove amicizie, scopre il sesso e il lusso. La Sicilia sembra lontanissima. Ma il destino lo richiama. Dopo il servizio militare, a vent'anni, torna al paese: un'immersione negli affetti famigliari prima di ripartire per la Germania. Ma proprio la sera precedente alla partenza resta ferito nella strage con cui comincia lo sterminio dei suoi parenti: un regolamento di conti mafioso nello stile più atroce. Fugge, sconvolto, ma presto scopre che Cosa Nostra ha affidato il compito di ucciderlo a uno dei suoi amici d'infanzia... Questa è la storia di un giovane uomo che sente di dover fronteggiare da solo lo sterminio della propria famiglia. Di un uomo che non ha fiducia nello Stato, né in alcuna altra istanza morale capace di contenere la ferocia umana. Di un uomo che scampa per miracolo a quattro agguati e decide di rinunciare a tutto, anche all'amore, per vendicare i suoi cari e sopravvivere. Giuseppe Grassonelli, che assume in queste pagine il nome fittizio di Antonio Brasso (suo "nome di battaglia" negli anni della guerra di mafia), ci racconta la storia della sua vita breve e intensissima: segnata dalla morte e dalla cesura dell'arresto, all'età di ventisette anni. L'ebbrezza dell'illegalità, l'orrore indicibile di un intero sistema di relazioni nel quale la vita umana e la dignità individuale non hanno alcun valore, ma tutto è clan, affiliazione o infamia, emergono in queste pagine con potenza sinistra. A parlarcene è la voce di un uomo radicalmente cambiato dall'esperienza della detenzione. Giuseppe Grassonelli non si pente, non collabora con la giustizia e sconta dunque la pena durissima dell'ergastolo ostativo. Comincia a leggere, a studiare, fino a laurearsi e a diventare un detenuto modello. Per raccontare la propria storia si affida al cronista che anni prima aveva seguito la sua "guerra" come giornalista per una TV privata: Carmelo Sardo, che con efficacia e partecipazione ci conduce attraverso queste pagine. Per provare a capire. Perché le parole, e la memoria, sono l'arma più potente contro la silenziosa omertà del male.

Carmelo Sardo
Nato a Porto Empedocle(AG) nel 1961. Giornalista professionista, vice capo redattore cronache TG5. Ha cominciato come cronista nel 1983 al "Giornale di Sicilia" e a Teleacras di Agrigento, dove ha condotto le principali edizioni del telegiornale, e dove è diventato nel 1992 il primo professionista nella storia delle tv private della provincia di Agrigento. Ha collaborato per sette anni al quotidiano L'Ora di Palermo occupandosi anche di inchieste sulla mafia agrigentina. Negli ultimi due anni a Teleacras, (1995-1997) è stato direttore del telegiornale succedendo a Giovanni Taglialavoro. Poi il trasferimento prima a Roma come inviato della trasmissione di Rai Due "Cronaca in diretta", poi il passaggio al TG5 assunto da Enrico Mentana dal 1º luglio 1998.
Dopo sette anni alla redazione del TG5 di Milano, il trasferimento alla sede centrale del TG5 di Roma dove ha condotto per tre anni l'edizione del TG notte. Il 2 marzo del 2010 è uscito il suo primo romanzo edito da Mondadori collana Scrittori italiani e stranieri, intitolato "Vento di tramontana" che ha riscosso un buon successo: due edizioni, premio Alabarda d'oro di Trieste come miglior romanzo; premio "Vincenzo Licata" di Sciacca; premio "Salvo Randone". Il romanzo è stato tradotto e pubblicato anche in Francia per "First editions" con il titolo "Les nuits de Favonio". A giugno 2014 esce il suo secondo libro, scritto a quattro mani con il detenuto ergastolano Giuseppe Grassonelli, intitolato "Malerba" (editore Mondadori collana Strade Blu"). Un memoir che racconta la vera storia di Grassonelli che vendicò lo sterminio della sua famiglia uccidendo i capi di cosa nostra che l'avevano ordinata. Rinchiuso in carcere, sepolto dagli ergastoli, a 26 anni, oggi che ne ha 49 è un uomo nuovo, recuperato e trasformato e si è laureato in lettere moderne all'Orientale di Napoli con 110 e lode.

Giuseppe Grassonelli
Nato a Porto Empedocle (AG) nel 1965, è stato condannato a più ergastolani per una catena di omicidi compiuti in Sicilia tra il 1990 e il 1992. E' rinchiuso dal 1992 e da quel giorno non è mai uscito neppure per un permesso. In carcere è entrato semianalfabeta, oggi è laureato in lettere moderne con 110 e lode.

09 giugno 2014

IL PROBLEMA DELLA PREDESTINAZIONE NELLA GETTATEZZA HEIDEGGERIANA di Vincenzo Capodiferro


IL PROBLEMA DELLA PREDESTINAZIONE NELLA GETTATEZZA HEIDEGGERIANA

Necessità dell’evento e provvidenza intramondana


Discepolo di Husserl, Martin Heidegger è pervenuto ad un rovesciamento radicale della fenomenologia ed ad un incontro con la filosofia dell’esistenza di Sören Kierkegaard. Husserl cercava il senso dell’essere nelle essenze eterne, Heidegger nelle esistenze temporali. L’essere si rivela, pertanto trascende il semplice suo essere in esistendo. Esistere significa uscire da. Già Schelling scriveva: «Ogni nascita è nascita dall’oscurità alla luce: il seme deve essere sprofondato nella terra e morire nell’oscurità, affinché la bella forma luminosa s’innalzi e si spieghi ai raggi del sole. Dal buio dell’irrazionale germogliano i luminosi pensieri» (Ricerche, p.456).  La metafisica esistenzialista indica l’esistenza contingente e finita come inserzione dell’essere nel nulla, come caduta nel mondo, in una situazione, come deiezione dell’essere. Proprio in quanto l’esistente subisce la situazione passivamente, genericamente e in maniera impersonale, nel timor mortis, l’esistenza è banale. Ma l’esistente può raccogliersi e ritirarsi dall’esistenza banale: questo è l’unico atto di libertà che ha l’Esserci rispetto al mondo. Schelling riprende la parabola del seme per esprimere il significato delle esistenze: le esistenze si colgono solo nella storia, cioè nell’esserci storico, mentre le essenze nella filosofia. La filosofia si rivolge alle essenze, al quid sit (Was), ma non può raggiungere il quod sit (Das donde Dasein). Il Wasein si contrappone al Dasein. Essenza, Esistenza, Realtà: la logica hegeliana troverebbe una soluzione al problema dell’esistenza, ma l’esistenzialismo non l’ammette, resta nel dramma dell’inconciliazione, della lacerazione. Le essenze sono date dalle idee divine, o platonicamente iperuraniche, quelle stesse che raggiunse Husserl, le esistenze sono date dal distacco dall’Assoluto. Ma quale è, allora, la differenza tra idealismo ed esistenzialismo? Per il primo nulla esiste al di fuori del pensiero, o delle idee, per il secondo, invece, nulla esiste al di fuori dell’esistenza, tutto è esistenza e pertanto gettatezza. Ogni preteso trascendimento è immanere nell’esistenza. La catarsi non trova la via dell’Assoluto, il passaggio dal banale all’autentico è sempre immanente all’esistenza e si alimenta continuamente del sentimento purificatore dell’angoscia. «L’angoscia,» afferma Heidegger «è la situazione emotiva capace di mantenere aperta la continua e radicale minaccia che sale dall’essere più proprio e isolato dell’uomo». Superare la banalità altro non è che accettazione del proprio destino, l’amor fati di Nietzsche, è fedeltà alla morte, mentre Nietzsche riecheggia con la fedeltà alla terra, è l’essere per la morte, è l’apparecchio alla morte, tanto per citare Sant’Alfonso. L’uomo inautentico si dimentica della morte. La morte diviene un tabù, come oggi. La considera come un fatto pubblico, cioè degli altri, o come un fatto futuro a sé. Ma la voce della coscienza richiama all’esistenza autentica, all’essere per la morte, zum tode sein. Di fronte all’angoscia della morte l’uomo vero può compiere il supremo atto di libertà: accettare la morte. Così non si può affermare più ex nihilo nihil, ma ex nihilo omne ens qua ens fit. Questo esserci nel nulla apre la strada alla gettatezza, ovvero al fondo, al giaciglio dove l’ente si pone. Questo rifugio è nominato. Il linguaggio come dimora entis pone il mondo intramondano. L’ente è nel mondo. L’esserci vive lo struggimento dell’essere gettato nella necessità dell’Evento. Anche il progettarsi, come presupposto della libertà dell’esserci presuppone sempre una gettatezza. È inconfondibile in Heidegger questo tema della predestinazione, ereditato dall’etica protestante e soprattutto calvinista. La libertà dell’esserci è fortemente limitata dall’orizzonte esistenziale. È vincolata al processo degli eventi, all’oscurità dell’accadimento, al presentimento dell’ultimo (escatologia), che è dato dalla mors entis. La mors entis è la pietra fondante poi dell’amor entis: la cura heideggeriana. È vincolata all’oscurità dell’accadimento: noi conosciamo in parte il sinus syncronicus della temporalità, ma non possiamo mai conoscere il sinus diacronicus. Non possiamo conoscere tutto ciò che accade nell’universo intero in un dato istante x. L’intreccio del tempo, la trama e l’ordito ci restano ignoti. L’esperienza fenomenologica, se non metafisica, nel senso esistenzialistico, è una continua trascendenza dell’esserci nel tempo. Essere, Esserci e Tempo sono le tre dimensioni dell’Assoluto nell’esistenza. La libertà, se si può parlare di questa categoria, è espressione del sì o del no rispetto al Destino dell’ente. Gellio afferma: «Si fato vivimus, quid agunt merita? Si pensamur meritis, quae vis fati?». Se c’è la libertà non opera il fato, e se opera il fato, dove sono i nostri meriti o demeriti, se siamo liberi? La questione irrisolta dello Stoicismo resta. Gli Stoici ammettono le due posizioni: che l’eimarmène è sempre fatale e che l’uomo è libero. Vi sono due soluzioni: si distinguano le cause necessarie da quelle non compellenti. In tal caso è attenuata la forza dell’eimarmène. Oppure si afferma che l’eimarmène è sempre operante e quindi l’uomo è costretto a seguirla, ma può farlo volontariamente o recalcitrando. In ciò consiste il merito o il demerito. Come esclama Seneca: volentem fata ducunt, nolentem trahunt! L’atteggiamento dello Stoico rispetto al comune mortale è l’accettazione del destino, l’amor fati, direbbe Nietzsche. Le categorie del linguaggio blindano l’essere nella sostanza e nelle sue qualità essenziali. L’Esserci non sceglie di esserci, ma vi è destinato. Non si ha alcuna scelta. La scelta avviene dopo, nell’ambito di un piano, di un contesto, di un orizzonte. Orizein significa guardare. Non si può scegliere cosa guardare aprendo gli occhi: ci viene dato necessariamente un orizzonte. Perciò i sensisti confermano che la sensazione è passiva: anche la conoscenza vive il dramma della gettatezza. Ogni sensazione, ogni pensiero è gettato nella mente. La necessità, l’Ananche, irrompe anche nel tempo. L’Esserci è libertà come trascendenza, eppure questa libertà è accordo ineluttabile alla gettatezza. Diodoro Crono sostiene che solo il reale è possibile, perché anche se ciò che non è fosse possibile, il possibile rispetto al passato sarebbe possibile ed impossibile nello stesso tempo. Il che è assurdo. Quindi è assurdo anche il divenire, il quale dovrebbe originarsi dal possibile. Così perveniamo all’Eleatismo. L’eleatismo è dato dalle essenze, l’esistenzialismo dall’esistenze. Il ponte tra questi due mondi è la predestinazione, la gettatezza. La scelta, la possibilità, lo scacco pascaliano-kierkegaardiano avvengono nel tempo. Tutto avviene nella temporalità. Come dice Platone: tutto vede il Tempo. Agostino risponde: chiedetemi che ora è, ma non chiedetemi cosa è il tempo, cioè «Se nessuno me lo domanda io lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, lo ignoro. Tuttavia affermo con sicurezza che so che se niente passasse, non vi sarebbe il tempo passato, e se niente sopraggiungesse, non vi sarebbe il tempo futuro, e se niente fosse non vi sarebbe il tempo presente» (Confessioni XI,14). Le tre estasi del tempo: passato, presente e futuro sono tempo. E queste tre istanze corrispondono alla gettatezza, l’evento, o agettatezza, la pro-gettatezza. Anzi, come arguiva lo storico don Tommaso Pedio: tutto è presente! Il presente è tutto. Conferma Agostino: «Il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuizione, il presente del futuro è l’aspettazione». L’esserci è necessariamente gettato in mezzo agli enti, in mezzo agli altri esserci, coi quali spesso sorge una lotta, come nel caso delle autocoscienze fichtiane ed hegeliane, ed in mezzo ad un orizzonte storico tra l’incombere e il mistero della temporalità. Tutto accade secondo la necessità assoluta dell’accadimento. Spinoza dedurrebbe: «Le cose particolari altro non sono che affezioni degli attributi di Dio, ossia modi per mezzo dei quali vengono espressi in una certa e determinata maniera gli attributi di Dio» (Etica, I, corollario proposizione XXV). L’uomo è gettato, è scelto e sceglie poco. Non può scegliere dove nascere. Non può scegliere il suo punctum mortis. Esce piangendo da un grembo materno. La sua vita è per lo più, non per fare un torto a Schopenhauer, o a Leopardi, dolore e noia. È un essere per la morte. Il suo esserci si rapporta continuamente al non-esserci, al nulla. L’esserci è racchiuso tra due non-esserci, quello ante nascitam e quello post mortem, oltre a quello del passato, il non esserci più e quello del futuro, il non esserci ancora. Non possiamo scegliere ad esempio di parlare una lingua diversa da quella che apprendiamo. È stato dimostrato che un uomo che si trovasse ad essere gettato in una foresta ed a crescere là, parlerebbe il linguaggio degli animali, come Tarzan. La situazione è lo spazio-tempo, che, come sosteneva Kant è l’intuizione originaria trascendentale. Il mondo heideggeriano è rivelazione, manifestazione di un ente, cioè di un qualcosa e di un esserci, o un qualcuno nel nulla. È aletheia, cioè verità, uscire fuori dal nascondiglio della terra. L’uomo è continuamente condizionato dal suo orizzonte mondano, per non parlare dalla televisione, da internet. Pasolini scriveva: «Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza» (Scritti corsari, p. 23). Il Centro è peggio del Fascismo. L’uomo non sceglie le opinioni. Non sceglie di essere gettato in questa o quella situazione. Non sceglie di essere Napoleone, o Hitler, o l’ultimo soldato della trincea del 1918. Napoleone o Hitler appaiono gli uomini del destino, quegli individui cosmici di Hegel, inviati della Provvidenza. Chi è che muove le fila del destino, cioè della gettatezza, se non è l’uomo, la coscienza dell’Esserci? È l’astuzia della Ragione, la List? O tutto è caso? E il caso, la fortuna non è forse il lato oscuro quoad nos di quello stesso Fatus? Qui sorge il problema più spinoso della gettatezza heideggeriana. Heidegger stesso non aderì al nazismo per amor fati? Sartre conferma che ogni uomo è frutto di ciò che tutti gli altri hanno fatto di lui. La verità è qualcosa di inesprimibile. È il senso profondo dell’esserci, che si rapporta all’Evento. Accade così. Perché? Perché così deve accadere. L’uomo crea il progetto, ma il progettarsi deve fare i conti necessariamente colla gettatezza. Anche la Cura (Sorge) ha una sfera nell’essere gettato. Nulla sfugge alla passività assoluta dell’essere gettato, che è superiore al gettarsi. Il problema della gettatezza richiede una spiegazione. Leibniz ci illumina: «Vi sono due specie di verità, quelle di ragione e quelle di fatto. Le verità di ragione sono necessarie e il loro contrario è impossibile, quelle di fatto sono contingenti e il loro contrario è possibile» (Monadologia, 33). Questi due tipi di verità sottostanno a due grandi principi diversi: quello di non contraddizione e quello di ragion sufficiente. In virtù del primo giudichiamo falso ciò che implica contraddizione, cioè non possiamo affermare che una cosa è e non è nello spesso tempo, in virtù del secondo affermiamo che nessun fatto può accadere senza una ragion sufficiente. Nihil est sine ratione, cur potius sit quam non sit. Nessuna cosa esiste senza una ragione, perché qualcosa c’è anziché non c’è. Alcun fatto potrebbe essere esistente se non vi fosse una ragion sufficiente e di conseguenza alcuna proposizione potrebbe essere vera se non vi fosse una ragion sufficiente. Il principio di non contraddizione domina il mondo del Wasein, o delle essenze husserliane, quello di ragione domina il mondo del Dasein, o delle esistenze heideggeriane. La gettatezza implica una ragione. L’ente non si può nominare. L’uomo, come dice Heidegger, deve essere pastor entis et non dominus entis. L’uomo, in pratica, non è il padrone dell’essere. E chi è? Il Tempo. Ma chi regola la temporalità? È questo il grande mistero della gettatezza. Le parole sono finite, limitate. Tutto accade paradossalmente per mera necessità assoluta. Ciò che a noi pare esistenza, libertà, scelta, opinione, è Aletheia, continua epifania dell’essere nascosto dell’Ente. L’ente è nascosto nella Terra. La Terra caccia tutti gli enti e gli esserci. Ma anche questa Terra è sottoposta alla stessa legge dell’esistenzialismo dell’esserci, perché è contingente. Il Mondo è la manifestazione della Terra. Ma anche ciò che si manifesta è gettatezza. Tutto accade così senza sapere né quando, né come. “Lo Spirito soffia dove vuole e quando vuole”. Questo è il mistero del tempo. Dietro la gettatezza, dietro la temporalità c’è lo Spirito. Il contesto è fuori di ogni discussione, non è oggetto di scelta. L’erlebins è inesprimibile. La tragicità dell’esistenza è come andare in guerra, perché l’esistenza stessa è una continua guerra: polemos basilea panteon. Eraclito proferiva: la guerra è la regina di tutte le cose. Chi non va in guerra è disertore del Fato, come il Don Giovanni di Kierkegaard, o come Schopenhauer - secondo Nietzsche - con la sua ascetica Nolontà.  Il problema è allora ascoltare l’essere, srotolare l’enigma dell’esistenza. La temporalità da Heidegger è rappresentata non a caso come da due rotoli: uno si srotola, ed è quello del futuro, l’altro si arrotola ed è quello del passato, in mezzo allo rotolamento ci sta il presente. La gettatezza heideggeriana va ricollegata all’eterno ritorno ed al fato di Nietzsche, ma anche alla Volontà cieca di Schopenhauer e se vogliamo al determinismo psichico dell’inconscio di Freud. L’uomo si trova ad essere vissuto, è come una vittima destinata da sempre al sacrificio della Morte, è un eterno ritorno alla Terra, donde proviene. L’evento accade nell’essere, non altrove. Anche Dio si getta nella gettatezza colla nascita di Betlemme e si getta sulla croce. Ma nel suo caso l’essere gettato e il progettarsi coincidono. Dio è l’Esserci per eccellenza. Questa lezione di Heidegger l’aveva capita una delle sue più brillanti discepole: Stein. Il movimento proposizionale, il Discorso, il Logos riflette lo stesso scorrere degli eventi: il pan-reismo eracliteo. L’essere è stato incatenato nel tempo, non può esistere senza tempo. I raggi della ruota del tempo scorrono sempre, ma il fulcro è immobile da sempre: il motore immobile di Aristotele. In qualsiasi dimensione della temporalità, anche in quella relativistica einsteniana, è libero solo chi è fuori del tempo, e questo non può essere altro che il fulcro, l’Assoluto. La pro-gettatezza è un tentativo di superare la prigione delle pagine del tempo. Ma questo progettarsi avviene nell’essere gettato. L’Essere è incatenato al Ci. Il prigioniero del tempo deve liberarsi. In Heidegger questa liberazione avviene nel nulla, attraverso il passaggio della morte autenticatrice dell’esistenza. Ma il nulla è già trascendenza, uscita fuori dal campo dell’esistenza verso non si sa cosa, forse verso l’eternità. La liberazione dalla gettatezza costituisce il vero atto di libertà dell’esserci stesso. L’accettazione della gettatezza è l’aderenza al progetto generale dell’Esserci. L’essere gettato è progetto della Provvidenza intramondana. Il vero ed autentico progettarsi deve essere aderenza al progetto universale dell’Esserci. Non aderire alla gettatezza universale significa vivere il dramma della spezzatura e dell’angoscia, della banalità, della nausea sartriana, della disperazione e della dispersione. L’accettazione della gettatezza significa liberazione, consolazione. È la croce dell’esistenza. Kierkegaard la chiama peccato. L’esistenza è peccato. La colpa di esistere richiede una pena. Il malum culpae richiede il malum poenae. L’esistenza è la pena della colpa di esistere. La morte è l’espiazione del peccato originario di esistere. Il nulla è la tomba dell’esserci. Stipendium peccati mors: la morte è lo stipendio del peccato. L’essere per la morte è l’essere destinato al sacrificio della vita. Tutti gi esserci sono destinati a questo supremo sacrificio. La gettatezza è l’altare del sacrificio. Il progettarsi è il volersi liberare. Ma non è la morte in sé a raggiungere questo scopo. L’esserci sarebbe l’apparire dell’essere nel nulla. Ma come è possibile cio? Ex nihilo nihil. Dal nulla nulla procede. Ma Heidegger risponde: ex nihilo omne ens qua ens fit: «L’anticiparsi nella possibilità dell’essere per la morte svela all’esistente la sua dispersione nel “si” e, togliendogli l’appoggio originario dell’aver cura delle cose e degli altri, gli offre la possibilità di essere se stesso in quanto libertà per la morte, sciolta da tutte le illusioni del vivere mondano, effettiva, certa a se stessa e angosciantesi». Così l’ultima parola sarebbe: l’essere è niente. Eppure solo un atto di creazione originaria dal nulla potrebbe permettere ciò, cioè l’apparizione di un essere nel non-essere. C’è solo un Esserci capace di creare dal nulla e questi è l’Assoluto. L’Assoluto è il primo Esserci, è il primo che si è auto-creato. Come dicono Cartesio e Spinoza, è Causa sui, Causa di sé stesso. Gli altri esserci non sono autocausali, ecco perché vivono il dramma della gettatezza. Se fosse il nulla il fondamento dell’esserci potremmo obiettare: donde proviene la gettatezza, cioè il letto del fiume dove scorre il tempo? Ma come dicevamo: nihil est sine ratione cur potius sit quam non sit. L’Esserci è l’apparire dell’Assoluto nel Nulla.

Vincenzo Capodiferro

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

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