30 settembre 2008

Insubria: la regione dei laghi prealpini


La voce Insubria non trova un facile riscontro enciclopedico perché il significato geografico e culturale di questo termine è stato rivalutato solo negli ultimi anni. Per ricostruirlo è necessario risalire all'etimologia della parola, che ha evidenti legami sia con il sostantivo 'Insubri' che con l'aggettivo 'insubre'.


Il dizionario Devoto-Oli ricorda che il termine 'insubre' è stato utilizzato da Ugo Foscolo come sinonimo di 'lombardo'. Questa definizione non è tuttavia sufficiente se si considera che gli 'Insubri' furono una popolazione celtica della Gallia Transalpina, stabilitasi nell'Italia settentrionale nel V secolo a.C. e sottomessa a Roma a partire dal 194 a.C. come ricordato dal medesimo dizionario.
Per dare una forma geografica al territorio insubre bisogna dunque ricordare che, secondo fonti autorevoli, il principale centro abitato della regione fu Mediolanum (l’attuale Milano), ma anche Como, Pavia, Novara, Lodi e Bergamo avrebbero fatto parte di questo territorio. Oggi, studi più recenti che restringono il campo di indagine, tendono ad identificare l’Insubria con la “regione dei laghi” a nord di Milano, comprendente certamente i bacini del Lario (Lago di Como), del Ceresio (Lago di Lugano) e del Verbano (Lago Maggiore).

Molto più difficile è invece identificare l’area secondo i canoni politici odierni, poiché la suddetta “regione dei laghi” comprenderebbe non solo le due province piemontesi di Novara e Verbania, e quelle lombarde di Varese e Como, ma anche il Canton Ticino, cioè la Svizzera italiana fino al massiccio del San Gottardo. Sul piano politico sono oggi molto attive le relazioni tra Como, Varese ed il Canton Ticino, al fine di rivalutare l’antica regione anche dal punto di vista culturale. Primo risultato di questa precisa volontà politica è stato l’istituzione, alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, dell’Università dell’Insubria, un ateneo statale con sedi principali a Varese e Como.
Autore: A. di Biase
Revisioni: 16-02-13
 
Fonti:
Dizionario della lingua italiana Devoto-Oli (Le Monnier-1971-rist.1984)
Enciclopedia universale (ed. Sole 24 ore - 2006)
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English version
It is not easy to find something into books about the word "Insubria" because its geographical and cultural meaning has been valued only in the last few years. Before we move on and in order to fix ideas, let's have a look at the etymology of the word and at its relationship with the noun ‘Insubri’ and the adjective ‘insubre’. The dictionary of Italian language “Devoto-Oli” tell us that the word ‘insubre’ has been used by the Italian writer Ugo Foscolo as synonymous of ‘lombardo’, in the meaning of “citizen of Lombardia”, which is an important region of northern Italy.
Nevertheless this definition is not proper if we consider that ‘Insubri’ were a Celtic population from “Gallia” established in northern Italy since the fifth century BC and subjected to Rome since 194 BC, as can also be found in the same dictionary.
Good sources report that the main town of this area was Mediolanum (the ancient name of Milan), but also Como, Pavia, Novara, Lodi and Bergamo were minor towns there. More recent studies are oriented to identify Insubria as the land of big lakes located in northern of Milan area: Lake of Como (the ancient name was “Lario”), Lake of Lugano (“Ceresio”) and Lake Maggiore (“Verbano”) are the three most representative.
Much more difficult it is to identify this land according to politics, because the above mentioned “region of big lakes” should involve the district of Novara, Verbania, Varese and Como plus, in addition, a part of Switzerland. Canton Ticino is in fact a land of Swiss confederation located along the river “Ticino” till Alps: geography tell us this is a part of Insubria too.
Today, political relationship among Como, Varese and Canton Ticino are strong in order to revalue the ancient region also from the cultural point of view. A first result of this specific political will was the institution of the
University of Insubria, at the end of the past century, a public university located in Varese and Como.

(Please consider this english text written by an italian mother tongue. Feel free to contact us in order to modify the text and correct mistakes. We apoligize for any misunderstanding).

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28 settembre 2008

Letteratura: Manzoni Alessandro

Nota enciclopedica
Alessandro Manzoni (Milano 1785, 1873) è stato uno scrittore italiano tra i più significativi del XIX secolo. Figlio di Giulia e nipote di Cesare Beccaria, sembra accertato essere nato a seguito della relazione tra la madre ed il più giovane dei fratelli Verri, Giovanni, sebbene il piccolo abbia preso il nome del marito di Giulia, il conte Manzoni.

Compie i primi studi presso istituzioni ecclesiastiche, a Merate, Lugano e Milano, dove Manzoni ha modo di conoscere il classicista Vincenzo Monti, il quale lascerà un segno indelebile nella sua formazione intellettuale, tanto da essere considerato un maestro.
Su invito di Carlo Imbonati, il compagno della madre dal quale erediterà la villa di Brusuglio di Cormano (MI), Manzoni risiede a Parigi nel 1805-10 dove frequenta un ambiente di stampo essenzialmente illuminista-razionalista ed ha modo di stringere un solido e duraturo legame con lo scrittore francese Fauriel, legame testimoniato dalla fitta ed importante corrispondenza che i due ci hanno lasciato.

Dal 1810 torna a Milano dove, a seguito di un periodo di crisi spirituale, abbraccia la fede cattolica e sposa Enrichetta Blondel (1808), una ginevrina che abbandona anch’ella la fede calvinista.
Qui il Manzoni conduce una vita serena, allietata dalla nascita di numerosi figli e, nel decennio dal 1813 al 1823, esprime al massimo il proprio talento letterario con la stesura degli Inni sacri, le Odi civili, le tragedie ed il suo unico importante romanzo, “I Promessi Sposi”, sebbene l’edizione definitiva di quest’ultimo sia da datarsi al 1842, dopo il periodo passato da Manzoni a Firenze, al fine di risolvere le importati questioni linguistiche che erano sorte con la prima stesura del “Fermo e Lucia”.

La seconda parte dell’esistenza di Manzoni è segnata dai lutti: nel 1833 muore Enrichetta, nel ’34 la figlia Giulia, altre tre figlie muoiono tra il ’41 ed il ’50, nel ’61 la seconda moglie Teresa Borri e nel ’68 uno dei figli maschi.
Manzoni morirà invece nel 1873 per i traumi dovuti ad una caduta accidentale.

Testimonianze del tempo lo descrivono come un uomo riservato, ma gentile ed affabile, sebbene balbuziente. Fu convinto sostenitore della causa dell’indipendenza italiana.

Opere più significative di Alessandro Manzoni
-In morte di Carlo Imbonati (1809).
-Gli Inni Sacri (1812-1822).
-Il Conte di Carmagnola (1818-19).
-Osservazioni sulla morale cattolica (1819).
-Adelchi (1820-22).
-Il Cinque Maggio e Marzo 1821 (1821).
-I Promessi Sposi (1821-1842).
-Sul Romanticismo. Lettera al marchese Cesare D’Azeglio (1823).
-Dell’invenzione (1850).
-La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859. Osservazioni comparative (1889, pubblicato postumo).
(A. di Biase)
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Fonti:
Manzoni (Gino Tellini, Salerno editore), Le Poesie (Salerno editore), Enciclopedia universale (ediz. Sole 24 ore), La letteratura italiana (Ediz. Corriere della Sera)
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25 settembre 2008

Nel mondo di Adamo


Abbarbicato sulla sudata vetta
Il Poeta trattiene infine la nodosa e tremante mano
Da quel ramo,
Là dove l'Uomo incautamente raccoglie.
(Gen 3,3)

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23 settembre 2008

I processi del secolo

I PROCESSI DEL SECOLO di Sabina Marchesi
© 2008 by Editoriale Olimpia S.p.A. ISBN 978-88-253-0183-0
Pag. 303 € 16,50

Il libro della Marchesi è un saggio sui processi (enigmi, retroscena, orrori e verità in trenta casi giudiziari italiani da Gino Girolimoni e Marta Russo), svoltisi in Italia dal gennaio 1900 al maggio 1998.
La scrittrice non solo ricostruisce i casi e le loro dinamiche, ma tratteggia l’ambientazione politica e sociale del tempo.
“I processi del secolo” è senza dubbio frutto di una lunga e accurata ricerca, alla quale deve essere riconosciuto un grosso merito.
Vengono riportati brani di giornali dell’epoca ed estratti dei processi.
La Marchesi racconta con tono asciutto, cercando di restare il più possibile neutrale, non nascondendo nulla, nemmeno i fatti più cruenti. Per scrivere questo genere di saggi non bisogna temere la verità, e l’autrice ce lo dimostra appieno.
Altro particolare del metodo di scrittura usato e che le rende merito, è che ha utilizzato vocaboli in voga nel tempo e dimessi nell’uso attuale. Ad esempio “infernotti” per cantine e “lestre” per radure utilizzate nel pascolo invernale.
La sua ricerca va oltre, inserendo anche gli usi e costumi dell’epoca di cui ci sta raccontando, le canzoni, i libri, i dialetti.
Troviamo storie dimenticate nel tempo o sconosciute ai più, accostate a quelle che sono rimaste impresse nella memoria collettiva, come ad esempio le vicende di Gino Girolimoni e Santa Maria Goretti.
Casi rimasti senza giustizia, dove magari degli innocenti hanno pagato al posto dei veri colpevoli, e processi dove sono stati condannati quelli giusti.
Possiamo leggere fra le righe le reazioni delle persone, notare come la gente si interessasse e partecipasse di più alle disgrazie altrui. La comunità nel bisogno si univa.
Oppure dispiacersi per delle motivazioni dettate dalla ignoranza.
Sicuramente un libro da leggere per chi si interessa di storie noir reali, dove i protagonisti, purtroppo, non sono personaggi inventati, ma persone vere, che hanno saputo commettere crimini orrendi. Dove, appunto perché lontano dalla dinamica di un giallo, vediamo che non è sempre vero che la giustizia trionfa. Dice Andrea Bedetti nella prefazione: “Ogni grande processo, volente o nolente, rappresenta lo specchio fedele del proprio tempo e Sabina Marchesi ci ricorda appunto ciò”.
© Miriam Ballerini
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21 settembre 2008

Letteratura: Francesco De Sanctis

   Francesco De Sanctis (Morra Irpino, 1817 - Napoli, 1883) è stato uno dei principali esponenti della cultura italiana del XIX secolo: critico letterario, professore al Politecnico di Zurigo e poi a Napoli, ma anche uomo d’azione durante il Risorgimento, legato al movimento mazziniano e successivamente a Garibaldi.

De Sanctis iniziò a studiare a nove anni, avendo ottimi precettori, ma non risulta chiaro se abbia frequentato scuole regolari.
Il salto di qualità dal punto di vista intellettuale avviene probabilmente in carcere, dal ’50 al ‘53, dove era finito a seguito della attiva partecipazione all'insurrezione napoletana del ’48: qui il nostro legge e traduce Hegel, Rosenkranz e Goethe.
Alla successiva e breve esperienza di insegnamento a Torino appartengono invece quelle lezioni su Dante che lo hanno reso famoso e che verranno raccolte, assieme ad una parte del lavoro svolto a Zurigo, nel volume “Saggi critici” (1866). Al periodo zurighese è legata anche la frequentazione degli ambienti della sinistra hegeliana (Passerini) e di quelli più fortemente influenzati dal pensiero materialista; qui, leggendo Proudhon, Heine e Schopenhauer, De Sanctis sviluppa il concetto di 'forma', che lo allontanerà dai primi, avvicinandolo progressivamente ai secondi, fino a mutare anche il proprio orientamento politico.

Governatore di Avellino nel 1860 (nominato da Garibaldi), fu deputato e successivamente Ministro dell’Istruzione del Regno d’Italia. La sua attività intellettuale proseguì poi e sostanzialmente si concluse a Napoli, dove fondò con Settembrini il giornale “L’Italia” e lo diresse fino al 1865.

Nel 1871, come professore di letteratura comparata, pubblica la sua “Storia della letteratura italiana”, ancora oggi un baluardo della nostra critica. Il volume sulla “Letteratura italiana del XIX secolo” verrà invece pubblicato postumo nel 1897, a cura di Benedetto Croce: qui furono raccolti i suoi principali scritti critici su Parini, Foscolo, Manzoni, Mazzini e Leopardi.
(A. di Biase)

Fonti: Enciclopedia universale (Ed. Sole 24 ore); Storia della letteratura italiana (Ed. Corriere della Sera).
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20 settembre 2008

"Il cerchio infinito" di Renzo Montagnoli

IL CERCHIO INFINITO di Renzo Montagnoli
© 2008 Edizioni Il Foglio ISBN 978-88-7606-196-7
pag. 69 € 10,00

“Il cerchio infinito” è la seconda silloge dell’autore mantovano Renzo Montagnoli. Dopo solo un anno di distanza dall’uscita del suo primo lavoro “Canti celtici”, il poeta ci presenta un libro piacevole sotto diversi aspetti: quello della poesia costituita da versi liberi di ampio respiro. Il loro senso, che come una spirale fatta di diversi cerchi riporta sempre al significato che Montagnoli ha voluto dare all’intero testo.
Di cosa ci parla l’autore? Ce lo spiega lui stesso nell’introduzione: “La vita, nel suo mistero, il tempo, nella sua incertezza, la distanza, nella sua imperfezione, sono il tema di questa silloge”.
Già nella prima poesia che porta lo stesso titolo del libro, troviamo la sera che acquieta e dà modo di pensare che comunque i giorni corrono. Da questo suo intimo pensiero passa a un ampio tutto “dove resta la polvere di anime spoglie, soffi di vita ritornati nell’eternità”.
Da sempre l’uomo si chiede perché si muore, cosa succede, dove si va a finire. Esiste una vita dopo la vita? E Dio? Temi grandi, troppo per noi piccoli esseri umani. E, come ben dice Montagnoli “Il problema è che l’uomo, per sua natura, tende a ridurre ogni cosa alla sua dimensione”.
I testi colpiscono il lettore, lo coinvolgono, tendono a condurlo a riflettere sulla propria esistenza.
Il poeta, uomo fra gli uomini, è vicino a chi legge, intimo, perché anche lui, come tutti, si pone gli stessi nostri interrogativi.
E lo fa compiendo un viaggio fra la natura sempre ben presente e solido valore:

PRIMAVERA

Raggio dopo raggio
s’infradicia il bianco
gocciolano allegre le grondaie
una carezza di sole
dà l’addio all’ultima neve.
………………………………

Confrontando l’età adulta a quella giovane, a come il tempo paia poco per chi ha già viaggiato tanto e molto per chi, invece, compie i primi passi:

CAMMINARONO INSIEME

Un nonno e un nipotino
a passeggio per il viale
lungo all’infinito per il piccino
breve come un istante per l’anziano.
……………………………………..

Oppure mettendoci di fronte a vite diverse per le quali il tempo ha una durata diversa, ma non per questo meno senso.
E l’ansia dell’uomo davanti al tempo che fugge, una paura che è solo umana, perché in natura lo si accetta e si compie il proprio destino, sia quello di una goccia d’acqua, minuscola o lo schermo ampio di un tramonto.
Alcune poesie sono delle vere e proprie meraviglie, ad esempio “Concerto d’anime” o “Dalla finestra”.
Montagnoli scrive con delicata attenzione e tenerezza, guardando al passato e, inevitabilmente, spingendo lo sguardo a quello che ancora deve venire.
Un libro che fa riflettere e riempie, ricco di “leggera” filosofia, recata alla portata di tutti.

© Miriam Ballerini
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19 settembre 2008

"Scomparsi a Urbino" di Sonia Bucciarelli

Sonia Bucciarelli*
SCOMPARSI A URBINO
Romanzo

Sembra la sceneggiatura di un film noir in bianco e nero questo romanzo di Sonia Bucciarelli, giovanissima studentessa al suo esordio letterario. La location è una cupa e misteriosa Urbino universitaria, popolata di presenze inquietanti, perfetta persino nella scelta della fortezza di Albornoz come lugubre simbolo della città. La storia, a metà fra il romanzo nero e il giallo poliziesco, intercalata da improvvise incursioni filosofeggianti, interpreta bene la dimensione esistenziale di una generazione fragile, sospesa fra il timore del futuro e il disagio del presente.

*Sonia Bucciarelli è nata nel 1985 a Guardiagrele (CH). Si è diplomata al liceo Classico “G. B. Vico” di Chieti ed è iscritta alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’università “Carlo Bo” di Urbino. Ama il cinema, la letteratura e la musica. “Scomparsi a Urbino” è il suo primo romanzo.
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17 settembre 2008

"Gli Indifferenti" di Alberto Moravia (1929)

di Roberta de Marco.

Il romanzo d’esordio di Moravia tratteggia in maniera impeccabile la parabola discendente della famiglia Ardengo, colpita dalla morte del capostipite e dal conseguente fallimento economico, in un periodo della storia di Italia dilaniato dal moralismo fascista. È un dardo che fa breccia nel cuore del problema sociale più preoccupante del momento: la decadenza morale dei ceti altolocati, in cui sembra non vigere più alcun tipo di legame affettuoso ma solo noia e distacco. Problema questo, che in altre nazioni, come l’Inghilterra, era stata riveduto e superato da cent’anni almeno.
La famiglia Ardengo consta di tre elementi, madre e due figli di sesso opposto, l’introverso Michele e la voluttuosa Carla. La signora di casa, Mariagrazia, non riesce a tenere salde le redini di una famiglia ormai allo sbaraglio, ossessionata com’è dall’essere impeccabile per il “cattivo” Leo Merumeci, che si fionderà nella gracile situazione di famiglia sfruttandone i punti deboli, come la brama di successo dei due rampolli e l’ingenuità della mamma. Approfitterà, infatti, dell’amore che la signora prova per lui al fine di procacciarsi le sue ultime proprietà, essendone creditore e inoltre si servirà dell'ingenuità di Carla per possederla fisicamente. Dopo aver saziato i suoi istinti, scomparirà, lasciando alla famiglia nient’altro che la sua ombra.
Lo stile è fluido e accattivante, la narrazione riesce a mantenere salda l’attenzione del lettore dall’inizio alla fine, merito di un’intercambiabilità continua di soggetti e punti di vista .
Moravia resta lì a spiare la situazione guardandola in un momento dalla toppa, poi da dietro le tende a un respiro dai due amanti, accompagnando come un regista, l’azione dei personaggi in ogni loro respiro. Vuole regalarci la verità, niente di più. E ci riesce. Il finale è quantomeno scontato e amarognolo un po’ alla Thakeray, quando in Vanity Fair ci dice tutto e niente di quel finale ricucito dalla perfida Becky Sharp.
In verità, gli indifferenti lasciano ben più che dei punti di sospensione; ci dicono che la realtà è malignamente scontata, che anzi, un giorno lo sarà a tal punto che lascerà in noi niente di più che l’indifferenza.

*Roberta de Marco ha vent'anni e studia lettere all'Università di Bari.
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Varese è Mondiale... anche per il Teatro

Vivere il Teatro con Paolo Franzato
Da Ottobre 2008 il nuovo corso per adulti

Ci ha lasciato nel mese di giugno con uno spettacolo (Theatrum Mundi) che ricordava una godibilissima e comprensibilissima torre di babele e chissà cosa ci sta preparando ancora per l'anno dei mondiali..... in verità la parola “mondiale” ben si addice al regista e pedagogo varesino Paolo Franzato. Egli, infatti, come ormai i suoi numerosi e fedeli estimatori sanno, nella sua formazione annovera incontri e lavori con i maggiori artisti del Teatro del '900, quali Eugenio Barba (Italia/Danimarca), Pina Bausch (Germania), Maurice Bejart (Francia), Carolyn Carlson (USA), Maureen Fleming (USA), Jerzy Grotowski (Polonia), Lindsay Kemp (Inghilterra), Johann Kresnik (Germania), Yves Lebreton (Francia), Ingemar Lindh (Svezia), Susanne Linke (Germania), Johanna Lopez (Brasile), Judith Malina (USA), Marcel Marceau (Francia), Hanon Reznikov (USA), Wim Vandekeybus (Belgio), Sasha Waltz (Germania). Fino alle raffinate tecniche del teatrodanza Butoh giapponese conosciute attraverso l'attività con i giapponesi Kazuo Ohno (fondatore del Butoh), Yoshito Ohno, Akira Kasai, Kayo Mikami, Chris Odo.

In tempi non sospetti Franzato ha cercato di mirare ad una formazione che non fosse legata alla cultura specifica di un solo paese. Tale patrimonio di stili e tecniche teatrali è stato appreso direttamente da questi grandi maestri mondiali che costituiscono la storia dello spettacolo contemporaneo.
Inoltre, un aspetto importante da sottolineare considerando le competenze e la passione pedagogica di Franzato, è il fatto che tale patrimonio viene a sua volta trasmesso alle migliaia di allievi che seguono le sue lezioni. Attori giovani o meno, nuovi o storici dei laboratori e dell'Accademia Teatro Franzato hanno il privilegio di sperimentare approcci diversi ed estremamente formativi. Queste ampie esperienze, maturate nel corso di anni, sono un po' la chiave interpretativa del sincretismo culturale di tanti spettacoli presentati all'interno delle rassegne “Teatro & Territorio”, di cui è in fase di preparazione la XIV edizione. Insomma: Paolo Franzato ci avvicina il lontano in sintonia con questo "evento mondiale" tanto atteso nella nostra città (i campionati del mondo di ciclismo n.d.r.).
Tutti pronti dunque al via: si incomincia nel mese di ottobre con un Corso di Teatro per Adulti della durata annuale svolto a Varese per la Stagione 2008/09, dal titolo “Vivere”, in dedica ad Hanon Reznikov (1950-2008).
Le lezioni si articoleranno con frequenza settimanale tutti i Mercoledì sera.
Materie di studio: training psico-fisico, Espressione Corporea, TeatroDanza, Mimodramma, Teatro Corporeo, Teatro Coreografico, Voce, Fonologia, Improvvisazione e composizione.
Verrà proposta un’esperienza pedagogica e formativa sulle relazioni attraverso la ricerca della pre-espressività, lo studio delle tecniche extra-quotidiane, un lavoro di sviluppo sensoriale e di esplorazione della globalità del corpo-mente, per riscoprire il corpo quale nostro primario strumento di contatto e comunicazione interpersonale e socioaffettiva. Seguendo le indicazioni dell'Antropologia Teatrale si vivranno situazioni di rappresentazione organizzata, in cui la presenza fisica e mentale del corpo si modella secondo principi diversi da quelli della vita quotidiana. Gli usi extra-quotidiani del corpo sono ciò che vengono chiamate tecniche, nelle quali sono individuabili ‘principi che ritornano’. Il lavoro verterà sulla ricerca delle energie dell’attore e dei livelli d’organizzazione del teatro, attraverso l’applicazione, la codificazione e la comparazione tra diversi stili e tecniche di arti teatrali, con relative trasposizioni sceniche, fino alla realizzazione di uno spettacolo.

Il corso si svolgerà il mercoledì sera a Varese, per un totale di 8 mesi, dall'8 ottobre 2008 a giugno 2009, c/o la Scuola Vivere Ballando in via Stadio a Masnago, Varese.
Non ci sono records da battere, tutti possono partecipare, la vittoria è assicurata.
Per le informazioni e le iscrizioni rivolgersi a Marco Rodio: tel. 339.6939801, tutti i giorni dalle h 12.30 alle 14 e dalle h 18 alle 21.

Per informazioni più dettagliate sulle attività del TEATRO FRANZATO navigate su
Libero circuito culturale, da e per l'insubria. Scrivici a insubriacritica@alice.it

14 settembre 2008

VENEZIA 65. In concorso

LA TERRA DEGLI UOMINI ROSSI
recensione di Bruna Alasia

Siamo in Brasile, nell’anno 2008, a Mato Grosso do Sul. I “fazendeiro” si godono i campi di coltivazioni transgeniche in compagnia dei “birdwatchers”, turisti venuti ad ammirare gli uccelli. Un tempo i legittimi padroni delle terre accaparrate dai fazendeiro erano gli indio, relegati oggi nelle riserve e costretti a lavorare in schiavitù: molti di loro, soprattutto giovani, rifiutano quella condizione e si suicidano. Per sfortuna e per necessità l’ennesimo suicidio sarà causa di una ribellione: un gruppo di Guarani-Kaiowà, capeggiati da un leader e da uno sciamano, reclamando la restituzione dei loro possedimenti, si accampano ai confini di una proprietà. Due mondi si guatano, si scontrano e confrontano, arrivando ad una guerra non priva di umanità che, come i Montecchi e i Capuleti, avvicina un apprendista sciamano alla figlia di un fazendeiro…
Questo l’incipit de “La terra degli uomini rossi” , il film di Marco Bechis, in concorso a Venezia, poetica denuncia sul genocidio degli indios dell’Amazzonia che, per citare Gian Antonio Stella, arriva a distogliere politici e giornalisti dall’oblio, anche se al Lido può essere accolto con “ la curiosità pelosa riservata alla corte di Isabella di Castiglia”.
Incredibile miseria, condizioni umane insopportabili, negli ultimi anni hanno spinto al suicidio cinquecento giovani solamente tra i Guarani-Kaiovà. Insieme racconto e documento, il film illumina sui problemi di questa popolazione con efficacia. Girato con attori non professionisti, ha personaggi credibili e spontanei; una colonna sonora toccante; un ritmo incalzante e fluido. Una fotografia rigorosa. “La terra degli uomini rossi” conferma Marco Bechis, acclamato regista di lungometraggi come “Garage Olimpo”, nel novero degli autori con la A maiuscola.

La scheda del film

Regia: Marco Bechis
Sceneggiatura: Marco Bechis, Luiz Bolognesi
Attori: Claudio Santamaria, Chiara Caselli, Abrisio Da Silva Pedro, Alicelia Batista Cabreira, Ademilson Concianza Verga, Ambrosio Vilhalva, Mateus Nachtergaele, Fabiane Pereira Da Silva, Leonardo Medeiros, Nelson Concianza, Poli Fernandez Souza, Eliane Juca Da Silva, Inéia Arce Gonçalves
Produzione: Classic
Distribuzione: 01 Distribution
Paese: Italia 2008
Uscita Cinema: 05/09/2008
Genere: Drammatico
Durata: 108 Min

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13 settembre 2008

Giulio Sordini, poeta romanesco: un sorriso in bilico che fa proseliti

di Augusto da San Buono

“Roma per me – ha detto lo scrittore Alberto Bevilacqua - è Scipione , Sordi , Fabrizi , Moravia e Proietti ; Roma è la città più accogliente del mondo, è un ventre morbido che non lascia cadere nessuno, è sensuale , è ospitale , accoglie tutti con grande civiltà”.

Roma , per me , invece, è tante altre cose , il Casermone , Donna Olimpia, Villa Pamphili, San Pancrazio , Villa Sciarra e il Gianicolo , con Garibaldi e Anita , a cavallo , con la pistola e il bambino in braccio , tutti ricordi di ieri , della mia infanzia , e poi c’è la Roma di oggi , più distante dal centro , più ovattata, più silenziosa , più verde, con il parco della Madonnetta, le vie quasi deserte dei pittori moderni di Acilia-Malafede, e quelle dei grandi artisti filosofi e letterati dell’antica Grecia dell’Axa-Palocco , con il verde e le quiete ville signorili adagiate nel verde geometrico delle aiole , e i versi di Giulio Sordini, con i suoi baffi alla Ronald Colman, i suoi occhietti ridenti , piccoli laser che ti trafugano dappertutto, con bonaria voracità, e poi il suo sorriso che apre porte e pensieri e fa proseliti nei circoli sportivi, nei ritrovi in, per le piazze e lungo i viali alberati , che t’invita ad un momento bello e conviviale, ironico , spassoso , senza preoccupazioni, insomma da “carpem die”.
E’ uno che ha la sua voglia d’avventura , gli piace andar per mare , il vecchio rugoso mare , a pescare pesci che poi magari si regalano alla gatta di casa , o per i boschi , da fine intenditore , a cercar elfi e funghi che stanno insieme lungo i sentieri tutt’altro che misteriosi di ciò che è rimasto della pineta di Ostia ; è uno che si porta appresso la sua natura cordiale di certi momenti di grazia , quando ognuno è un po’ parte dell’altro, quando si è “amici” perché inscindibili da qualcosa di comune e di immenso e ci si chiede dove possa risiedere l’amore , e si tenta di guardare in alto; uno che c’ha dentro il “fanciullino” pascoliano e la voglia , magari , di ripercorrere un sogno infantile ed eroico , come quello del trombettiere del Generale Custer , il mitico trombettiere del 7° Cavalleggeri , ch’era in realtà un romano nato in via delle Zoccolette , Giovanni Martini , passato alla storia come John Martin, l’unico scampato al massacro dei Sioux della famosa battaglia di “Little Big Horn” , quello che nei film di Ford viene ripreso in primo piano con la mitica tromba che sprona i soldati alla carica…..

Ecco, questo personaggio , questo amico dalle larghe intese e dagli orizzonti incrociati , che ha vissuto , ineluttabilmente, ogni tipo di esperienza umana , nei suoi sessantotto anni , farsi portatore d’una memoria a fior di pelle , con le sue tele a olio , i suoi pennelli , le sue spatole , i suoi colori, le sue misture , le sue alchimie , la sua pittura – di cui non parleremo in questa sede - , e le sue poesie , i suoi versi romaneschi , che corrono sul filo della tradizione , sul tam tam inevitabile di un Gioachino Belli , genio poetico senza pari, di livello europeo e dunque mondiale , in perenne bilico tra sarcasmo e malinconia, giocosità e tragedia , barocco e grottesco, rito e maschera, speranza e disperazione.
Certo, i tempi sono cambiati e anche la lingua , corpo vivo in costante evoluzione , non è più la stessa , ma lo stile e la voglia di popolo, un popolo cinico, satiresco, con la battuta sempre pronta, sì, è la stessa . Non a caso , Giulio è antico figlio di Testaccio, il quartiere “core de Roma” , dove iniziarono le imprese della squadra di calcio e dove un tempo le vie erano piene di cocci e di ragazzini colle toppe ai calzoni , e i buchi ai calzini che giocavano con una palla quadrata e le madri affacciate dai balconi , li chiamavano a squarciagola , spesso minacciandoli con improperi e parolacce perché era l’ora della cena e quelli non volevano proprio saperne di salire a casa, per non parlar d’andare a letto. ( “A ma’ che ‘n te ricordi / che quanno ero coll’artri piccoletto/ facevamo finta d’esse sordi/ se strillavi. E’ ora d’anna’ a letto!”)

Intelligente , fantasioso e tenace , il ragazzino ha studiato, si è laureato, ha vinto concorsi, è divenuto un avvocato, un Signor Dirigente, ha messo su famiglia , ha lasciato il suo quartiere per trasferirsi all’Axa, terra bonificata che ora sa di salici e di magnolie, di palme e kiwi, un vasto giardino odoroso, un moderno Eden di cui è padre pellegrino , e - possiamo ben dirlo - una sorta di Sindaco in pectore della zona dei villini. E se ci fosse una elezione nel quartiere , sarebbe sicuramente il primo ad essere votato. Lui ci farebbe su una battuta, perché , lo conoscono tutti, in zona, è un artista dell’auto- ironia , non si prende mai troppo sul serio, sa essere umile, irride alla retorica e a ogni megalomania. Da buon romano sa prendere le distanze da grandezze fasulle , un “no grazie” e una buona risata , in questi casi, è sempre la migliore delle terapie. Sa che ogni cosa della vita è costantemente erosa dalla sua stessa vanità.

Ma da vecchio equilibrista sul filo senza rete della fantasia , che vive di emozioni e di sentimenti, da uomo sanguigno e inappagato , che ha necessità di estrinsecarsi , eccolo cimentarsi nell’esercizio della nobile e difficile arte della poesia , cercar di conferire alla parola la fissità e al tempo stesso la mobilità di una farfalla, l’incisività di una massima scolpita su una lastra di marmo. “La vita è come sta’ s’un treno in corza:/ guardi er panorama da li finestrini, / ariva la galleria e la luce te se smorza”.
La poesia Giulio ce l’aveva dentro , anzi lo chiamava , di tanto in tanto, ma lui non voleva ascoltarla , aveva tante altre cose a cui pensare, tante altre cose da fare. La carriera , metter su famiglia , farsi una posizione sociale, una vita stabile e agiata. Ma una sera , all’Axa …“ Era d’estate ‘na notte un sacco bella,/ faceva un callo che nun se respirava, / la luna tonna come ‘na padella/ arta su ner cielo sbrilluccicava… ’Na regazza bella e trasognante / stava ar davanzale tra li fiori , / salutava timidetta er suo amante… La poesia gli apparve ed ecco ‘che “ De la tastiera co’ l’accompagnamento/ er canto me sdurcinava er core/ e la maggìa forte di quer momento/ me scancellò de dosso ‘gni dolore”.

Era bastato solo che si ponesse all’ascolto, ora la poesia fluiva da ogni dove , da rami dei pini del viale dei Pescatori, ma anche dai rovi , sterpi, grovigli, fogliami caduti, muffe, dalle zanzare, dai fiori tristi, dai vermi , dalle erbe opache , dall’albicocco che molti anni fa piantò nel suo giardino, dagli anfratti della memoria dell’infanzia e dell’adolescenza con tutta una sequela di personaggi memorabili.
Er Sor Enzo che “S’accomodava davanti ar portone/ su na sediaccia mezzo sgangherata, / appoggiava er barbozzo sur bastone/ pe’ passa’ così tutta la serata”, Gastone er cassamortaro, e Giggi er bullo, una specie di Rugantino dei tempi nostri . Sordini , con un magica stecca da biliardo, tocca questi personaggi , li fa rotolare e li manda in buca , uno dopo l’altro con perfetta carambola, oppure capita che la biglia arriva in fronte allo stesso Giggi er bullo e “ je fece ‘n corno grosso come un monte, / da cura’ giusto ar pronto soccorso”.

Poesie scopertamente ironiche, piene di umorismo, di sapidità, ma anche di malinconie. Poesie romanesche che danno voce al popolo, a quel che di popolo è rimasto ancora di Roma , con la sua proverbiale arroganza e cialtroneria . Ma non esistono più i Rugantino, oggi c’è un umorismo pesante, materiale , e una violenza di stampo orientale. Da Pasquino, a Trilussa, via Zanazzo e Pascarella, oltre al grande Belli già citato , da Filippo Chiappini a Mario Dell’Arco, da Aldo Fabrizi a Mauro Marè , - laureato in giurisprudenza come lui, - Sordini appartiene a quella pletora di poeti romaneschi con il sorriso sulle labbra e il coltello non solo tra i denti, - come annota Flavia Weisghizzi, - ma nel cuore, perché è poesia fatta di attese di un rimorso prevedibile, di una diminuzione necessaria di se stesso.
La sua poesia – scrive Sara Morina – è immediata, incisiva, ironica, bella e profondamente umana, una serie di ritratti in corsa, di flashes irrelati, come l’incontro con la bimbetta al semaforo in attesa del verde: “Me sorideva mezza sdentata/ in punta de piedi stava arzata/ , arivava appena allo sportello, / du’ occhioni neri, er muso bello“.

Poesia che riflette l’uomo con le sue miserie e le sue crudeltà, i suoi gesti sublimi e le sue cose immonde , le sue speranze e le sue disperazioni , i suoi rimorsi ; è una ricerca del vero , come annota Diana Palma, un viaggio lungo le strade e le sponde dell’io , una ricerca di traiettorie di salvezza in un mondo che sembra inevitabilmente chiuso all’avvenire . “Le onde sul mare / si son spente/… Nero di seppia/ sporca il cielo/ e tutte le altre cose” , un ripiegamento su se stesso, sui suoi mancamenti verso gli altri , su i suoi fallimenti di padre, marito, uomo che cerca la felicità e non riesce a trovarla: “Tutta la vita a guarda’ pe’ tera/ a la ricerca de la felicità, / quella che sempre dura, quella vera/ e sino a mo’ l’ho ancora da trova’”.

Con tutta la sua umanità, la sua generosità, la sua simpatia , il suo vivo senso dell’ospitalità e del dialogo , la sua cultura , la sua intelligenza , la sua capacità dialettica , il suo modo di essere romanesco anche senza usare le parole ( il romanesco , infatti , come qualcuno ha osservato, è un comportamento, più che un dialetto o un gergo) , che ne fanno un amico davvero straordinario e delizioso , pieno di grazia e complicità ( non a caso Giulio ha tanti amici sparsi un po’ dovunque) , Sordini in realtà soffre di solitudine e la poesia , che è una sorta di altra vita, tra fuori e dentro, tra l’altro e noi, tra l’istinto animale e il collegamento divino, tra il reale e l’inconscio, registra questa sua grande solitudine, i fallimenti , le inevitabili sconfitte , i grigi silenzi, i dolori, le svanite epifanie, le indifferenze, i mancamenti della coscienza, i rimpianti, le parole non dette “. ”Quanno ripenso a mamma mia/ er core me se strigne drent’ar petto, / sento er rimpianto e la nostalgia/ de dije quer che mai j’ho detto…, le preghiere salite al cielo come tracce di speranze: “A ma’, sì è vero che me senti, / me piacerebbe accarezzatte er viso, / poi quanno li lumi se so spenti, / venitte a trovà in paradiso”.

La sua poesia ha un valore proprio per questa sua capacità di farci ridere e commuovere, con l’ordinarietà delle cose di cui è fatta l’esistenza, con la semplicità dei sentimenti di sempre , con l’oro del cuore che conosce cose che la mente non sa, disse Pascal, ma anche con quella sua indubbia maestria di saper mescolare i toni e i colori, come si fa con la musica e la pittura , che sono in fondo le altre scusanti dell’esistenza, per questa sua vita sempre in corsa tra la matematica delle futilità dei tornei di Burraco , e la chimerica felicità da tutti inseguita , la triade dei “soldi sesso e potere “, per questa altalena costante di rimorsi ( vds. Zahrà, San Francesco) in cui noi , - “omini de panza”- , viviamo tutti i giorni per i molti, troppi diseredati della terra che incontriamo ai semafori , - dove sostiamo con le nostre macchine “de panza” , i Suv, che difendono e offendono, che fanno il vuoto intorno a sé, - per i troppi bambini che muoiono di fame ogni giorno, anzi ogni minuto, e per quel dubbio , quel rovello che ci portiamo dietro sull’aldilà, sul giudizio finale che è l’epitaffio di Giulio: “Siederò sull’orrido abisso/ col cuore tremante/ che palpita ancora/ per te”.

Un’ impalcatura , quella di Giulio Sordini, sospesa tra malinconia e ironia , tra attese e delusioni, speranze e amarezze , apparenza e realtà ( tutto è vero, niente lo è) , una dimensione in bilico ora fatta di irrequietezze , ritrosie, scontentezze , sconforto, vuoto , aride carcasse d’umano; ora di pacata dolcezza ,incantamento, ebbrezza, amicizia del cuore, un passaggio, un transito da una stagione all’altra , tutte impassibili nella loro tenace assurda voglia di rinascere , e lui sempre in bilico, tra stupore e risata, con il suo sorriso. La sua poesia è un sorriso ironico e , insieme , dolente che resta sospeso nell’aria , in bilico, ma che si propaga e fa proseliti, senza nessuna fatica.
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10 settembre 2008

Recensione: il "Manzoni" di Gino Tellini

'I classici' di A. di Biase
Gino Tellini

"Manzoni"
Salerno editrice - 2007
pp. 376

Quella del Tellini - che insegna letteratura italiana a Firenze - è una biografia sul Manzoni estremamente dotta e quindi, va detto, non adatta ad una prima lettura sull'autore milanese.
L'opera è invece interessante laddove si punti all'approfondimento, soprattutto per quanto riguarda il legame tra l'uomo e la sua opera.

Dello scrittore si parla come di un uomo inquieto, credente ma senza eccessi, figlio illegittimo e nipote di Beccaria, balbuziente, non eccessivamente perspicace, sebbene coltissimo, e all'apparenza "quasi minchione".

Il volume ripercorre per intero la storia dell'opera manzoniana, ma le parti più interessanti sono quelle che si soffermano sulla lunga gestazione del Romanzo, dal "Fermo e Lucia" alla Ventisettana, fino alla completa "risciacquatura in Arno" dello scritto, la quale fornirà non solo un nuovo capolavoro alla nostra letteratura, ma anche e soprattutto un nuovo modello, oggi possiamo forse dire quello definitivo, alla lingua italiana.


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08 settembre 2008

Recensione: "La libertà interiore" di Marco Aurelio

'I classici' di A. di Biase
Marco Aurelio
"La libertà interiore"
Oscar Mondadori

Pag. 118
Euro 7,00


Scelto una mattina d'agosto alla Libreria di Corso Buenos Aires a Milano, dove c'era anche lo sconto del 30% sugli acquisti, mi sono ritrovato in mano un libretto denso denso, quando ancora non sapevo il volume essere stato curato da uno dei più importanti uomini di cultura varesini, Silvio Raffo. Più di tutto ero stato attratto, non so perché, dall'immagine di copertina, che non ha tradito.

Marco Aurelio (II secolo d.C.), uno dei pochi uomini della storia a saper davvero congiungere la vita del filosofo a quella di principe di uno dei più grandi imperi di tutti i tempi, ci ha lasciato - sono d'accordo con Raffo - quello che può essere considerato un modello per tutta la letteratura diaristico-aforistica successiva.

Culturalmente figlio di uno stoico e di un grande retore dei suoi tempi, Marco Aurelio incanta per la serenità del pensiero e non a caso il volumetto, ricchissimo di spunti per la riflessione, è inserito nella collana "Saggezze" di Oscar Mondadori.
Che cosa è la filosofia? si chiede Marco Aurelio se non serbare intatto il proprio demone interiore, trionfante sui piaceri e sui dolori? Che cosa è mai la vita se non un eterno presente?

Il filosofo romano insiste inoltre sulla necessità di essere consapevoli del continuo fluire della natura, di vivere sereni ed in armonia con essa senza temerne i mutamenti, poiché non vi è mai niente di sconvolgente in ciò che è naturale. "Adattati alla sorte che ti è toccata - ci dice - e ama gli uomini tra cui ti è toccato vivere, ma amali veramente.
Essere buoni? Sì, sembra indicare l'autore latino, ma senza troppi condizionamenti moralistici: "Non discutere più di come debba essere l'uomo per bene, ma siilo".

Addirittura scintillante è l'associazione, promossa dallo stesso Silvo Raffo nell'introduzione, tra il pensiero aureliano che ci invita a scavare dentro di noi - perché lì è la fonte del bene che può zampillare inesauribile - e la più tarda, più famosa, ma non meno significativa massima agostiniana: "Redi in te ipsum, in interiore homine habitat veritas".

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Rev: 15-05-2013

05 settembre 2008

Recensione: "Le poesie" di Manzoni

'I classici' di A. di Biase
Alessandro Manzoni
"Le poesie"
Editrice Salerno - 2005
- Pag. 416

La critica più recente all’opera di Alessandro Manzoni tende sempre più spesso a smarcare l’autore milanese dall’immagine di scrittore compassato e stantio, che è associata ad uno dei principali classici della nostra letteratura. Le Poesie di Manzoni presentate da Salerno Editrice (2005), in una edizione tascabile ma non per questo poco pregevole (anzi è ideale per un regalo non impegnativo, ma di pregio), non sono solo poesie in senso stretto: vi è infatti un po’ tutta l’opera in versi dello scrittore di Brusuglio, catalogata in buona parte secondo il suggerimento del medesimo, che aveva l’abitudine di riconoscere o disconoscere la propria produzione apportando la dicitura “rifiutata” in testa agli scritti non giudicati all’altezza. Naturalmente la critica postuma non ha potuto che considerare tutta la produzione manzoniana, ma è rimasta in uso una differenziazione tra le poesie “riconosciute” e quelle che non lo sono.
Ci sono, è bene dirlo, i classici come “Il 5 maggio”, ma anche tutti gli “Inni sacri” e “In morte di Carlo Imbonati”.

Le parti però più interessanti sono quelle che tradiscono il gusto del Manzoni, come la considerazione – certo non nuova fra i classicisti –, per il VI canto dell’Eneide. Sempre importanti a questo proposito sono da leggere, in appendice, la prima parte della celeberrima “Lettera sul Romanticismo”, scritta nel 1823 a Cesare D’Azeglio, nella quale il Manzoni prende le distanze dalla mitologia, oppure (ma qui il linguaggio non è semplice) il dialogo “Dell’Invenzione” sul rapporto tra idee e realtà.

Tra i più delicati, sebbene non riconosciuti, vi sono alcuni versi “Per le scuole infantili”, mentre di gran lunga i più buffi (ma ci sarebbe da riflettere), sono quelli che riportiamo con i quali il Manzoni salutava il suo accoglimento nella “Accademia dei Sepolti di Volterra” (1822):

Manzon qui giace ne’ suoi versi involto
Veramente accademico sepolto

Manzon tra i dotti di Volterra accolto,
Prima che morto, giace ivi sepolto.

(A. di Biase)
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ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

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