28 febbraio 2013

Libri: "La storia dell'A.L.B.A." di Alessandro D'Ascanio

 
  Alessandro D'Ascanio, che collabora con la cattedra di Storia contemporanea dell'Università "D'Annunzio" di Chieti, e che si mostra particolarmente interessato alle vicende del Ventennio, è autore di un volume dall'argomento singolare.
Nei primi anni Quaranta del Novecento infatti, il bacino minerario asfaltifero della Maiella attirò l'interesse del Regime, il quale aveva urgente bisogno di sviluppare nuovi metodi di produzione di combustibile per autotrazione, avendo le vicende della guerra tagliato fuori l'Italia dalle linee di approvvigionamento petrolifero mediorientale.
Alla fine, come sappiamo, andò tutto per il peggio, ma per un intero biennio la società A.L.B.A. (Azienda Lavorazione Bitumi e Asfalti) controllata da IRI e Agip, tentò di rendere redditizia una nuova tecnologia in grado di estrarre olii minerali dalle rocce asfaltiche del bacino abruzzese.
Secondo D'Ascanio la vicenda consente di mettere in evidenza, tra le altre cose, i meriti del Regime nella razionalizzazione dell'attività estrattiva sulla Maiella.
 
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Alessandro D'Ascanio
STORIA DELL'A.L.B.A.

Un tentativo autarchico di politica petrolifera
nell’Italia dei primi anni Quaranta
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-7497-792-5]
Pagg. 184 - € 14,00
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AdB

27 febbraio 2013

"Sam Szafran: 50 anni di pittura" dall'8 marzo a Martigny (Ch)



Szafran, un cognome il cui suono profuma di buono il colore, il colore che l'artista declina con costanza e ossessione allineando via via i suoi pastelli.

Il pubblico della Fondation Pierre Gianadda di Martigny ritrova dopo più di dieci anni questo artista: ne aveva apprezzato i Laboratori dalle suggestioni quasi surrealiste, le Scale, che sfidano la prospettiva, e le sue cascate di verde dove si rileva una presenza furtiva di donna. Questi temi ritornano e coinvolgono il fruitore anche in forza delle due ceramiche monumentali che adornano il padiglione didattico della Fondation e che ripropongono, in un disegno dalla semplicità disarmante i due temi della scala, con il suo richiamo fortissimo al vuoto, e del feuillage (il fogliame) che si distende lungo la parete.

Il legame di Szafran con la Fondation Gianadda, oltre che da queste presenze permanenti, è testimoniato dalla donazione di una serie splendida di fotografie di Henri Cartier-Bresson.


Chi è Sam Szafran?

Nato a Parigi il 19 novembre 1934, da genitori ebrei emigrati dalla Polonia, Sam Szafran cresce nel cuore delle Halles. Suo padre muore all'inizio della guerra e il bambino è affidato ad uno zio severo. Troverà tenerezza solo presso i nonni. Col nonno frequenta la sinagoga di Guimard. Nascosto nel Loiret, presso dei contadini che lo maltrattano, alla fine trova rifugio presso dei repubblicani spagnoli. Si salva per miracolo dal rastrellamento del Vel’d’hiv nel 1942 ed è poi dichiarato “pupille de la nation”. La Croce Rossa lo invia in Svizzera, nei pressi di Winterthur, e qui rimane per due estati. L’artista confida che “furono quelli i soli momenti felici della mia adolescenza”. Impara a nuotare e a disegnare e il futuro grafico Jean Widmer ne rileva le capacità.

Nel 1947 con la madre e la sorella si imbarcano a Marsiglia per raggiungere a Melbourne uno zio materno là emigrato dopo il 1937. Dopo tre mesi di scuola per imparare l’inglese, comincia a lavorare: fa il magazziniere, il commesso di drogheria, il galoppino di un giornalista sportivo. Mostra in quegli anni un grande interesse per l’immagine e frequenta la biblioteca di Victoria dove può guardare in particolare i libri sulla pittura inglese: Hogart, Reynolds, Turner, ecc. È un periodo di grande fatica e di sconforto in cui aspetta con impazienza di poter rientrare in Francia. Nel 1951 è di nuovo a Parigi dove sopravvive accettando lavoretti vari, tra cui quello di interprete traduttore presso l'American Express. Si iscrive nel frattempo ai corsi di disegno organizzati dalla città.

Da allora, l’arte diventa il salvagente del giovane lavoratore. Nel 1953 comincia a frequentare gli insegnamenti della Grande Chaumière dove per quattro anni disegna con passione, animato da una grande curiosità ma anche dallo sguardo limpido dell’autodidatta. Il metro, le scale, le cantine, i passanti del Palazzo di Giustizia sono il suo atelier: scruta, traccia, sperimenta la prospettiva. Frequenta diversi gruppi a Montparnasse, poi nel quartiere Saint-Germain, dove scopre il jazz. Incontra poi nel 1954 Roseline Granet, che acquista le sue prime opere e lo sosterrà per molto tempo. Conosce Alberto e Diego Giacometti, poi Yves Klein, Tinguely e Riopelle.


I pastelli

Nel 1960 riceve una scatola di pastelli, che sono per lui una sorta di rivelazione. Abbandona la pittura ad olio e adotta questo mezzo espressivo, al quale si dedica totalmente per un decennio. Nel 1963 sposa Lilette Keller, originaria di Moutier nel Jura svizzero e un anno dopo nasce il loro figlio Sébastien. Dopo dieci anni di fatiche, migliora anche la situazione economica dell’artista. Jacques Kerchache che incontra nel 1965 gli offre la sua prima mostra personale. Importanti sono le amicizie che maturano in quegli anni: con il poeta libanese Fouad El-Etr, che più tardi lo coinvolgerà come disegnatore nella rivista La Délirante da lui fondata, e Henri Cartier-Bresson che prende lezioni di disegno da Sam.

Per tutti questi anni Szafran non ha un vero atelier, ma lavora in luoghi lugubri e inadatti, fino a che scopre nel 1974 un’antica fonderia a Malakoff, dove ancora oggi vive e lavora.
Egli utilizza la tecnica del pastello con un raro talento, saggiando le numerose sfumature che da esso è possibile trarre. La storia del pastello in Francia è lunga e prestigiosa: nel XIX secolo viene usato per i ritratti (Manet, Toulouse-Lautrec, Degas), per i paesaggi (Delacroix, Millet); si rivela perfetto per tradurre le impressioni fuggevoli dell’impressionismo (Boudin, Monet, Renoir) e trova in Degas un interprete sorprendente. Nel XX secolo molti artisti ne fanno uso, da Delaunay a Balthus, Matta, Atlan. Ma è proprio Szafran a proporre un nuovo rinascimento di questa tecnica. Egli riconosce la qualità eccezionale dei pastelli fabbricati dalle sorelle Roche, rue Rambuteau, che diventano sue fornitrici esclusive a partire dal 1963.
La poetica e i temi

All’inizio, Sam Szafran si muove in ambito astratto, influenzato da Nicolas de Staël e da Jean-Paul Riopelle. Così come per un certo tempo è interessato alla materia insolita e densa di Dubuffet. Non è però a suo agio in questo percorso per cui torna alla figurazione. I suoi primi pastelli, verso il 1960, sono dei Cavoli, che gli ricordano la cucina dei paesi della sua infanzia, le sue radici polacche, e che diventano il pretesto per delle sottili sfumature, per una metamorfosi continua, per una vera attività organica. Ecco poi i suoi Atelier, che rivelano una grande teatralità, fatta di mobili, trespoli, cornici coinvolti in un intenso disordine. Alcuni sembrano il luogo di un dramma passionale al quale Szafran risponde con delle disposizioni quasi ossessive dei pastelli.
Nel 1972 prende avvio per Szafran l’avventura dell’Imprimerie Bellini, così denominata in omaggio al pittore italiano. Si tratta di un atelier di litografia creato dall’artista con due soci. Con il carboncino o il pastello Szafran racconta questo atelier, con l’alta macchina da stampa, i suoi ingranaggi e i suoi rulli di inchiostro. E lo fa incessantemente, a lungo, sperimentando nuovi angoli di lettura e luci differenti.

Le sue prime lezioni sul vuoto, Szafran le riceve dallo zio severo, in una tromba di scala. Egli sceglie questo tema “perché era un problema da risolvere…”, ma molto presto la Scala diventa terreno di sperimentazione, diventa costruzione mentale. Curve sinuose con una rampa come una voluta, effetti di scarpata, zoom in avanti, l’artista si prende gioco della prospettiva fino alla vertigine. In certe opere, questa vertigine si traduce nell’esplosione di colori che diventano tinte pure. Richiami del vuoto che si traducono in visioni panoramiche deliranti.

Infine l’ultimo tema: il Fogliame. La passione di Szafran per le piante risale all’epoca in cui ha lavorato nell’atelier di Zao Wou-Ki: “ero affascinato da un magnifico filodendro che risplendeva al di là della vetrata…”. Fino all’ossessione l’artista disegna delle serre invase dalle foglie, un’invasione di vegetali dove appare in contrappunto Lilette in kimono seduta su una seia o una panca Gaudì.
È questo percorso e sono questi i temi che, mediante incisioni, dipinti, pastelli e acquerelli, la Fondation Pierre Giandda di Martigny propone nei suoi ampi spazi dall’8 marzo al 16 giugno, per raccontare cinquant’anni di pittura di Sam Szafran, un artista discreto che pratica la sua arte in un modo tutto personale, distaccato dalle mode, ma assistito da una prodigiosa capacità espressiva.


- Antoinette de Wolff-Simonetta -


La mostra è curata da Daniel Marchesseau.
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FONDATION PIERRE GIANADDA

Rue du Forum 59 - 1920 Martigny (Svizzera)

Tel.: (+41) 27 722 39 78

Informazioni in Italia: 031.269393 


Orari: tutti i giorni: 10 - 18

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26 febbraio 2013

Bilancio europeo fra rigore e miopia economica e politica!



 
Il Consiglio europeo ha varato il “budget di crisi” 2014-2020 - Il voto contrario dell’Europarlamento di Strasburgo - Le incognite dell’ “esercizio provvisorio”.
di Antonio Laurenzano
Separati in casa! Chiusi tra opposti egoismi nazionali, lontani da ogni apertura verso un progetto unitario, i 27 Capi di Governo hanno varato nei giorni scorsi il bilancio dell’austerità 2014-2020, il primo della storia dell’Unione a subire tagli: gli impegni di spesa scendono a 960 miliardi, con una variazione in meno rispetto al settennato precedente pari al 3,5%.
Da Bruxelles è arrivata una cartolina di un’Europa politicamente piccola e miope. Un “bilancio rattrappito” attorno all’1% del Pil (negli USA supera il 22%), firmato dai Paesi membri dell’Ue che -riducendo la…taglia del bilancio comunitario- hanno preferito considerare i contributi nazionali più un costo che un investimento. Assurdo! In una economia recessiva, mentre il mondo per superare la crisi investe, l’Europa taglia! Con buona pace della crescita e della disoccupazione (12%)! Il futuro…può attendere.
Tre i fronti in scontro: il Nord rigorista guidato da Gran Bretagna, Germania, Olanda, Svezia e Danimarca che chiedeva più tagli e difesa degli “sconti” alla contribuzione europea, il Sud con Francia, Italia e Spagna che voleva salvare la spesa per i fondi agricoli, il fronte dell’Est con Repubblica Ceca e Polonia che voleva salvare i fondi di coesione. Alla fine è’ prevalsa l’insolita alleanza anglo-francese, tutti… contenti: sono calate le spese nella ricerca, nelle infrastrutture tra paesi e nelle reti dell’energia. A decidere quantità e qualità delle spese e delle entrate dell’Ue non è stato un coerente e lungimirante progetto di costruzione europea ma la semplice e disordinata sommatoria di interessi nazionali in campo. Ancora una volta, a disegnare la rotta da seguire è stata la Germania “uber alles” di Angela Merkel sempre meno sensibile al valore aggiunto offerto dalla dimensione europea e sempre più convinta che….”nazionale è bello”! La storia da quelle parti non ha insegnato nulla!....
Quello che ha più colpito gli analisti europei nell’equazione del rigore contabile è stata la miopia delle scelte: ritoccate al ribasso tutte le rubriche di spesa mirate a rilanciare crescita e competitività, in grado cioè di mettere l’industria europea al passo con la concorrenza globale. Abbassate le leve dello sviluppo, azzerate le aspettative di aumento della produzione e quindi della occupazione nella errata convinzione che gli investimenti interni agli Stati membri rendano di più rispetto a quelli made in Europa, perché più efficaci e controllati. Peccato che sia sfuggito un…particolare: ci vogliono economie di scala europee per ammortizzare al meglio i mega investimenti necessari per porsi all’avanguardia della innovazione, in un mondo globalizzato.
Per riprendere il cammino della crescita occorre affiancare infatti al rigore del bilancio, affidato ai singoli Stati membri, la realizzazione di importanti investimenti coordinati a livello comunitario in quei settori strategici per i quali “l’unione fa la forza”: infrastrutture, tecnologia e ricerca. Solo così l’Ue potrà recuperare sui mercati internazionali credibilità all’esterno e coesione sociale al suo interno, mettendo il suo bilancio al servizio della solidarietà e della sostenibilità.
Sul bilancio 2014-2020 incombe ora la bocciatura del Parlamento europeo. Sono compatte le quattro principali famiglie politiche che compongono l’Assemblea di Strasburgo: popolari, socialisti, liberali e verdi per le quali “il compromesso raggiunto dal Consiglio europeo non è assolutamente all’altezza delle sfide che ci attendono. Necessita un bilancio capace di sostenere la ripresa europea e contribuire a superare l’attuale crisi economica e finanziaria attraverso investimenti nella ricerca, nella formazione, nell’educazione e nella politica di sviluppo”. Eloquente il giudizio di Hannes Swoboda, capo dei socialisti: “Questo bilancio fa morire di fame l’Europa!”
Dal voto dell’Europarlamento di Strasburgo, previsto in maggio, la risposta per scongiurare l’esercizio provvisorio (approvazione di bilanci annuali) e quindi l’azzeramento dei grandi progetti di sviluppo pluriennale che hanno bisogno di prospettive di ampio respiro.


 

 

25 febbraio 2013

SI CERCANO ANIME PER LA FILOSOFIA!

Trama per un’apologia della psicologia razionale
 
Scriveva Platone: «L’anima, dunque, in qualunque cosa penetri è portatrice di vita? – Certamente. –Perciò l’anima non subirà la morte, né morrà, come il tre non sarà mai pari, e nemmeno tale potrà essere il dispari» (Fedone 105 D – 106 B). Eppure nei secoli dei secoli la filosofia si è allontanata dalla giusta considerazione dell’anima, come sede di una vita infinita e di una sapienza intellegibile. L’uomo è un composto di anima e di corpo. La parte più preziosa è l’anima, la quale dovrebbe venire curata e conservata quanto il corpo e più del corpo. Purtroppo l’uomo contemporaneo, oltre a non pensare più, come aveva predetto il profeta Heidegger, pensa poco all’anima. La maggior parte dei mali della società, compresi quelli fisici deriva da una folle malattia dell’anima, ed anche dell’anima di questo mondo che subisce gli influssi negativi e deleteri dei suoi impazziti abitanti. Non ci occupiamo che di cose terrene, ma non solo, del vile materialismo e consumismo, infezioni che già col volgere della crisi in atto dovrebbero essere state curate. Eppure ancora sopravvivono nella dura cervice della mentalità malata di chi vuole solo sfruttare e distruggere il mondo per far profitto, noncurante delle lesive conseguenze che ha questo agire per le future generazioni. Se venisse un Mefistofele qualunque a comperare anime e le pagasse ad un prezzo conveniente, troverebbe molti venditori. In Italia molti hanno preferito le merci di provenienza straniera alle nazionale. Così se trovate un cartello: Italiani comperate soltanto prodotti nazionali! Vi troverete tutti prodotti con su scritto Made in China. Così è stato per la filosofia: molti hanno seguito il pensiero tedesco, o francese, ed hanno dimenticato quello italiano. Perché la filosofia possa entrare in certe scuole e nei nostri circoli pseudointellettuali deve essere kantiana, hegeliana, neohegeliana, schopenhaueriana, nietzschiana, marxiana, o marziana, heideggeriana, fenomenologica, analitica e via dicendo. Tommaso, Bruno, Campanella sono boicottati perché italiani. I seguaci della filosofia tedesca ammettono l’idea e il pensiero, ma con una logica sottile negano il pensatore e negando chi pensa negano anche l’anima e la sua immortalità. Bene è però che i sostenitori di affini sistemi poco ci credono. Negano l’esistenza del mondo esteriore, ma poi vivono come se davvero esistesse: mangiano, bevono, si pappano beatamente il loro stipendio se fanno scuola o le percentuali che l’editore dà loro per i loro libri. Comprano e vendono case, prendono mogli e mariti ed hanno figli, corrono dal medico se sono ammalati e temono tutti la morte. Ma cosa può farci la morte se siamo mortali? E come direbbe Epicuro: se c’è la morte, non ci siamo noi! Ma cosa ci potrebbe fare parimenti se siamo immortali e non moriamo con la morte? Negano l’anima i materialisti, brave persone che vivono per mangiare ed arricchirsi! Non pensano che agli affari, ai commerci, ai piaceri. Quali magnifici sillogismi! Ciò che non si vede non è tangibile, non è commerciale, non esiste, ma l’anima nessuno l’ha mai vista, non può essere commerciata, né venduta in borsa, né barattata con lo spread tedesco. Non si può guadagnare con il produrre per lei i vestiti, o le scarpe, o i salami. Non consuma la birra, dunque non esiste e gli psicologi da strapazzo oggi hanno venduto l’anima per asservire la psicologia, una nobile ed alta scienza, al commercio, alle vendite al dettaglio o a curare i mali che provengono tutti dalla negazione dell’anima immortale e spirituale. Siamo come le “anime morte” di Gogol. Allo stesso filo di logica si dovrebbe affermare che la nostra onestà non si vede, non la si tocca, dunque non siamo onesti. E così si nega l’esistenza dell’anima per non avere rimorsi di coscienza, per tutta la schiera dei gaudenti e dei fannulloni che seguono gli dei del ventre, del denaro e del potere. Per poter vivere secondo il loro capriccio, fare loro quanto piace, appagare le passioni, commettere delitti contemplati o non contemplati dai codici. Orbene, carissime anime morte, questo vuole, essere un invito alla filosofia, alla filosofia vera, che come diceva Socrate, è conoscenza di sé, della propria anima. Questa è la vera psicologia! Dobbiamo metterci in guardia contro due predisposizioni dell’intelletto contrarie alla libera ricerca della verità: l’incredulità e la credulità. Si tratta di noi, della nostra natura, della nostra esistenza o del nostro nulla. Già da molti secoli si cerca, non si è mai trovato nulla! Dunque non si troverà mai nulla? Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta: questa profezia di un grande santo dell’antichità ci guidi e ci sostenga. L’amore per il meraviglioso e per il fantastico possono trasformare in avvenimenti fantastici cose affatto ordinarie e che si spiegano con tutta semplicità.
 
Vincenzo Capodiferro

22 febbraio 2013

"Gabbia d'acciaio" di Philip Kerr


© 1996 Rizzoli Pag. 393  € 14,00 ISBN 8817372998
In copertina si legge: “La risposta inglese a Micheal Crichton”, del Financial Times. Leggendo, si scopre che questa definizione si avvicina molto alla realtà. Non troviamo dinosauri ricreati dall’uomo che finiscono per rivoltarsi contro ai loro “padri”; ma l’intento segue lo stesso filo conduttore. Il soggetto è un palazzo di ultima generazione, un edificio “intelligente”, interamente gestito da Abraham, un computer. E’ lui che si occupa del funzionamento dell’impianto di climatizzazione, degli ascensori, le porte, le serrature; perfino la pulizia dei bagni e dell’ingresso! Alla soglia dell’inaugurazione, dove già si sono delineati il caratteraccio dell’architetto che lo ha ideato, Ray Richardson, e le peculiarità degli altri personaggi che hanno lavorato per creare questa meraviglia tecnologica, un tecnico e un guardiano notturno vengono trovati morti all’interno della costruzione. All’inizio, si pensa alla mano di un folle, o a una tremenda fatalità. A questo punto, il lettore viene sorpreso, riga per riga, dalla terribile verità che si delinea, quando Richardson e i suoi collaboratori, rimangono bloccati nel grattacielo. Uno dopo l’altro, sembra siano tutti destinati a fare una fine orribile, decisa dalla mente del computer. Il modo di narrare di Kerr è abile, avvincente, informato. I capitoli, suddivisi in libri, sono tutti preceduti da frasi scritte da altri scrittori e architetti. In alcuni capitoli, mentre Abraham si avvia sulla strada della onnipotenza, troviamo scritte le sue parole e i suoi pensieri. “ Undici persone morte, e in meno di trentasei ore! Una cosa che faceva capire quanto la gente fosse vulnerabile di fronte al mondo che essa stessa si era costruito. Quanto fosse pericoloso il mondo efficientista, energetico, automatizzato, cablato, che la scienza aveva portato alla luce. Era facile essere uccisi, se si sbarrava la strada alle macchine. E quando una macchina si guastava, si finiva sempre per sbarrarle la strada. Come facevano scienziati e ingegneri a non capirlo?”. Vale la pena di aggiungere le tre frasi che completano il retro della copertina: Hanno progettato il grattacielo perfetto. Gli hanno dato un cervello proprio. E ora ha deciso di usarlo.
© Miriam Ballerini

19 febbraio 2013

Vita e spirito di Francesco d'Assisi



Piccolo viaggio nella letteratura italiana


Io credo che lo spirito vada cercato all'asciutto e dunque, a dire a verità, non mi piace molto l'ampollosità e la ridondanza delle agiografie. Nel caso di Francesco d'Assisi non è tuttavia possibile fare a meno di queste ultime; ne contiamo nel Duecento almeno tre tra le maggiori in lingua latina, oltre ai trecenteschi Fioretti in volgare che hanno uno scarso valore storico. Esse sono necessarie per descrivere, tra mito e realtà, la vita di un uomo che davvero ebbe ben poco a che fare con questo mondo.

Letterariamente ci sarebbe dunque non molto da dire, ma se vogliamo sostenere che la letteratura è una madre che nutre chi legge allora parliamo di Giovanni di Pietro di Bernardone non per il letterato che certamente non fu, bensì piuttosto per l'ispirazione letteraria che diede ai suoi, ad esempio a Jacopone da Todi, e che continua a dare oggi a coloro che hanno a cuore lo spirito.

Giovanni nasce ad Assisi nel 1181, ma gli viene subito imposto il nome Francesco. Viene avviato alle armi e già poco più che ventenne conosce il carcere. Una prima lunga malattia lo colpisce inoltre nel 1204, poi la neanche troppo graduale conversione lo porta alla rottura col padre nel 1206, quando Francesco resta nudo dinanzi al vescovo rinunciando a tutto ciò che aveva posseduto.

Del tutto ignorante di teologia si fece servo della Chiesa di Roma, la quale era ovviamente l'unica, tanto è vero che la parola 'religione' non aveva nel Duecento il valore che le diamo noi oggi. Religioni erano gli ordini religiosi, come il francescano ad esempio, e tutti i “frati minori” furono dunque chiamati dalla regola all'obbedienza cieca anche nei confronti del clero secolare; «Quando dico “frate minore” - sottolineava Francesco (vedi Legenda Maior VI,4) – io penso ad un cadavere: se lo lasci cadere non protesta, se lo metti in cattedra guarderà in basso e non in alto, se gli metti un vestito di porpora sembrerà doppiamente pallido; questo è il vero obbediente». Significativo qui è l'episodio (Fioretti VIII) dove Francesco descrive cosa sia per lui la “perfetta letizia”.

Il nostro fu in effetti un minore in tutto e chiedeva ai suoi confratelli di lasciare tutto, così come ancora oggi i tre nodi della corda che cinge i francescani indicano i tre voti ai quali sono chiamati: povertà, castità, obbedienza. Nel francescanesimo originario non c'è nient'altro che questo: pregare nei boschi, digiunare, assistere i poveri, aderire al Vangelo di Gesù Cristo senza nessuna licenza. Quando un fratello chiese a Francesco di poter tenere con sé dei libri gli fu concesso, ma con l'accortezza di non fare di questi uno strumento di contravvenzione alla regola, evidentemente perché essi erano, in potenza, motivo di superbia e di vanagloria.

Un aspetto poi molto interessante della capacità di comunicazione dell'assisano è descritto con efficacia nella Maior (VII,7), laddove San Bonaventura racconta:«Era la sua parola come fuoco ardente, che penetrava l'intimo del cuore e ricolmava di ammirazione le menti; non sfoggiava l'eleganza della retorica, ma aveva il profumo e l'afflato della rivelazione divina».

Il nostro si era tuttavia convinto che non si dovesse parlare di tutto con tutti (es: I Celano, 96): quando, durante le sue preghiere e contemplazioni, riteneva di aver avuto visioni particolarmente luminose o aver condiviso verità trascendenti meditava sempre molto sull'opportunità di parlarne a voce, sia pur con le persone più intime. Senza essere un uomo di pensiero si era probabilmente convinto che esiste una conoscenza non intellettualistica alla quale la parola è letale. Non è bene parlarne, e non perché sia segreta, ma perché la parola la sciupa, la umilia, la rende risibile e banale. In questa convinzione Francesco, pur nelle grandi differenze tra un mistico ed un filosofo, ebbe affinità con almeno due illustri uomini di scienza: tra i moderni con il logico austriaco Wittgenstein, che fu giardiniere in un convento e, tra gli antichi, con quei grandi geometri crotonesi che un tempo chiesero il silenzio ai propri studenti.

Tra gli episodi più belli dei Fioretti voglio citare: la storia dell'addolcimento del lupo di Gubbio (XXI), al quale la chiesa della Brunella di Varese ha dedicato una statua in bronzo; il racconto, artisticamente molto ben riuscito, della predicazione di sant'Antonio ai pesci (XL); ed infine la predicazione ai saraceni, storicamente avvenuta senza lividi eccessivi (Maior IX,8). Probabilmente dopo averlo preso i musulmani lo ascoltarono e, presumibilmente senza capirlo, lo intesero.

Antonio di Biase
 

Bibliografia:
  • Francesco da Assisi, gli scritti e la leggenda – a cura di G. Petrocchi – Rusconi 1983 – collocazione B.III.6627 biblioteca di Varese.

10 febbraio 2013

Pitagora, le tabelline ed il suo teorema

 
 
  Secondo la tradizione il filosofo e matematico Pitagora nacque a Samos (isola greca dell'Egeo orientale molto vicina alla Turchia) tra il 580 ed il 570 a.C. e morì a Metaponto, nel Golfo di Taranto, attorno al 490.
Trasferitosi per ragioni politiche a Crotone, ivi fondò una scuola di filosofia le cui dottrine sono solo in parte giunte fino a noi. L'influenza del pitagorismo sulla filosofia è stata talmente grande che non sarebbe difficile dimostrare la tesi secondo la quale esso è un cardine del pensiero occidentale. Tuttavia alcune delle sue dottrine più pregnanti, come la metempsicosi, sono così lontane dalla sensibilità moderna da essere spesso considerate delle palesi fesserie.
I pitagorei erano strettamente vegetariani, mangiavano poco e non mangiavano le fave (!?). Pur non corrispondendo a quelli che oggi si direbbero degli sportivi essi conducevano tuttavia una vita all'interno della quale l'attività fisica era considerata importante.
Erano dei filosofi, studiavano il cielo, l'aritmetica e la geometria.
A Pitagora è attribuita l'invenzione della Tavola pitagorica (più nota agli studenti come "le tabelline") e la dimostrazione del non meno utile e famoso teorema che porta il suo nome.
A Pitagora è attribuito inoltre lo studio e la definizione dell' armonia musicale.
 
Con il termine pitagoristi, secondo un'accezione ancora oggi in voga, si indicavano invece gli imitatori di Pitagora, cioè coloro i quali si cimentavano nelle sue dottrine senza conoscerle, conoscendole poco, o comunque senza raggiungerne una piena padronanza.
In una certa misura, viene da dire, noi moderni siamo un po' tutti pitagoristi, perché usiamo tutti i giorni con profitto le tabelline e la geometria (con la quale siamo anche andati sulla luna), e tuttavia ci sfugge la piena ragione per la quale certe cose, che un tempo dovevano avere una ben minima utilità pratica, furono così approfonditamente studiate da persone considerate sapienti.
Evidentemente l'uomo antico aveva una marcia in più, vedeva qualcosa di particolare in ciò che oggi è considerato banale.
 
Pitagora ed i pitagorei si occupavano della studio della realtà: è questa probabilmente la ragione per la quale si occuparono anche di triangoli rettangoli, cioè di poligoni di tre lati con un angolo interno di 90°.
Tutta la geometria piana, osservavano infatti gli antichi, è riconducibile allo studio di triangoli rettangoli perchè tutti i poligoni (quadrati, rettangoli, pentagoni, esagoni, dodecagoni ecc...)  posso essere scomposti in un numero finito di questi triangoli.
Ed anche il cerchio, che pure non è scomponibile in maniera compiuta, è approssimabile a una composizione di triangoli rettangoli.

Pitagora ed i suoi discepoli si chiesero con successo se questi triangoli così speciali avessero anche delle proprietà speciali. Ne nacque uno studio approfondito attraverso il quale si dimostrò, ma qui non non ne riportiamo i passaggi, il cosiddetto

Teorema di Pitagora
 
 In un triangolo rettangolo l'area del quadrato che può essere costruito sul lato più lungo (detto ipotenusa) è pari alla somma delle aree dei quadrati che possono essere costruiti sui lati minori (detti cateti).
La figura in alto al post fornisce una semplice illustrazione grafica dell'enunciato.

Questo teorema non è ovviamente l'unica proprietà dei triangoli rettangoli, è tuttavia quella più universalmente nota.

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AdB
 
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Bibliografia
- "Pitagora, le opere e le testimonianze" - Oscar Classici Greci e Latini - Mondadori - 2000
- La voce Pitagora in "Enciclopedia Universale" - Il Sole 24 Ore - 2006
- C'è un fondo di conoscenza e riflessione personale.
 

09 febbraio 2013

"La situazione delle carceri è gravissima, in gioco l'onore dell'Italia"


 

Rimini, 08 Febbraio 2013
Il presidente Napolitano ha affermato: “La situazione delle carceri è gravissima, in gioco l’onore dell’Italia”.
Un appello alle forze politiche che andranno a  governare. C’è la vita da salvare di tante persone con storie precise e spesso vissuti drammatici. In particolare si pensi ai 55 bambini chiusi nelle carceri con le loro madri. Abbiamo parlato con le  alte cariche del ministero della Giustizia dichiarando la nostra disponibilità piena ad accogliere tutte le mamme con i loro figli. Perché non si va avanti ?
La Comunità Papa Giovanni XXIII da anni sta portando avanti il progetto CEC (Comunità Educante con i Carcerati)  oltre 300 detenuti ed ex detenuti svolgono percorsi educativi in cui la recidiva si abbassa dal 70% al 10 %. Tale progetto potrebbe in poco tempo con il coinvolgimento della comunità esterna estendersi a 20/30000 detenuti. Anche i costi si potrebbero abbassare di ¼. Tale proposta l’abbiamo portata anche in sede Europea. Eppure assistiamo all’immobilità della politica Italiana incapace di dare risposte.
Anche i 1400 detenuti con il fine” pena mai” del cosiddetto ergastolo ostativo aspettano risposte concrete, oggi. Con i tanti proclami fatti, abbiamo illuso detenuti, familiari e il mondo dell’associazionismo.  Il nostro fondatore don Oreste Benzi ci ha educato a non limitarci a dare risposte possibili, ma quelle che davvero rispondono al bisogno profondo dell’uomo. Certamente ad oggi l’amnistia che anche il presidente Napolitano auspica è necessaria, ma è una risposta che non risponde nè al bene della società, nè al bene delle persone ristrette.
E’ necessario alzare lo sguardo.
E’ finito il tempo dei proclami. Chiediamo che i politici del prossimo governo si mettano in dialogo con le forze vive della società e mettano fine alle tante ingiustizie fatte in nome della giustizia. E’ il tempo di passare davvero da una giustizia vendicativa ad una giustizia educativa.
                                                          Per lAssociazioneComunitàPapa Giovanni XXIII
                                                                                                 Il Responsabile Generale
                                                                                                 Giovanni Paolo Ramonda

 

08 febbraio 2013

Layers. Varese ri-velata: Lino Budano allo Spazio Lavit

 
Lino Budano è un artista piacentino di rara e complessa personalità.
Una personalità trasversale che abita le opere da lui prodotte fin nei loro dettagli più nascosti. Opere che sono figlie di un procedimento complesso all’interno del cuore e delle intenzioni di un “modo di vivere l’arte” che ha fatto della commistione tra linguaggi espressivi differenti, la chiave di lettura di tutto il suo “esprimersi e divenire”.
Budano orchestra infatti abilmente fotografie, frames video, immagini in 3D e sculture filtrando, attraverso un uso sapiente delle più moderne tecniche di photo-editing, le possibilità espressive che ognuno di questi “strumenti” porta in sè per arrivare ad un risultato finale estremamente visionario ed evocativo quanto materico e concreto.
Si avverte infatti, nell’opera di Lino, un amore per la costruzione materiale dell’immagine. Le fotografie digitalmente rielaborate vengono ritoccate, cucite, spatolate, strappate e, finalmente, stampate. Interventi manuali che permetto all’artista di “tornare” sulle opere rompendo la separazione con le stesse per andarle a ”contaminare” con il fine di renderle, come Budano stesso afferma, “umane”.
Un linguaggio figurativo di matrice espressionista che plasma un nuovo mondo secondo una singolare visione proiettata verso l’universale. Budano ci parla di un “altro” tempo che è passato, ma anche venturo e possible, figlio di un ideale sospeso e vagamente apocalittico.

Sabato 9 Febbraio allo Spazio Lavit di Varese, alle ore 18 - ci troveremo pertanto di fronte ad opere spiazzanti e coinvolgenti nel loro essere da un lato fortemente ancorate a qualcosa che è trascorso e che si manifesta nella resa fotografica stessa (il bianco e nero riporta infatti alla memoria vecchie fotografie ed anche nel video “Sea passages”, che anima le stampe, riecheggiano produzioni cinematografiche dell’est dall’oramai superata lentezza) e dall’altro foriere di suggestioni su un presente parallelo e decadente.
É con questi presupposti che lo sguardo di Budano si posa sulla città di Varese che viene mostrata in maniera inedita utilizzando anche parziali fotografie di Alberto Lavit rivisitate appositamente dall’artista per raccontarci una città surreale e marittima, circondata dalle acque in un tempo “così lontano così vicino” dove riaffiorano sfuggenti ricordi.
Un tempo sospeso e collocato in un imprecisato limbo dove enormi conchiglie prendono forma su sabbiosi tappeti di sfarzo barocco nei giardini di Palazzo Estense, ossa di balene si stagliano davanti alle Ville Ponti e una coda di balena emerge dal parco di Villa Panza. Testimonianze di un antico oceano che ritorna a bagnare la città, a circondarne i palazzi, i monumenti, le ville: edifici di affettiva memoria varesina dove prendono forma vite “differenti” da ciò che noi conosciamo.
In questo mondo surreale Budano non raffigura infatti l’uomo, ma ci suggerisce altro tipo di presenze. Allo stesso modo lo spettatore che attraverserà lo Spazio Lavit per vivere questa intrigante mostra, sarà intimamente invitato a prendere parte delle emozioni celate fra le pieghe di queste opere che colpiscono a tradimento per la loro capacità di rivelare ciò che non sapevamo di poter ricordare…
Ingresso libero dal mercoledì al sabato dalle 17.00 alle 19.30 fino al 23 Marzo 2013
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Fonte: Spazio Lavit - Varese

07 febbraio 2013

Pensieri sull'educazione

 
Contro il principio della scuola-carcere, per una piena valorizzazione del giovane
 
La scuola oggi, pur essendosi molto aperta rispetto al passato, risente ancora di una ancestrale connotazione. Lungi dall’essere realmente un alveolo ovattato distaccato dal mondo circostante, così come viene dipinta agli occhi offuscati da un illusorio “velo di Maya”, sotto certi aspetti, essa si presenta, invece, come lo specchio fedele di una società alla deriva. Il docente oggi è sottopagato, ma deve fare il factotum: sociologo, psicologo, assistente sociale. Ma a parte la condizione del docente in Italia, che è ridotta all’osso e di questo sarebbe giusto discutere in altro luogo, la struttura della scuola non è per nulla cambiata dall’impostazione repressiva che ne viene fatta anche dai regimi democratici. Guardate già alla struttura esterna della maggior parte delle scuole: esse sono delle grandi caserme, o fabbriche, o al peggio degli ospedali o carceri: immensi edifici con spazi inutili e vuoti, che oggi non possono essere più riscaldati per mancanza di fondi. Dovrebbe essere vero il contrario: il carcere deve diventare una scuola per rieducare i detenuti e non la scuola continuare ad essere un carcere per detenere i liberi. Giovani e vecchi sono il rifiuto di questa folle società: debbono essere relegati in strutture minacciose per non dare più fastidio. Gli uni diventati adulti poi debbono essere catapultati come gladiatori nel Colosseo del mondo globale, gli altri, una volta che hanno combattuto debbono essere rottamati. Al centro c’è sempre però una generazione di adulti adultera e degenere, scandalosa, corrotta, perversa e pervertita, iperattivista, frenetica, nevrotica. Ci sono le campanelle che scandiscono gli spazi-tempi. Ci sono le sirene che richiamano sempre i deportati all’ordine. La scuola sotto sotto, con tutto il rivestimento democratico, o libertario che appare al di fuori, è ancora una scuola-lager ove viene sempre istillato il principio borghese-capitalistico auschwitziano: Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi). Questo principio viene istillato nel giovane soprattutto con le frequenti verifiche, che hanno reso la scuola un votificio, ed il nostro pensiero va soprattutto ai licei. Ma può essere mai lo studio un lavoro? La parola “scuola” in greco significa perdere tempo. E quale è lo spipendio di questo immane lavoro? Il voto! Sempre il voto! Peccato però che le valutazioni, che sono sempre relative, nonostante i tentativi di equiparazione a test attitudinali, non possono misurare proprio niente, perché la sapienza è incommensurabile, e d’altro canto fanno sorgere nei giovani differenze di classe perniciose ed oscure tra più sapienti e meno sapienti. Il voto dovrebbe interessare solo la prestazione, ma finisce per avvolgere la persona in fasce di reddito culturale: più poveri e più ricchi. Non si tratta della promozione meritocratica, magari fosse quella! Come ben sappiamo l’autonomizzazione degli istituti scolastici ha portato inevitabilmente all’economizzazione dell’istruzione ed al principio quantitativo: più numero di iscritti, più soldi. Ciò significa che tutti vanno a scuola, quindi c’è una massificazione. Questa d’altronde porta all’aurea mediocritas. Eppure lo stile è sempre quello: la scuola deve inquadrare, deve selezionare. È lo stile che accompagna sempre l’istruzione dall’antica Roma a Napoleone, dalla scuola fascista a quella repubblicana. Non vi è, ma non vi è mai stato, se non nella testa di pochi eletti pensatori pedagogisti, il puerocentrismo, ma c’è sempre il docentocentrismo, o peggio il dirigentismo che domina sovrano in tutta la pubblica amministrazione. Chi è che controlla i Dirigenti Scolastici? Hanno un potere assoluto. O i professori universitari con tutte le loro lobby? Non ne parliamo proprio! Così avviene che la scuola che dovrebbe aprirsi al mondo si chiude e chiude anche l’animo del giovane che vi incappa e vi si parcheggia per anni ed anni di vuota formazione, improntata al più rozzo nozionismo, prima di finire per strada dopo master e master. Voi credete che il giovane dopo anni ed anni di formazione impari veramente a pensare? La scuola continua di solito a formare yes man: vuoti ripetitori, o portatori di cultura, non dei creatori di cultura, non dei cervelli pensanti, ma dei pappagalli. Di costoro ha bisogno la società, non di pensatori, non di intellettuali. Questi sono e sono stati sempre scomodi.  Ed il profeta Heidegger diceva: l’uomo contemporaneo non pensa più! La tecnica, la tecnologia, il mondo virtuale e mediatico distrugge l’uomo. Non c’è più spazio per l’uomo, per la persona. Nonostante ciò si continua ad insegnare secondo i parametri dell’umanesimo, ma di quale umanesimo? L’umanesimo delle macchine e dei cani. Sono distrutti tutti i valori: morali, politici, economici, sociali, religiosi e la tecnocrazia trionfa. Così ci ritroveremo ad avere una massa di ignoranti laureati che è peggiore e più dominabile di una massa di analfabeti consapevoli di essere ignoranti. Ecco perché il giovane oggi non ne vuole sapere più di greco e di latino, di matematica o di geometria. Non si danno più risposte concrete. Diremmo con Tolstoj: a che cosa serve? Il giovane è avvolto da cinture di sicurezza e di protezionismo fino a trent’anni e poi è buttato in una giungla dove invece vige il principio darvinista sociale del più forte. È come allevare dei polli e poi buttarli in una foresta in balia delle volpi e dei lupi. Ed è così per la gente comune, ad eccezione dei debolissimi, per i quali vige invece il darvinismo sociale al contrario. E questo perché genitori iperattivisti e superimpegnati non ne vogliono sapere di educare i giovani. Educare significa stare col giovane, capirlo. Ma chi li capisce? Non significa certo dare tutto materialmente ed abbandonare il giovane vicino ad una televisione od ad un computer per ore e pretendere poi che la scuola faccia da mamma e da papà. L’educazione mancata dovrebbe supplirla la scuola. Il dialogo interrotto o mancato lo supplisce internet o i social network. Questo significa l’alienazione totale dell’uomo, peggio del lavoro secondo Marx. La mania della sicurezza, i test d’ingresso, il formalismo giuridico delle carte, le troppe verifiche: questi sono soltanto alcuni degli aspetti della burocratizzazione scolastica. Basta che sono apposto tutte le carte e poi la scuola può andare anche allo sfascio. L’importante è che in caso di ricorso le virgole ed i punti siano al posto giusto, perché gli avvocati vanno a guardare solo la grammatica e l’analisi logica di tutti i costrutti scritti e reperibili, non vanno a guardare alla condizione di fatiscenza umana e sociale dell’istituzione scolastica. In altre parole questa pedagogia da paraculi, solo per difendere i propri interessi e mantenere lo status quo, non aiuterà di certo il giovane ad uscire dalla sua perenne condizione di dipendenza. Dall’umanesimo che si studia solo sui libri si passa poi al disumanesimo totale, all’alienazione dell’uomo dal genere umano stesso. Non riportiamo i soliti casi storici per capire la l’assurdità delle sviste valutative: Verdi, Einstein, o Hitler. Immaginate un po’ se Hitler fosse stato ammesso all’Accademia! Non sarebbe forse diventato un ottimo artista? I test d’ingresso all’università servono a far passare due generi di persone: i geni ed i raccomandati. Non è meglio invece fare la selezione in cursu studiorum? Per una sana pedagogia allora che guardi soprattutto alla crescita dell’allievo abbiamo rilevato alcuni principi, che ci servano da guida: 1) Naturalismo. Ritorniamo a Rousseau: «Tutto ciò che esce dalle mani dell’Autore delle cose è bene; tutto degenera nelle mani dell’uomo» (Emilio, I). Quanto più l’uomo si allontana dalla natura, tanto più diventa folle. Il progresso, la tecnologia dissennata ed ostile significano questo: allontanamento dell’uomo dalla natura e propriamente dalla sua natura. Qui riprendiamo gli Stoici: l’oicheiosi, l’essere a casa propria. La natura dell’uomo è la razionalità, compito dell’educatore è favorire questo adeguamento del giovane alla razionalità, che è già insita nella sua natura. L’educatore non deve intervenire direttamente, non deve mai sostituirsi all’allievo, ma fare in modo che egli ci arrivi, perché, come diceva Vico: «Gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura» (Scienza Nuova, I, sez. II, Degnità 53). Questo principio vale sia ontogeneticamente che filogeneticamente, perché anche la storia del mondo, nei suoi corsi e ricorsi lo riflette: «Nella natura umana prima surgono immani e goffi, qual’i Polifemi, poi magnanimi ed orgogliosi, quali gli Achilli; quindi valorosi e giusti, quali gli Aristidi, gli Scipioni Affricani» e poi «gli Alessandri e i Cesari; più oltre i tristi e i riflessivi, quali i Tiberi, finalmente i furiosi, i dissoluti e gli sfacciati, qual’i Caligoli, i Neroni, i Domiziani» (Ivi, Degnità 65 e sgg.). Adesso siamo di nuovo all’età dei dissoluti, dei pervertiti e dei corrotti. 2) Non sapere. Ritorniamo a Socrate. Più che a mille saperi, abilità, competenze fantasma che non servono a nulla, né in cielo né in terra, occorre mirare al non sapere, non all’ignoranza in senso positivo, come assenza di sapere, ma a quella in senso negativo, come coscienza del limite e ricerca continua. Il motto di Socrate era: una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta. Ti trovi ragazzi che non sanno tradurre più latino, greco, e non sanno far più di conti, non sanno fare una formula chimica, non sanno zappare, non sanno avvitare neppure un bullone. Ma quali competenze, abilità e cretinate varie andiamo a misurare? Noi misuriamo solo le conoscenze, ma le conoscenze sono nozioni e noi misuriamo solo una labile capacità mnemonica, non la reale sapienza dell’uomo che è incommensurabile. Dopo un giorno quelle nozioni già saranno illanguidite, dopo un anno saranno del tutto sparite nel fiume Lete. Che cosa resterà nella mente del giovane, se non il metodo, se non l’amore? Il metodo è la strada da seguire, in greco metà odos significa attraverso la strada. L’educatore deve dare metodo e non solo nozioni, rapporto e non solo spersonalizzazione, derealizzazione, alienazione, frustrazione e via discorrendo. Ora siccome tra qualità e quantità c’è un abisso, la conoscenza non è quantificabile, matematizzabile, non stiamo misurando un chilo di pere o un metro quadrato di terra. Con Cartesio diciamo: la res cogitans è inestesa, quindi non può essere misurata, non può essere valutata. Il fine del maestro è allora facilitare l’autoconsapevolezza, l’esame di coscienza, la confessione intellettuale ed intima (Conosci te stesso!). Un uomo che conoscesse tutte le scienze e non la propria anima sarebbe come uno sprovveduto, come quello che possiede il mondo intero e perde la propria anima. L’Ecclesiaste ammoniva: qui auget scientiam auget et dolorem. Non è la quantità di sapere che rende libero l’uomo, ma il discernimento. Il sapere se non è guidato può portare alla follia ed alla perdizione. Quando chiesero al filosofo Menedemo come fosse la sua scuola, rispose: «è meravigliosa! Ottengo sempre risultati straordinari. Gli scolari arrivano che si credono sapienti; poi si accorgono di essere dei semplici studiosi e terminano gli studi, convinti di essere dei grandi ignoranti». Questo deve essere il fine della scuola, la cusaniana docta ignorantia, perché come il povero privo di debiti è ricco nei confronti del povero che sia pieno di debiti, così l’ignorante, che è consapevole della propria ignoranza è sapiente nei confronti dell’ignorante che presume di possedere, nelle grossolane apparenze, delle verità, anzi le uniche verità. Primo compito umano è dunque l’autoconsapevolezza, questa ci offre la prima e fondamentale scienza di ciò che veramente siamo. Se partiamo da tale fondamento, come osserva Platone, «O troveremo quel che cerchiamo, o non crederemo di sapere ciò che ignoriamo del tutto; e questo non sarà certo un vantaggio disprezzabile» (Teeteto, 187 B, C). Così secondo Laotze: «il saggio si occupa del non-agire, pratica l’insegnamento senza parlare, lascia sviluppare gli esseri senza ostacolarli, nascere senza accaparrarli, agire senza aiutarli» (Tao Te King, II). 3) Metodo positivo, non repressivo. Il sistema repressivo o negativo, con tutte le buone intenzioni è ancora vigente un po' dovunque; nei campi, nelle officine, nelle fabbriche, negli uffici. Dappertutto  dove un superiore, padrone, o direttore o dirigente, ha sotto di sé degl'inferiori: apprendisti, operai, impiegati. Il metodo repressivo latente e mascherato nella scuola abitua il ragazzo al sistema integrale repressivo della società, dove se vuoi lavorare devi filare dritto. Nei campi ancora c’è il caporalato, solo che questo viene esercitato verso i più deboli, gli extracomunitari, ove prima era esercitato verso i contadini. Il metodo repressivo ha potuto portare alla società fascista o nazista, come scrive W. Reich: «i vergognosi eccessi dell’era capitalista degli ultimi trecento anni (imperialismo rapace, privazione di qualsiasi diritto dei lavoratori, repressione razziale, etc.) non sarebbero stati possibili senza la struttura avida di sottomettersi ad un’autorità, incapace di libertà e mistica di milioni di uomini che hanno sopportato tutto questo. Il fatto che questa struttura sia stata prodotta sul piano sociale ed educativo e che non sia data naturalmente non cambia nulla nei suoi effetti». (Psicologia di massa del fascismo, Introduzione). Il metodo positivo invece favorisce la libera crescita del giovane e la sua autonomia. Il metodo positivo deve essere incondizionato: anche quando il ragazzo va male in una performance deve essere premiato, si istillerà naturalmente in lui il desiderio di conoscere e di superare e soprattutto di non sbagliare, perché crescerà nel giovane il senso di dignità ed il sano orgoglio naturale. 4) Libertà e non ordine. Don Luigi Sturzo diceva: «La libertà è come l'aria: si vive nell'aria; se l'aria è viziata, si soffre; se l'aria è insufficiente, si soffoca;  se l'aria manca si muore». Il giovane che cresce nella libertà di pensiero e di azione è maturo e si responsabilizza. La scuola paradossalmente si muove ancora secondo il canone dell’ordine: occorre inquadrare e squadrare. La dinamica è sempre quella dello squadrismo e del classismo, come volete, il risultato non cambia. Dentro c’è sempre la lotta, la competizione borghese, l’arrivismo, il principio naturalistico del più forte, anche se non è vero, perché ci sono esempi in natura di solidarietà e di amore che non hanno nulla a che vedere con questa visione distorta del mondo naturale. Così dipendiamo ancora dalla visione hobbesiana fondata sulla paura: il bellum omnium contra omnes, l’homo homini lupus. Guardate i lupi tra di loro: sono sempre così feroci? O non si rincorrono affettuosamente? Ogni animale diventa feroce quando vive nella paura e così è per l’uomo. Un processo educativo fondato sulla paura, sull’odio, sulla competizione, sull’arrivismo, sul principio distruttivo, che Freud delineava col nome greco di Thanatos e non di Eros, non potrà che portare a odio e a timore. Riprendiamo le hobbesiane leggi di natura: A) Pax est quaerenda. Ma quale pace si può raggiungere con la guerra totale? Questa pace è solo illusoria, è solo una pausa nella grande guerra del mondo. La guerra diviene così, riprendendo il grande Eraclito, la regina di tutte le cose. Un’educazione fondata sulla guerra non porterà altro che a guerra e non si raggiungerà mai la pace, tanto meno cedendo i diritti naturale ad un maestro, chiunque egli sia. B) Ius in omnium non retinendum. Perché l’uomo dovrebbe cedere tutti i suoi diritti ad un capo, od ad un re, od ad un maestro? Si tende a vedere nel giovane allievo uno stato di natura bellicoso ed ostile che va solo domato e dominato, e non invece, uno stato di natura pacifico e benevolo, che può diventare, certo negativo, quando devia dalla sua originaria destinazione. Il giovane deve essere aiutato ad assurgere, a levarsi in piedi, a camminare a testa alta. Vedete forse far sempre guerra tra gli animali? Distruggersi sterminarsi a vicenda come fa l’uomo? L’allievo cede al maestro solo il diritto di essere aiutato a crescere ma non per uscire dal suo stato naturale per entrare in uno stato civile che è invece, al contrario, il vero stato bellicoso ed ostile. Freud ciò aveva additato nel disagio della civiltà contemporanea. Hobbes aveva invertito i termini ed aveva inconsciamente proiettato le sue paure, lo stato di guerra perenne tra popoli e tra uomini perpetrato dalla sedicente civiltà e dal progresso, in un immaginario stato di natura. C) Pacta servanda sunt. Vedete se è possibile che in natura possano esistere dei contratti che debbano essere rispettati e se è possibile che lo stato civile debba essere fondato su di un patto in cui tutti cedono a tutti i loro diritti naturali per affidarsi ciecamente ad un capo. Questo è nazismo puro, è esaltazione del fuhrerprinzip. Così siamo passati dagli assolutismi ai totalitarismi, agli stermini di massa. In nessuna specie animale sussiste un principio del genere. Tanto men può sussistere in una scuola, ove gli allievi dovrebbero cedere tutti i loro diritti per affidarsi ad un maestro. Siamo alla follia pedagogica. La scuola deve mirare invece alla libertà, non all’ordine, all’anarchia, intesa nel senso più alto, ovvero ad un mondo ove ognuno è capace di badare a sé stesso, ove ognuno è re di se stesso e non ha bisogno di un re che gli dica cosa deve fare. La scuola in questo senso deve favorire l’autonomia e l’autodominio e non l’autoritarismo, deve essere fondata sulla non violenza. 5) L’amore. Quello che conta non è tanto la sapienza in sé, quanto l’amore per la sapienza, questa è la vera filosofia. E la vera pedagogia deve tendere a ciò. La pedagogia deve essere fondata sull’amore: amore per l’allievo che deve far sorgere in lui l’amore verso la sapienza. È l’amore verso la sapienza che porta alla sapienza. Se il giovane non si innamora delle cose che sta studiando, ma studia solo perché è obbligato, è fallito il nostro compito di insegnanti. La pedagogia deve partire dall’essere, non dal dover essere, lo studio deve essere fondato sul piacere, oltre che sul dovere, anzi il dovere deve scaturire dal piacere e non viceversa, per cui occorre sempre proporre e mai imporre, incentrare la lezione sull’ascolto, oltre che sulla retorica logorroica e sul cattedratismo. Si deve creare un’osmosi tale per cui vi è una reciprocità formativa tra allievo e docente. Cicerone nelle Tusculane (V,3) racconta il famoso fatto di Pitagora e del suo incontro con il re Leonte di Fliunte. Fliunte ammirato dall’ingegno e dal sapere di Pitagora gli domandò in quale arte o scienza fosse più esperto. Pitagora rispose che non possedeva la sapienza, ma che ne sentiva in sé l’amore e ne andava in cerca; quindi di non poter dire di avere sofia ma filosofia. In questo senso tutti avremmo il dovere di amare la sapienza e di essere sapienti; e di fatto chi non vorrebbe esserlo? Fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza. (Inf. XXVI,119). E se il maestro non ama la sapienza e non indica la via dell’amore della sapienza, come può amarla l’allievo? Concludiamo allora questi pensieri sull’educazione con un finale auspicio: un metodo dogmatizzante in ogni campo del sapere ed in ogni grado di cultura produce sempre una reazione che porta ad un desiderio di libertà che può diventare sfrenata ed informe. Evitiamo di porgere occasione a tali eccessi, che non solo scalzano il giusto concetto di autorità, ma rovinano la pur sempre necessaria libertà. A scuola ancora vale il principio di autorità, l’ipse dixit, ma questo deve confrontarsi e favorire l’altro grande e più importante principio, quello della libertà, in modo che ognuno possa diventare l’autorità di sé.
Vincenzo Capodiferro

 

06 febbraio 2013

Libri d'arte: riprodotta in fac simile la bolla "Humanae Salutis"

 
  E' stata presentata dalla casa d'arte Scrinium, con la pubblicazione di un articolo sull'Osservatore Romano del 5 gennaio scorso, l'edizione in fac simile della bolla pontificia "Humanae Salutis", attraverso la quale Papa Giovanni XXIII indisse il Concilio Ecumenico Vaticano II.
Scrinium è una fiduciaria che si occupa di promozione e diffusione dei progetti culturali di tutte e tre le principali istituzioni vaticane, quindi della Biblioteca Apostolica, dell'Archivio Segreto e dei Musei Vaticani.
In particolare, poi, la società mestrina è esclusivista mondiale per il progetto Exemplaria Praetiosa, cioè per le edizioni uniche dei fac similes relativi ai documenti più preziosi dell' Archivio Segreto Vaticano.
La Humanae Salutis, pubblicata il 25 dicembre del 1961, è proprio uno dei documenti più esclusivi dell'Archvio il quale nel 2012 ha compiuto quattrocento anni e rappresenta per la Chiesa romana forse il più importante documento del XX secolo, quello che in nuce ha dato origine alla riforma liturgica ed all'ecumenismo di cui oggi si vedono molti frutti.
L'edizione per collezionisti è un clone dell'originale ed è realizzato in 410 esemplari a tiratura mondiale. Caratteristica fondamentale di queste edizioni è che non è prevista la riproducibilità della tiratura (cioè non ci saranno nuove edizioni dello stesso fac simile), oltre al fatto che ogni esemplare è munito di un certificato con marchio dell'Archivio Segreto e con la firma del prefetto oggi in carica, mons. Sergio Pagano, il quale ha anche curato personalmente la pregiata edizione del commentario. 
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AdB

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano

ADDIO AL PATTO DI STABILITA’ STUPIDO di Antonio Laurenzano Addio al “Patto di stu...