27 novembre 2006

"La stanza delle conchiglie" di Edio Vassalli

Montedit – collana I gigli (poesia).
© 2005 Edio Vassalli
© 2005 Montedit
pag. 107/ € 9,00


La stanza delle conchiglie è il primo libro edito di Edio Vassalli; una raccolta di poesie che parlano d’amore, viaggiando sul filo della metafora raccontata nella poesia che da il titolo al libro.
Vassalli raccoglie le sue emozioni di uomo, del suo amore verso una donna forse perduta, rimpianta; ma pur sempre presente nei suoi sogni, nei suoi desideri.

Da La stanza delle conchiglie

L’amore è una dolce marea
che lambisce le tue gambe
sino alla stanza delle conchiglie.

In molti testi compare il mare che accompagna le parole nel suo dolce, lento, a volte impetuoso ondeggiare.
Eccone un esempio:

Il mare d’inverno

Il tempo è un oceano
che ogni cosa scompiglia
Onde leggere cancellano
frasi di sabbia, parole d’amore

Ricordo i nostri pomeriggi
sotto il pesco
a scambiarci ciliegie

Ricordo le nostre sere
sulla sabbia tra i falò
Sempre stretto
nei tuoi abbracci di mela

Vedo ancora il tuo sguardo sognante
che si perde
nell’infinito di un tramonto

Purtroppo anche l’estate
va a dormire

Così il mare d’inverno
rimane triste e perso
Dove la spiaggia resta
una lavagna vuota da cancellare.

Come già dal titolo della poesia qua sopra riportata, noto che molti dei titoli usati da Vassalli sono in realtà conosciuti dal pubblico come titoli di canzoni. Troviamo ad esempio:
sabato pomeriggio – alba chiara e altre ancora.
Che l’autore sia partito dal titolo noto per poi creare un testo diverso?
Vediamo Alba chiara

Queste parole le scrivo
con il sangue

Perché il mio cuore
cieco e sordo non vuol capire

Il bicchiere
è ormai vuoto

Ubriaco d’amore
vago nella notte

Tra gli alberi di nebbia
la luce si dirada

Anche in quest’alba chiara
nella mia testa
è sempre primavera.

I suoi versi sono semplici, con immagini dipinte come tenui acquarelli.
Molti i testi dove l’occhio attento e discreto dell’autore ruba situazioni e colori alla natura, per farne poesia.
Prevale la malinconia, molla di quasi tutti i pezzi che anche se più vivaci, terminano con quel senso soffuso di tristezza.
L’amore è ricerca disperata, bisogno; e quando è presente si fa tenero erotismo, mai volgare; semplicemente simposio platonico delle due metà della mela che si ritrovano.

© by Miriam Ballerini
www.eeditrice.com
www.agendadeipoeti.com

25 novembre 2006

"L'olocausto armeno" di Alberto Rosselli

L'Olocausto Armeno di Alberto Rosselli
Breve storia di un massacro dimenticato
Edizioni Solfanelli[ISBN-89756-17-9]
Pagg. 96

Breve storia di un massacro dimenticato. La persecuzione scatenata tra il 1915 e il 1918 dai turchi nei confronti del popolo armeno residente in Anatolia e nel resto dell'Impero Ottomano rappresenta forse il primo esempio dell'epoca contemporanea di sistematica e scientifica soppressione di una minoranza etnico-religiosa. Un piano di eliminazione che non scaturì soltanto dall'ideologia, dichiaratamente razzista, del sedicente partito 'progressista' dei Giovani Turchi, ma che trasse le sue origini dalle antiche e mai del tutto sopite contrapposizioni tra la maggioranza mussulmana turca e curda e la minoranza cristiana armena.

Capitoli: Profilo geografico e storico dell'Armenia. La chiesa armena. La persecuzione. Entrano in campo i Giovani Turchi. L'Armenia dei nostri giorni
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Info: www.edizionisolfanelli.it

24 novembre 2006

Il film e la recensione di Bruna Alasia
MARIA ANTONIETTA
Regia di Sofia Ford Coppola
Con Kirsten Dust, Aurore Clement, Jason Shwartzman, Judy Davis, Rip Torn, Asia Argento, Rosy Byrne.



Maria Antonietta è un’icona che muove e commuove per il suo destino straordinario nel bene e nel male. Da una complessa e rara esperienza quale la sua, forse, ci si attendeva una narrazione altrettanto glamour e tragica, esaustiva di fasti folli e delle più assurde tragedie, ma in due ore una pellicola cinematografica non può riassumere tutto questo: chi lo pretendesse rimarrà deluso.
Sofia Ford Coppola ha raccontato la donna e la vita a Versailles, prima della rivoluzione, ritraendo dell’ultima regina di Francia l’aspetto interiore: dallo smarrimento di essere moglie per uniche ragioni politiche, sola in territorio straniero, a rischio di ripudio perché a lungo senza eredi per colpa del consorte, figlia di una madre intollerante e insaziabile, schiava di un’etichetta ridicola, di rituali che davano i regnanti in pasto al pubblico come oggi sotto l’occhio dei flash, donna innamorata di un uomo che non può avere, irretita dal gioco, dal ballo e dalle scaramucce con rivali considerate indegne, vittima inconsapevole di eventi al di sopra della sua e dell’altrui comprensione. Diversa e uguale a molte giovani oggi, come sottolineano le musiche modernissime. Sofia Ford Coppola ha ritratto con ironia una Versailles leziosa, incosciente e ridicola, che va alla deriva fluttuando tra crinoline, pettinature come bastimenti, carlini viziati, regalità cieca, egoista e artefice della sua stessa tragedia che, preannunciata, sfuma nel finale.
E tutto questo lo ha raccontato bene: con fondamento storico, con grazia, intelligenza e divertimento, con una scenografia rara e spettacolare, con attori abili e credibili, con quel tanto di irriverenza nei confronti del mito fondatore della Francia che rende il film utile oltre che dilettevole. Mettere da parte le polemiche ingenerose che hanno accompagnato l’uscita della pellicola a Cannes e andare a vederlo è un consiglio che posso, spassionatamente, dare a chi di Maria Antonietta volesse capire qualcosa di più e divertirsi facendosi un’idea propria.

22 novembre 2006

"Liquidazione" di Imre Kertész

Recensione di Augusto da San Buono

“La nostra non è un’apocalisse quotidiana, ma piuttosto un ’epoca di banalità ininterrotta, dove il terrore esplode inconcepibile. Viviamo – aveva detto Susan Sontag - un tempo penultimo, una fine che non finisce di finire”, un tempo, un’epoca di “liquidazione”, precisa oggi Imre Kertèsz, premio Nobel per la letteratura, con il suo ultimo romanzo che ha appunto quel lapidario simbolico titolo, “Liquidazione”, Feltrinelli, 2005. Kertèsz ci dice che la vita è un sogno lontanissimo e assurdo, ma non lo dice alla maniera di Calderon della Barca, né di Primo Levi, bensì della realtà delle cose di oggi, delle cose del nostro vecchio mondo occidentale che è in disfacimento, in liquidazione, appunto. Dopo l' Olocausto, dopo i Lager e dopo la caduta dei regimi del socialismo reale, questo vecchio mondo sta cadendoci addosso con tutti i suoi feticci, obelischi, monumenti, altari, patria, famiglia, dovere, amicizia, ecc., antichi valori che crollano giorno dopo giorno.

Tutto ormai è in “liquidazione”, come del resto la scrittura, incapace di dire le cose reali, quelle che contano per noi. “Che significa buon romanzo o cattivo romanzo”, si chiede, alla fine, il protagonista del romanzo, Keserù, se alla fine quel che conta è la vita, e ti rendi conto che la tua è una vita senza memorie ( i ricordi sono stati perduti, rimossi o liquidati), una vita senza storia, che non potrai mai raccontare. Forse l’ultima forma possibile di sopravvivenza è vivere come i barboni, senza passato e senza futuro. Ed è questo l’ultimo smacco dello scrittore ungherese, che ha fondato tutta la sua esistenza sulla scrittura, l’amore e la passione per la letteratura, un vero e proprio atto di fede nella capacità della scrittura, questa "ragnatela invisibile che tiene insieme la nostra vita", nella possibilità (forse ultima) della stessa di metterci in comunicazione con “l’altro”, di penetrare attraverso essa nel buio misterioso della sofferenza. La scrittura sembrava essere l ‘unica possibile via d’uscita rispetto all’annientamento totale: “l'uomo vive come un verme, ma scrive come gli dei”, dice all’inizio del romanzo Keserù, l’alter ego di Kertèsz, che è innanzi tutto, anche in questo libro, alla costante ricerca del senso del dolore, il senso della vita dopo Auschwitz e la Shoa, che non è una questione tra ebrei e tedeschi, niente affatto. E’ una cosa che ci riguarda tutti. “Ad Auschwitz – dice Kertèsz - sono crollalati in modo spettacolare i valori europei. L'Olocausto non è un unicum, un infortunio inspiegabile, che è successo senza una storia che l'abbia preceduto e l'abbia seguito. Se si studia questa pre-storia si capisce che non è un evento inaspettato. Le sue radici sono nel nostro modo di vivere, come le dittature del ventesimo secolo. Nessuno è innocente”. .

Nessuno è innocente, neppure Keserü, che vuol dire “amaro”, amaro come un caffè o il sapore che resta in bocca guardando disorientati la Storia umana. ”Liquidazione” fa seguito a “Essere senza destino”, “Kaddish per un bambino non nato”, “Fiasco”, un unico grande mosaico sull'inferno della modernità, sul kistsch che impesta tutto, non risparmia niente e nessuno, neppure Auschiwitz.

Il bisogno di autenticità che Kertesz ha invocato in una recente intervista si rispecchia nella scelta di Bi, lo scrittore dissidente suicida della vicenda , di non scrivere la sua impossibile storia perché "non si può”. "In Occidente si è sviluppato un conformismo dell'Olocausto, un canone, come un corrispondente linguaggio cerimoniale. Un kitsch alla Spielberg".

E’ “anche” un romanzo alla ricerca di parole, costruito a incastri, per frammenti, una specie di scatole cinesi, che mescola finzione, autobiografia, registri narrativi diversi (dall'epistola al dialogo teatrale, ai versi ), che frantuma i personaggi come fossero luci di un prisma, mettendo in discussione il concetto stesso di realtà, una realtà in cui tutto è in “Liquidazione”: la fine di una casa editrice, la fine di un regime, la fine della vita di uno scrittore. E si procede per flashes back, come un giallo, che non ha per scopo la ricerca di un colpevole, ma le colpe metafisiche dell'umanità. E’ una metafora del nostro tempo fatto di “crolli” di valori, crolli continui e incessanti. Ma a ben vedere, è anche un atto di coraggio ad occhi aperti e asciutti, nell’accettazione della realtà – nuda e cruda – della nostra società, della nostra incapacità di fraternità, della nostra “amarezza del vivere”. L’amaro Keserù, è un redattore editoriale investigatore, una sorta di Sherlock Holmes che deve scoprire il perché dell’atto definitivo del suo amico Bi, scrittore dissidente reduce da Auschwitz, che si e' suicidato dopo aver scritto un dramma con lo stesso titolo, “Liquidazione”, i cui personaggi sono lo stesso Keserù, Sara, Kurti e Oblath, tutti intellettuali e amici di Bi, le cui storie s’intrecciano fra loro in modo trasversale.

Keserù è convinto, anzi ne è certo, che Bi abbia lasciato, oltre il testo teatrale, anche un “romanzo” inedito, l’opera più importante della sua esistenza, l’opera che dovrebbe far luce sulla sua morte, ma che non si trova tra le poche carte rimaste, che Keserù e' riuscito a sottrarre prima dell'arrivo della polizia. Il romanzo, sapremo alla fine, effettivamente c’era, ma e' stato bruciato dalla ex moglie di B., Judit, secondo i suoi ultimi desideri, è stato ridotto in cenere come le persone che entravano nei campi di sterminio, dove lui stesso era rimasto segnato per sempre e dove ora – constata la stessa Judit prima di bruciare il manoscritto – i turisti vengono scippati da abili borseggiatori che approfittano della loro commozione. Il mondo, dunque, è talmente crudele che può essere comico, grottesco, irredimibile. Tutti i personaggi della commedia sembrano vivere in un mondo immobile, le loro esistenze sono sospese, senza passato e senza avvenire. “Conservano soltanto il ricordo nebuloso della lotta, di come si sono slanciati ogni giorno per arrampicarsi vanamente sulle mura ritenute insuperabili, a quattro zampe come i cani; fino a che un giorno improvvisamente - chissa' come - la resistenza e' cessata, e loro si sono improvvisamente trovati nel nulla, in un nulla che, nel loro primo stupore, hanno immaginato fosse liberta' “.

Kertesz con coscienza lucidamente disperata ci parla della vanità, ossia delle fondamenta della nostra esistenza attuale e della inutilità dei valori più autentici, ai quali alcuni di noi tentano ancora di afferrarsi; la coscienza quindi di quel nucleo originario di angoscia, connesso al fatto stesso di esistere, che non può essere storicizzato, che non può essere attenuato e che è alla base della inevitabile infelicità dell’uomo. «La vita – lascia scritto Bi. nelle sue carte, - è un immenso campo di concentramento / che Dio ha messo su per gli uomini sulla terra / e che l’uomo ha poi sviluppato / sino a farlo divenire un campo di sterminio per l’uomo./ Suicidarsi corrisponde / a fregare quelli che stanno di guardia /...La conclusione è la solitudine, abissale, insuperabile, disperata e il senso di una stanchezza infinita pietà verso se stessi, un attesa rassegnata della morte. “La mia gloria non importa a nessuno”. Si può imparare che morire è una cosa difficile, ma forse vivere è ancora più difficile.
Il romanzo, scritto in modo mirabile, è tragico e ironico, comico e irriverente al tempo stesso. Non si conclude con una resa al pessimismo. “È la scelta orgogliosa del nulla, al cospetto della ridondanza troppo becera della modernità."

Levi aveva detto che l’umanità, il mondo si stavano disfacendo e che dopo i lager l’uomo non poteva essere altro che ectoplasma, anzi che nulla è vero all’infuori del lager, Kertèsz va oltre e ci dice che la vita stessa è diventata un immenso lager che riguarda tutti. “Questo libro – scrive il “Suddeutsche Zeitung” – non tratta tanto della vita, quanto, piuttosto, di come si rimane in vita “.

21 novembre 2006

LA PRIMA NOTTE DI LUIGI XVI

I racconti di Versailles – N.1 – di Bruna Alasia
LA PRIMA NOTTE DI LUIGI XVI
Racconto primo

Maria Teresa d’Austria nel 1736 andò in sposa al principe Francesco di Lorena, uno degli uomini più belli del suo tempo, ed ebbe la fortuna, rarissima tra le giovani del suo rango, di legarsi a qualcuno che le piaceva davvero. Lo dominò e ne fu rapita, gli si concesse con tale trasporto che per un intero ventennio rimase incinta. Quando l’imperatore morì, Maria Teresa cadde in depressione, si tagliò i capelli che erano stati il suo orgoglio, non mangiò e non dormì, si vestì di nero, calcolò ossessiva le ore insieme 258.774. Faticò molto a riprendersi ma la sua ferrea salute alla fine ebbe il sopravvento e a quel punto, quasi prosecuzione della naturale prolificità, ragione di vita per lei divenne l’espansione della dinastia e degli stati. Usò i suoi figli per raggiungere questo scopo: i maschi furono chiamati a responsabilità di governo, a prescindere dalle loro inclinazioni, le femmine a contrarre matrimoni vantaggiosi per gli Asburgo. Malgrado avesse avuto una famiglia affettivamente armoniosa - o al contrario forse proprio perché non aveva mai conosciuto la sofferenza di questa privazione - non considerò che ciò fosse importante anche per loro: fu una madre rigida, insensibile e invadente. Ma tutta la nobiltà europea all’epoca pensava che l’imperatrice fosse un esempio.

Da anni Maria Teresa coltivava una grande ambizione: consolidare l’alleanza con la Francia attraverso le nozze di una delle figlie più piccole, le adolescenti arciduchesse, con l’erede al trono Luigi Augusto, nipote di Luigi XV. Così quando nel 1768 Maria Teresa seppe che il re di Francia era rimasto vedovo, se ne rallegrò molto e studiò subito un doppio affare: offrire a Luigi XV ormai sessantenne la sedicenne Elisabetta, al nipote la sorellina Antonia di appena tredici anni. Ne parlò un giorno con il conte Mercy-Argentau, ambasciatore austriaco a Versailles. Pranzando con lui a Hofburg, in uno dei suoi lussuosi appartamenti, l’imperatrice gli confidò i suoi piani. L’elegante, dinoccolato Mercy, servendosi la verdura che sempre consigliava Van Swieten, il celebre medico di corte, le diede una delusione:
- Maestà devo purtroppo mettervi al corrente che il Re di Francia si è saputo consolare con una favorita bellissima e molto giovane… la Contessa du Barry…
- La Contessa Du Barry?
- Così è stata insignita… – Mercy-Argenteau le si avvicinò abbassando la voce - in realtà un sedicente conte Du Barry l’ha fatta prima sua amante, poi prostituta d’alto bordo… e poi Luigi XV…
- Oh, mio Dio!
- Per dare alla fanciulla prove di nobiltà – continuò il fedele Mercy-Argenteau – il duca di Richelieu ha scovato una contessa decaduta che per danaro si è prestata a far da madrina… a Versailles non si parla d’altro… madame du Barry è potentissima, Luigi XV stravede per lei…

Ma il destino condusse gli eventi in modo che il re di Francia ritenesse infine utile inviare la proposta di matrimonio tra il delfino Luigi Augusto e l’arciduchessa Antonia, quindicesima figlia di Maria Teresa. La domenica di Pasqua del 1770 l’ambasciatore francese, in qualità di rappresentante di Luigi XV, fece pubblicamente ingresso a Vienna alla testa di quarantotto magnifiche carrozze, trainate ciascuna da sei cavalli e scortate da centodiciassette fanti. A Vienna i festeggiamenti presero l’avvio.
Dopo aver fatto ufficiale rinuncia al diritto di successione alla madre, nei giorni seguenti la piccola Antonia, dovette congedarsi con dolore dalla corte viennese e partire per il regno di Francia. Un viaggio di otto-nove ore quotidiane su una carrozza che velluti e oro non rendevano più comodo, attraverso stati asburgici, principati, città-stato tedesche, tenendosi accanto Mops, l’adorato cane, un carlino fulvo, unico legame fisico con ciò che lasciava. Tre settimane dopo giunse all’isola delle Spezie, una lingua di terra in mezzo al Reno considerata neutrale, scelta per la sua consegna alle autorità francesi. Sull’isola per quella cerimonia, chiamata del commiato, era stato costruito un piccolo castello di legno che comprendeva cinque stanze - due in territorio austriaco, due in quello francese, una in centro – che i ricchi di Strasburgo avevano contribuito ad arredare con mobili e suppellettili. Il giorno stabilito Maria Antonietta, tutta vestita d’oro, frastornata, collocata dalla delegazione austriaca su un palco preso in prestito dall’università luterana, poté ammirare la sala centrale ornata di arazzi: grandi e vivaci rappresentavano il mito di Medea che, respinta dall’amato Giasone, per punirlo aveva ucciso i figli. Davanti a quella macabra rappresentazione, uno sconosciuto visitatore di nome Wolfgang Goethe, a quel tempo studente di legge a Strasburgo, era rimasto scandalizzato al punto da annotarlo nei suoi libri. Ma la futura Maria Antonietta stanca, stressata dal cambiamento e interessata ad altro, non ci fece caso: del resto non ne conosceva il significato perché, a parte il fatto di essere molto giovane, detestava lo studio.
Gli addii furono strazianti: Antonia non poté tenere con sé nemmeno Mops.
- Devi separartene – disse Mercy-Argenteau guardandola dalla sua alta statura.
- Ma perché?!
- Adesso sei in territorio francese.
- E allora?
- Questi sono gli ordini.
Mentre il cagnolino veniva condotto via la ragazzina scoppiò in lacrime.

Il 14 maggio 1770 la Delfina giunse a destinazione a Compiégne, residenza di campagna dei reali, attigua a una verdissima foresta. Si erano dati appuntamento nel punto in cui la strada attraversava il fiume Oise, sul ponte di Berne, dove la natura respirava. Luigi XV arrivò in una carrozza sulla quale avevano trovato posto tre delle sue figlie nubili e il promesso sposo Luigi Augusto che stranamente sembrava seccato dell’incombenza. Il re di Francia, al contrario, non vedeva l’ora di appagare la curiosità: si trovò di fronte un’adolescente non molto alta, snella, scarsa di petto, chiara di pelle, di occhi e di capigliatura. Una tipica austriaca la cui fronte spaziosa, il naso aquilino, il labbro inferiore pronunciato, conferivano un’aria rispettabile. Non ne fu deluso. Antonia era stata pettinata alla francese, portava un abito con la crinolina, sontuoso e gonfio come una vela. Mentre a distanza la folla curiosa l’acclamava, il duca di Choiseul, che aveva curato le trattative matrimoniali, le diede il benvenuto. Poi si fecero avanti Luigi XV e il Delfino in una profusione di cerimonie e inchini. Antonia salì in carrozza sedendo tra i due. Sbirciava lo sposo con la coda dell’occhio trovandolo ordinario: corpulento, pienotto di viso, l’aria imbronciata sotto le scure sopracciglia. Lui, visibilmente imbarazzato, non la guardava. Antonia prese a conversare con il vecchio re. Quel giorno, il futuro Luigi XVI, non degnò la nuova arrivata di una sola gentilezza. Rassegnato agli eventi, ai quali si sentiva obbligato, prima di coricarsi si limitò a scrivere sul diario “Incontro con madame Delfina”. Fu tutto. Ma la sera Maria Antonietta ebbe la sorpresa di trovare in bella mostra sulla toilette, riflessi nella grande specchiera dalla cornice dorata, i gioielli di valore inestimabile che erano appartenuti alla regina defunta e che avrebbe indossati il giorno delle nozze, 16 maggio 1770.

Quindici anni lei, sedici lui: l’età degli sposi. Il popolo era stato invitato al matrimonio: nella reggia di Versailles, nei suoi giardini, ammessi tutti coloro che erano vestiti decentemente, nelle strade, nelle piazze il cibo distribuito, il vino versato a chi voleva brindare alla loro salute. Al mattino, attraversando i cancelli del celebre palazzo, la Delfina fu sbalordita dall’andirivieni. Carpentieri, pirotecnici, tappezzieri, mobilieri, cuochi. Il cortile dei marmi, col suo ammattonato di losanghe bianche e nere, lavato da poco sembrava risplendere. Poi una moltitudine di dame di corte, cameriere, acconciatrici, la rapì per la toilette. All’una, in uno splendido abito di broccato bianco, Maria Antonietta entrò nella stanza del re dove il Delfino la stava aspettando. Lui le diede la mano come richiedeva il protocollo e la condusse dove i cortigiani li attendevano, nella galleria degli Specchi di cui ogni corte europea invidiava lo scintillio di luci sotto soffitti d’oro. L’arcivescovo di Reims celebrò la funzione religiosa nella cappella di Versailles.

Galantina d’uccelli, fagioli alla bretone, cavolfiori alla parmigiana, pane ai funghi, aringhe alla mostarda, piccoli paté, trota alla Chambord, sogliola alle erbe fini, luccio alla polacca, merluzzo alla crema, arrosto di montone di Choisy, manzo alla scarlatta, piccioni all’ortolana, tordi, fagiani, crema alla Genest, profiterolles, dolce di Baviera, innaffiati di borgogna e di champagne, erano solo alcune delle portate del fastoso banchetto che, accompagnato da musiche e luminarie, seguì la cerimonia. Luigi Augusto e Antonia, storditi, fecero appena un assaggio. A notte, dopo la cena, ebbe inizio l’antica cerimonia che i francesi chiamavano del coucher. Furono accompagnati nella loro camera, immensa, con grandi specchi e drappi di broccato. Tradizione voleva che la corte fosse presente la prima notte che i principi andavano a letto insieme. Luigi XV, in segno di stima, diede la propria camicia al Delfino e la duchessa di Chartres, nuora del primo principe di sangue reale, la sua alla Delfina. L’arcivescovo benedì il talamo davanti a cui stavano gli sposi: Maria Antonietta con studiata compostezza, Luigi Augusto, malgrado gli incoraggiamenti del nonno libertino, con enigmatico mutismo, bloccato dall’ansia della prestazione. I due si infilarono sotto le lenzuola studiati dalla folla: le cortine del baldacchino vennero chiuse, poi di nuovo riaperte perché il mondo constatasse che giacevano insieme. Quando, dileguati i presenti, rimasero soli, storditi dalle cerimonie, impacciati, non fiatarono e non si avvicinarono l’uno all’altra. Del resto oltre a non conoscersi parlavano lui francese e lei tedesco. Fu Maria Antonietta a esordire nella lingua del consorte che aveva imparata dall’abate Vermond, suo precettore sin dai tempi di Hofburg:
- Mi sembrate molto provato.
- Si madame, sono molto stanco.
- Non preoccupatevi, abbiamo tempo.
La giovinetta fece scivolare la sua mano verso quella del Delfino ma, impercettibilmente, lui si ritrasse. Silenzio pesante. Antonia raschiò la gola:
- Dormite?
- Non ancora.
- Nemmeno io.
Lei avvertiva il suo respiro lieve. Dei colpetti di tosse imbarazzati. Si girarono su un fianco voltandosi le spalle. Sapendosi lontano da casa, Maria Antonietta provò una fitta: il viaggio era durato quasi un mese e ora cominciava un’esistenza diversa, se ne rendeva conto perché il peso di quei giorni turbinosi le cadeva addosso. Pensava a sua madre, alla quale aveva sempre ubbidito per farsi amare e dalla quale non si era mai sentita completamente protetta. Pensò alla sorella data in sposa a un sovrano debole di mente per consolidare gli Asburgo nel regno di Napoli e ricordò quello che la mamma aveva scritto sulla sorella : “Sarò contenta finché adempirà ai suoi doveri verso Dio e verso suo marito e si guadagnerà la salvezza, anche se questo la renderà infelice”. Lei, cosa l’aspettava? Sarebbe stata felice?
Il Delfino immobile intuiva l’alba dietro le grandi vetrate, non aveva chiuso occhio tutta la notte, prostrato come davanti a troppi esami. Il futuro Luigi XVI era un insicuro. I suoi genitori avevano prediletto con decisione il fratello maggiore, un bambino che ritenevano dotato di tutte le virtù adatte a un principe ma che, come spesso accadeva a quel tempo, era morto in tenera età. Luigi, quasi ne avesse usurpato il titolo, ora non si sentiva degno della sorte regale. Quando sua madre e suo padre morirono di tubercolosi, passò nelle mani del duca di La Vauguyon, tutore autoritario e meschino che finì di castrare la sua fragile personalità e ne accentuò l’introversione. Convinto di non suscitare interesse non osava lasciarsi andare all’amore di nessuno.
Al mattino i domestici non permisero agli sposi di oziare a letto perché la giornata era dedicata alla noiosa presentazione alla Delfina di una schiera infinita di cortigiani. Maria Antonietta si alzò, con rassegnata compostezza si affidò alle dame per la vestizione. In un momento in cui si trovò solo il futuro Luigi XVI appuntò velocemente sul diario: “Nulla”.



Nei giorni seguenti la Delfina cercò spesso l’abate Vermond, che da Vienna l’aveva seguita a Versailles e del quale ora, in terra straniera, sentiva di avere ancora più bisogno. L’arciduchessa non sapeva come ci si dovesse comportare tra marito e moglie e provava un certo imbarazzo a parlarne con il sacerdote ma, proprio per questo, la sua benedizione era importante.
- Fino ad oggi il Delfino non mi ha baciata, non mi ha neanche toccato la mano - si confidava percorrendo con lui in carrozza i vialetti intorno all’aranceto, così perfetto da sembrare finto.
- Date tempo al tempo e non preoccupatevi – rispose l’abate, che aveva sempre saputo guadagnarsi con tatto e discrezione la sua benevolenza e che, rassicurandola, aveva cementato il suo incarico. Ma la notizia in realtà era sulla bocca di tutti e, seppur sembrasse prematuro dolersene troppo, non era apparsa di buon auspicio, come non lo era la sciagura del 30 maggio, giorno in cui i festeggiamenti nuziali si erano conclusi a Parigi con uno spettacolo di luminarie, spari e fuochi d’artificio.
Al termine dei fuochi notturni la folla tumultuosa che si era radunata sull’immensa piazza Luigi XV, oggi Place de la Concorde, ansiosa di andare a far baldoria nei boulevards aveva imboccato nel buio pesto la rue Royale, sventrata da canali in costruzione. Quasi senza accorgersene i parigini vi era caduti dentro come topi, uno sull’altro, schiacciati, calpestati, soffocati, insieme a cocchieri e cavalli. Il panico, dilagato in un pigia-pigia mortale, aveva fatto il resto e alle prime luci dell’alba il numero dei deceduti era arrivato a centotrentatre. L’elemosina di Luigi Augusto e di Maria Antonietta non ripagò il dolore dei sopravvissuti.



Con gli anni la confidenza tra il Delfino e madame si approfondì ma non il loro rapporto fisico. I due giovani a volte si evitavano e accennavano alla “cosa” con imbarazzo. Il povero Luigi, che viveva il problema come un imputato sul banco, era sotto stress, tanto più che qualcuno aveva iniziato a ventilare la necessità di un’operazione chirurgica. Per rilassarsi amava ritirarsi nella residenza di Compiégne castello che suo nonno stava facendo ristrutturare, vicino alla foresta nella quale preferiva andare a caccia.
Un giorno il futuro re di Francia riuscì finalmente a dire alla moglie :
- Non ignoro ciò che il matrimonio comporta. Vivrò con voi in intimità coniugale durante il tradizionale soggiorno estivo della corte a Compiègne.
- Dal momento che dobbiamo vivere in intima amicizia – rispose Maria Antonietta – dobbiamo fidarci e parlare di tutto tra di noi.
Tuttavia quando giunsero a Compiègne, così invitante con la sua aria fresca e boscosa, il Delfino mangiò tanto, come spesso accadeva, ma questa volta al punto da averne un’indigestione molto seria. Che lo avesse fatto apposta? Fatto sta che si sentì male, vomitò, ebbe la febbre e di nuovo fu deciso che i due dormissero separati. Le notizie che arrivavano dalla Francia esasperavano Maria Teresa d’Austria: l’inettitudine del genero rischiava infatti di mandare a monte quel capolavoro strategico che aveva tessuto in anni di rapporti diplomatici e per di più sua figlia sembrava non saper far fronte all’impasse. Luigi Augusto si sottopose alle cure dei medici: fece bagni, bevve pozioni, ingerì limatura di ferro. Fu auspicato nuovamente un intervento ma il chirurgo, per fortuna, stabilì che avrebbe peggiorato il suo stato psicologico e che tutto dipendeva solo dalla sua volontà. Il nonno, che di persona aveva controllato che non ci fossero malformazioni, fu d’accordo. Luigi, che di regnare avrebbe fatto a meno bisognoso com’era di affetto, malgrado i problemi sembrava essersi affezionato alla moglie che gli avevano imposto, e spesso si ritirava con lei per cenare da soli. Finalmente tre anni dopo la Delfina scrisse una lettera alla madre nella quale affermava che il marito era stato “ più premuroso del solito”. Era accaduto proprio a Compiègne: lui assicurò di aver fatto sua Maria Antonietta e il nonno raggiante, presi i nipoti per mano, li baciò. In realtà il regale giovanotto era riuscito soltanto a deflorarla senza completare l’atto e per molto tempo ancora Maria Antonietta non rimase incinta.

Nel 1777 accade un fatto nuovo. Giuseppe II, imperatore d’Austria e del sacro romano impero, fratello di Maria Antonietta divenuta nel frattempo regina di Francia, decise di affrontare la fatica del viaggio per recarsi a trovare la coppia infeconda, con l’intenzione di esaminare accuratamente il caso. Viaggiava sotto le false spoglie del “conte di Falkestein” e quando arrivò a Parigi il suo ambasciatore Mercy-Argenteau non poté riceverlo perché era a letto sofferente di emorroidi. L’imperatore non se ne curò e preferì prendere alloggio in una locanda di Versailles evitando di partecipare ai rituali mondani della corte. Ma fu assiduo con i due coniugi, per tre settimane li studiò, li rimproverò e li sorresse, quando finalmente riuscì a capirne il mistero, in una lettera al fratello Leopoldo, Granduca di Toscana, spiegò dettagliatamente: Luigi ha erezioni forti, di buona tenuta; introduce il membro, resta là un paio di minuti e si ritira senza mai eiaculare, sempre in erezione, e augura la buonanotte… Si accontenta di questo dichiarando semplicemente che lo fa solo per dovere e non prova alcun piacere. Ah, se potessi essere presente una volta gliel’avrei fatta vedere io! Bisognerebbe frustarlo per farlo eiaculare di rabbia come gli asini.

Luigi XVI aveva un blocco psichico, dal quale neanche i re sono esenti. Ma gli altri di affannavano tanto perché la nascita di un erede aveva precise implicazioni politiche, garantiva la continuazione della monarchia ereditaria e di ascendenza divina, era la vittoria della vita sulla morte! Sicché quando, a tre mesi dalla partenza di Giuseppe II, a sette lunghi anni dalle nozze, Maria Antonietta scrisse alla madre che il matrimonio era stato realmente consumato e che la prova si era ripetuta, il fratello di Luigi XVI che aspirava al trono per il proprio primogenito, rimase deluso, ma tirarono un sospiro di sollievo l’Imperatrice d’Austria e tutti coloro che avevano nella faccenda qualche interesse. Anche se i costumi andavano mutando e spirava un filosofico vento di liberazione, la vita dei sovrani coinvolgeva, eccome! Si sa che era soprattutto la vita sessuale quella che, come oggi, suscitava la più grande curiosità e i più forti sentimenti di odio e di amore.
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15 novembre 2006

"Percorsi. Gli specchi dell'anima" di Alfredo Maestroni

di Miriam Ballerini
PERCORSI
Gli specchi dell’anima, di Alfredo Maestroni
Dialogolibri 2006 – Collana l’anima dei poeti.

pag. 69

Raramente capita di avere fra le mani il libro di un poeta le cui poesie sono state scritte in età giovanile, per poi essere pubblicate ben quarantacinque anni dopo!

Ma ancor più raro è che questo poeta, oltre ai testi stampati in questo libro, non abbia mai più scritto una sola poesia!

E' quanto accade ad Alfredo Maestroni, che scrisse le sue poesie a diciotto anni, sotto l’influenza dei testi di Ungaretti, Montale e Quasimodo; autodidatta e dotato di una maturità e serietà che hanno donato ai suoi testi un’impronta sorprendente.

Nella raccolta Percorsi gli specchi dell’anima i testi sono stati inseriti in ordine cronologico e dopo le prime poesie in rima, ma dai significati sentiti, via via assistiamo a una maturazione poetica; a un evolversi di tematiche, di parole ricercate da incastonare le une nelle altre con sapiente e ponderata metodicità.

Vediamo un breve estratto da Dimensione

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T’appesantisce la violenza del sole

puoi restare inerme e pensoso

per un giorno ma la sfera

non si rompe e passa oltre

Sei come un panno appeso

che non asciuga mai

Sei sfiorato appena

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I testi di Maestroni recano con sé le ansie e la ricerca di se stesso; le sensazioni di un giovane ragazzo maturo che si guarda intorno, cercando un proprio senso.

Un altro estratto da Dove andrò

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Dove me ne andrò solo

questi anni verdi ti infossano le spalle

le occasioni rubate al tempo pare ritornino

come d’autunno il senso

………………………………………………

E' un osservatore attento della natura e della società che lo circonda di quegli anni, gli anni sessanta. Dove le stagioni e gli oggetti da lui visti trovano un senso e un paragone nel suo sentire.

NEBBIA

Sale la nebbia, si posa

sulle cose vicine, su quelle lontane

nell’abbraccio spettrale, invaghita

e persa per ogni dove, se stessa rimpiange

Di sereni l’immobilità che trafigge

o stupita tristezza

nella notte buttata, stanca

Le vaganti corolle, doloranti

tacite, mutevoli

Si cancella la sferza d’ottobre

e più nulla rimane

Non sono più i giorni del vento

sui lucidi campi brulli

E tanta tristezza

che scivola sul dorso delle foglie

L’ultimo fiore è il sole

I testi non sono di facile lettura, con frasi descrittive e altre più ermetiche, da comprendere, magari, con una seconda lettura. Classicheggianti.

Maestroni gioca con le parole, spesso usando l’anàstrofe, cioè inverte l’ordine naturale delle parti del discorso, teso alla ricerca dei termini appropriati.

In questa raccolta troviamo poesie che mai sono banali, ma sempre significative e intense, e che nel lettore lasciano una profondità di pensiero.

All’inizio del libro troviamo la prefazione di Manrico Zoli, Presidente del Circolo Culturale Dialogo di Olgiate Comasco.

E un breve avvio che l’autore ci vuole dare: “Un piccolo … grande “mondo”, uno spunto prezioso, l’inizio di un percorso”.

Inevitabile porgerci un quesito: se l’Alfredo diciottenne ha saputo porsi poeta tanto maturo, quali versi potrebbero nascere dall’Alfredo odierno?

© by Miriam Ballerini

14 novembre 2006

Papa Luciani

di Augusto da San Buono

Su Papa Luciani, sul suo sorriso d’umiltà che illuminava tutto e tutti, sul suo subitaneo e “misterioso” abbraccio coll’angelo della morte, su tutte le simbologie legate al suo breve pontificato, - 33 giorni, come trentatrè furono gli anni sulla terra del suo Signore, quattro i discorsi ufficiali, come quattro sono i vangeli, - si sono consumati milioni di ettolitri di inchiostro, aperti migliaia di sit web, scritti decine e decine di libri, romanzi, reportages, realizzati documentari, incontri simposi dibattiti e ora – da ultimo – una “fiction” di grandissimo successo, grazie anche al bravo Neri Marcorè, che è stato interprete efficace, credibile, molto sensibile e misurato, della figura del prelato veneto.

Ma chi era veramente Albino Luciani, che sul finire d’una torrida estate romana, nella notte del 29 settembre 1978, se ne era andato in punta di piedi, sereno, e quasi sorridente, nel suo letto, come in punta di piedi, - senza che né lui né altri lo prevedesse, - 33 giorni prima era divenuto vicario di Cristo?
“Un prete di soave candore, - dice Gino Strada -, straordinario ed esemplare per apertura religiosa e culturale” .“Un papa umile che ci ha insegnato il vero Vangelo”, confermano Carlo Bo ed Ermanno Olmi. “Cosa bella e mortal passa e non dura”, esclama– molto petrarchescamente - il poeta Zanzotto.
”Sì, non poteva che essere breve e rapido quel suo pontificato, com’era stato, quattro secoli prima, quello di Marcello Cervini. E’ stato pontefice solo per il tempo di un sorriso”, scrive Vittore Branca, che lo conosceva bene e, insieme alla moglie, era andato a trovarlo in Vaticano, ventidue giorni prima della morte. Erano appena le sette di mattina e l’inusitata visita, tra le logge e le sale vaticane ancora deserte, aveva lasciato esterrefatti gli svizzeri e le guardie palatine. Ma papa Luciani - continua Branca - aveva accolto gli ospiti, come sempre, con quel suo straordinario sorriso, luminoso e semplice, da popolano di grande fede, come erano gli apostoli, sulla cattedra di Pietro. E lui, l’umile don Albino, che aveva impegnato tutta la sua esistenza a ricercare la sostanza del Vangelo, come unica ed eterna verità, al di là di ogni contingenza storica, o peggio, di mode o di politiche del momento, quegli apostoli avrebbe voluto vedere nei visi dei cardinali e degli alti prelati della curia vaticana. A loro si era rivolto con sincerità di cuore, con quella sua disarmata e disarmante semplicità, che demitizzava ogni forma ecclesiastica, per riportare tutto alla sostanza; insieme a loro avrebbe voluto imporre – pur senza rinnegare nulla dell’Antico, il “Nuovo Testamento”, e le sue realtà di umanità e concretezza; a loro aveva richiamato che bisognava essere soprattutto “preti”, sempre al servizio di tutti, e aveva ricordato il valore del sacrificio e dell’obbedienza, “ di fare la volontà altrui piuttosto che la tua, di cercare l’ultimo posto, di servire in umiltà la chiesa e non fare i divi, i personaggi alla moda che criticano, contestano, demoliscono, di essere, in ultima analisi, testimonianza viva di Cristo, come lo era stato lui, in modo eccezionale, per tutta la sua vita.

Ma i vari Paul Marcinkus, Presidente dello I.O.R., l’Istituto per le Opere Religiose, ( “Questo papa non è come l’altro) che era divenuto un centro di Affari legato a Gelli, Sindona e Calvi, così come il Cardinale Jean Villot, Segretario di Stato, Agostino Casaroli, ed altri presuli con alti incarichi, - tutti confermati da Papa Luciani, nonostante le mille e una perplessità - erano di tutt’altro avviso (non dimentichiamo che molti di essi facevano parte di quella lista ecclesiastico-massonica divulgata da Mino Pecorelli che probabilmente costò la vita al giornalista) e cominciarono subito a far circolare l’immagine di un papa inetto, uomo poco adatto all’incarico, troppo «puro di cuore», troppo semplice per la complessità dell’apparato che doveva governare. Il cardinal Siri – che era stato designato quale probabile successore di Paolo VI - dirà alla sua morte che Luciani era troppo emotivo, troppo timido, troppo stressato, troppo debole di cuore per il carico di responsabilità che aveva, e Cesare Musatti, l’illustre psicoanalista, parlerà della sua morte come di una sorta di sublime fuga mistica, la cui simbologia è rappresentata dalla presenza sul suo comodino della "Imitazione di Cristo" e soprattutto da quel fatale numero 33 che rappresenta la sintesi di una identificazione totale con il Cristo, unico vero porto di salvezza, in questo caso dalle fauci di una corte che non risparmiava occasioni per fargli presente la sua inadeguatezza.

Luciani era una persona umile e semplice, è vero, ma non un sempliciotto e neanche uno sprovveduto (Era partito da ardite avventure di pensiero, con una tesi dottorale sull’”Origine dell’anima secondo Rosmini,” e da sottili disquisizioni teologiche, ma poi. come curato e come vescovo, era giunto man mano ad uno scrivere parlato in cui ricorrevano soprattutto parole del Vangelo o di Santi e di autori popolari).
“Mi confidò una volta – scrive Vittore Branca – di non sentirsi un vescovo-aquila, di quelli che planano con documenti dotti e magistrali da altezze sublimi, né un vescovo-usignolo, di quelli che cantano in modo poetico e affascinante le lodi del Signore, ma solo un vescovo-scricciolo, che sull’ultimo ramo dell’albero ecclesiale cerca di ripetere chiaramente e semplicemente la parola di Gesù sui temi che sono centrali nella coscienza dell’uomo”.
Papa Montini aveva uno stile alto e teso, pieno di ombre e contrasti drammatici, tra Chesterton, Mauriac e Bernanos; lo stile di papa Woytila era tra il lirico e il teatral-gestuale, la scrittura di papa Luciani è piana, affabile, scorrevole, ridente, sui moduli di un Bernardino da Siena, Filippo Neri, Don Bosco. Un linguaggio fatto delle realtà quotidiane, tutto semplicità e immediatezza, tutto mirato ai semplici, ai bambini, ai poveri, ai sofferenti. Egli viveva costantemente nella sua dimensione pastorale, l'unica nella quale si sentiva a suo agio, da vero sacerdote.

E non si sentiva a suo agio nelle grandi sale vaticane, dove fu effettivamente isolato, lasciato solo, persino dai suoi segretari. Era così disperato, - testimonia un sacerdote veneto di alto profilo culturale - al punto di chiedergli di fargli spesso visita e persino di dargli una mano per mettere a posto le carte dello studio. Se questo era il contesto, la sua "uscita" – afferma Musatti - è stata drammaticamente coerente e misteriosa al tempo stesso (ma non nel significato romanzesco e poco credibile dato da Yallup) nel senso di trovare "nella profezia che si avvera " l'unico rimedio di salvezza, mediante un olocausto che a quanto pare non è stato vano nella vita della chiesa. Le sue fisiche debolezze (cuore, polmoni ecc.) e la probabile caduta, in una situazione di estremo stress, delle difese immunitarie, non sarebbero state in questo senso altro che un facile veicolo di realizzazione di questo inconscio sacrificio.

Si era sempre sentito, come Francesco d’Assisi, “servus inutilis et ineptus”, aveva spazzato via la solennità del plurale maiestatico con quel suo primo discorso (quell’ieri e quell’io) ; con quel suo gesto familiare di ravviarsi il ciuffetto aveva relegato per sempre in museo la tiara papale; aveva presentato Dio stesso come Madre pietosa e soccorrevole, amorosa e, previdente, indulgente, perché conosceva gli uomini e i loro problemi, conosceva l’anima popolare, i bisogni della gente semplice e quando, da patriarca di Venezia, preparava le sue omelie, le leggeva in cucina alle suore domestiche e al portiere per poter giudicare meglio della loro comprensibilità. “E’ fra i migliori teologi e fra i più santi vescovi di oggi,” aveva detto di lui Papa Montini, che lo aveva in qualche modo designato suo successore imponendogli la sua stola papale nel 1977 in piazza San marco tra la folla plaudente.
“La chiesa è chiamata soprattutto a dare al mondo quel supplemento d’anima che da tante parti si invoca, si dovrebbe riproporre e riprendere energicamente il senso di cultura dell’anima”, disse Giovanni Paolo I a Vittore Branca nell’udienza del 7 settembre. “Quella che non nutre e non eleva l’anima è una noncultura: esercitazioni di accademici, di retori, di mestieranti. Può interessare loro, non gli uomini di strada e del lavoro. Bisognerebbe che la cultura sapesse infondere nell’umanità quel supplemento d’anima che solo può assicurare la salvezza a questo povero nostro mondo straziato e tormentato”.

Per trentatrè giorni, questo papa gioioso e drammatico, umile e tribolato, intralciato da dolorose incomprensioni e da forze religiose e laiche, che ebbe il suo transito, rapido e misterioso, mentre tutti, anche i più fedeli dormivano, come nell’orto del Getsmani, si macerò di sorrisi ed extrasistole, sempre coerente con quello stile di vita e di servizio vissuto da prete, da vescovo, da patriarca e da papa. E con questa certezza:
“ Siamo i figli della speranza, lo stupore di Dio… Io sono pura e povera polvere: su questa polvere il Signore ha scritto… Mi spiego ancora meglio: come Albino Lucani sono una ciabatta rotta. come Giovanni Paolo I è Dio che opera in me, e Dio non può sbagliare”. Il giorno prima di morire aveva detto al suo ultimo interlocutore, il cardinale Bernardin Gantin: “Solo Gesù Cristo dobbiamo presentare al mondo. Fuori di questo non avremmo nessuna ragione di parlare: non saremmo, del resto, per la nostra incapacità neppure ascoltati”.

13 novembre 2006

Il socialismo scientifico fra teoria e prassi

di Eros Barone (tratto dalla rubrica "Con rispetto parlando" de "La Prealpina" del 12 novembre 2006)

Se il socialismo scientifico segnò una svolta di portata decisiva nella storia del movimento operaio internazionale, scoprendo l'"algebra della rivoluzione", non v'è dubbio che le tesi del terzo congresso del Partito Comunista d'Italia, tenutosi in condizioni di illegalità a Lione tra il 20 e il 26 gennaio 1926, rappresentino la più avanzata e matura formulazione, attraverso un organico sistema di equazioni, del problema della rivoluzione socialista nella storia del movimento operaio italiano. Laddove vale la pena di precisare che la denominazione di Partito Comunista d'Italia non è affatto equivalente a quella di Partito Comunista Italiano, giacché indica non un partito nazionale, ma una sezione nazionale di un partito mondiale. Sicché, a chiunque domandi quali siano i testi con cui è possibile formarsi un'idea esatta della tradizione comunista, proletaria e internazionalista che si è sviluppata nel nostro paese sarà da consigliare, in primo luogo, la lettura di questo scritto fondamentale, che segnò la vera nascita teorico-politica del PCd'I sia come attiva sezione dell'Internazionale Comunista sia come fattore operante della dinamica nazionale, attraverso la rottura con l'estremismo settario di Amadeo Bordiga, che fu, tra il 1921 e il 1924, il primo segretario del PCd'I.


Di fronte ad errori antitetici, che hanno prodotto - e possono ancora produrre - conseguenze parimenti negative nell'azione del movimento di classe, come l'affermazione unilaterale del primato della teoria rispetto alla pratica o la separazione antidialettica fra l'una e l'altra o, ancora, l'interpretazione strumentalistica di chi teorizza il ruolo ancillare della teoria rispetto alla pratica, degradando la prima a ideologia di legittimazione dello "stato di cose presente", di fronte a questo insieme di deviazioni le Tesi di Lione insegnano a riconoscere il punto archimedico di congiunzione fra la critica rivoluzionaria di quello "stato di cose" e l'"autocritica delle cose stesse" (per usare una pregnante espressione di Antonio Labriola), la connessione fra giudizi di fatto e giudizi di valore, cioè la via della giusta mediazione dialettica fra teoria e pratica.


A ottant'anni di distanza dalla drammatica congiuntura storica in cui furono stese, due sono le osservazioni che è opportuno formulare: la prima riguarda il valore teorico, ideologico e politico del patrimonio di elaborazione condensato nelle Tesi di Lione; la seconda riguarda la permanente validità del metodo marxista che sostiene e guida quella elaborazione.
Il giudizio che ne consegue si articola allora in una "pars construens", che offre una solida base allo sviluppo di una linea leninista capace - come furono capaci, nella loro situazione storica, i comunisti diretti da Antonio Gramsci e dalla Terza Internazionale - di indicare con chiarezza gli scopi della lotta rivoluzionaria e le vie da percorrere per giungere a realizzarli, di precisare il carattere del periodo storico e le prospettive immediate della situazione, di individuare le forze motrici della rivoluzione, sia in generale che nel proprio paese, e capace quindi con altrettanta chiarezza di porre e risolvere le questioni essenziali della strategia rivoluzionaria e i problemi della tattica e della organizzazione del movimento operaio; mentre la "pars destruens", che s'impone come un imperativo vitale per garantire la continuità della tradizione comunista nel nostro paese, consiste nella demistificazione del tentativo, oggi condotto, conformemente ai moduli del revisionismo liberaldemocratico, non più in chiave formalmente "continuista" (come accadde sotto la direzione politico-ideologica di Palmiro Togliatti), bensì in chiave apertamente "discontinuista", di togliere qualsiasi valore attuale alle elaborazioni di quel periodo, per confinarle in una dimensione del tipo "c'era una volta... il PCd'I", e ridurle, nel migliore dei casi, ad un tema di ricerca storica disinteressata, avulsa dai problemi della lotta di classe contemporanea, o, nel caso peggiore, ad un oggetto di "pietas" antiquaria, materiale di archivio per esercitazioni erudite.


Giova, invece, riaffermare, oltre che il valore teorico di questi incunaboli del pensiero comunista italiano, il significato attuale che essi rivestono come preziose armi della critica forgiate nel corso di una lotta aspra e di lunga durata e come prodotto delle esperienze nazionali ed internazionali attraverso cui il nuovo gruppo dirigente del PCd'I pervenne, nel fuoco della lotta contro la dittatura fascista, ad operare la "traduzione del leninismo in lingua italiana" e a superare una linea settaria e schematica. Malgrado insufficienze e limiti derivanti da carenze nell'analisi economica e nell'appropriazione di alcune categorie centrali della dottrina leniniana, le Tesi di Lione sono un testo-chiave della letteratura comunista, in cui acute intuizioni si intrecciano a indagini approfondite sul piano storico, sociale e politico, fornendo la base empirica di corrette previsioni scientifiche (come quella sulla subordinazione dell'Italia all'imperialismo tedesco, che sarà puntualmente confermata nel corso della seconda guerra mondiale).


Esse costituirono pertanto, nella teoria e nella pratica del PCd'I, un autentico salto di qualità, premessa e frutto di quel rigore intellettuale e morale che farà dei comunisti italiani, battuti ma non sconfitti, gli interpreti di un "ethos" affine a quello che ispirò e sostenne l'azione politica e militare di Guglielmo il Taciturno, eroe della guerra degli Ottant'Anni (la guerra per l'indipendenza che, fra il 1568 e il 1648, le Province Unite olandesi condussero contro la Spagna): 'ethos' il cui significato profondo è riassunto con due mirabili antitesi nella massima a lui attribuita: "Non occorre sperare per intraprendere e non occorre avere successo per perseverare".

11 novembre 2006

"L'anima e la spada" di Maria Antonia Ferrante

L'Anima e la Spada di Antonio V. Gelormini

Col suo ultimo lavoro, “L’anima e la spada” – Edizioni del Rosone, 2006, Maria Antonia Ferrante ci presenta uno spaccato ricco di informazioni e riferimenti storici sull’influenza determinata, nell’Italia meridionale ed in particolare nelle terre del Gargano e nell’Antica Daunia, dalle figure carismatiche di Desiderio di Montecassino e di Roberto il Guiscardo.

Grande diplomatico e prezioso intermediario tra il papato e i Normanni, Desiderio riuscì a portare l’abbazia di Montecassino all’apice della sua influenza spirituale, politica ed economica, nonché culturale ed artistica. Simbolo di questa rinascita e ragione di vita per il più famoso degli Abati di Montecassino, fu la grande basilica romana, consacrata nel 1071 al cospetto dei grandi dignitari normanni. Gli stessi che lo spingeranno al soglio papale, verso la fine del regno di Roberto il Guiscardo, col nome di Vittore III.

Impetuoso, audace e dotato di intuito, Roberto d’Altavilla è definito “il Guiscardo” (l’astuto). E’ impavido come un leone e il popolo lo ritiene “più forte di Cesare e più furbo di Ulisse”. La Ferrante lo descrive: “Volitivo e tenace nel condurre a termine i suoi piani. Crudele e spietato, ma pio e devoto, si mostra deferente nei confronti delle autorità religiose. Devoto di San Michele Arcangelo, l’Angelo guerriero, si reca spesso a Monte Sant’Angelo per onorare, come i suoi avi nella grotta miracolosa, il protettore del Normanni”.

La trama romanzata del racconto è il frutto di ricerche dettagliate e di “speculazioni” storiche che, attraverso le vicende medievali, evidenziano quale crocevia di interessi, passioni, intrighi, diplomazie e conflitti potesse essere l’Antica Daunia e un centro come Troia, diventata sede di un’importante e influente Diocesi.

Suggestivi i viaggi dell’Abate per raggiungere le Isole Tremiti e il suo rapporto col paesaggio incontaminato dell’arcipelago. Tormentato, ma rigenerante il ritorno a Benevento del giovane Desiderio, lungo un percorso costellato di “stazioni di posta” che, da Val di Sangro verso Campobasso e Lucera, sarà in seguito riconosciuto come il Tratturo del Re, autostrada rupestre per le migrazioni della transumanza.

Intensa l’attività diplomatica per assicurare al cenobio di Montecassino il controllo dei monasteri benedettini del Sud Italia, tra cui spiccano per maestosità e posizione strategica: la badia di Càlena, vicino Vieste, e quella di Santa Maria di Tremiti.

Segni della feroce spregiudicatezza del Guiscardo risultano, invece, la distruzione di Policastro, la punizione degli abitanti di Ascoli Satriano e la violenta vendetta che si abbatte su Gradilone di Vico del Gargano. Curiosa e sfacciata la richiesta ai nobili troiani per i doni in occasione del matrimonio di sua figlia Heria. Affascinante e scenografica la presentazione dello stesso matrimonio di Heria con Ugo d’Este, figlio del marchese Azzo, nella cornice sontuosa di festeggiamenti che resero Troia più accogliente e più famosa in tutto il circondario.

Desiderio e Roberto, i fuochi indiscussi del romanzo, hanno però ciascuno un “alter ego” in Sichelgaita e Alfano, i personaggi che pagina dopo pagina si rivelano le vere “eminenze grigie” dell’epoca. La moglie e il vescovo di Salerno, già colleghi di studi alla Scuola di Medicina della città campana, diventeranno i veri artefici di una trama avvincente e ricca di sfaccettature.

Accanto a loro una figura autorevole e determinante, Ildebrando di Soana, il futuro grande papa Gragorio VII, artefice della “Riforma” della Chiesa e di un ritrovato orgoglio come “servo dei servi di Dio”, che metterà in crisi l’assolutismo e la sacralità del potere imperiale. Non a caso sarà definito: Una luce nella “notte” nel grande Medio Evo”.

Tre grandi protagonisti, che per Maria Antonia Ferrante: “Si stagliano quali attori principali di un’opera grandiosa che, pur nel travaglio di guerre, di inganni, di giochi politici mancini, di accordi e di disaccordi, si è conclusa con la rinascita della Chiesa. Alla riuscita della quale i tre grandi hanno contribuito con apporti personali perseguendo, sia pure attraverso percorsi, in parte comuni, in parte differenti, lo scopo di riassettare e di riorganizzare i pezzi di una terra dai confini continuamente mobili. Il primo, Desiderio, impegnato in ambito religioso, ma anche in quello artistico-culturale e politico; il secondo, il Normanno, nell’utilizzare la forza , l’audacia e l’astuzia per la conquista di gran parte del territorio del Sud dell’Italia, al fine di costruire uno stato unitario; il terzo, Gregorio VII, votato al programma di Riforma del Papato con il coraggio di chi non teme alcun rischio”.

Una storia che, a leggerla bene, è la stessa racchiusa, custodita e rappresentata nei tratti miniati dei preziosi rotoli pergamenacei degli Exultet, ora esposti nel nuovo museo del Tesoro della Cattedrale di Troia [(Foggia) n.d.r].

10 novembre 2006

"La morte della farfalla" di Pietro Citati

di Augusto da San Buono

Prefiguratevi la scena, come in un film in bianco e nero di Billy Wilder. Siamo nel 1918 , a Montgomery, media città dell’Alabama, profondo sud. In una sala da ballo , vicino al “Camp Sheridan”, un elegante , giovane Ufficialetto dell’esercito , originario del Midwest settentrionale , invita a ballare una delle southern belles, fanciulle del Sud , che sono in sala. Lui è molto dotato. Molto ambizioso.Molto egocentrico. L’unico suo obiettivo, nonostante sia molto sensibile al fascino femminile , è quello di aver successo , far soldi , ottenere ricchezza e fama attraverso i suoi libri . Lei è un vero fiore di bellezza del Sud , piena di grazia e fascino. E di insolite buone maniere. Una che vuole vivere nell’abbondanza e sentirsi bella , ammirata, al centro delle attenzioni. Splendido fulcro di una società dalle continue emozioni , una società in continua trasformazione. Lui è Francis Scott Fitzegerald, lei Zelda Sayre , insieme daranno vita alla leggenda dei “ belli e dannati” , del sogno americano degli anni venti e trenta.

Di loro due si occupa l’ultimo libro di Pietro Citati, “La morte della farfalla”(Mondadori, 116 pagine,€ 13), la storia di una “coppia in bilico tra genio e follìa , una storia che è una linea metodica fatta di destini che s’incontrano e che si allontanano”, scrive Giovanni Mariotti sul “Corriere della Sera”. Una storia di inseguimento del successo come “dono” e “grazia” dell’esistenza, ma anche una storia di fallimento , alcool, dissipazione, vite bruciate. Una storia che rispecchia il mito di quei tempi. Se è vero come è vero che lo stesso presidente degli Stati Uniti di quell’epoca , J. Calvin Coolidge , il puritano di Babilonia, dichiarava che la ricchezza “è lo scopo principale dell’uomo”. E non esitava a definire le fabbriche i nuovi “ templi”, e il lavoro che ivi si svolgeva la celebrazione di un “ufficio divino”, anche se i lavoratori dell’industria del tempo ( vedi “Tempi moderni” di Charlie Chaplin) forse non lo percepivano come tale e volentieri avrebbero buttato nella spazzatura il loro Presidente .
I due giovani dei ruggenti anni ’20 erano profondamente diversi l’uno dall’altra , ma in alcuni aspetti erano molto simili, anzi perfettamente uguali: volevano tutto, una vita senza risparmio , senza limiti , per un “ obiettivo superiore” . Volevano tutto e possibilmente subito, somigliando in ciò moltissimo ai giovani di oggi.

Lui aveva ventidue anni, lei appena diciotto, ma era già abituata a giocare col fuoco, coll’alcol e la droga. Bella , ricca e viziata , con un carattere ribelle , Zelda era una talentuosa , ma certamente non una good girl.
Abituata ad essere la più corteggiata in occasione delle varie feste , già esperta in tutte le pratiche nella provocazione erotica, per lei quell’Ufficialetto è uno dei tanti, per lui invece no. Francis è affascinato dal nuovo tipo di femme fatale , infantile . Una demi-vierge , che ribattezza subito flipper ( maschietta) , e la idealizza enormemente per tutto il tempo in cui si troveranno assieme in quel week-end del 1918.
“Eppure ero assolutamente consapevole che Zelda fosse la ragazza più complicata che avessi mai incontrato. Era sicura di sé, presuntuosa e priva di autocontrollo. Ciononostante non volevo cambiarla. Ogni suo difetto si accompagnava a un’energia passionale che lo annullava. Il suo egoismo la portava a stare al gioco con grande durezza; la sua mancanza di autocontrollo mi incuteva addirittura rispetto e la sua arroganza era ripetutamente spezzata da istanti preziosi di rimorsi e autoaccusa, in un modo che quasi quasi mi piaceva. Mi pungolava a fare qualcosa per lei , a ottenere qualcosa da poterle offrire “.

Tutti i successi che Francis otterrà al College divennero una sorta di trofeo da esibire a Zelda.
Lei in una delle sue tante letterà gli scriverà: ” Mi piace la tua dolcezza triste, dopo che ti ho ferito: è uno dei motivi per cui non potrei mai dispiacermi per le nostre liti, che ti assillano tanto, queste care piccole alterazioni durante le quali , ho sempre cercato con tanta energia di indurti a baciarmi e dimenticare tutto …Scott, al mondo non voglio altro che te e il tuo prezioso amore : tutte le questioni materiali non hanno assolutamente importanza”.
Erano la coppia di sogno dell’età del jazz : entrambi di estrazione borghese, belli e di talento , affamati di vita e di emozioni, volevano realizzare il sogno americano di fama e di ricchezza. Per un po’ ci riuscirono. L’America stava vivendo i roaring twenties , l’epoca che tentò di esorcizzare lo spettro della Grande Guerra con un vitalismo sfrenato e una sconcertante libertà di costumi ; erano gli anni delle “ maschiette” dai capelli corti , del proibizionismo , dell’automobile e delle facili fortune.

Si sposarono il 3 aprile 1920, subito dopo il primo romanzo di Fitzgerald , Di qua dal paradiso , che diventò immediatamente il culto di una generazione. La coppia cominciò a vivere nel gran lusso e mondanità, fra amici come Hemingway , Dos Passos , Edmund Wilson e Lardner . Zelda viveva nei personaggi femminili di Scott , con la sua sensualità aggressiva , la sua istintiva anticonvenzionalità, il suo estro disordinato. Avrebbe voluto scrivere, dipingere, danzare , ma non riuscì a realizzarsi in nessuno di questi campi . E lui in qualche modo la ostacolò , incitandola contraddittoriamente a rendersi autonoma e ad assoggettarsi al suo talento superiore.
Questa spinta ambigua contribuì alla lacerazione della fragilità psichica di Zelda. I suoi crolli nervosi, l’alcolismo di Scott gli eccessi di entrambi , la spietata concorrenza in campo letterario all’interno della coppia fermarono bruscamente l’ascesa verso il sogno stesso. E poi incomprensioni gelosie , la lontananza dovuta a sempre più frequenti ricoveri di Zelda, li portarono a separarsi. Scott continuava senza tregua nella sua lotta contro l’alcol e contro i debiti , malgrado il successo letterario dei romanzi che seguirono.

La loro vita la troviamo trasfigurata nei personaggi del Grande Gatsby , di Tenera è la notte , mentre si avviava al suo inevitabile tragico epilogo , una vita che diventò simbolo di una generazione . I due , pur da sempre inconciliabili , rimasero egualmente legati fino all’ultimo , rivivendo a tratti l’eco di una passione lontana. Il tour in Europa , nel periodo di Parigi capitale del mondo dell’arte e della cultura , l’amicizia con Ernst Hemingway ( “Non riesco a dirti, caro Ernst , quanto abbia significato per me la tua amicizia in questo anno e mezzo: per me è l’evento deciso del nostro tour in Europa”) In realtà erano due tipi completamente diversi, Scott ed Ernst. Scott era minuto e poco sportivo, aveva poco coraggio, reggeva malissimo l’alcol e perdeva facilmente la testa mettendo da parte ogni sensibilità e tutte le buone maniere; Ernst era temprato dalla guerra e dalle avventure , aveva un aspetto robusto, tetragono , abituato a bere, buon boxer , amante delle corride e delle imprese rischiose. Scott viveva in un albergo a cinque stelle , Ernst in una stamberga di Parigi , e scriveva ogni giorno in un piccolo caffè, la Closerie des Lilas. Di Scott dirà: “ Ha sempre abusato della propria persona , del proprio talento. Lui rappresenta la grande tragedia di un ingegno della nostra generazione maledetta”
Quando si conobbero , Ernst viveva a Parigi con la prima moglie , Hadley,ma le cose non funzionavano, erano in procinto di separarsi, ma anche Scott viveva un momento particolarmente difficile del suo matrimonio. Zelda era gelosa , aveva in grande antipatia Hemingway , (che a sua volta la considera una squilibrata , una rovina per Scott) e smascherava il macho che era in lui con salaci battute e calunnie. Arrivò addirittura a far circolare voci che fra i due scrittori ci fosse una relazione omosessuale , sapendo benissimo che era la cosa che più temeva Hemengway, cioè quella di essere considerato un pansy , un gay , che avrebbe distrutto la sua virilità . Ernst respinge rabbiosamente il sospetto di Zelda e dice a Scott di ricoverarla . Ma Zelda insiste , e dice che lo stesso Scott ha mostrato in più circostanze le sue espressioni ambigue riguardo al proprio lato femminile. Del resto – ammette – io stessa ho tendenze lesbiche , mi sono innamorata della mia insegnante di danza , Jegorova ,colla quale ho avuto una relazione erotica .
Ormai il matrimonio è al crollo , alla catastrofe , quasi in coincidenza del crollo della borsa di Wally Street , il 24 ottobre del 1929, un venerdì nero . Insieme al collasso finanziaro , si compie il destino di Scotte e Zelda, destino che la realtà politica sfiora appena. In realtà il progressivo disorientamento spirituale , l’alcol e altre droghe , lo stress nervoso e la follia di Zelda alla fine composero una sorta di miscela esplosiva e irreversibile.
Ispirato alla tragica esperienza della pazzia di Zelda , che morì arsa nell’incendio dell’ospedale dov’era ricoverata , a soli trentasei anni ( “Che cosa rimane di ciascuno di noi? Una pianella carbonizzata, come quella che permise di riconoscere il cadavere di Zelda) nacque il romanzo “Tenera è la notte” , l’ultima grande opera di Scott. Nel giugno del 1937, in parte per pagare i propri debiti, in parte perché subiva ancora il fascino di Hollywood ( da cui era stato più volte respinto) e non aveva rinunciato al vecchio sogno di conquistarla, Fitzgerald accettò un contratto di sei mesi con la Metro Goldwin Mayer, e un’opzione per altri dodici mesi che non si lasciò sfuggire. A dispetto della cattiva salute e dell’alcoolismo, nel settembre del 1939, avendo Collier’s accettato di pagargli venticinque o trentamila dollari come anticipo sui diritti di serializzazione per un nuovo romanzo alla consegna delle prime quindicimila parole, smise di bere e si mise al lavoro con indomito entusiasmo, non scoraggiato neppure da un primo attacco di cuore nel novembre del 1940. Non riuscirà tuttavia a portare a termine The Last Tycoon (Gli ultimi fuochi), perché il 20 dicembre 1940 venne colpito da un secondo attacco di cuore, che gli fu fatale. Aveva solo quarantaquattro anni, e il dono e la grazia del successo lo stavano già abbandonando, ma forse quello che veramente aveva corteggiato Scott era in realtà l’esperienza drammatica della perdita, della sconfitta, del fallimento, dov’erano le trame invisibili e gli smalti fascinosi e seducenti di una tela di ragno, le note più profonde della sua musica naturale che lo aveva accompagnato per tutta la sua adolescenza.
(La morte della farfalla, Pietro Citati, Mondadori)

09 novembre 2006

"Ventidue passi d'amore" di Daniele Passerini

di Daniela Benaglia
Ero dalla parrucchiera - vicino casa - che si chiama Lorena, giusto per fare pubblicità al concorso internazionale di poesia, narrativa e pittura che stavo organizzando, quando una ragazza mi si avvicina...
Parlando le avevo raccontato di questo mio Premio e del libro di poesie che avevo pubblicato, "Maturando" edizioni OTMA di Milano.
Dopo diversi giorni mi arriva una telefonata proprio da questa ragazza che mi annuncia la presentazione a Como del libro di un suo caro amico che si chiama Daniele Passerini e che viene apposta da Perugia.
Comincio a spargere la voce e nel frattempo ho la fortuna di sentire direttamente l'autore tramite messaggi e telefonate dal cellulare e successivamente tramite e-mail. Non ho potuto essere presente quel sabato a Como ma è come se ci fossi stata. Dalla voce ho capito di primo acchito che questo ragazzo del '65 doveva essere una persona straordinaria... infatti qualche giorno fa ho avuto l'onore di confermare la mia tesi.
Come? Ci siamo scambiati i libri e nonostante sembrino tanto diversi, in realtà ho notato quanta voglia d'amare ci accomuna.

Nel mio "Maturando" ogni giorno, ogni data rappresentano la voglia di esternare questo immenso bisogno di amare e di trovare la famosa metà mela che è così difficile da riconoscere. Nel cammino d'amore di Passerini in Ventidue passi d’amore, edizioni Bonanno di Roma, è come se ci fosse una risposta ai miei perché e da qui si può affermare che niente capita mai per caso.
Nella vita tutto ha un senso e non serve nemmeno sapere quando si capirà. Accade e basta. Siamo parte di un meraviglioso tutto dove regna sovrano l'Amore universale.
Nella sua poesia "I confini" l'autore dice:

Tra un amore e l'altro
fingiamo che la felicità
dipenda da chi amiamo.

A volte non accettiamo i nostri limiti ed è più facile pensare che se non siamo felici la colpa non è nostra. Abbiamo questo bisogno estremo di sentirci amati che a volte trascuriamo l'essenza vera dell'amore, del nostro amore, quello che prima dobbiamo donare a noi per riuscire a trasmetterlo agli altri:

Il vero viaggio accade dentro,
a riabbracciar noi stessi.

Sono liriche profonde quelle di Passerini che sconfinano dalla quotidianità, si liberano dall'egoismo per donare a chi ha più bisogno. Nell'amore vi è anche dolore e la capacità di superare questo ostacolo porta alla gioia, pur vedendo l'allontanarsi dell'oggetto in questione. L'augurio poi, che la persona amata possa trovare la sua strada, mostra quanto l'uomo, prima ancora dello scrittore, prevalga e s'innalzi verso la luce stellata pur consapevole d'aver perso la donna a lui cara.
In Daniele la parola addio non esiste, bensì vi è la consapevolezza di un superamento dell'ostacolo, visto come essenziale per migliorare la sua vita e di chi non tornerà.
La sua poesia ha toni delicati e tinte a pastello per descrivere paesaggi del cuore, ma anche geografici, dove troviamo acque cristalline e farfalle, fiamme azzurre e angeli e dove sentiamo i sapori dell'amore nella poesia "L'inverno".
Anche quando sembra che lo scrittore si lasci andare al pianto ecco che nuovamente riesce a tranquillizzare il lettore terminando con l'umiltà nell'ammettere uno sbaglio.
Così in "Il pentimento"

[...] Cielo, piangi le mie lacrime.
Ecco dileguano le tenebre
si squarcia d'azzurro l'aria
capisco d'aver sbagliato:
tradito ho amor bramando.

Daniele Passerini con la sua storia finita male ci dice: esiste sempre la possibilità di continuare a navigare, anche nelle tempeste e nel buio più pesto.

Credo sia un ottimo spunto per risollevare gli animi anche quando tutto ci sembra perduto.

08 novembre 2006

"Walden" di Henry David Thoreau

H.D. Toreau
Walden, vita nel bosco
Donzelli editore
Noi vi avvisiamo. Se vi piace la retta via state lontani da Thoreau, è un demone! Vi porterà, oh sì che vi porterà in un posto dove non siete stati mai, ma non per la strada più breve e sicura.
Non ci si lasci ingannare da un nome tutto sommato sconosciuto in Europa, perchè se forse il personaggio vi dirà poco o niente, se vi sembrerà strano sentir parlare di lui come del Poeta, il maestro riconosciuto del cosiddetto "rinascimento americano", se non lo conoscete come l'ispiratore delle teorie di Gandhi e, oltre un secolo dopo la sua morte prematura a soli quarantacinque anni, dei movimenti ecologisti di tutto il mondo, allora senz'altro vi verranno in mente i versi che costituiscono il filo conduttore di una celeberrima pellicola di Hollywood, "L'attimo fuggente": "Andai nei boschi perchè volevo vivere con saggezza ed in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, per sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte di non aver vissuto".
Tenetevi forte perchè a volte corre, altre si ferma, Thoreau vi annoierà terribilmente tra le pagine di un testo insidioso persino nel suo formato editoriale, che nasconde in sole duecentocinquanta pagine uno scritto molto più lungo e 'ciondolante' di quanto sembri. E' lento, ma poi accelera vorticosamente e viene fuori una poesia senza precedenti che ti scuote, ti urta, ti sballotta qua e là. Potrebbe sembrarvi sconnesso, animalesco nel suo vagare. Vi parlerà della sua terra dei laghi, del lago di Walden presso Concord (USA), dove visse due anni a coltivar fagioli nei boschi, a scandagliare il lago, a immergersi tutte le mattine nelle sue acque azzurre, a pescare, a leggere i 'classici', in una serie infinita di gesti 'inutili' e dimenticati. Ma anche qui, lasciate stare il clima apparentemente fresco e paradisiaco, se non gelido; non vi lasciate sedurre, dove vi porta Thoreau fa caldo. Vi parlerà di selvaggi nudi, esposti al vento e alle intemperie, ma sudati. Noi in quello stesso posto batteremmo i denti, ma loro no, sudano per il fuoco che li arde dal di dentro. Vi parlerà della tribù dei Pari, dove esiste una sola parola per indicare il passato, il presente ed il futuro. "Il tempo non è che un torrente in cui vado a pesca".
Gran parte dei lussi e molte delle cosiddette necessità della vita - ci spiega Thoreau - non soltanto sono tutt'altro che indispensabili, ma sono autentici ostacoli per l'elevazione dell'umanità. "Per quanto riguarda i lussi e le comodità, i più saggi hanno sempre condotto una vita più semplice e grama dei poveri. Non è mai esistita una classe più povera nelle ricchezze esteriori, e più ricca in quelle interiori, degli antichi filosofi cinesi, indù, persiani e greci". "Leggevo poco, ma i pochi ritagli di carta che stavano a terra, che mi facevano da fagotto e tovaglia, mi intrattennero molto, e infatti risposero allo scopo dell'Iliade". E ancora: "Vale la pena di spendere giornate giovanili ed ore costose, per imparare anche solo poche parole di una lingua antica". Gli antichi non scrivevano semplicemente nel greco e nel latino che conoscevano, ma nella lingua esclusiva della letteratura. "Ci vantiamo di appartenere al diciannovesimo secolo, e di avanzare più rapidi di ogni nazione. Ma considerate quanto poco faccia questo villaggio per la sua cultura".
E poi pagine e pagine di autentico 'nulla', descrizioni di paesaggi incantati, laghi, valli, boschi, verghe d'oro, ghiaccio, disgelo, costruzioni di case, misure, costi di acquisto, descrizioni di esche per la pesca. Luoghi insoliti, barche, alberi in mezzo al lago. Bhagavad Gita. Combattimenti tra formiche degni, per i particolari, dei ricordi di Cesare in Gallia. Un demone signori, un demone! "Avevo tre sedie in casa mia; una per la solitudine, due per l'amicizia, tre per la compagnia". E che compagnia! Solo boscaioli, pescatori e poeti erano capaci o comunque trovavano utile e dilettevole andarlo a trovare, per poi magari consumare assieme un misero pasto, o digiunare in compagnia in luoghi metafisici.
"La domenica pomeriggio, se mi trovavo in casa, sentivo la neve calpestata dai passi di un contadino dalla testa lunga, venuto in cerca della mia casa da lontano fra i boschi, per una 'botta' di compagnia. Indossava un grembiule invece di una toga da professore, ed era altrettanto pronto ad estrarre la morale dalla chiesa o dallo stato che a sollevare un carico di letame dal suo fienile".
Se uno - ci ricorda in fine - avanza fiducioso nella direzione dei suoi sogni, e si sforza di vivere la vita che ha immaginato, incontrerà un successo inatteso nei momenti comuni. Si porrà qualcosa alle spalle, supererà un confine invisibile; leggi nuove, universali e più liberali cominceranno ad affermarsi intorno e dentro di lui.Leggetelo fino in fondo il vostro Thoreau e se, all'ultimo rigo, stanchi e storditi, con le gambe indolenzite e la lana stretta fra le mani, vi sembrerà di sentire le urla disperate di Polifemo, beh ricordate anche questo, non è il momento di mollare. Stringete i denti, state per arrivare in un mondo nuovo! (A. di Biase)
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ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano Addio al “Patto di stu...