19 febbraio 2013

Vita e spirito di Francesco d'Assisi



Piccolo viaggio nella letteratura italiana


Io credo che lo spirito vada cercato all'asciutto e dunque, a dire a verità, non mi piace molto l'ampollosità e la ridondanza delle agiografie. Nel caso di Francesco d'Assisi non è tuttavia possibile fare a meno di queste ultime; ne contiamo nel Duecento almeno tre tra le maggiori in lingua latina, oltre ai trecenteschi Fioretti in volgare che hanno uno scarso valore storico. Esse sono necessarie per descrivere, tra mito e realtà, la vita di un uomo che davvero ebbe ben poco a che fare con questo mondo.

Letterariamente ci sarebbe dunque non molto da dire, ma se vogliamo sostenere che la letteratura è una madre che nutre chi legge allora parliamo di Giovanni di Pietro di Bernardone non per il letterato che certamente non fu, bensì piuttosto per l'ispirazione letteraria che diede ai suoi, ad esempio a Jacopone da Todi, e che continua a dare oggi a coloro che hanno a cuore lo spirito.

Giovanni nasce ad Assisi nel 1181, ma gli viene subito imposto il nome Francesco. Viene avviato alle armi e già poco più che ventenne conosce il carcere. Una prima lunga malattia lo colpisce inoltre nel 1204, poi la neanche troppo graduale conversione lo porta alla rottura col padre nel 1206, quando Francesco resta nudo dinanzi al vescovo rinunciando a tutto ciò che aveva posseduto.

Del tutto ignorante di teologia si fece servo della Chiesa di Roma, la quale era ovviamente l'unica, tanto è vero che la parola 'religione' non aveva nel Duecento il valore che le diamo noi oggi. Religioni erano gli ordini religiosi, come il francescano ad esempio, e tutti i “frati minori” furono dunque chiamati dalla regola all'obbedienza cieca anche nei confronti del clero secolare; «Quando dico “frate minore” - sottolineava Francesco (vedi Legenda Maior VI,4) – io penso ad un cadavere: se lo lasci cadere non protesta, se lo metti in cattedra guarderà in basso e non in alto, se gli metti un vestito di porpora sembrerà doppiamente pallido; questo è il vero obbediente». Significativo qui è l'episodio (Fioretti VIII) dove Francesco descrive cosa sia per lui la “perfetta letizia”.

Il nostro fu in effetti un minore in tutto e chiedeva ai suoi confratelli di lasciare tutto, così come ancora oggi i tre nodi della corda che cinge i francescani indicano i tre voti ai quali sono chiamati: povertà, castità, obbedienza. Nel francescanesimo originario non c'è nient'altro che questo: pregare nei boschi, digiunare, assistere i poveri, aderire al Vangelo di Gesù Cristo senza nessuna licenza. Quando un fratello chiese a Francesco di poter tenere con sé dei libri gli fu concesso, ma con l'accortezza di non fare di questi uno strumento di contravvenzione alla regola, evidentemente perché essi erano, in potenza, motivo di superbia e di vanagloria.

Un aspetto poi molto interessante della capacità di comunicazione dell'assisano è descritto con efficacia nella Maior (VII,7), laddove San Bonaventura racconta:«Era la sua parola come fuoco ardente, che penetrava l'intimo del cuore e ricolmava di ammirazione le menti; non sfoggiava l'eleganza della retorica, ma aveva il profumo e l'afflato della rivelazione divina».

Il nostro si era tuttavia convinto che non si dovesse parlare di tutto con tutti (es: I Celano, 96): quando, durante le sue preghiere e contemplazioni, riteneva di aver avuto visioni particolarmente luminose o aver condiviso verità trascendenti meditava sempre molto sull'opportunità di parlarne a voce, sia pur con le persone più intime. Senza essere un uomo di pensiero si era probabilmente convinto che esiste una conoscenza non intellettualistica alla quale la parola è letale. Non è bene parlarne, e non perché sia segreta, ma perché la parola la sciupa, la umilia, la rende risibile e banale. In questa convinzione Francesco, pur nelle grandi differenze tra un mistico ed un filosofo, ebbe affinità con almeno due illustri uomini di scienza: tra i moderni con il logico austriaco Wittgenstein, che fu giardiniere in un convento e, tra gli antichi, con quei grandi geometri crotonesi che un tempo chiesero il silenzio ai propri studenti.

Tra gli episodi più belli dei Fioretti voglio citare: la storia dell'addolcimento del lupo di Gubbio (XXI), al quale la chiesa della Brunella di Varese ha dedicato una statua in bronzo; il racconto, artisticamente molto ben riuscito, della predicazione di sant'Antonio ai pesci (XL); ed infine la predicazione ai saraceni, storicamente avvenuta senza lividi eccessivi (Maior IX,8). Probabilmente dopo averlo preso i musulmani lo ascoltarono e, presumibilmente senza capirlo, lo intesero.

Antonio di Biase
 

Bibliografia:
  • Francesco da Assisi, gli scritti e la leggenda – a cura di G. Petrocchi – Rusconi 1983 – collocazione B.III.6627 biblioteca di Varese.

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